Emily Brontë, una donna più forte di un uomo

Paola Tonussi  si occupa di letteratura inglese e americana dell’Ottocento e Novecento, è membro della Brontë Society e contribuisce a «Brontë Studies», rivista internazionale di studi brontëani. Con lei abbiamo parlato della figura dell’autrice di Cime tempestose.

In Emily Brontë  lei ricostruisce la poetica e la vita dell’autrice di Cime tempestose. Può motivare il suo interesse per l’autrice?

Per prima cosa vorrei dire che Emily Brontë è un’autrice che si ama molto o non si ama, non conosce mezze misure, in ogni caso non lascia – mai – indifferenti. Lei stessa era personalità complessa, estrema, di silenzi vasti e fantasia fervida, “più forte di un uomo, più semplice di un bambino” la definisce bene la sorella Charlotte. Amo quest’autrice proprio e anche per quest’ambivalenza – di scrittura e personale, quindi di riflesso calata nei suoi personaggi -, per la capacità visionaria – che emerge sia dal romanzo sia dalle liriche -, l’amore per la natura e gli animali, l’essenzialità di lingua – e se vogliamo anche di condotta, di vita. E’ un’autrice che non smette di ‘raccontare’ e parlare al nostro cuore: Catherine bambina incarna le nostre paure più buie, il terrore di esser lasciati soli in un mondo ostile, Heathcliff i nostri tormenti e gli incubi. Sopra tutto domina nella mia passione brontëana il pessimismo cosmico di Emily, che lei ‘inscena’ anche nella sua poesia, oltre che nel romanzo: la concezione della natura, la passione e l’affinità profonda verso gli elementi naturali e gli animali, la fedeltà all’amore e “agli antichi affetti”, il riconoscersi e ritrovarsi nell’altro. Dopo aver amato moltissimo Emily narratrice in Wuthering Heights mi sono accostata ad Emily poeta e alla sua vita, che è essa stessa un romanzo.

Emily Brontë innalza la scrittura a “pulsazione, respiro, centro assoluto del vivere”.  La narrazione in poesia e prosa da intendersi come rifugio paradisiaco?

La narrazione in prosa ha legami profondi con i versi e viceversa, questo vorrei ribadirlo: è importante perché Emily Brontë è uno di quegli autori per cui la ‘visione’ – il “dio delle visioni” come lo chiama in una poesia giustamente nota – o l’immaginazione sono regno e condanna insieme. Regno in quanto aspirazione all’assoluto, desiderio di vivere – sempre – entro i confini della fantasia, e infatti Emily non lascerà mai la saga di Gondal creata con Anne. Tuttavia anche condanna: nello scarto tra realtà e proiezione fantastica, tra il mondo della scrittura e quello del quotidiano. E’ una frattura non componibile, soprattutto da un certo punto in poi della sua vita. Dire che Emily si ‘rifugiava’ nella poesia non testimonia tutta la sua grandezza di poeta e giovane donna: in realtà lei sapeva come affrontare il mondo, se ne era ‘costretta’ – ha dimostrato ad esempio di essere una buona amministratrice dell’eredità avuta dalla zia – ma si agitava sempre in lei la convinzione che il “mondo eterno” non avrebbe mai potuto stare su un piano di parità con il suo “mondo interiore” – così li definisce sempre in versi. Quindi la poesia, la scrittura per lei costituivano la sua vera casa: non sempre paradisiaca, come tutte le case, ma l’unica in lei poteva vivere ed essere se stessa e felice.

Può fornire degli elementi circa il contesto familiare e sociale in cui l’autrice ha scritto e vissuto?

Emily cresce alla canonica di Haworth, dove suo padre è curato. La madre Maria muore quando la piccola ha pochi anni ed Emily e i fratelli crescono con il padre Patrick, la zia (nel frattempo trasferitasi da Penzance per allevare i figli della sorella scomparsa) e la domestica Tabby, figura fondamentale per Emily e quasi una seconda madre. I bambini Brontë erano sei, ma le maggiori Maria ed Elizabeth muoiono piccole, per cui Emily cresce con Charlotte, rimasta la maggiore, l’unico fratello Branwell e la minore Anne, a cui lei è molto legata e con cui dà l’avvio alla saga fantastica di Gondal. In quanto al contesto sociale, all’epoca Haworth era un villaggio di poche migliaia di abitanti nello Yorkshire, abitato da allevatori di pecore e bestiame, contadini e tessitori di lana, piccoli commercianti e qualche famiglia importante. A Keighley, la città più vicina, i ragazzi Brontë frequentavano la biblioteca e partecipavano a conferenze e concerti. In casa incontravano per lo più i curati assistenti del padre – Charlotte, infatti, dopo la morte dei fratelli ne sposerà uno.

Emily Brontë pare essere in piena sintonia con gli elementi della natura. Potrebbe essere questa specifica attitudine poetica la chiave per comprendere l’autrice di Cime Tempestose.

Sicuramente questa è una delle chiavi d’interpretazione del romanzo, della poetica di Emily e il motivo per cui nel libro ci sono svariate descrizioni di luoghi e paesaggio di brughiera. Quel paesaggio è la scena principale del romanzo perché l’autrice vi riconosceva molta parte di sé – forza, durezza, crudeltà, dolcezza e compassione. Dalla natura ha inizio il romanzo – una tempesta – e nella natura tutto alla fine si ricompone: quelle brontëane sono pagine che sanno di erica e di vento, hanno il colore delle colline che Emily amava e da cui aveva imparato tutto. Catherine Earnshaw, il personaggio di Catherine è uno dei nuclei poetici del romanzo perché in quel paesaggio, in quelle colline d’erica è il suo baricentro vitale. L’erica, il fiore preferito da Emily dice molto di lei e della sua scrittura: è un fiore piccolo e resistente, che si piega per sopportare vento e bufere d’inverno, che si arrossa d’estate e ricopre le colline di porpora, ha bisogno di poco per vivere ma deve farlo su quella terra, a quelle altezze e sotto quel cielo. Lontano da lì, l’erica – proprio come Emily, come Catherine – non potrebbe sopravvivere: l’incanto si rompe, alla Grange Catherine lontana da Heathcliff lascia la vita e diventa fantasma. E il cerchio si chiude di nuovo: il fantasma dell’esordio è sempre lei, che compare in forma di bambina. Un fantasma è ‘ciò che appare’. E ciò che è sempre apparso e continuerà ad apparire di là dalla vita e dalla morte è la brughiera: i moors amati dall’autrice.

REPORT THIS AD

Frammenti di lettere, poesie, testimonianze guidano direttamente il lettore in questa doviziosa biografia. Interessanti sono i rapporti intrafamiliari. Potrebbe fornircene un’analisi?

I rapporti con i familiari sono fondamentali per Emily, come del resto per tutti i Brontë. Innanzitutto fin da bambina il rapporto con Anne, che è la sua compagna privilegiata d’invenzione per Gondal, e a lei complementare per carattere e indole. Le due sono tanto legate l’una all’altra da sembrare a Ellen Nussey, l’amica di Charlotte, “due statue unite della forza e dell’umiltà”. Da piccola il rapporto era più stretto con la maggiore Charlotte, poi l’affetto di Emily si sposta su Anne, anche se il legame con Charlotte non viene mai meno, anzi: Emily va a Bruxelles, ad esempio, sostanzialmente per far contenta la sorella maggiore così come acconsente a pubblicare i versi sempre per lei. Negli ultimi anni si stringe anche il rapporto con Branwell, a cui Emily offre aiuto e solidarietà mentre la fortuna personale e artistica di lui tramonta in vari tentativi sbagliati e dispersione di talento ed energie. Il rapporto con il padre è d’affetto e rispetto reciproco e forse in famiglia è la zia con cui Emily si sente meno in sintonia. Infine importantissima per lei è Tabby, come dicevo, perché Tabby le racconta le storie locali del villaggio e le leggende delle brughiere, che poi entreranno nel romanzo. In ogni caso per originalità, cultura, sensibilità e genio creativo i Brontë erano una famiglia eccezionale: Patrick Brontë però sapeva che, di tutti i suoi straordinari figli, la stella era Emily.

Giuseppina Capone

 

Paola Tonussi si occupa di letteratura inglese e americana dell’Ottocento e Novecento. È membro della Brontë Society e contribuisce a «Brontë Studies», rivista internazionale di studi brontëani. Premio Vassalini dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti 2013. Per l’ Editrice Antenore ha curato Sognatori, poeti e viaggiatori. Sguardi su Verona e il Lago di Garda.

La moda italiana ai tempi del corona virus:  atelier per produzione di mascherine e shooting via web 

La moda ai tempi del corona virus è stata al centro della crisi globale. Per quanto riguarda gli shooting però, non si è arresa, neanche quando il mondo intero si è fermato, continuava ad essere presente via web. Il mondo della moda è stato costretto, inoltre, a trasformare gli atelier in centri di produzione di mascherine e accessori sanitari.

Il primo servizio  di moda nell’era del lockdown

Il magazine di moda numero 1, Vogue Italia, realizza il suo primo servizio di moda nell’era del lockdown con la sua prima copertina “vuota”. Presenti nel numero, anche la top model Bella Hadid. Le sue foto sono visibili anche sui social. Aderiscono all’iniziativa oltre 40 artisti della community di Vogue Italia in tutto il mondo tra cui modelle, stylist, direttori creativi, make up artists, fotografi. Utilizzando abiti del proprio archivio e facendoli indossare ai membri della propria famiglia, organizzando cosi, shooting, sfilate e dirette live. Un metodo efficace per non perdere la creatività e per essere sempre presenti per tutti coloro che amano il mondo della moda. Per promuovere le nuove collezioni, anche i colossi del fast fashion cavalcano il trend: le modelle di Zara, sotto richiesta del direttore artistico, dopo essere stato costretto a chiudere i negozi in tutta Europa,  hanno indossato i capi della nuova collezione per postare foto sui social.

La crisi per i brand della moda italiana

In Italia, diciassettemila negozi hanno rischiato di non riaprire, compresi i fast fashion e i grandi magazzini. Nel 2020 si prevede un calo di consumi di quindici miliardi e una riduzione dei ricavi del 50 per cento rispetto all’anno scorso. D’altronde è risaputo che un gran numero della produzione europea di moda è fatto in Italia, ma a causa di questa pandemia si è rischiato di perdere pezzi di una filiera di industrie e artigiani.

I grandi brand italiani, così come accaduto per quelli di tutto il mondo, hanno vissuto momenti di grandi angosce, temendo che, a causa di  questa forte crisi, avrebbero potuto perdere la capacità di innovazione e di fare investimenti. Con la fine del lockdown, però, le industrie hanno riaperto il 4 maggio: intere collezioni vendute e quelle future in elaborazione. I capi più venduti sono i pantaloni denim. Jeans “consumati”. Purtroppo, le collezioni invernali sono state accantonate in negozio per dar sfoggio direttamente a quelle della stagione primavera-estate.

La maggior parte degli imprenditori si sono organizzati per sanificare ogni capo dopo ogni prova effettuata dal cliente. Intanto sul digitale il commercio era indietro, ma questa crisi è stata un’opportunità per rafforzare l’acquisto online. Ma chi ha rischiato il crollo, in questa situazione, sono i piccoli negozi che vendono abiti a prezzi bassi. Un vero e proprio stravolgimento anche per la catena H&M che aveva, già dal 4 maggio, annunciato la chiusura di 8 negozi in Italia. Ad oggi, il 90 per cento dei punti vendita della moda è stato riavviato senza problemi.

Come abbiamo potuto notare il mondo della moda non si è mai fermato perché la creatività e l’arte riescono a viaggiare anche restando fermi.

Alessandra Federico

Anoressia e Bulimia: la ricerca dell’equilibrio

“Avevo il terrore di ingrassare. All’età di sedici anni pesavo trentadue chili. Dall’Anoressia sono passata velocemente a soffrire di Bulimia.”

 L’Anoressia è un disturbo dell’alimentazione che colpisce maggiormente le donne durante l’età adolescenziale. Coloro che ne soffrono tendono a vedersi perennemente grasse, anche se dimagriscono a vista d’occhio. Subire maltrattamenti, critiche e offese sin dall’età infantile potrebbe essere uno dei motivi per cui una ragazza cessa di nutrirsi. Ancora, cosa che accomuna un gran numero di famiglie italiane, è il bisogno da parte dei genitori di essere iperprotettivi nei confronti della propria figlia. Questo potrebbe, di conseguenza, farle avere un morboso attaccamento nei confronti della madre e del padre anche in età adulta, e, pertanto, l’esigenza di restare eterna bambina. Ragion per cui, non vuole assumere alcun tipo di calorie, oppure, ogni pasto che ingerisce, fa in modo di poterlo eliminare il prima possibile. Quest’ultimo prende il nome di Bulimia. Il termine Bulimia deriva dal Greco e significa “fame da bue” che, al contrario dell’Anoressia, comporta disturbi dell’alimentazione differenti: riempirsi di cibo spazzatura fino a perdere il controllo sul proprio comportamento alimentare, seguito da vomito auto-indotto.  Chi che soffre di Bulimia non presenta segni evidenti del disagio, quanto appare una persona che conduce una vita regolare.

Ma quanto conta l’aspetto estetico?

L’aspetto estetico per una donna è importante. Ma per una donna che soffre di anoressia è fondamentale, poiché la sua autostima è fortemente influenzata dal suo corpo. Si può essere belli anche con tante imperfezioni, senza dover a tutti costi raggiungere quel canone di bellezza che ci impone la società. Una  società che vuole la donna perfetta e impeccabile esteticamente, ma che valuta poco il suo lato interiore. Di conseguenza, ciò che ci inculcano ogni giorno attraverso programmi televisivi e social non è altro che una concezione sbagliata di ciò che conta nella vita.

Ma non è mai tutto oro ciò che luccica.

Una Influencer ha postato sui social, pochi giorni fa, una sua vecchia foto in cui mostra il suo viso ricoperto di acne prima di sottoporsi a diverse cure e terapie per arrivare ad ottenere la pelle “perfetta” che ha oggi. Anche se, come sostiene anche lei,  le foto di coloro fanno parte di quel mondo sono spesso agevolate da filtri, luce ed effetti della fotografia stessa. Inoltre, spiega anche quanto il nostro lato esteriore viene fortemente influenzato dall’aspetto interiore. Tutto questo ha voluto spiegarci che, anche chi appare perfetto, in realtà nasconde più di un difetto. Il suo post sui social è stato un importante messaggio per ogni donna. Tuttavia, ognuno ha le proprie imperfezioni ma alle volte basterebbe lavorare sull’aspetto interiore e acquisire maggiore stima di sé per piacere e piacersi. Per questa ragione, lavorare anche sull’autostima e non solo sull’aspetto estetico, può portare a grandi giovamenti anche del corpo.

“Quando ero piccola ero grassottella. La mia sorellastra aveva undici anni in più a me e mi diceva che non poteva prestarmi i suoi abiti perché altrimenti li avrei strappati, lei era da sempre stata magra. Nel corso degli anni ho cercato di mangiare sempre meno, un po’ per sentirmi a mio agio, un po’ per compiacerla, anche se la odiavo, inconsciamente. È la figlia del compagno di mia madre. Ma mia madre non mi ha mai difesa, allo stesso tempo mi tratta ancora come una bambina. Arrivata all’età di sedici anni pesavo trentadue chili. E dall’anoressia sono passata velocemente alla bulimia, ci ho impiegato ben  9 anni per uscirne completamente.”

Benedetta, ventidue anni, napoletana, racconta la sua lotta contro la anoressia e la bulimia e come ne è venuta fuori

Benedetta, a quale età hai iniziato a rifiutare il cibo?

Avevo tredici anni, e siccome da sempre Denise (la mia sorellastra) mi ripeteva quanto fossi grassa, decisi appunto di voler perdere peso. Senza rendermene conto iniziavo a diminuire sempre più la quantità di cibo che ingerivo quotidianamente. Iniziai a eliminare la colazione, prima di tutto. A pranzo mangiavo 10 grammi di pasta e poi la verdura. Più passava tempo e più diminuivo le quantità fino a mangiare uno yogurt al giorno, eppure passeggiavo per un paio d’ore per smaltirlo. Quando sono arrivata a pesare trentadue chili, ho capito che avrei finalmente potuto mangiare un po’ in più. Ogni giorno, o quasi, ingerivo grandi quantità di cibo spazzatura per poi andare in bagno e vomitare tutto. Presi molti chili e arrivai a pesarne quarantasette. Ma riuscivo a mantenere quel peso forma solo perché eliminavo ogni pasto dopo ogni abbuffata. Mia madre ha iniziato a preoccuparsi solo allora, e da lì sono iniziate le infinite terapie dallo psicologo e il continuo via vai casa – ospedale.

Lo psicologo ti ha aiutato a scoprire la causa di tutto ciò?

Lo psicologo mi ha aiutata tanto ad acquisire un’autostima più forte. Avevo alti e bassi e spesso crollavo perché, se anche prendevo pochi grammi, per me era una sconfitta. Invece quando non mangiavo per me era una vittoria. Avevo il controllo di me e del mio corpo. Ma nutrirmi per me significava perderlo. Inoltre, mi ha aiutata tanto a superare i brutti ricordi della mia infanzia e le cattive offese che mi faceva Denise. Mi ha fatto soprattutto capire che nessuno deve essere in grado di giudicarmi. Abbiamo anche scoperto che un altro dei motivi per cui non  mangiavo era dipeso dal comportamento troppo apprensivo di mia madre, che però allo stesso tempo non mi difendeva con la mia sorellastra. A quel punto non lo concepivo il suo essere iperprotettiva, per me è sempre stata un’incoerenza.

Adesso com’è il tuo rapporto con il cibo?

Decisamente migliore. Pratico molto sport ma allo stesso tempo non rinuncio a niente, o quasi. Evito di esagerare con cibo che possa farmi ingrassare troppo o che possa far male. Faccio un’alimentazione sana ma abbondante ogni giorno. Sono finalmente una ragazza come tutte le altre. Mi piaccio. Ho scoperto il mio carattere perché fino a poco fa non ne ero a conoscenza. Non sapevo chi fossi. Adesso, ringraziando il cielo, ho una forte personalità e sono in grado di affrontare ogni cosa.

Te la senti di dare un consiglio a chi come te ha avuto disturbi dell’alimentazione?

Adesso che ne sono uscita completamente posso dire che il cibo è uno dei piaceri più grandi della vita, ma so anche che ora mi risulta facile parlare proprio perché ne sono venuta fuori. Un consiglio che posso dare, per esperienza personale, è quello di farsi aiutare perché da sole è difficile se non impossibile uscire da questa brutta situazione. Chiedete aiuto e lavorate tanto sulla vostra autostima. La vita può rivelarsi un’esperienza meravigliosa.

Alessandra Federico

seers cmp badge