Industria 4.0 e i dottorati universitari

“Imparare facendo” rappresenta lo strumento per svolgere ricerca e studi innovativi per l’industria di oggi.

I cambiamenti che stanno oggi avvenendo nel mercato del lavoro fanno tornare in auge il concetto di “disoccupazione tecnologica” di John Maynard Keynes, che presentò negli anni Trenta del secolo scorso per spiegare gran parte della crisi di Wall Street.

Ecco allora che paure e conflitti antichi tornano alla ribalta (uomo contro macchina, materiale contro immateriale) procurati dalla innovazione che è comunque inarrestabile.

Ogni epoca ha avuto le sue rivoluzioni (industriali, intellettuali, scientifiche, tecnologiche e sociali) la moneta, la macchina a vapore, l’elettricità, l’iperuranio, il Pc e Internet, lo smartphone, novità ha abolito il passato aprendo una finestra sul futuro e nel fare questo produce disagi alla vita dell’uomo.  Come può difendersi l’uomo da questo malessere?

Rispondere che in un mondo “liquido” occorre imparare a nuotare non basta, è solo una risposta teorica… Occorre ad esempio un approccio alla formazione nuovo, il learning by doing (imparare facendo), che coinvolga più soggetti e istituzioni, dove imprese e università operino assieme, a favore dell’industria 4.0, trasferendo lo studio dalle aule scolastiche e universitarie, alle imprese e in tal modo l’alternanza scuola lavoro è da ritenere solo un primo passo ad esso si aggiunge l’apprendistato scolastico da realizzare e gli istituti tecnici superiori da rinforzare.

A riguardo il presente Governo italiano ha predisposto delle misure e dei fondi indirizzati anche ai cosiddetti dottorati industriali e intersettoriali, nell’ambito della Strategia nazionale di specializzazione intelligente 2014-2020 e del piano Industria 4.0 del “Piano Calenda”.

A riguardo già nel 2011 la Commissione europea intendeva promuovere azioni formative innovative nei Principi per una formazione dottorale innovativa per un approccio europeo, con percorsi innovativi, interdisciplinari, che offrissero ai dottorandi competenze trasversali, coinvolgendo anche le imprese.

Le linee guida del MIUR richiamano questi principi comunitari e chiariscono che i corsi accreditati con la dicitura “dottorati industriali” potranno essere: i corsi in convenzione con le imprese (articolo 11, comma 1, del Dm 45/2013) con la possibilità anche di riservare un numero di posti ai dipendenti di una o più aziende (articolo 11, comma 2, del Dm 45/2013) (tipo 1); i corsi di dottorato convenzionale che hanno, al proprio interno, dei curricula realizzati in collaborazione con le imprese (tipo 2). Tra i temi di ricerca, una priorità sarà data proprio a Industria 4.0.Il Miur ha quindi predisposto il nuovo bando del Pon Ricerca e innovazione 2014-2020 per il finanziamento di dottorati innovativi a caratterizzazione industriale nelle regioni meno sviluppate (Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) e in transizione (Abruzzo, Molise, Sardegna). Alcune università si son già attivate, ma altre ancora non rispondono all’appello. La logica da attivare deve essere di ecosistema, Stato, Università e Industrie, una logica giusta per attuare un rinnovamento creativo, con la collaborazione fra queste tre sfere istituzionali e complementari, proprio per far ripartire il motore dell’innovazione che risulta fermo da un po’ di tempo e per non arretrare come paese europeo.

Danilo Turco

Continuare a riflettere sulla riforma fiscale di Trump

La riforma fiscale di Trump non può essere interpretata come un’azione contro l’Unione Europea. Molte delle sue misure sono già adottate da tempo nelle legislazioni europee. È un intervento finalizzato a far riguadagnare competitività.

Attualmente i paesi europei Francia, Olanda, Gran Bretagna, Spagna, Italia già adottano regimi di patent box, la tassazione agevolata dei proventi derivanti dall’utilizzo di beni immateriali (intangibles), per cui, l’aliquota ridotta dell’Usa sulle cessioni all’estero di proprietà intellettuali non può essere considerata una violazione delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio sui sussidi all’esportazione, così come accade per la web tax europea che si intende applicare in UE, sui ricavi delle multinazionali americane, che costituirebbe dal canto suo una realtà di dazi all’importazione, anch’essi vietati dal Wto.  Di fatto, l’aliquota corporate deliberata dal Congresso Usa  allinea il sistema americano allo standard internazionale, che prevede  un’aliquota societaria flat (dal 35 al 21 per cento ), così come non va poi trascurato che negli Usa anche i singoli stati applicano di solito un’imposta sul reddito societario, che, secondo la media Ocse, per i 50 stati americani è pari al 6 per cento. Petanto, più che un attacco all’UE, la riforma della fiscalità societaria Usa andrebbe ritenuta un ammodernamento dei meccanismi della tassazione e un legittimo tentativo di riguadagnare la competitività del passato.

Danilo Turco

Lavoro e contratti a tempo determinato

Le azioni messe in atto per ridurre i contratti a tempo determinato sembra che non bastino. Il mercato del lavoro presenta “lavori” temporanei che per loro natura non scompaiono.

Secondo Istat-Rfl e gli Osservatori Inps, il numero di lavoratori che nel corso di un anno (dati 2016) sperimenta almeno un rapporto di lavoro a termine è alto e ha riguardato 3,1 milioni, per cui ci si chiede è possibile ridurre la dimensione assoluta e quindi l’incidenza del lavoro a termine? Come risposta a tale richiesta diverse misure sono state attivate sino ad ora per incentivare i rapporti di lavoro a tempo indeterminato (decontribuzione in varie forme previste dalle leggi di stabilità 2014, 2015 e 2017; introduzione con il Jobs act del contratto a tutele crescenti, per eliminare nel tempo i contratti a termine).

Tutti questi interventi obbligano le imprese a intensificare il turnover dei lavoratori temporanei, ma di per sé non ne vincolano l’utilizzo. Per cui l’efficacia di ciascuna misura dipende dalla semplicità e capillarità dei controlli, che devono diventare tempestivi, non solo puntuali e non sporadici, per garantire che non vi siano applicazioni della norma discrezionali. Per questo occorre provare a individuare quanti posti fissi potenziali le aziende “omettono” con contratti temporanei, facendo ruotare nel corso del tempo diversi lavoratori sulla medesima posizione. Si tratta quindi di distinguere tra occupati con contratti a termine impiegati in posizioni di lavoro effettivamente temporanei (come accade per un commesso stagionale in un negozio) e occupati a termine che “occupano” invece posizioni lavorative che per natura risulterebbero stabili.

Un esempio di questa analisi è quella di Veneto lavoro da cui risulta che su circa 60 mila imprese utilizzatrici di lavoro a tempo determinato nel corso dell’anno 2016, circa (10 mila) risultano aver posti di lavoro a termine in tutti i dodici mesi, corrispondenti a circa 40 mila unità di lavoro full year equivalent, pari a meno di un terzo del valore corrispondente calcolato per tutti i contratti a termine. Simili stime approdano a risultati analoghii dati nazionali. Da questo si evince che una riduzione dei contratti a tempo determinato – qualora le norme riescano a centrare il bersaglio – è importante azione, ma non risolutiva, in quanto  gran parte dei posti di lavoro temporanei sono per loro natura tai e non possono essere trasformati a tempo indeterminato.

Danilo Turco

Gli effetti della diffusione delle presunte  monete virtuali

Le criptovalute pretendono di essere più sicure rispetto alla moneta tradizionale e di non richiedere intermediari.

Alcune potenze occidentali come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno mostrato un atteggiamento generalmente positivo verso le nuove tecnologie che abilitano le monete virtuali, altri come il Canada e l’Australia stanno ancora decidendo il da farsi.

Gli Usa sono pronti a regolare la moneta virtuale bitcoin. A dare un nuovo colpo alle quotazioni delle criptovalute sono state indiscrezioni di stampa secondo cui i vertici della Sec, l’organo di vigilanza delle Borsa Usa, e della Commodity Futures Trading Commission chiederanno al Congresso americano di prendere in considerazione l’ipotesi di un controllo a livello federale delle piattaforme per gli scambi di monete digitali. Secondo quanto riferisce Bloomberg, i presidenti della Sec e della Commodity Futures Trading Commission saranno in audizione alla Commissione banche del Senato Usa per discutere di criptovalute e potenziale regolazione. Tutto questo da farsi dipende dal fatto che un terzo delle piattaforme di scambio di bitcoin è stato hackerato fra il 2009 e il 2015. Ed è sorta una pletora di intermediari. E’ infatti accaduto che ammonta a più di mezzo miliardo di dollari l’enorme somma di criptovaluta che, nella notte fra il 25 e il 26 gennaio, è stato sottratto a Coincheck, la più grande piattaforma di scambio di criptovalute del Giappone. Il quale, a sua volta, costituisce una delle piazze più importanti al mondo per le monete virtuali, tanto da arrivare ad accentrare fino al 40 per cento delle contrattazioni, secondo il Financial Times.  Il giorno dopo, l’annuncio del furto è stato dato in diretta televisiva dall’amministratore delegato, Koichiro Wada e ha chiesto scusa agli investitori. Cosa possa accadere ancora lo ha spiegato in un’intervista Jeff McDonald, vicepresidente della Fondazione Nem che emette la criptovaluta, evidenziando che il denaro virtuale sottratto ha un contrassegno, come il numero di serie di una banconota, per cui  l’hacker che se ne è impossessato potrebbe non riuscire a utilizzarlo senza essere smascherato, per cui il bottino resterebbe come sepolto o addirittura distrutto, senza consentire alcun guadagno al  criptoscassinatore.  Poi, aggiunge come anche le vittime non ci perderebbero per il fatto che la diminuzione della quantità complessiva di Xem in circolazione ne farebbe aumentare il valore, forse fino a colmare completamente la perdita (almeno in aggregato, al netto di drastiche quanto casuali sperequazioni fra chi guadagna e chi perde).  Anche nel caso Mt Gox,  la più grande piattaforma al mondo per lo scambio di bitcoin, quando a febbraio 2014 ha ammesso di avere perso traccia di bitcoin per un valore di 450 milioni di dollari. Nel giro di pochi mesi è fallita e il bitcoin  deprezzato del 30 per cento, ha poi ha ricominciato a risalire. È possibile che succeda anche questa volta  il rialzo delle criptovalute, in quanto nessun disastro reale può arrestare un’ascesa puramente virtuale. Essendo le criptovalute sono un fenomeno puramente speculativo,si può ammettere che non possono essere toccate da eventi terreni come il fallimento di una piattaforma. Ma se il loro apprezzamento si ritiene dipenda dalle loro qualità oggettive, tecniche , che il loro prezzo rifletta il loro valore effettivo di un mezzo di pagamento del futuro, allora non si può pensare che eventi come il furto di Xem siano da ritenere irrilevanti. Le criptovalute, a cominciare da bitcoin, pretendono di avere due vantaggi rispetto alla moneta tradizionale: di essere più sicure e di non richiedere intermediarima  la vicenda di Coincheck mostra che nessuna delle due pretese è vera.  Bitcoin è nata come sfida al sistema bancario oligopolistico, come moneta elettronica peer-to-peer, trasferibile fra privati senza il ricorso a intermediari, ma la realtà è un’altra, e il mondo delle criptovalute ha visto sorgere una pletora di intermediari non regolamentati.   Se i bitcoin hanno  lo scopo di sostenere l’economia attraverso la creazione di ricchezza virtuale, nella speranza che un giorno si trasformi in ricchezza reale, non sarebbe più equo e solidale  assegnare qualche miliardo di moneta tradizionale ai cittadini più poveri? Ai posteri l’ardua sentenza.

Danilo Turco

 Il futuro della sanità in Italia

Non sono chiare le proposte politiche sui finanziamenti alla sanità in Italia.

Nell’attuale campagna elettorale il confronto fra le parti sulla questione sanità in Italia presenta contraddizioni e dichiarazioni contraddittorie che senz’altro disorientano il cittadino, per questo, per fare chiarezza, occorre riflettere partendo dai dati oggettivi pubblicati sul sito del Ministero della salute.

Il Servizio sanitario nazionale, gestito dalle regioni come stabilito dalla Costituzione, è finanziato da tre voci:entrate proprie delle aziende del Servizio sanitario nazionale (in particolare grazie al ticket);fiscalità generale delle Regioni, tramite l’Irap e l’addizionale regionale dell’Irpef; bilancio dello Stato, che finanzia il fabbisogno sanitario attraverso la compartecipazione all’Iva, le accise sui carburanti e il Fondo sanitario nazionale. Nel 14 aprile 2016 l’intesa tra Stato e regioni ha stabilito che le fonti del finanziamento del fabbisogno giungessero per un terzo dai contributi delle regioni (A+B) e per circa il 60 per cento dall’intervento statale, mentre risulta residuale l’intervento delle regioni a statuto speciale. Ma il finanziamento del sistema ha subito numerose modifiche e interventi a partire dal 2014, come descrive la Camera dei deputati e sintetizza il ministero delle Finanze , che attualmente fa rilevare come il finanziamento sia aumentato di circa 7 miliardi e mezzo nel corso di questa legislatura (+6,4 per cento), crescita che inizialmente già prevista di 30 miliardi e che poi è stata ridotta grazie a tagli di circa 22 miliardi in quattro anni. La spesa è dunque cresciuta, ma non di quanto previsto. Infatti, ci sono state numerose ricontrattazioni degli accordi presi tra stato e regioni nel 2014, in occasione della firma delPatto della salute 2014-2016 e poi formalizzati dalla legge di stabilità 2015 (comma 556), quando, già allora si erano gettate le basi per le future riduzioni così come è realmente accaduto a partire dalla successiva intesa stato regioni del 2015 e con le leggi di stabilità 2016,2017 e con il decreto del ministero delle Finanze del 5 giugno 2017, con tagli che superano la quota 20 miliardi, ma che ancora una volta dà un saldo positivo. Affrontando la questione da un altro punto di vista è doveroso osservare come in un mondo in cui sono i numeri a farla da padroni, non le persone, con le loro ansie, le malattie, i dolori, le paure e dove i medici e gli infermieri non sono solo bravi, ma addirittura straordinari e costituiscono eccellenze assolute, quotidianamente mortificate da chi la salute pubblica dovrebbe amministrarla,  a livello nazionale al regionale. Una salute guardata solo dal punto di vista della spesa, mai dell’investimento alimenta il paradigma della cattiva sanità. Quella amministrata con criteri che non tengono conto che per gestire la sanità occorre far riferimento costante alla qualità dei professionisti che operano: medici, ricercatori, scienziati, ai quali andrebbe proposta una sanità pubblica capace di riconoscere il proprio ruolo alla luce di quelle “humanities” tanto care alla cultura anglosassone.

Danilo Turco

Le pensioni d’oro in Italia

Le pensioni d’oro rappresentano un vero problema oppure occorre mettere in discussione il concetto di diritto acquisito quando le condizioni economico sociali necessitano di cambiamenti innovativi e di equità sociale sul piano dei diritti?

Il provvedimento di tagliare le pensioni d’oro è senz’altro eticamente condivisibile, ma si scontra con due ordini di problemi: quello giuridico-costituzionale che impedisce di aggredire i cosiddetti “diritti acquisiti”  e quello che riguarda l’entità del possibile risparmio per le casse previdenziali. Per conoscere la realtà bisogna osservare gli ultimi dati resi disponibili da Inps e Istat – le fonti primarie di statistiche previdenziali – che rilevano come nel 2015 il 6,7 per cento del totale dei pensionati, poco più di 1 milione di individui abbia ricevuto un assegno mensile superiore ai 3 mila euro lordi (il valore medio è di 4.354 euro mensili lordi per 12 mensilità) costando 54,8 miliardi di euro (il 20 per cento della spesa pensionistica totale).  Poi, i più ricchi, quelli con un reddito annuale superiore ai 300 mila euro, erano 7.884 (il reddito medio è di 542 mila euro). Quindi, la pensione incide mediamente per il 40 per cento del reddito totale, ma per i più ricchi è il 13 per cento delle entrate complessive. Allora, se si ipotizza di fissare un tetto massimo mensile di 5 mila euro lordi per l’assegno pensionistico, tagliando l’eccedenza ai pensionati che hanno un reddito complessivo superiore ai 100 mila euro, si otterrebbe un risparmio stimabile in 490 milioni di euro, che a sua volta produrrebbe una riduzione della tassazione Irpef, riducendo così il risparmio netto a 280 milioni di euro, poco più dell’1 per cento della manovra di bilancio approvata a dicembre 2017. Questo calcolo evidenzia come l’entità del taglio produca un maggiore o un minore risparmio e che poi, non garantirebbe una cifra tale da dare grande respiro ai conti pubblici (vale lo 0,016 per cento del Pil) e neanche alla  politica redistributiva.

Attualmente il Presidente dell’Inps evidenzia come  “l’abolizione della pensione anticipata e il ritorno all’anzianità con 40 anni di contributi o con il meccanismo delle quote avrebbe un costo aggiuntivo attorno ai 15 miliardi l’anno, con un’incidenza sul debito pensionistico implicito di 85 miliardi, vale a dire cinque punti di Pil, che finirebbero sulle spalle delle generazioni più giovani”. Inoltre, il presidente Boeri ha anche evidenziato come il costo di una pensione da mille euro per le casalinghe, che hanno tra i 60 e i 65 anni, producendo in 5 anni la spesa di circa 10 miliardi di euro. Infine, se in futuro si decidesse di bloccare l’adeguamento dei requisiti pensionistici all’aspettativa di vita, allora ci sarebbero altri costi importanti da sostenere.

Danilo Turco

Wall Street e i nuovi modelli di sviluppo

Spazi e tempi minimi per accelerare la ripresa in Italia, se si prosegue e si accelera la strada del recupero del debito.

L’attuale calo di Wall Street con l’aumento dei tassi è notizia non gradita a Donald Trump che si era attribuito i meriti del rialzo. E’ anche una notizia ancora peggiore per un Paese indebitato come l’Italia, specie se iniziasse una guerra commerciale tra Europa e Usa, il cui vero bersaglio di Trump è la Germania. Intanto Berlino, varato il nuovo governo, si appresta a effettuare una virata storica: passare da un modello di sviluppo basato sull’export a un paradigma fondato sulle infrastrutture e la crescita dei consumi interni, affidato alla regia del nuovo ministro delle Finanze, il socialdemocratico Olav Scholz, già ministro del Lavoro al tempo delle riforme di inizio millennio , quando è stato garantito il rilancio dell’industria d’oltre Reno. Questa può essere una buona notizia per l’Italia, se si riesce ad accelerare la strada della ripresa, come è stato per il Portogallo, ottenendo un forte recupero della stabilità finanziaria senza incidere fortemente con i sacrifici dell’austerità. Infatti, al momento l’Italia ha fatto meglio delle previsioni, con un Pil salito dell’1,5%, mezzo punto in più rispetto alle stime elaborate a inizio anno dagli economisti, condizione favorevole per poter accelerare la ripresa.

Su questo, l’ ex direttore esecutivo per l’Italia al Fmi ed ex commissario alla spending review, ritiene che se si riuscisse a congelare la spesa primaria in termini reali per tre anni (limitando cioè l’aumento delle spese sotto il tasso di inflazione entro il 2020) l’Italia “pareggerebbe i conti pubblici”. Si tratterebbe di uno sforzo sopportabile e necessario, dal momento che la crescita si avvicina a un punto e mezzo percentuale e perché se si diffonderà nel mondo la recessione, la mancanza di  riduzione del nostro debito italiano ci porterà ad affrontare una salita impervia, che vedrà il debito pubblico alto e in salita in una economia che non cresce, azzoppata dagli oneri finanziari. La crisi delle Borse ci ammonisce che il bel tempo non dura all’infinito e quindi non bisogna perdere l’occasione. Quindi, le Borse tornano a perdere terreno, con il mercato dei Bond (i rendimenti sono saliti su nuovi massimi pluriennali in paesi virtuosi come Usa, Germania e Canada) e l’attuale fase di correzione dei mercati non viene ritenuta un crollo maggiore, dettato dal panico, bensì viene giudicata un ripiegamento salutare e fisiologico dalla maggior parte degli analisti e dei gestori. Questo non fa prevedere che le Borse sono pronte a tornare a crescere come è accaduto nel 2017 e a gennaio 2018. Oggi l’azionario si trova penalizzato proprio dal timore di un ritorno dell’inflazione e di un rialzo dei tassi e, paradossalmente sono le notizie economiche positive (report occupazionale USA) che fanno innervosire gli investitori, dopo la pubblicazione dei dati macro sussidi di disoccupazione Usa settimanali, che oggi risultano aver raggiunto i record minimi.

Nel frattempo, accade che mentre le banche centrali stanno attuando una strategia di rientro delle politiche espansive, la Banca d’Inghilterra non ha alzato i tassi di interesse, ma potrebbe assumere una posizione più aggressiva nel prossimo marzo e durante tutto l’anno, con una stretta che potrebbe imporre sino a quattro rialzi dei tassi.

Danilo Turco

La Data Economy investe Facebook con i suoi risvolti “nefasti”

Sulla copertina del mensile statunitense Wired, per questo mese è ritratto un mesto Zuckerberg, con il viso tumefatto e l’espressione dolorante, come se fosse stato preso a pugni. Ed in effetti è accaduto più o meno questo; è di qualche giorno fa la sentenza di un giudice tedesco che, di fatto, ha assestato un bel colpo all’attuale politica sui dati personali attuata da Facebook.

Dopo le richieste di un’associazione di consumatori (la Vzbv), il Tribunale ha stabilito non solo  che sarà possibile iscriversi al social network di Mark Zuckerberg anche senza alcun obbligo di fornire i propri dati personali autentici, ma, inoltre, che non sarà più considerata valida la clausola, contenuta nelle condizioni generali del social network, secondo cui l’azienda con sede a Menlo Park può cedere ad aziende terze i dati personali e l’immagine del profilo. La sentenza  berlinese ha dichiarato non valide 8 clausole delle condizioni generali e 5 impostazioni predefinite. Attualmente non è ancora passata in giudicato e il colosso del web ha già annunciato di voler ricorrere in appello contro questa decisione. Ma l’impressione è che a Berlino tiri una brutta aria per Facebook.

Facebook nasconde le preferenze che non favoriscono la tutela della privacy nel suo centro privato, senza dare informazione di questo durante la registrazione in modo sufficiente”, ha affermato il referente giuridico dell’Associazione dei consumatori, Heiko Duenkel. Un portavoce dell’azienda di Zuckerberg ha invece ribadito il massimo impegno a rispettare le regole, anche in virtù del nuovo dettame europeo in materia, in arrivo per la primavera: “stiamo lavorando per garantire che le nostre linee guida siano facili da capire e che i servizi offerti da Facebook siano conformi alle leggi” ha detto all’agenzia Reuters. Cosa che risulta un po’ difficile da credere, dati gli ultimi scandali riguardanti il commercio fuori controllo di dati sensibili sulla rete, o la bufera delle fake news, in cui sembra essere stato coinvolto anche il social network in questione e che gli ha procurato un richiamo pesantissimo dalla multinazionale Unilever, il secondo inserzionista a livello mondiale, la quale ha detto che smetterà di investire in piattaforme o ambienti che non proteggono i minori o creano divisioni nella società e promuovono rabbia e odio, prediligendo investimenti solo in piattaforme responsabili impegnate a creare un impatto positivo sulla società.

A quanto pare i 9 miliardi di dollari investiti da Unilever su Facebook, lo scorso anno, saranno solo un lontano ricordo.

Rossella Marchese

LINEAPELLE 2018: Londra e New York protagoniste

 

Appuntamento atteso quello di Linepelle Milano, la più importante rassegna fieristica per l’area pelle.

Un giro d’affari superiore ai 150 miliardi di dollari. Le preview internazionali sono quelle di Londra (23 gennaio) e New York (31 gennaio/1° febbraio). Oltre  1.200 gli espositori di Lineapelle Milano, in calendario dal 20 al 22 febbraio a Fieramilano Rho

LINEAPELLE è, come sottolineano gli organizzatori “il più importante network fieristico per la fornitura del fashion & luxury system (concerie, accessori e componenti, tessuti e sintetici)”.
Primo appuntamento quello tenuto il 23 gennaio, nella sede dell’Ham Yard Hotel di Londra, con LINEAPELLE London che costituisce un evento di forte attrattiva per il mercato britannico sia “per i brand (visitatori di riferimento della rassegna) e i suoi stilisti, sempre orientati alla ricerca dei materiali migliori e più adatti ad esprimere la loro tradizionali estrosità e capacità di rompere gli schemi”. 49 gli espositori. Nata a febbraio 2009, Lineapelle London, è una fiera di “nicchia”, che  a gennaio e luglio di ogni anno rappresenta un appuntamento di sicuro interesse per gli operatori del settore.
Il 31 gennaio e il 1° febbraio, presso il Metropolitan Pavilion, protagonista LINEAPELLE New York.  Questo rappresenta un “riferimento fieristico d’alta gamma per il mercato nordamericano”, 123 i selezionati espositori di fascia alta, numero superiore a quello presente l’anno precedente.

Con i due appuntamenti di Londra e New York vengono presentate in anteprima le collezioni ispirate a Emphaty, tema stilistico sviluppato dal Comitato Moda per la stagione estiva 2019 in attesa dell’evento clou per l’area pelle globale: LINEAPELLE94 in programma a Milano (Fieramilano Rho) dal 20 al 22 febbraio.

Alessandra Desideri

 

Mercato del lavoro e quarta rivoluzione industriale

La quarta rivoluzione industriale rischia di dividere il mercato del lavoro tra privilegiati con un lavoro adeguato e stipendio commisurato e  precari in percorsi di carriera discontinui e mansioni dequalificate con bassi salari.

Sono per questo giunte da più parti proposte per attenuare gli effetti negativi di questa rivoluzione tecnologica. Tassare l’innovazione o i robot (come proposto da Bill Gates) o trasformare il mondo fatto da persone che vivono di sussidi (reddito di cittadinanza), sarebbe meglio aiutare i lavoratori a rimanere tali (proposta di Obama). Da qui l’importanza di misure attive per la prevenzione o la compensazione del reddito come programmi di formazione permanente, prestiti a lungo termine a fini di riqualificazione professionale con programmi di assicurazione sui salari.

La U.S. Bureau of the Census Displaced Workers Survey mostra che nel 2013-15 i lavoratori Usa spiazzati da globalizzazione e tecnologia sono stati 3,2 milioni, più del 2 per cento degli occupati americani. Due terzi di questi hanno ritrovato un lavoro nel gennaio 2016  (53%) e guadagna più o meno lo stesso reddito di una volta, mentre il 47% si è trovato a guadagnare di meno. Se la disoccupazione è causata dalla tecnologia e riguarda lavoratori esperti, occorrono strumenti di compensazione di reddito che durino nel tempo, più dell’indennità di disoccupazione, operando come strumento di assicurazione/rassicurazione sociale.

Il governo italiano sembra prendere sul serio queste idee. Nella legge di bilancio 2018 ci sono due articoli che destinano risorse a piani di integrazione salariale per accompagnare ristrutturazioni aziendali e la ricollocazione di lavoratori presso altre aziende. Nell’articolo 19 si stanziano fino a 100 milioni di euro annui per prorogare l’intervento straordinario di integrazione salariale nel caso di processi di riorganizzazione aziendale particolarmente complessi per gli investimenti richiesti e per le scelte di reintegro occupazionale. Nell’articolo 20 (comma 4) il lavoratore che accetta l’offerta di un contratto di lavoro con un’altra impresa viene esentato dal pagamento dell’Irpef sul Tfr, oltre al diritto a ricevere un contributo mensile pari a metà del trattamento straordinario di integrazione salariale che gli sarebbe stato altrimenti corrisposto con l’articolo 19. Per il datore di lavoro è previsto il dimezzamento dei contributi previdenziali (fino a 4.030 euro su base annua). Sono i primi passi nella direzione giusta ed equa.

Danilo Turco

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