Grazia Frisina: Pietra su pietra

Le sue pubblicazioni: il romanzo A passi incerti (2009 finalista “Premio Firenze” 2009), il dramma poetico sulla Shoah Cenere e cielo (2015- rappresentato al museo della Deportazione di Prato), le raccolte poetiche Foglie per maestrale (2009), Questa mia bellezza senza legge (2012), Innesti (2016 – opera vincitrice alla XVI ed. Premio Carver, 2018), Pietra su pietra (2021), I drammi poetici Madri (2018) pref. di Marinella Perroni, (dalla pièce Stabat Mater è stato realizzato un corto, girato nel carcere di Pistoia)
È presente, con alcuni suoi componimenti, in varie riviste letterarie nazionali.
Presso la biblioteca San Giorgio di Pistoia ha curato La gioia diventa un dipinto, incontro sulla poesia di Emily Dickinson, tra arte e musica (2014), e il dialogo poetico: Ricordi come raccoglievamo i narcisi, sulla storia d’amore fra Sylvia Plath e Ted Hughes (2015).
Presso la casa-museo Guidi di Firenze ha ideato e curato il dialogo poetico Il mare nel vento – Una voce dentro l’altra, sull’amore fra Elizabeth Barrett e Robert Browning (2017).
Ha partecipato al festival di poesia Notturni di versi di Portogruaro (ed.2016 e 2021).

 

28, unione panica con la natura nonché rilievo del poeta nel mondo coevo. Paiono tematiche prive di un fil rouge. E’ possibile, invece, scorgere una traccia che le inanelli?
Come nel nostro intimo essere è tutto un ondulare di dissonanze e ossimori, allo stesso modo sappiamo che non c’è linearità nel vivere: un avvicendarsi tumultuoso di eventi e cose, un susseguirsi di istanti mai uguali e sempre in fuga. Una rapinosa dispersione.
Attimi e accadimenti in apparenza scissi, contrastanti, inconciliabili fra di loro, ma in ogni caso l’uno legato all’altro nel sottile, mutevole filo della nostra disarmata esistenza, scorrente in un’ininterrotta metamorfosi.
Ecco, così nei miei versi, tento di ritrarre la multiforme, cangiante gamma del vivere.
Nel compiere ciò, il mio avvicinamento alla natura, alle cose e alla realtà cambia, si fa accurato, attento, mediante un ascolto minuzioso e stupefatto di ogni sensazione, tattile, olfattiva, uditiva, visiva, come se si trattasse dell’avvento di un inopinato scoprimento.
La linea che unisce le tematiche dei miei componimenti è come una partitura; movimenti sincopati, timbri bassi e acuti, in cui s’alternano e s’intrecciano nella loro singolarità, in un gioco di inseguimenti e di rimandi, occasioni, volti, luoghi, incontri, memorie, contemplazioni, senza alcuna antinomia, né scarto.
Trattengo fra le mani piccole scaglie, dettagli emersi dai sedimenti della mente o quelli fortuitamente sopraggiunti; rendo loro testimonianza, riportando i segni del loro fugace attraversamento, traducendoli in alfabeti, in parole, in immagini e, per quanto possibile, in versi. Per dare dunque dignità all’attimo vissuto, altrimenti destinato alle fauci della dimenticanza.
In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dalla scrittura, nella fattispecie dalla poesia?
Viviamo in un’epoca di derive e nichilismo, distanti dai sogni e dai valori culturali e sociali su cui la nostra civiltà ha fondato le sue basi. Questo è un tempo di scollamenti, di coscienze private dell’indugio, della capacità orfica di scendere e di sostare nell’interiorità, in quel territorio dell’oltranza, dove luce e ombra, nel loro continuo dissidio e intreccio, assumono una rilevanza simbolica.
Se riuscissimo a sottrarci alle dinamiche vorticose che oggi la vita impone e schiavizza chimericamente noi tutti, potremmo, con un esercizio di cura e di lentezza, recuperare la necessità di entrare in comunione con l’ignoto, con quell’altrove che soggiace all’io più manifesto.
La scrittura rappresenta di sicuro uno strumento che permette sia la discesa che l’esplorazione in quella regione assolutamente sconosciuta e impenetrabile che è “il porto sepolto” del nostro inconscio. La scrittura, in particolare la scrittura poetica, si presenta come scandaglio, che scruta e tocca la sostanza incorporea, sfuggente e inesprimibile dell’anima e può, seppure in minima parte, tentare di pervenire a una qualche forma di conoscenza e consapevolezza, di sciogliere certi grovigli di un’ansia perpetua, di una mai risolta tensione di uno spirito inquieto, sempre proteso a un’attesa o a una ricerca di senso, di un remoto e quanto mai irraggiungibile sacro Graal. E di rispondere infine all’urgente bisogno di esprimere e oggettivare anche solo un piccolo brandello o un impercettibile brusio di quell’ignoto appena lambito nella voragine oscura del proprio io.
Il fare poetico è un fare pausato e meditativo e tuttavia non si tratta di un procedimento passivo, inerte: spinto da un ansito interiore ha un suo movimento, un procedere verticale, ascensionale, che dal profondo si erge verso l’esterno, verso il mondo, verso l’alto, aiutando ad accorciare l’infinita distanza tra sé e il proprio abisso, tra la propria carnalità dolente e il divino mistero, tra le domande irrisolte e le manchevoli risposte.
Ecco, grazie alla poesia, alla vera poesia, si sperimenta il recupero dello spirituale, di quell’elemento così tanto censurato e soffocato dal compulsivo dinamismo e dal fragore ottenebrante delle nostre odierne società.
“Pietra su pietra”, un incedere dal basso verso l’alto, per strati differenti, congiunti alle multiple forme del vivere ed alle plurime forme del sentire. Il suo “viaggio” è faticoso, scosceso, una scalata a mani nude. Il dolore come condizione ontologica?
Il destino umano è un destino universale di prigionia, di abissi e di dolore: ogni giorno si vive l’esperienza della propria fragilità e finitezza, della propria imperfezione e incompiutezza. Condizione dell’anima è la condizione di un perenne esilio.
Ma è proprio col corpo straziato e nell’antro notturno di un’anima dilaniata che si può intravedere la scheggia luminescente, il riflesso di un bagliore, il presagio ineffabile di una bellezza anche solo da sfiorare momentaneamente.
Dalla sofferenza nasce un nuovo modo di porsi nei riguardi della vita e dei suoi polimorfi accadimenti, di avvicinarci ad essi con sguardo di stupore e animo di accoglimento. Le ferite acuiscono le percezioni, raffinano la nostra sensibilità; ci portano a cogliere le pieghe dell’essere terreno, ciò che esse custodiscono, anche nel loro sottrarsi, nel loro nascondimento, nel loro buio, dal quale nondimeno lanciano i loro richiami silenziosi.
Il fluire routinario della vita, tra cadute, perdite e dolori, non esclude dunque il lenimento di un conforto, l’epifania di una gioia che comunque l’esistenza nel suo assiduo, caleidoscopico manifestarsi, di tanto in tanto, ci dona.
Lei scrive narrando una quotidianità atemporale, in cui si stenta a riconoscere il contesto storico, che pure è presente. Reputa che la vita umana viva una costante condizione di anonimato, fuori dal tempo e dallo spazio?
Dimentichi del passato, privati del futuro, lontani dai miti, dagli ideali, dalle passioni, dalla fede, perché come affermava Martin Heidegger “non solamente gli dei sono fuggiti, ma lo splendore della divinità si è spento nella storia del mondo”, il nostro collettivo modus vivendi è spesso conchiuso in un camminamento stanco, miope, ridotto alla mera contingenza, intorpidito nella meccanicità di un fare quotidiano, ruotante nell’asse di un presente snudato di significato.
Un vivere oggi sedotto dagli ambigui, squillanti allettamenti di un mondo che ci vorrebbe massa omologata nel trionfo del consumo e dell’apparenza. Ma dietro lo sfavillante teatro del clamore e dell’efficienza, si sa esserci un mesto scenario, un dramma popolato da comparse, da individui oppressi nella medesima triste condizione di isolamento e desolazione, col pensiero e il cuore ammutoliti, spenti nell’assenza di dialoghi, di umane ed empatiche relazioni, uomini e donne impiombati nella gabbia di scambi virtuali, ciechi persino di fronte alle proprie sopraffatte individualità, senza possibilità di affrancamento alcuno né di risveglio, senza apertura al domani.
E tuttavia occorre aver fede nella forza disvelatrice e salvifica della parola poetica, capace di riscuotere l’uomo dal suo immobile letargo, di “sgelare gli occhi alla luce”
La sua versificazione appare, talvolta, refrattaria al rispetto ovvio ed ossequioso delle norme grammaticali, compromettendo irrimediabilmente la logica connessione lettura-comprensione. Qual è la chiave d’accesso per discriminare i suoi intenti comunicativi?
Scrive Cristina Campo: “la pura poesia è geroglifica, decifrabile solo in chiave di destino.” Chi scrive poesie infatti non ha nessuna chiave d’accesso da porgere al proprio lettore; giacché colui che legge, nell’accostarsi a un componimento, dovrebbe individuare e trovare in sé la modalità per entrare e cogliere tra i versi, tra le parole, persino nei silenzi degli spazi bianchi, ciò che avrà risonanza nell’intimo suo personalissimo sentire.
Perché l’intento del poeta non è mai quello di comunicare messaggi, né di essere compreso o di dare risposte, al più tacitamente chiede di creare una qualche segreta, remota reciprocità, un viaggio, un’avventura dello spirito da compiere ciascuno nella propria solitudine.
L’oscuro è l’essenza della poesia, il suo spessore vertiginoso: là sta la sua intensità, come la sua vulnerabilità.

Giuseppina Capone

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