Oscar: Laura Pausini candidata con “Io Si”

Con il Golden Globe appena vinto, e la gioia ancora nel cuore, un altro ambito premio, forse il più importante, potrebbe portare Laura Pausini ad arrivare dove nessun altro cantante italiano fino ad ora è arrivato, gli Oscar. Dopo essere entrata nella shortlist dei prossimi Oscar, la cantante emiliana dovrà vedersela con le sole altre quattro canzoni finaliste: ‘Fight for you’ da ‘Judas and the blackmessiah’, ‘Hearmy voice’ da ‘The trial of the Chicago 7’, ‘Husavik’ da ‘Eurovision song contest: the story of fire saga’ e ‘Speaknow’ da ‘One night in Miami’. Se nella magica notte tra il 25 e 26 aprile, si aggiudicasse l’Oscar, sarebbe la prima volta per una canzone cantata in italiano. “Una canzone in italiano nominata agli Oscar!!!! Sono così onorata di rappresentare l’Italia in una delle cerimonie più importanti dell’industria dell’intrattenimento mondiale” ha twittato l’artista subito dopo l’annuncio “Sapere che sono nominata agli Oscar va oltre qualunque desiderio o aspettativa potessi sognare”. Una canzone che ha avuto un ruolo importantissimo per l’artista romagnola, che prima dell’estate aveva smesso di fare musica e persino di ascoltarla a causa del lockdown. Ha raccontato: “Sophia Loren mi ha detto: tu non devi cantare una canzone, devi essere la mia voce nell’ultima frase del film. Ha creduto in me, mi ha voluto e mi ha scelto, lei così attenta a ogni dettaglio, così puntigliosa. Un’intesa perfetta, e pensare che in questo anno non ci siamo mai incontrate di persona: non ce n’era bisogno e comunque non si può. Io avevo sempre detto no al cinema, spesso la canzone non c’entra niente col film. Forse me lo sentivo che un bel giorno sarebbe arrivata una cosa del genere, una storia piena di significato, un messaggio forte di inclusione. E poi, accidenti, io sarò anche Laura Pausini ma lei è la Loren”.

Nicola Massaro

L’atelier Vionnet

Nel 1912 Madeleine Vionnet aprì il suo primo atelier. Un atelier che raccontava una storia di emancipazione concreta, senza forzature rispetto a una psicologia femminile da secoli abituata al silenzio e alla riservatezza. Un atelier in cui Madeleine era la protagonista di una storia di donne, per valorizzare la cultura, la capacità creativa e la bellezza. Gli abiti che realizzava nel suo atelier erano dritti e scivolavano sul corpo senza la presenza del busto.  Nel 1914 Vionnet chiuse l’atelier, a causa dello scoppio della guerra e decise di partire per l’Italia soggiornando per un lungo periodo  a Roma.

Il taglio in sbieco

Finita la guerra, Vionnet, si presentò a Parigi con una nuova idea: l’abito in sbieco. Madeleine seguiva i cambiamenti affrontandoli da un altro punto di vista anche se si atteneva ugualmente alle nuove tendenze, ma così come Chanel, aveva un’idea sua e ricercava un modello vestimentario su cui elaborare l’abbigliamento della donna moderna: una donna che stava iniziando a scoprire la propria identità. Madeleine lavorava con il tessuto senza tagliarlo secondo le forme del corpo, ma montandolo in maniera tale che potesse prendere autonomamente le fattezze corporee. Realizzando cosi un modello composto di quattro quadrati di tessuto utilizzati in diagonale e sospesi alle spalle con uno spigolo per ciascuno. Quattro cuciture lo tenevano insieme e una cintura annodata in vita, ottenendo una specie di chitone greco con una caduta del tutto nuova che aderiva al corpo senza richiedere l’uso della plissettatura, ma che cadeva naturalmente grazie al peso della stoffa utilizzata in sbieco (il taglio in sbieco prevede l’uso della stoffa in obliquo). Nel 1800 era stato già inventato il taglio in sbieco ma solo per colletti e maniche. Vionnet, invece, diede vita a questo nuovo metodo anche per quanto riguarda l’abito.

L’uso della geometria per i modelli di Vionnet

La chiave segreta dei suoi modelli era la geometria. I suoi abiti, però, non venivano progettati attraverso il disegno, ma lavorando il tessuto su un manichino di legno alto ottanta centimetri su cui costruiva una specie di miniatura del modello finito. Vionnet partiva dal risultato finale che lei sola immaginava e lo svolgeva fino a ottenere il sistema di costruzione. Dopo la guerra, Vionnet, scelse collaboratori che venivano dal mondo dell’arte come Thayaht, un artista americano convinto che le forme geometriche fossero applicabili alla creazione artistica. Nel 1921 iniziarono l’utilizzo del ricamo. Le creazioni di Vionnet non intendevano essere trasposizioni o descrizioni decorative del corpo, ma forme dinamiche ricavate dalle misure e dalle proporzioni armoniche della figura umana. La ricerca sullo sbieco e la geometria si svolse in modo graduale. Nel 1922 Vionnet aprì un nuovo atelier in cui lavoravano circa mille persone. Ma Madeleine non aveva dimenticato la propria esperienza di lavoratrice che aveva dovuto percorrere tutti i gradini della professione di sarta prima di diventare quello che era, decise, dunque, di fare una serie di cambiamenti per agevolare le condizioni dei lavoratori:  in tutte le sartorie si cuciva su uno sgabello ma lei introdusse l’utilizzo delle sedie.  Introdusse, inoltre, i congedi di maternità, le ferie pagate e una cassa di soccorso per le malattie. Ancora, nell’edificio aveva assunto un’infermiera e un dentista e anche fatto costruire una mensa e una nursery. Verso il 1925 i suoi modelli si semplificarono: la linea più squadrata, ma soprattutto gli elementi di decoro si ridussero. Poco dopo su “La Gazette du Bon Ton” si leggeva: “Lei è al di sopra della moda. E non pensate con questo che sia fuori moda, ma piuttosto che annuncia la moda di domani”.

Negli Anni ‘30, nella società occidentale e nella moda, l’adolescenza lasciava il posto a una giovinezza più matura, e il lusso degli Anni ‘20  stava per essere sostituito da quello vistoso delle dive del cinema hollywoodiano. Ecco che, il metodo di Vionnet, diventò di moda: era il sistema più adatto per sottolineare il corpo senza costringerlo in forme precostituiste dal taglio. Vionnet continuava ad inventare nuove tecniche di decorazione: il merletto, velluto su merletto, strass su merletto di crine, sete lisce su velluto, lamé su tulle o mussolina.

La collezione primavera del 1939 fu sontuosa e tutte le clienti più importanti erano presenti e tutte vestite Vionnet. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale fu venduto tutto della maison Vionnet. Nel 1952 la celebre creatrice di moda donò all’Union francaise des arts costume tutto ciò che era rimasto del suo lavoro. Madeleine morì nel 1975 a novantanove anni. Madeleine aveva da sempre lottato per le sue idee e fortunatamente visse una vita ricca di soddisfazioni e soprattutto aveva realizzato i suoi sogni: essere una donna indipendente, autonoma ed essere riuscita a dare la possibilità alla donna di liberarsi dal busto e avere un pensiero personale.

Alessandra Federico

 

 

 

Madeleine Vionnet: la stilista inventrice del taglio in sbieco

Madeleine Vionnet nasce a Aubervillies, (paesino della provincia francese), nel 1876. Non essendo ancora il tempo in cui la carriera scolastica potesse essere presa in considerazione per una donna, nonostante i suoi risultati eccellenti a scuola, il padre decise di farle abbandonare gli studi e farle iniziare il lavoro di sarta. Nel 1893 trovò lavoro nella Maison Vincent a Parigi, dove diventò premiére in breve tempo. Poco dopo Madeleine sposò un giovane uomo di Aubervillies con il quale diede alla luce una bambina, ma all’età di soli due la anni la piccola morì in un tragico incidente e questo portò Madeleine, presa dal forte dolore, a partire per l’Inghilterra dove ricominciò da capo la sua vita a Londra e dove trovò subito lavoro nell’Atelier Kate Reily. Erano gli anni in cui in Inghilterra si stava svolgendo un intenso dibattito culturale che impegnava artisti e medici sul modo di vestire delle donne.

Nel 1890 la Healthy and Artistic Dress Union, che proponeva una riforma di tipo estetico, stava sostituendo la Rational Dress Society, che, dal 1881, aveva sostenuto con fervore la necessità di trasformare l’abbigliamento femminile per motivi igienici. Corpo e abito stavano diventando il centro di un dibattito che stava provocando in tutta Europa una grande trasformazione culturale che presto avrebbe posto le basi della danza moderna e di un nuovo stile di vita, da quando la nuova associazione si schierò a favore di un modello derivato dall’abito dell’antica Grecia e, contemporaneamente, Isadora Duncan iniziava a danzare a piedi nudi. Da lì a poco Vionnet tornò a Parigi per lavorare nella Maison Callot Soeurs come premiére di Madame Marie. Il compito di Madeleine era quello di realizzare i modelli in tela degli abiti che Madame Marie ideava. Nel 1907  Madeleine lasciò la Maison Callot per diventare modellista alla Maison Doucet dove realizzò abiti molto innovativi ispirati alla performance che la Duncan aveva presentato a Parigi l’anno precedente.

“Il corsetto è una cosa ortopedica, io stessa non l’ho mai sopportato e per qual motivo avrei dovuto infliggerli alle altre donne?” Difatti, i corsetti di Madeleine, non prevedevano l’uso del busto, ma richiedevano una trasformazione dell’ideale di bellezza femminile che non aveva ancora oltrepassato i confini delle avanguardie mediche, letterarie o artistiche. Ma purtroppo le nuove idee di Vionnet vennero represse. (segue)

Alessandra Federico

Grammy Award 2021: Eilish è disco dell’anno, H.E.R. miglior brano, Swift album, Beyoncé da guinness

Con il singolo ‘Everything I Wanted’, Billie Eilish ha vinto, il premio più importante ed ambito, il Grammy per il disco dell’anno, aggiudicandosi la vittoria per la seconda volta dopo il trionfo dell’anno scorso.  Il secondo premio più importante, ‘Album dell’anno’, è stato vinto dalla cantautrice Taylor Swift con ‘Folklore’.  Tuttavia a fare la storia della musica è stata, l’inarrivabile Beyoncé che, con un totale di 28 Grammy vinti da un’artista femminile, ha superato il primato finora detenuto alla violinista statunitense Alison Krauss di 27 premi.

All’edizione 2021 degli Oscar della musica, Queen Bey ha vinto il premio per il miglior video musicale con ‘Brown Skin Girl’, quello per ‘la migliore performance rap’ e ‘migliore canzone rap’ con ‘Savage’ insieme a Megan Thee Stallion e quello per la ‘migliore performance R&B’ con ‘Black Parade’. Per Brown Skin Girl il premio è andato anche alla figlia di Beyoncé e Jay-Z, Ivy Carter, nove anni, facendo di lei una delle più giovani vincitrici nella storia dei Grammy. Ed anche i Grammy 2021 sono stati segnati dalla pandemia, con performance miste, alcune dal vivo ela maggior parte già registrate.

In diretta da Los Angeles a condurre è stato il comico del The Daily Show, Trevor Noah. I premi più importanti hanno visto protagoniste quote rosa, cui si aggiunge Megan Thee Stallion premiata come miglior artista emergente, la prima rapper donna a vincere per la miglior canzone rap.  Ottimo risultato anche per Harry Styles che ha vinto il Grammy come ‘Best Pop Solo Performance’ con Watermelon Sugar. Per l’artista inglese, ex One Direction, si tratta della prima partecipazione nonché prima vittoria. Styles ha anche aperto la serata cantando lo stesso brano.  A Lady Gaga e Ariana Grande è andato il premio per il miglior duo pop. Tra gli uomini, menzione per James Taylor, che ha vinto il Grammy per il miglior album di pop tradizionale, con “American Standard”. Grande assente The Weeknd che fino a qualche ora prima ha continuato a scagliarsi contro i Grammys: prima ha affermato che sono corrotti poi ha annunciato che boicotterà tutte le future edizioni, dopo che il suo ultimo album “After Hours” e in singolo “Blinding Lights” sono stati completamente snobba.

Nicola Massaro

Otto marzo: giornata internazionale dei diritti della donna

Ogni 8 marzo, in Italia, a partire da 1922, (America 1909 – altri Paesi 1911) si ricordano le conquiste politiche, economiche e sociali della donna, ma soprattutto le discriminazioni e le violenze che ancora tutt’oggi è costretta a subire.

Nel 1907, durante il congresso della II Internazionale Socialista, in cui vennero trattate anche la questione femminile e la rivendicazione del voto alle donne, si votò  per far sì che i partiti socialisti lottassero per l’introduzione del suffragio universale delle donne, senza però allearsi con le femministe borghesi. Il risultato fu quello di aver ottenuto un ufficio informazione delle donne socialiste in cui Clara Zetkin divenne segretaria e diede vita alla rivista Die Gleichheit (l’uguaglianza) che divenne, da lì a poco, il punto di forza delle donne socialiste. Il 3 maggio del 1908 Corinne Brown organizzò una conferenza che prese il nome di “Woman’s Day”cui parteciparono tutte le donne e in cui si discusse dello sfruttamento della donna nell’ambito lavorativo, delle discriminazioni sessuali e del diritto di voto alle donne. In seguito il partito socialista americano decise di organizzare una manifestazione in favore del diritto di voto femminile dove le delegate socialiste americane proposero, alla seconda conferenza internazionale delle donne socialiste, di istituire una comune giornata dedicata alla rivendicazione dei diritti delle donne.  Alla fine dell’anno cominciò un grande sciopero di ventimila camiciaie.

Secondo alcune tesi, l’8 marzo del 1857, morirono in seguito ad un incendio alcune donne poiché vennero chiuse all’interno di una fabbrica perché il direttore non voleva dare loro il permesso di partecipare a uno sciopero. Ancora, secondo alcuni, l’8 marzo del 1911 a New York, in una fabbrica di camicie persero la vita 134 donne. L’8 marzo del 1917, è rimasto nella storia a indicare l’inizio della rivoluzione russa quando, per rivendicare la fine della guerra, le donne della capitale, organizzarono una grande manifestazione. Il crollo dello zarismo fu causato dalle numerose manifestazioni incoraggiate dalla reazione dei cosacchi che furono inizialmente inviati a reprimere la protesta. Così il 14 giugno del 1921 a Mosca ci fu la Seconda Conferenza Internazionale delle Donne Comuniste, in cui si decise che l’8 marzo sarebbe stata la “Giornata internazionale dell’operaia”. Per iniziativa del partito comunista d’Italia, la giornata internazionale della donna venne celebrata la prima volta nel 1922. Poco tempo dopo fu fondato il periodico quindicinale Compagna. Un articolo di Lenin, che venne riportato il 1° marzo del 1925, ricordava l’8 marzo come Giornata Internazionale della Donna.

La nascita dell’UDI e il significato del simbolo della mimosa per l’8 marzo

L’UDI (Unione Donne Italiane) prese l’iniziativa di celebrare l’8 marzo 1945 la prima giornata della donna in Italia. L’UDI nacque a Roma nel settembre del 1944 per iniziativa di donne appartenenti al PCI al PSI, al Partito d’Azione, alla Sinistra Cristiana e alla Democrazia del Lavoro. L’idea di utilizzare come simbolo la mimosa fu di Teresa Noce (partigiana politica antifascista italiana), di Rita Montagnana (politica italiana, esponente e parlamentare del partito comunista italiano) e di Teresa Mattei (partigiana, politica e pedagogista italiana) essendo, la mimosa, un fiore che fiorisce tra febbraio e marzo.

Dal 1946, con la fine della guerra, l’8 marzo fu celebrato in tutta l’Italia. Ma, purtroppo, per le donne agli inizi degli Anni ‘50, risultava ancora difficile distribuire liberamente le mimose o il mensile dell’UDI senza rischiare di compiere reati contro l’ordine pubblico. Anche la proposta di  legge delle senatrici Luisa Balboni, Giuseppina Palumbo e Giuliana Nenni nel 1959, per rendere la giornata della donna festa nazionale, non venne approvata. Solo quando, negli Anni ‘70, in Italia ci fu finalmente il movimento femminista, che la donna ottenne i suoi diritti: 8 marzo 1972, giornata della donna a Roma, manifestazione a piazza Campo de’ Fiori, decine di donne con cartelli manifestarono per chiedere la legalizzazione dell’aborto e la liberazione omosessuale. Da quel momento fu la donna ad avere il diritto di amministrare l’intero processo della maternità e non più lo stato e la chiesa.

Forse, a questa giornata che ancora tutt’oggi festeggiamo, oltre a regalare fasci di mimosa e cioccolatini e, non solo, organizzare feste nei grandi locali, si dovrebbe attribuire un valore  aggiunto per via delle circostanze storiche a essa legate, si potrebbe sostenere maggiormente e simbolicamente la donna mediante una giornata in sua memoria e al contempo a memoria dell’importanza dei suoi diritti e delle sue condizioni di lavoro.

Alessandra Federico

A cura meticolosa e sapiente di Federico Musardo CESARE PAVESE. Non ci capisco niente. Lettere dagli esordi

«Il mio carattere era timido e riserbato: macché, io l’ho saputo sforzare alla vita moderna e tutti i giorni ne imparo di più poiché vivo in mezzo ad essa, sempre teso in me stesso, gioendo della mia personalità che sente, comprende, raccoglie.».

Cosa ha offerto Cesare Pavese al novecento italiano?

È una domanda parecchio difficile che richiederebbe forse una conversazione a voce o un saggio a sé, purtroppo non so dare una risposta soddisfacente. A me Pavese prima di tutto ha ricordato che cosa significa lavorare sodo, credere in quello che si fa, impegnarsi giorno dopo giorno e pensare sempre. Un’etica del sacrificio, insomma, insieme a una dedizione viscerale – la passione da sola non basta, e la vocazione non esiste. Forse la parabola esistenziale di Pavese ci potrebbe insegnare anche questo: prima di votarsi ai libri, suoi e degli altri, da lettore, editore, correttore di bozze, traduttore, narratore e così via, Pavese era un giovane alla ricerca di qualcosa. Sembrerà un rigurgito romantico o peggio decadente, però credo che per Pavese la letteratura sia stata sul serio una ragione di vita. Una formica editoriale, dunque, con quell’intelligenza curiosa e testarda che ha solo chi affronta le ambiguità della vita e non teme la sofferenza. D’altro canto, e basta sfogliare Non ci capisco niente per rendersene conto, quando scrive lettere Pavese ha una creatività spettacolare, intellettuale oltre che linguistica, ironica, a tratti caustica. Sul piano della storia letteraria, come notava già Calvino, non ha avuto grandi epigoni. Calvino scrive su di lui parole speciali. Diciamo che il mito Pavese non ha niente a che fare con Pavese, come ogni mito. Molti scrittori che si sono senz’altro confrontati con la sua eredità, anche fosse e contrario, poi ne hanno preso le distanze – penso soprattutto a Pasolini. Non saprei dire quanto è cambiata la rappresentazione delle traiettorie spaziali, dei paesaggi, dei luoghi della narrativa italiana dopo Pavese. Oppure i dialoghi, le conversazioni dei personaggi. Tra chi ha assimilato la sua lezione, ricorderei almeno Arpino. Forse è curioso sottolineare che all’estero due scrittori molto diversi, Ernaux e Canetti, entrambi con implicazioni autobiografiche, hanno riflettuto su Pavese (e sul gesto del suicidio).

Quale criterio ha adottato per selezionare alcune tra le centinaia di lettere scritte da Cesare Pavese?

L’adolescente che lettera dopo lettera prova a varcare quella soglia che lo separa dalla maturità. All’inizio l’idea era di concentrarsi soltanto sul rapporto tra Pavese e i primi tentativi di scrittura, come peraltro suggerisce il sottotitolo del libro (Lettere dagli esordi), poi grazie a una buona intuizione degli editori abbiamo pensato di proporre più percorsi di lettura, sempre fondati sull’idea di scoperta (umana, esistenziale, letteraria, intellettuale, sentimentale). Spetta al lettore, quindi, scegliere come aprire il pacchetto.

Cesare Pavese e Mario Sturani, Tullio Pinelli, Augusto Monti, Alberto Carocci. Ebbene, quale idea della creazione artistica emerge già?

Immagino che siano stati rapporti unici, con valori condivisi da una parte e scontri dialettici dall’altra. Ma è una mia fantasia. Mi immagino appunto tanti discorsi sugli argomenti più disparati. Monti, di un’altra generazione rispetto a Pavese, era un po’ il perno, e alcuni dei protagonisti di questo pacchetto sono stati parte della confraternita di intellettuali che si riunivano intorno al vecchio professore. Sturani tra le altre cose sarebbe diventato un abile ceramista, Pinelli un uomo di teatro e di cinema, Carocci un libro vivente, un ideatore di riviste. C’è un’eterogeneità sorprendente, e la loro creatività si è espressa attraverso linguaggi, forme, codici anche molto diversi. Queste però sono banalizzazioni di circostanza, forse servirebbe un altro pacchetto per ciascuno di loro – o una piola per parlarne, con un bicchiere di grignolino – Pavese, stando a un necrologio, beveva solo vino bianco – e un piatto di plin al sugo d’arrosto.

Leggendo questa raccolta di lettere s’incontra un uomo esuberante, vitale, autoironico. Da cosa sarà fagocitato successivamente?

Già qualcuno l’abbiamo fatto pubblicando il pacchetto, non facciamo troppi pettegolezzi…

Pavese ed il suo tempo: quale ruolo svolge nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del dopoguerra?

Anche questo è un discorso da fare davanti a un piatto di plin. Un ruolo decisivo, comunque: come poeta (anche e non solo grazie a Whitman) e come narratore, supera la cosiddetta prosa d’arte ed elabora un linguaggio tutto suo. Da un punto di vista narratologico sperimenta molto più di quanto non sembri a una prima lettura (sia per la trama che per lo stile). Certe soluzioni oggi ci sembrano naturali, le abbiamo interiorizzate, allora però non lo erano affatto. In questo senso Paesi tuoi, il romanzo d’esordio, merita una cura che stranamente finora non c’è stata granché. Un romanzo bellissimo, necessario, importante, e tutti gli aggettivi assertivi che ti vengono in mente, che quando uscì (1941) scandalizzò molti, non senza alcune terribili stroncature – quelle dei critici fascisti furono grottesche. Niente pettegolezzi sul rapporto tra Pavese e la politica, anche perché bisognerebbe iniziare un discorso sul rapporto tra politica e cultura e sarebbe impossibile. Consiglio quindi Paesi tuoi, simile per certi versi a La malora di Fenoglio (Alba, 1º marzo 1922 – Torino, 18 febbraio 1963), altro grande piemontese. Ci risentiamo tra qualche tempo, che so, nel 2033?

Cesare Pavese studia a Torino dove si laurea con una tesi su Walter Withman. Sin dagli anni Venti legge i maggiori autori americani e inizia a tradurre le loro opere. Fra il 1935 e il 1936, per i suoi rapporti con i militanti del gruppo Giustizia e Libertà viene arrestato, processato e inviato al confino a Brancaleone Calabro. Tornato a Torino inizia a collaborare con la casa editrice Einaudi nel 1934 per la realizzazione della rivista «La Cultura», che dirige a partire dal terzo numero. Nel 1945-46 dirige la sede romana della medesima casa editrice. Dopo la Liberazione, si iscrive al partito Comunista. Seguono anni di lavoro molto intenso, in cui pubblica le sue opere di maggior successo. Viene trovato morto, per una dose eccessiva di sonnifero, il 27 agosto 1950. Tra le sue opere ricordiamo: Paesi tuoiFeria d’agostoIl compagnoDialoghi con LeucòLa casa in collinaLa luna e i falòIl mestiere di vivereLa bella estateTra donne soleVita attraverso le lettere.

Giuseppina Capone

Hong Kong. Racconto di una città sospesa

Hong Kong, città dal preponderante skyline e dal profondo porto naturale, a sud del Tropico del Cancro.

Central District, Western District, Wan Chai i suoi quartieri. Barche ed oceano all’orizzonte. Grattacieli specchiati. Incredibile suggestione, vertiginosa malìa, fascino insinuante.

Gli occhi di Marco Lupis scrutano, privi di filtri convenzionali e banalizzanti, luoghi e personaggi, catturando il magnetismo di una città stato mancata.

Ex colonia britannica passata alla Cina tra contrasti e proteste di piazza; divenuta con palese evidenza multietnica. Lì il tempo cambia, bruscamente, come le stagioni ed venti che la battono. Disuguaglianza economica e dinamismo commerciale internazionale; paradiso fiscale e perturbante indigenza. Metropoli e porto profumato. Industrie ed odorosi fumi d’incenso. Bassa natalità, invecchiamento demografico e moltitudine migrante che bussa alle porte. Bocche cantonesi, dita mandarine ma anche capillarmente suoni inglesi da ponente.

Avidamente curioso, l’autore abita la città sospesa: Cinesi, Filippini, Indonesiani, Thai, Giapponesi e visi occidentali intrecciati; agnosticismo, ateismo, chiese anglicane e cattoliche fuse con templi buddisti.

Alto livello di libertà civili e mano pesante con i manifestanti.

Siamo proprio lì, ne respiriamo l’atmosfera contraddittoria, antitetica, discordante, antinomica; ne gustiamo l’antichità, catapultati nel futuro più avveniristico. Immaginiamo, vestiti di magia.

Ci scopriamo inquieti, turbati, molestati nelle certezze codificate. Siamo su un binario in corsa e con lo sguardo perso in uno spazio verticale.

Piglio da fotoreporter, afflato giornalistico, narrazione da scrittore consentono al lettore di percepirsi emotivamente coinvolto dalle righe pittoriche rapide ed incisive; indiscretamente immischiato in un’analisi lucidissima del rapporto complesso e dubbio con la madrepatria cinese e dello scontro di due visioni dissimili di capitalismo.

Marco Lupis ci trasporta con passione implacabile in un mondo di mezzo, ci traina senza fatica su un crocevia tra mondi e culture differenti, ci incoraggia ad attraversare con vibrante emozione l’immobilismo culturale.

Marco Lupis Macedonio Palermo di Santa Margherita (Roma, 1960), giornalista, fotoreporter e scrittore, è stato il corrispondente de La Repubblica da Hong Kong. Nato a Roma nel 1960, ha lavorato come corrispondente e inviato speciale in tutto il mondo, in particolare in America Latina e in Estremo Oriente, per le maggiori testate giornalistiche italiane (Panorama, Il Tempo, Il Corriere della Sera, L’Espresso e La Repubblica) e per la RAI (Mixer, Format, TG2 e TG3). Lavorando spesso in zona di guerra, è stato fra i pochi giornalisti a seguire i massacri seguiti alla dichiarazione di indipendenza a Timor Est, gli scontri sanguinosi tra cristiani e islamici nelle Molucche, la strage di Bali e l’epidemia di SARS in Cina. Con le sue corrispondenze ha coperto negli ultimi 25 anni l’intera area Asia-Pacifico, spingendosi fino alle isole Hawaii e all’Antartide. Ha intervistato molti protagonisti della politica mondiale e specialmente asiatica, come la premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi e la premier pakistana Benazir Bhutto, denunciando spesso nei suoi articoli le violazioni dei diritti umani. I suoi reportage sono stati pubblicati anche da quotidiani spagnoli, argentini e americani. Oggi scrive sull’Huffington Post. Quando non è in viaggio in Oriente, vive nella Casa di famiglia in Calabria, con Silvia, Caterina, Alessandro, otto gatti, diverse migliaia di libri, alcuni antenati e molti trenini. “I cannibali di Mao” ha vinto l’edizione 2019 del Premio Internazionale di letteratura “Città di Como” come “Miglior libro di giornalismo di viaggio dell’anno” ed è stato finalista all’edizione 2020 del Premio Estense. “Il Male Inutile” è stato finalista all’edizione 2018 del Premio Cerruglio Ha pubblicato: “Interviste del Scolo Breve” (Del Drago, 2017) tradotto in otto lingue; “Il male Inutile” (Rubbettino 2018) tradotto in Spagna: “El Mal Inútil” (Dauro, 2020);”I Cannibali di Mao” (Rubbettino, 2019) e Hong Kong – Racconto di una città sospesa (il Mulino, 2021).

Giuseppina Capone

Paul Poiret:  l’inventore del kimono

Paul Poiret nasce a Parigi il 20 aprile del 1879. Paul era figlio di commerciante di tessuti e aveva manifestato, sin da bambino, la sua passione per la moda e per il disegno. Suo padre, che non credeva minimamente che l’arte avrebbe potuto dargli certezze economiche, una volta terminati gli studi, gli trovò lavoro presso la fabbrica di un suo amico che produceva ombrelli. Questo tipo di lavoro, per Paul, era molto frustrante e noioso: fuggivo con l’immaginazione progettando abiti per una bambola e disegnando Toilettes di fantasia”.

Il giovane aspirante stilista di moda voleva a tutti i costi inseguire il suo più grande sogno e decise, così, di recarsi da Madame Chéruit (che dirigeva la maison Raudnitz) per mostrarle i suoi figurini di moda. Inaspettatamente ella fu compiaciuta dei lavori di Paul e non solo li acquistò ma lo invogliò a continuare. Questa fu una piccola certezza per Poiret che gli diede la grinta necessaria per non arrendersi nel perseguire  i suoi obiettivi. Da lì a poco, infatti, iniziò a visitare le case di moda più importanti di Parigi per vendere i suoi figurini  e nel 1898 Doucet (famoso stilista di moda di quel tempo) gli propose di lavorare in esclusiva per lui. Doucet,  rimase folgorato dalle creazioni di Paul tanto da lasciargli lo spazio per i suoi esperimenti, tra cui una mantellina rossa abbottonata sulla schiena di cui si realizzarono 400 modelli. In breve tempo,  Doucet, essendo sempre più entusiasta del lavoro si Poiret, gli affidò la realizzazione di costumi di scena per alcune attrici clienti della Maison. Nel 1900 trovò lavoro da Worth (primo stilista del 1800) poiché, dopo la sua morte, il suo primogenito notò che la maggior parte della clientela non era più nel fior fior della gioventù e di conseguenza costringeva la maison a non aggiornarsi con le nuove tendenze di moda e difatti a non riusciva ad avere nuova clientela. Il figlio di Worth diede a Paul un grande incarico: rinnovare l’immagine della maison con creazioni innovative per i più giovani. Capi semplici e pratici sembravano essere molto richiesti e Paul tentò con un tailleur dalla linea molto semplice. Purtroppo, però, non ebbe gran successo poiché la clientela, al contrario di ciò che sembrava, era troppo affezionata al gusto vistoso e ai grandi ricami per accettare le novità.  Il rapporto si concluse quindi molto presto lasciando come unica testimonianza una toilette per la contessa Greffulhe.

La prima maison di Poiret

“Quando veniva l’autunno, tornavo dalla foresta di Fontsinebleau con una carrozza carica di foglie dorate, bruciate dal sole, e in vetrina le mescolavo con panni e velluti degli stessi colori. Quando nevicava, evocavo tutta la magia dell’inverno con stoffe di lana bianche, tulle e mussole combinate con rami secchi, e vestivo la realtà del momento intraprendendola in un modo che incantava i passanti”.

Paul Poiret aprì la sua prima maison nel 1903: due piccoli saloni e una vetrina sulla strada. Usufruì della vetrina per esporre le sue nuove meravigliose creazioni che ben presto attirarono tutte le donne tanto da farlo diventare uno dei luoghi canonici delle passeggiate parigine. L’intento di Paul era di andare a passo con le esigenze del momento liberando la donna dal corsetto che costringeva il corpo femminile ad assumere la linea a S, e sostituendolo con una cintura rigida e steccata alla quale era cucita la gonna. Continuò  a realizzare, appunto, abiti pratici e comodi come il mantello-kimono che divenne il prototipo di tutta una serie di creazioni successive. Lo chiamò Confucius e ogni donna ne acquistava almeno uno.

“Come tutte le grandi rivoluzioni, anche quella era stata fatta nel nome della libertà. Fu ancora nel nome della libertà che raccomandai l’abbandono del corsetto e l’adozione del reggiseno che da allora ha fatto fortuna”.
Da quel momento in poi, Poiret, cominciò a lavorare ad una nuova collezione basandosi solo sull’idea di donna moderna. Si trasferì, nel 1910, all’Hotel Partculier, in cui si divertiva ad organizzare spesso grandi feste. Poco tempo dopo creò il primo pantalone femminile (Jupe-coulotte) da indossare sotto la gonna. Due mesi dopo, accompagnato dalle sue modelle, con indosso capi firmati Poiret, iniziarono per Paul lunghi viaggi in giro per l’Europa, che furono per lui fonte di grande ispirazione per le nuove  creazioni. Al ritorno da questi meravigliosi e interessanti viaggi, Poiret aprì un nuovo atelier all’interno della quale i giovani lavoratori producevano profumi, mascara, e tanti altri cosmetici.

Nel 1914 organizzò una manifestazione per rappresentare il mercato americano e parigino con lo scopo di far collaborare la moda parigina e quella americana.  New York: proposta da parte di Paul per una nuova linea che consisteva la realizzazione di gonne corte e ampie con criolina. Finita la guerra, Paul, tornò a Parigi ma una tragica notizia lo scosse terribilmente: la morte dei suoi due figli e la decisione di sua moglie di voler la separazione. Afflitto dal forte dolore per la perdita di persone a lui care, decise di tornare a viaggiare ma questa volta verso il Marocco. Altra meta di grande ispirazione il Marocco per Paul, tornò, infatti, con un bagaglio ricco di nuove idee che diede, così, alle sue nuove collezioni un tocco di eleganza in più grazie anche all’utilizzo di nuovo materiale lussuoso come stoffe pregiate e ricamate. Sfortunatamente, nemmeno i suoi viaggi e le sue nuove collezioni gli furono d’aiuto in quel periodo di grande crisi e preso dalla disperazione decise di organizzare un’ennesima festa in cui appiccò un incendio per salvare le persone e portarle in salvo nel suo atelier. Nemmeno nei panni da supereroe riuscì a salvar la sua fama da stilista. Ma nel 1930 disse: “Sono solo, anche se mi rimangono alcuni nipoti e amici che credo mi vogliano bene. Sono tornano con passione alla pittura che ho sempre amato e praticato e nulla mi sembra più bello di esprimersi con i colori. Mi hanno proposto di rimettermi in attività, potrebbe succedere. Mi sento molti abiti sotto la pelle”.

Alessandra Federico

Scuola online: le difficoltà dei bambini a seguire lezioni attraverso lo schermo

“Non riuscivo a seguire la lezione online. Volevo tanto stare con i miei amici. Avevo tanta voglia di ridere con Luca durante la lezione di inglese perché la maestra è sorda. Volevo scambiare le figurine con i miei compagni di classe nell’ora della merenda. Finalmente siamo tornati  a scuola e spero che tutto questo duri per sempre”

Vivere questo particolare  periodo in cui il contatto umano e la vita sociale sono momentaneamente sospesi fa quasi dimenticare come ci si sentiva quando si poteva uscire liberamente di casa o abbracciare un amico. Purtroppo chi ne sta subendo maggiormente le conseguenze negative sono proprio i bambini: per i più piccoli è fondamentale stare insieme ai loro coetanei. È importante il contatto umano, anche darsi la mano durante la fila per entrare in classe o un abbraccio al proprio compagno di banco. Ancora, è importante guardare negli occhi e sentire la presenza fisica di un insegnante che ti spiega la lezione del giorno. Purtroppo, però, il contatto fisico tra i bambini era, da tempo, già ridimensionato  a causa del troppo utilizzo di videogiochi, social network e tutto ciò che possa ipnotizzare un bambino avanti ad uno schermo. Limitare loro anche l’opportunità di poter studiare insieme ai loro coetanei o praticare sport è stato veramente deleterio.

La soluzione potrebbe essere quella di far sì che una volta tornati alla normalità questi bambini possano trascorrere più tempo possibile in compagnia dei loro coetanei e il più possibile all’aria aperta senza ipnotizzarsi dinanzi ad uno schermo perché è importante che a quella età possano sentirsi liberi di dare sfogo alla loro fantasia, inventando e cambiando continuamente gioco purché sia frutto della loro inventiva, perché sviluppare la creatività nell’età infantile è fondamentale per far sì che in futuro possano riuscire a reinventarsi in ogni situazione.

Mattia è un bambino napoletano di 8 anni dotato di grande intelligenza ma che ha trovato purtroppo   difficoltà nel concentrarsi durante la lezione online. Ecco una breve intervista  a Cinzia (madre di Mattia) in cui ci racconta quale soluzione ha trovato per il suo bambino.

Cinzia, hai da subito trovato difficoltà Mattia nel seguire le lezioni online?

I bambini hanno bisogno di nuovi stimoli ogni giorno e questi li trovano soprattutto nel contatto umano. Mio figlio è un bambino molto volenteroso, andava bene a scuola e ha sempre praticato sport. Da quando ci sono state queste lezioni online non solo si è un po’ chiuso in se stesso perché non può vedere da mesi il suo migliore amico Paolo, ma ha trovato tanta difficoltà nel concentrarsi e nel seguire gli insegnanti.  Inizialmente sembrava che riuscisse a studiare ma col tempo notavo che si distraeva e ho deciso allora di cercare un aiuto, perché purtroppo con il mio lavoro posso dedicargli poco tempo per i compiti.

Che tipo di aiuto hai trovato?

Ho trovato un insegnante privato che segue Mattia tre volte la settimana per le lezioni extrascolastiche. Io credo  che Mattia abbia bisogno di qualcuno che gli parli faccia a faccia perché è un bambino che sente molto la necessità di avere un approccio fisico: gli ho sempre spiegato e dimostrato che il contatto fisico è importante quindi lui è abituato soprattutto a dare abbracci e baci, anche ai suoi maestri. È abituato a guardare negli occhi qualcuno quando gli parla, ma questo credo sia lo stesso per ogni bambino del mondo ma c’è chi ha vissuto questa situazione in modo diverso e riesce ugualmente a seguire le lezioni. Forse sono quei bambini che sono abituati a trascorrere molte ore avanti ad uno schermo.

 Crede sia dovuto a questo?

Ho sempre vietato a Mattia di trascorrere troppo tempo avanti al pc o alla play station,  al contrario, l’ho sempre invogliato ad impiegare il suo tempo libero, dopo lo studio, con amici e fare sport. Perché vedere mio figlio rimbecillirsi con un videogioco ore ed ore, ahimè, è la cosa che più mi spaventa. Ed è per questo che lui trova difficoltà a seguire lezioni online.  Parecchi suoi compagni di classe, invece, passano molto tempo alla play station o altri giochi, per cui sono loro stessi che dicono che preferiscono seguire le lezioni online anziché in presenza fisica, proprio perché affermano di essere diventata per loro un’abitudine vivere con uno schermo davanti agli occhi. Per quanto mi riguarda questo è tutto molto triste.

Come crede che farà con Mattia una volta finito questo periodo?

Quando questo periodo sarà terminato cercherò di far trascorrere a Mattia più tempo possibile con altri bambini e gli farò fare qualsiasi sport lui abbia voglia di praticare. Credo sia importante per il suo futuro sentirsi libero dalla schiavitù di uno schermo. Voglio che mio figlio sviluppi il cervello e la sua intelligenza più possibile adesso che esiste ogni mezzo per far si che i giovani di oggi abbiano più limiti, c’è bisogno che i genitori spronino  loro a capire qual è la strada giusta per il loro futuro e da cosa devono allontanarsi. Perché voglio che lui non si blocchi mai davanti ad un ostacolo e questo potrei ottenerlo se gli ripeto costantemente che studiare è fondamentale, leggere, inventare, creare, avere inventiva nei giochi senza playstation e cose virtuali che ti rubano la fantasia. Bisogna spronare i bambini ad essere creativi perché nel futuro non ci siano menti chiuse e zucche vuote ma nuove teste fantasiose e ingegnose.

Alessandra Federico

Anni ‘70: moda hippy, libertà e una nuova vita per la donna italiana

Il futuro apparteneva a loro: i giovani idealisti degli Anni ‘60 aspettavano impazienti il decennio successivo, decennio ricco di mutazioni sociali e di rivoluzioni. Sono stati anni che hanno totalmente cambiato il destino di un’intera generazione. Li ricordiamo, nonostante siano stati attraversati dalla generazione dell’ideologia e dal terrorismo, gli anni della più totale libertà, soprattutto per la donna, e per le rivendicazioni dei diritti di quest’ultime oramai non più considerate fenomeni di minoranza poiché aspiravano all’autorealizzazione. È stato un decennio che ha cambiato totalmente la società – come ad esempio l’avvenimento del 18 settembre 1970 quando in Italia ci fu un profondo cambiamento culturale: entrava in vigore la legge sul divorzio. Gli Anni ‘70 sono stati anni ricchi di nuovi avvenimenti e di mutamenti che hanno cambiato per sempre la visione del mondo da quel momento in avanti. Un decennio di grandi rivoluzioni tra le scuole occupate, i cortei delle donne, la nascita del primo movimento di liberazione omosessuale italiano, le manifestazioni, la scoperta della pillola anticoncezionale, delle prime esperienze riguardo all’assunzione di sostanze stupefacenti. In quei meravigliosi ma frenetici e folli Anni ‘70 c’era il coraggio di lottare e la voglia di vivere la vita. “Cambiare la società e farla diventare più giusta”, questo era l’obiettivo e i giovani che volevano ottenerlo erano in tanti e tutti volenterosi di vivere in un mondo migliore con più diritti e uguaglianze.
Anche la moda cambia
Tuttavia, di pari passo, non poteva non subire un grande mutamento anche l’abbigliamento. La moda degli Anni ‘70 assunse la forma di un grande movimento, quel movimento che stava per cambiare e rivoluzionare, appunto, anche la storia della moda. La moda si divideva secondo le diverse idee politiche: giacca di pelle, Ray Ban e la polo Lacoste erano prerogativa dei giovani di destra, invece, chi indossava l’eskimo verde abbinato ai jeans, maglioni larghi e borse a tracolla in cuoio o in tela erano quelli di sinistra. Gli hippy indossavano anche camicie larghe e lunghe tuniche trasparenti, colori sgargianti, le texture prendevano la forma di grandi fiori colorati e non solo, anche tra i lunghissimi capelli aggrovigliati sfoggiavano nastri e fermacapelli a forma di fiori e questo look era proprio il simbolo della libertà. Non a caso, la parola chiave era anti-fashion, voleva significare che tutto era permesso di indossare dai vestiti di cotone a basso costo all’Haute Couture, perché ciò che contava era non avere un look noioso e pare proprio che ci siano riuscita alla grande.
In quegli anni Elio Fiorucci fu il primo in Italia a captare questo tipo di moda e da lì a poco creò a Milano un grande emporio bazar che diventò punto d’incontro dei giovani, vi si poteva, oltretutto trovare ciò che più si desiderava per essere al passo con la bizzarra moda di quel tempo: zatteroni altissimi, jeans a zampa di elefante, camicie a fiori, e gadget colorati di tutte le forme e dimensioni, tute colorate elastiche aderenti adatte alla disco-dance. Non solo, giacche di pelle e Ray Ban per la clientela che seguiva l’altro stile di moda di quel tempo. Ma Yves Saint Laurent era, in quel periodo, lo stilista di moda più intraprendente e geniale. Le sue creazioni erano innovative e fantasiose poiché dettate dalla sua passione per l’arte. Yves credeva che l’ispirazione maggiore avrebbe potuto averla soprattutto grazie alla strada: aveva capito che avrebbe dovuto frugare, rovistare nel passato per rivisitare l’abbigliamento femminile creando così uno stile unico con il blazer, lo smoking, il trench, il tailleur-pantalone, il giubbotto di pelle che hanno immediatamente cambiato la visione riguardo alla donna. Finalmente lui e lei avevano lo stesso aspetto e rispetto in un’epoca ricca di positività, libertà e voglia di cambiare il mondo.
Alessandra Federico

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