Scomparso il fotografo cinese Lu Guang

È dallo scorso 3 novembre che si sono perse le tracce del pluripremiato fotografo cinese Lu Guang.

A denunciarne la scomparsa, dagli Stati Uniti, è stata la moglie Xu Xiaoli.

Lu Guang è stato tre volte vincitore del premio fotografico World Press, vive a New York ma si occupa soprattutto di temi ambientali e sociali in Cina. Era stato invitato nello Xinjiang per una conferenza lo scorso ottobre, lì sarebbe stato fermato dalla polizia della regione e, secondo le pochissime indiscrezioni trapelate, lì detenuto per motivi di sicurezza.

Questa parte dell’estremo occidente della Cina è diventata tristemente famosa per la repressione e i programmi di de-radicalizzazione a cui sono stati sottoposti migliaia di cittadini della minoranza musulmana degli uiguri e non solo; i campi di re indottrinamento in cui sarebbero chiuse queste persone sono argomento top secret del governo cinese che impedisce qualsiasi filtro di notizie dal loro interno. Tuttavia, la severità del sistema di polizia del Xinjiang è conosciuta da tutta la comunità internazionale e da tutte le Organizzazioni per la tutela dei diritti umani; nelle sue maglie sono spesso finiti dissidenti e reporter intenti a documentare i problemi del Paese e Lu Guang è certamente un personaggio scomodo.

Lu Guang ha preso per la prima volta una macchina fotografica in mano nel 1980, quando lavorava come operaio nella sua città natale, nella regione cinese di Yongkang. Dieci anni dopo, si è iscritto all’Accademia delle Belle Arti dell’università di Tsinghua a Pechino; da allora ha fotografato i problemi sociali, sanitari e ambientali causati dall’industrializzazione nel suo Paese.

Le sue opere degli ultimi 25 anni sono state incentrate su temi delicati come l’AIDS, l’inquinamento e la povertà. Il fotografo è sempre stato consapevole che la sua attività lavorativa e a scopo umanitario lo esponessero a rischi nel suo Paese e, durante un’intervista, aveva dichiarato che proprio nel momento dell’apice del suo successo sarebbe stato maggiormente in pericolo se avesse continuato la sua attività di reportage dei problemi della Cina.

I suoi lavori, dalla serie di fotografie Il mio obiettivo non mente alla campagna per la lotta all’AIDS, gli hanno conferito ampia fama sia in patria che all’estero, così come lo hanno portato ad affrontare diversi scontri con le forze dell’ordine e le autorità cinesi.

In particolare, il reportage di Lu Guang sull’AIDS gli aveva causato uno scontro diretto con l’ufficio governativo della provincia dello Henan, allora guidato dall’attuale governatore del Xinjiang.

Che ci sia il rischio per Guang di rimanere vittima del proprio Paese, come è stato per Khashoggi, potrebbe attualmente essere un’ipotesi probabile ed inquietante. In altri casi, la pressione internazionale è riuscita ad evitare che detenuti scomparissero nel silenzio, per questo Il fotografo e videomaker Hugh Brownstone ha lanciato una petizione su Change.org.

Rossella Marchese

Il rap di denuncia che ha scosso la Thailandia

È stato un fenomeno che non ha precedenti quello della canzone di contestazione di un gruppo di rapper attivisti thailandesi che si fa chiamare “Rap Against Dictatorship”; il pezzo, “What my Country’s got”, ha colpito al cuore il regime militare di Bangkok che a seguito di un colpo di stato nel 2014, si è insediato nel Paese.

La sfida lanciata al governo è diretta. La canzone denuncia la rovente tensione sociale causata perlopiù dalle politiche repressive e dalle elezioni rinviate dopo il colpo di stato. Ma è una scena del videoclip in particolare a diventare simbolo di questa protesta. Si tratta della rielaborazione di un episodio tristemente emblematico nella storia della Thailandia: il linciaggio nell’ottobre del 1976 da parte della polizia e delle milizie di estrema destra di uno studente dell’Università Thammasat di Bangkok.

Le immagini di un corpo appeso ad un albero sono il simbolo di un Paese diviso in due.

Da un lato le proteste della gente nelle piazze, sempre più numerose, anche se caotiche e dominate da un senso di populismo troppo aspro, dall’altro l’élite accusata di essere corrotta, irresponsabile e poco trasparente, insomma, incapace di poter traghettare il Paese verso elezioni democratiche.

Questo sentimento antiregime così esplicito non era mai stato espresso prima ed è esploso con una forza incredibile, che ha oltrepassato i confini nazionali: oltre 50 milioni di visualizzazioni per un video fuori legge, girato e messo in rete in maniera rocambolesca, ma che in una settimana è diventato virale su web.

Le autorità hanno chiaramente reagito, minacciando con la reclusione fino a 5 anni, per vilipendio all’immagine del Paese e crimini informatici, chiunque avesse condiviso il video, ma, si sa, la rete è inarrestabile, tant’è che le intimidazioni non hanno fatto altro che rendere più popolare il video e, di conseguenza, il messaggio della canzone.

Così il regime ha deciso di cambiare totalmente registro, rispondendo con la produzione di altra canzone e altro video dai toni completamente differenti, un’apologia del governo in piena regola che mostra il progresso industriale e tecnologico della Thailandia degli ultimi anni, tra sorrisi e cieli azzurri.

Un tentativo mal riuscito, però, perché la canzone del governo non ha incontrato alcun favore da parte del pubblico, soprattutto delle giovani generazioni.

Tuttavia, da quando è esploso il caso di “What my Country’s Got” in Thailandia, dove sono ancora vietate le campagne politiche, nuovi raggruppamenti hanno ottenuto le autorizzazioni necessarie per potersi registrare come partiti ed è aumentato l’attivismo pro democrazia.

Questa canzone, dunque, potrebbe aver dato una scossa notevole al dissenso popolare che ormai serpeggia in Thailandia, anche se il processo di democratizzazione, pur se innescatosi, pare essere ancora saldamente nelle mani dei militari e l’ambiente delle future elezioni potrebbe essere da questi molto influenzato.

Rossella Marchese

La persecuzione degli africani “bianchi”

 Si tratta di una vera e propria mattanza quella che subiscono gli albini nel continente africano.

La tratta degli albini si concentra soprattutto nella fascia sub sahariana: cacciati come animali perché alcune parti del loro corpo vengono vendute e usate per compiere riti magici che si ritiene portino fortuna, ricchezza e salute; martirizzati ed emarginati dalle loro stesse comunità che in loro vedono solo un’anomalia da eliminare o oggetti preziosi da sfruttare.

All’origine di questo accanimento c’è un pericoloso cocktail d’ignoranza e superstizione. Numerose credenze popolari diffuse in varie zone dell’Africa, tra cui Malawi, Tanzania e Mozambico, vedono la nascita di un bambino bianco da una coppia di genitori neri come un segno divino da cui derivano una serie di conseguenze drammatiche. Il neonato, secondo un’interpretazione che varia a seconda delle regioni, viene considerato o un essere superiore o l’incarnazione di un demone. In entrambi i casi, il nuovo nato, è destinato ad una vita di persecuzione.

Ancora nel 2018 è questo il destino per molti albini.

Secondo un rapporto di Amnesty International, pubblicato lo scorso 13 giugno in occasione della Giornata Internazionale per l’Albinismo, contro ogni forma di discriminazione, in Malawi scompare un albino al mese, rapito e brutalizzato, spesso su commissione dei cosiddetti guaritori tradizionali che ne richiedono gambe, braccia capelli e ossa, per produrre pozioni magiche e portare fortuna ai clienti.

In realtà, in gran parte dell’Africa, ogni pezzo di un albino può valere molti soldi. Per questo il traffico umano che prende di mira bambini, adulti e anziani affetti dalla carenza di melanina nella pelle, non riesce ad essere estirpato. E persino da morti gli albini vengono presi di mira, i loro resti, infatti, vengono sistematicamente riesumati e razziati nei cimiteri.

Esiste un mercato nero che muove cifre da capogiro. In questo circuito commerciale le parti mutilate dei corpi delle persone albine vengono vendute per migliaia di dollari. Secondo la Croce Rossa, gli stregoni sono disposti a pagare addirittura 50mila dollari per un “set completo” di tutte le parti del corpo ritenute miracolose. Ed è per questo che in molti casi sono le stesse famiglie, soprattutto nei contesti rurali e più poveri, a consegnare le vittime nelle mani dei loro aguzzini in cambio di denaro.

Oltre al Malawi, i Paesi più esposti sono Tanzania, Mozambico e Zimbabwe. In Tanzania, ad esempio, si è cominciato a parlare con frequenza di questo drammatico fenomeno dal 2007, e ci sono numerose bande di criminali che alimentano il traffico di organi legato agli albini che stentano ad essere sventate. Stessa cosa succede in Mozambico, dove le persecuzioni contro gli albini non sono spesso neanche denunciate. In Zimbabwe, invece, è opinione diffusa che un uomo possa guarire dall’Aids facendo sesso con una donna albina. Questa diceria espone le donne albine a ripetute violenze sessuali e alla contrazione del virus.

Ad oggi nessun trafficante di questi esseri umani è mai stato fermato.

Rossella Marchese

Stilata la classifica delle migliori influencer del 2018 

 C’è anche la nostra italianissima Chiara Ferragni nella lista dei 10 migliori fashion influencer del 2018 che, fra la nascita del figlio ed il matrimonio in Sicilia, ha scalato molti posti in classifica. A stilare la Top10 delle influencer che hanno “influenzato maggiormente gli acquisti in questo 2018” è stata la piattaforma di ricerche di moda LYST, che ha usato come metodo di paragone Instagram, le ricerche sul web, i dati di vendita ed i post sui social. Fra le 10 migliori influencer dell’anno solo una effettivamente fa questo di mestiere, Chiara Ferragni, tutte le altre che hanno “influenzato gli acquisti” sono popstar, attrici, sportive ed anche delle esponenti della Royal Family. Al decimo posto c’è Ariana Grande, che ha generato una mole enorme di ricerche per un capo di abbigliamento in particolare, la felpa oversize: nel 2018 ha visto un aumento di click pari al 130%. Al nono posto c’è un’altra cantante, Rihanna, in classifica per la sua linea di cosmetici Fenty Beauty e per la linea di intimo Savage X Fenty.

All’ottavo posto c’è Blake Lively, in classifica grazie ai look sfoggiati durante il tour promozionale del film A Simple Favor, seguita da Chiara Ferragni che è stata menzionata grazie al suo abito da sposa: le ricerche di quel brand sono aumentate del 109%.

Al sesto posto c’è la tennista Serena Williams per la sua linea di moda ed al quinto la pop star Beyoncé per il video Apeshit, mentre al quarto posto c’è la rapper Cardi B grazie ai suoi look sfoggiati durante la settimana della moda di New York, tutti copiatissimi.

Sul terzo gradino del podio si trova Meghan Markle, considerata un vero ciclone mediatico, visto che ogni vestito da lei indossato fa boom di vendite e nell’arco di appena una settimana le ricerche del brand schizzano  fino al 200%. Secondo posto per Kim Kardashian, che ha ricevuto l’Influencer Award assegnato dal Council of Fashion Designers of America.

Al numero uno c’è Kylie Jenner che collabora con i brand più famosi al mondo, vanta due milioni di ricerche nel 2018 collegate al suo nome ed anche una copertina di Forbes secondo cui potrebbe diventare la miliardaria americana più giovane dai tempi di Mark Zuckerberg.

Nicola Massaro

Come togliere le macchie

Curiosando sulle bancarelle in questi giorni di feste ecco un libro anche se un po’ datato, 2011, utile per tutti. “Come togliere le macchie. Un aiuto pratico per utilizzare nel modo corretto i prodotti per la pulizia”, nella collana Art Book della Rusconi.

Un titolo accattivante per chi è amante delle pulizie ma anche per chi si trova in situazione di emergenza. Il sogno di tanti è quello di avere una casa linda e splendente e questo, spesso, per il lavoro che si svolge, per i mille impegni quotidiani non sempre è possibile. Allora ecco che è utile ed aiuta ad ottenere i risultati sperati poter conoscere una serie di trucchi e di rimedi antichi e moderni che sicuramente consentono di ottimizzare tempi e metodi.

Il volume nella parte finale ha un utile capitolo dedicato interamente alle macchie dalla A alla Z.

Alessandra Desideri

The Global Compact of Migration

 

Il nome per intero di questo documento approvato dall’Onu è “Global Compact for Safe, Regular and Orderly Migration” e l’Italia avrebbe dovuto sottoscriverlo al summit di Marrakech in programma per il 10 e l’11 dicembre, ma è di alcuni giorni fa la notizia del dietrofront del Governo italiano rispetto alle dichiarazioni ufficiali di due mesi fa, a New York, del Ministro degli Esteri Moavero Milanesi, durante i lavori dell’Assemblea delle Nazioni Unite.

L’Italia non è stata presente a Marrakesh per firmare il documento, in quanto dovrà essere il Parlamento, a seguito di un dibattito, a dare il via libera per la sua approvazione.

Eppure il Global Compact rappresenta, finalmente, un tentativo di dare una linea direttiva unica, a livello mondiale, al problema della migrazione. Il principale obiettivo è quello di creare una rete internazionale per l’accoglienza di migranti e rifugiati: un’accoglienza sicura, si legge nella dichiarazione, e di sostegno.

Il punto di partenza del Global Compact è il principio, condiviso da molti firmatari, che la questione delle migrazioni debba essere affrontata a livello globale tramite rete di collaborazione internazionale.

Nel documento si parla di migrazione “disciplinata, sicura, regolare e responsabile” e si prevede una serie di impegni da parte di tutti i Paesi per tutelare diritti e bisogni di chi è costretto a fuggire dal proprio luogo natale.

Gli Stati che hanno riconosciuto la necessità di firmare questa dichiarazione di responsabilità hanno riconosciuto il bisogno di un approccio comprensivo alla mobilità umana, che è un fenomeno inarrestabile (datato quanto la presenza dell’uomo sulla terra), rafforzando la cooperazione a livello globale, impegnandosi a combattere la xenofobia, lo sfruttamento, contrastare il traffico di esseri umani, potenziare il sistema di integrazione e l’assistenza umanitaria, sostenere dei programmi di sviluppo e stabilire delle procedure di frontiera nel rispetto del diritto internazionale, ad iniziare dalla Convenzione sui rifugiati del 1951.

Pur non essendo un documento vincolante in alcuna sua parte, i principi sanciti all’interno del Global Compact hanno allarmato e scatenato parecchie polemiche di chi si sente minacciato nella difesa dei propri confini nazionali.

E la sterzata reazionaria mondiale si riconferma ad ogni occasione di dialogo.

La lista di coloro che non parteciperanno ai lavori di Marrakesh si allunga; oltre alla sterzata dell’Italia, anche gli Stati Uniti di Trump. Per quanto riguarda il Belgio, invece, il sì del Premier Charles Michel al Global Compact ha portato il partito nazionalista fiammingo a lasciare la coalizione di governo a cinque mesi dalle elezioni, aprendo di fatto una crisi al vertice. C’è, poi, il così detto blocco di Visegrad, formato da Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia e Polonia, ferocemente contrari a qualsiasi politica migratoria che non preveda chiusure di confini, filo spinato e muri; nonché, Austria, Bulgaria, Croazia, Israele e Australia, pure assenti. Mentre la Svizzera, come l’Italia, non ha partecipato al vertice, in attesa di un pronunciamento del Parlamento sul Global Compact.

Di nuovo l’Europa si mostra più debole e poco armonica, pure condividendo i principi comuni di rispetto e tutela dei diritti umani, e che, dall’altro lato dell’Atlantico, l’America guardi positivamente questa situazione.

Rossella Marchese

Gli Ottant’anni delle leggi razziali fasciste

Era il luglio del 1938 quando venne pubblicato il Manifesto della razza, supportato dalle firme di diversi scienziati, mentre nel settembre dello stesso anno furono emanati i primi provvedimenti per l’espulsione degli stranieri di origine israelita residenti in Italia e l’esclusione da tutte le scuole e le università pubbliche degli studenti e dei docenti ebrei.

Il 18 settembre, a Trieste, Benito Mussolini tenne un lungo discorso antisemita dai toni particolarmente violenti; fu l’anticamera ai provvedimenti di novembre, i decreti a difesa della razza, integrati più tardi, nell’estate del 1939. Furono vietati i matrimoni tra ebrei e “ariani”, fu epurato il pubblico impiego, nonché il settore bancario ed assicurativo; gli ebrei furono anche esclusi dal servizio militare, dalla professione di notaio e giornalista. Fu vietato loro di essere proprietari di beni immobili al di sopra di un certo valore e di prendere a servizio persone domestico non ebraico.

Per quanto si ispirassero all’esempio delle norme antisemite del 1935 della Germania di Hitler (le così dette leggi di Norimberga), le misure razziali italiane furono prese da Mussolini in piena autonomia, senza che vi fosse pressione alcuna da parte del Führer sul suo alleato.

Il clima in cui vennero accolte dalla società civile italiana e, soprattutto, dalle altre forze politiche, per quanto ridotte alla sostanziale immobilità dal regime, fu alquanto singolare. Nessuno si chiese perché proprio gli ebrei fossero divenuti oggetto di una persecuzione che non aveva precedenti nella storia dell’Italia unita. Per le forze di sinistra del nostro Paese, accanto alle difficoltà del marxismo di immaginare altra forma di violenza al di fuori di quella di classe, c’era un altro fattore da tenere in considerazione: per la sinistra antifascista le masse proletarie non erano antisemite e tanto meno fasciste, piuttosto appartenevano alla visone del mito del “bravo italiano” per cui ad essere razzisti erano i fascisti ma non gli italiani. Una visone miope, che la portò a sottovalutare la pericolosità e la modernità della politica totalitaria, efficace e coerente nella sua drasticità.

Tra le forze di sinistra, solo il movimento fondato da Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà, e il Partito Socialista Riformista di Pietro Nenni, dedicarono attenzione costante all’antisemitismo che prendeva piede in Italia.

Nessuno credeva che l’Italia fosse un Paese razzista e antisemita (non aveva alcun passato antisemita paragonabile a quello di altre nazioni europee), eppure l’epurazione attecchì; né si credette che il fascismo potesse essere un esperimento moderno di totalitarismo, ben organizzato, eppure, quella sistematica ed ordinata persecuzione razziale rappresentò un aspetto moderno della rivoluzione antropologica che il regime cercava di attuare: l’italiano nuovo, votato al primato a tutti i costi.

All’indomani della Seconda Guerra Mondiale e per i successivi 15 anni, sulle persecuzioni antisemite italiane non si riuscì a produrre un giudizio storiografico che non fosse confuso, piuttosto si  optò per l’interpretazione, ampiamente sposata per tutto il dopoguerra, secondo cui il regime non aveva prodotto alcuna sua propria specifica cultura, pertanto le leggi razziali furono classificate come una delle espressioni della barbarie fascista informe e priva di intelletto.

La storia contemporanea continua a smentire questa visione.

Rossella Marchese

La  migrazione in Germania

Le priorità in Germania sull’immigrazione è l’integrazione lavorativa per tutti.

Sul Global migration compact, l’accordo internazionale sulla gestione delle migrazioni  vede i paesi dell’Unione europea non molto interessati, con l’Italia che non  intende partecipare alla Conferenza di Marrakech nonostante l’immigrazione sia uno dei temi più discussi all’interno della  coalizione.

In Germania invece, l’economia positiva consente di compiere ragionamenti a lungo termine, di natura demografica e per questo, in ottobre, il governo tedesco ha raggiunto un’intesa per la riforma della legge che la regola, introducendo un nuovo strumento per attrarre manodopera straniera.

Italia e Germania sono in questo momento i paesi Ue più in crisi dal punto di vista demografico, con saldi naturali profondamente negativi (differenza tra nati e morti, rispettivamente -190 mila e -148 mila). Tuttavia, nel 2017 la popolazione in Germania è cresciuta (+328 mila), mentre quella italiana è complessivamente diminuita (-105 mila) e questo è dovuto a una chiara differenza nelle politiche migratorie. Nel corso del 2018 la Germania ha raggiunto il record di 45 milioni di occupati, 15% in più rispetto ai 39,3 milioni del 2005.

Anche i cosiddetti “mini-jobs”, con paghe particolarmente basse, sono in diminuzione e il lavoro segnala ancora 750 mila posti che le imprese non riescono a coprire,specie nei settori logistica e trasporti, metalmeccanico, estrattivo e anche nel settore medico-sanitario, settore importante perché la Germania è uno dei paesi più anziani del mondo.

 

Dati demografici e occupazionali: confronto Italia-Germania

                                                                      Germania                           Italia

Popolazione 2018                                            82.850.000                60.483.973

 

Saldo naturale 2017                                          – 148.000                   – 190.910

Saldo Migratorio 2017                                      + 476.347                  +   85.438

Differenza pop. 2017 – 2018                            + 328.347                  –  105.472

 

Tasso occupazione 2017                                       75,2%                         58,0%

Tasso disoccupazione 2017                                    3,8%                          11,2%

Fonte: elaborazioni Fondazione Leone Moressa su dati Eurostat

 

In Italia gli ingressi di immigrati per lavoro si sono fortemente ridotti a partire dal 2011 con la chiusura quasi drastica dei flussi per lavoro, negli ultimi anni la Germania ha mantenuto un alto numero di ingressi: come si può notare dal grafico, il saldo migratorio è rimasto molto elevato, con il culmine nel 2015 per l’afflusso di rifugiati.

La proposta di riforma della legge sull’immigrazione rappresenta un’ulteriore apertura con l’introduzione di un permesso di soggiorno per sei mesi per la ricerca lavoro, a determinate condizioni (livello di educazione, età, competenze linguistiche, offerte di lavoro e sicurezza finanziaria).

  • il nuovo strumento, nelle intenzioni del governo di Berlino, avrebbe tre effetti e consentirebbe di: attrarre in breve tempo nuova manodopera straniera, rispondendo mirata ai fabbisogni produttivi dell’economia tedesca;
  • separare in modo chiaro i percorsi dell’asilo e della migrazione economica, riducendo l’uso improprio dello strumento della protezione internazionale, fenomeno diffuso in Germania e nel resto d’Europa;
  • accelerare per i rifugiati le procedure di asilo e di favorire l’integrazione nel mercato del lavoro.

Riguardo alle informazioni e la trasparenza sulle azioni, il sito web dell’Ufficio federale per l’immigrazione e l’asilo (Bamf) è particolarmente accurato, con informazioni per i nuovi arrivati e per gli stranieri residenti.

A differenza dell’ Italia, che negli ultimi trenta anni ha “subito” l’immigrazione anziché gestirla fino alla chiusura dei flussi d’ingresso, la Germania ha stabilito alcune priorità, legate alla situazione economica e al mercato del lavoro, agendo favorendo l’integrazione lavorativa, sia dei rifugiati che dei migranti economici, e riducendo anche i tempi per le procedure amministrative e quindi anche i costi di gestione.

Danilo Turco

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