Adozione: l’amore incondizionato tra genitori e figli adottivi

L’amore tra genitori e figli è sempre incondizionato, anche se non hanno lo stesso sangue. Ma nella maggior parte delle volte, non appena l’adottato viene messo al corrente del fatto di non essere il figlio di coloro che lo hanno cresciuto può entrare in una profonda confusione e in conflitto con i genitori adottivi e con sé stesso. Potrebbe facilmente mettersi alla ricerca dei genitori biologici: la voglia di conoscere chi ti ha messo al mondo diventa più forte di qualsiasi altra cosa. Potrebbe, inoltre, provare un senso di disorientamento e, in alcuni casi, nutrire un sentimento di odio nei confronti dei genitori adottivi pensando che lo abbiano strappato via da quelli naturali.

Al contrario, e con il passare del tempo e dopo aver conosciuto la madre e il padre biologici, chi  è adottato potrebbe provare dentro di sé  un sentimento di rancore nei loro confronti perché convinto che l’abbiano abbandonato. Non è semplice, per chi lo vive, rimanere impassibili di fronte a una delusione tale: scoprire che chi ti ha dato tanto amore da sempre non siano i tuoi veri genitori  può provocare traumi non poco dannosi per una serena crescita. In questi casi è bene rivolgersi ad uno psicanalista per affrontare al meglio la questione evitando problemi futuri.

Federico, 25 anni, napoletano racconta la sua storia.

Federico, come hai reagito quando hai saputo che sei stato adottato?

Ho sempre sospettato che non fossi il loro vero figlio, o meglio, che non fossi uscito dalla pancia di Marta. Marta è la mia madre adottiva. Tra noi c’è un amore incondizionato, che va oltre ogni legame di sangue ma quando ho scoperto di essere stato adottato non ho voluto sentire ragioni e ho voluto a tutti i costi cercare i miei genitori biologici e sapere da loro il motivo per cui non hanno voluto  tenermi.  Mio padre è morto quando io avevo 4 anni e mia madre è finita in un centro di recupero per tossicodipendenti. Il rapporto con i miei genitori adottivi è da sempre stato magnifico ma qualcosa in me era cambiato quando mi hanno detto che a 4 mesi sono stato affidato a loro. Tutto a un tratto il mio modo di vedere le cose è cambiato, di vedere loro, ero spaventato, ero scosso come se un pezzo della mia vita mi fosse stato strappato violentemente.

Qual è stata la tua reazione una volta conosciuta la tua madre biologica?

Ho pianto, tanto. Non riuscivo a capire il perché non mi avesse voluto. Poi, quando ha iniziato a raccontarmi la sua storia non potevo credere alle mie orecchie: all’età di ventidue anni ha partorito me, faceva abuso di stupefacenti e alcool dall’età di sedici anni.

“È un miracolo che tu sia cresciuto sano e in salute, figlio mio” ripeteva in continuazione avendo lo sguardo semiperso nel vuoto, come se qualcosa la ipnotizzasse. Suo padre, nonché mio nonno, non voleva che lei avesse un figlio soprattutto con Daniele, mio padre, anche lui tossicodipendente. Avrebbe allora voluto che lei avesse abortito. Sono andati a vivere da soli i miei genitori e una volta che sono venuto al mondo, i miei nonni hanno chiamato l’assistente sociale e immediatamente sono stato strappato via da loro e dato in adozione.

Hai voluto più vederla?

Sì, decisamente. Lei avrebbe voluto smettere di assumere quelle sostanze tossiche e occuparsi di me ma non glielo hanno permesso. Una volta che stava bene voleva cercarmi ma i miei genitori adottivi glielo hanno impedito in tutti i modi. Allora, una volta raggiunto la maggiore età, hanno deciso di dirmi tutto e ho voluto cercarli. Ho anche scoperto che ho una sorella poco più piccola di me: Diana, si chiama così ma non l’ho ancora incontrata. Dice mia madre (quella biologica) che quando ha partorito hanno fatto con mia sorella la stessa cosa.  Marta dice che è stata data in affidamento a una famiglia del Veneto. Mi voglio informare al più presto per andare a trovarla e abbracciarla.

Adesso come vivi il tuo rapporto con Marta e Marcello?

Adesso posso dire di aver trovato la mia pace interiore. Fino a quando non fossi stato al corrente di come fossero andate realmente le cose e del perché io fossi stato abbandonato non sarei riuscito a mettermi il cuore in pace. Anche se  Inizialmente ho provato una sensazione di odio nei confronti di

Marta e Marcello perché in quel momento per me è stato come se mi avessero portato via con la forza dai miei veri genitori, anche se so che potrebbe essere un pensiero superficiale perché  dal momento in cui vieni adottato è chiaro che i tuoi genitori biologici ti hanno dato in affidamento a qualcun altro, ma purtroppo fino a quando una circostanza non la vivi, non potrai mai dire come la affronteresti. Io mi sono sentito abbastanza disorientato e non sapevo davvero come comportarmi e come reagire di fronte a tutto ciò che mi stava accadendo. Ho deciso quindi di andare in terapia da uno psicanalista per vederci chiaro e riuscire a vivere la situazione con un po’ più di razionalità. Col passare del tempo ho capito che non  si possono ritenere genitori solo coloro che ti hanno messo al mondo, ma chi ti ha da sempre accolto tra le proprie braccia e amato incondizionatamente. Perché si, Marta e Marcello sono da sempre mia madre e mio padre e il mio amore per loro non muterà mai. Allo stesso tempo, però, ho anche capito che non posso e non voglio provare odio né rancore nei confronti dei miei genitori naturali poiché hanno vissuto una situazione particolare quando hanno dato alla luce sia me che mia sorella e non avrebbero potuto tenerci. Vorrei solo darmi una spiegazione a tutto ciò che è accaduto. Ad oggi, vivo ancora con i miei genitori adottivi ma spesso e appena posso trascorso del tempo con Maria, la mia vera madre. Stiamo recuperando tutto il tempo perso.

Alessandra Federico

La Municipalità 2 e il progetto Marinella e gli Aquiloni

Un progetto che sta riscuotendo grande interesse e partecipazione per la rilevanza dell’azione portata avanti in favore di persone in affidamento penale esterno. Grande la sinergia messa in atto tra enti pubblici e privati, associazioni, volontari, tutti impegnati a che questa seconda esperienza nella Municipalità 2 del progetto “Marinella e gli Aquiloni”, finanziato dall’UIEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) di Napoli possa diventare un’esperienza pilota per la realizzazione di molte altre iniziative. Da 4 affidati del 2019 si è passati a ben 12 in questo complesso 2020.

Ne parliamo con Francesco Chirico, presidente della Municipalità 2.

Presidente Chirico, la Municipalità 2 è uno dei partner istituzionali della seconda edizione del progetto Marinella e gli Aquiloni, in che modo si esplica questa partnership?

L’iniziativa ci è stata proposta dalla dottoressa Forte dell’UIEPE di Napoli e dai dirigenti del Ministero, ci ha accomunati la ferma volontà di coinvolgere il territorio creando così una rete persone, ognuna capace di mettere a disposizione le proprie competenze e le proprie esperienze.

Come è nato l’interesse per questa iniziativa?

Ciò che mi ha convinto è stato il percorso ipotizzato che prevedeva il coinvolgimento del territorio nell’esperienza di lavoro e collaborazione per le persone in esecuzione penale esterna. SI è immaginato che questi ultimi fossero protagonisti per fare del bene nel quartiere.

La grande partecipazione di enti pubblici, istituzioni e enti del terzo settore costituisce un momento fondamentale per il progetto, in che modo avviene la collaborazione?

Se non ci fosse stata la numerosa e attiva partecipazione di tante realtà associative ed istituzionali della Municipalità, sono convinto che il progetto, per quanto valido, non avrebbe avuto la stessa forza e lo stesso significato. La compartecipazione è fondamentale e numerosi sono stati gli incontri, sempre valide occasioni di confronto utili a migliorare le azioni del progetto.

Ha più volte  incontrato le persone in esecuzione penale esterna che partecipano al progetto e le ha viste in piena attività, cosa l’ha colpita di più?

Ho incontrato in più occasione i ragazzi, tra loro ho ritrovato anche un vecchio amico di infanzia, ed è stato molto significato confrontarmi con loro, cercare di capire quanto nelle possibilità, la loro storia personale, ma uno degli aspetti che ho colto immediatamente è la loro consapevolezza di aver commesso errori nella vita, dunque del dover pagare giustamente il proprio debito con la giustizia, ma questo sentimento è chiaramente accompagnato dalla consapevolezza che esiste una strada diversa dal crimine, fatta di impegno e di soddisfazioni valide. Spero sinceramente che questo progetto possa proseguire, che possa dare una nuova occasione a questi ragazzi, che li aiuti a trovare lavoro: è giusto che qualsiasi persona, dopo che ha pagato i propri errori, torni ad essere una persona libera e senza il peso di un pregiudizio.

In che modo questa esperienza rappresenta un momento significativo per le azioni poste in campo dalla Municipalità 2?

Per la Municipalità questo è un percorso straordinario sotto molti punti di vista, esso non lo è solo per i validissimi interventi realizzati, lo è soprattutto per il bagaglio umano che mette a disposizione delle istituzioni e della politica, pone  gli amministratori locali di fronte alla consapevolezza che creare sinergie sul territorio può portare a grandi risultati, crea consapevolezza nella politica che le visite ai carcerati sono utili solo se finalizzate alla realizzazione di progetti come questi che intendono rimettere al centro l’uomo. Personalmente sono convinto che nessuno nasca cattivo, quanto piuttosto è la vita che ci pone sempre dinanzi ad una scelta, il solo fatto di aver scelto male non significa essere condannati per sempre. Spetta però  alla politica fare in modo che l’essere umano sia messo nelle condizioni di poter scegliere, di dare un’alternativa al crimine e l’unica via è quella di creare occupazione.

Bianca Desideri

Senza arte né parte. Come evitare l’arte contemporanea e vivere felici

Dalmazio Frau è pittore, illustratore, scrittore e conferenziere. Con lui parliamo di arte e cultura.

Sembra che l’Italia abbia assunto modi e maniere di un irresponsabile anfitrione di numerosi obbrobri offerti come artistici ed urbanistici, abdicando al suo ruolo di Maestra del bello e dimenticando di perseguire il principio dell’Alto. Può indicarci qualche esempio di abiezione?

Gli esempi sono sotto lo sguardo di tutti noi, ogni giorno e in ogni luogo del nostro Paese. È che ci siamo talmente assuefatti a vederli che dopo un po’ non ci facciamo più caso, ma restano sempre obbrobri inaccettabili. Per esempio Roma ne è piena, a cominciare dalle cupole asimmetriche di vetro e metallo innalzate su pregevoli palazzi di via del Corso, per continuare con quel catafalco che è la teca di Richard Meier dell’Ara Pacis, oppure ancora con la rinomata Nuvola di Massimiliano Fuksas, ma ripeto, potremmo andare avanti ad libitum in ogni luogo d’Italia, perché la devastazione voluta e consapevole intervenuta dopo l’ultima guerra, un’anarchia scelta per distruggere tutto ciò che è Bellezza e Armonia, impera ovunque, dal Nord Italia, da Bolzano dove è stato previsto un cubo di cemento che andrà a sostituire l’antica funivia di S. Genesio del 1937 – e che magari poteva essere restaurata e conservata – sino al caldo Sud, massacrato da fila di pale eoliche e da altri incubi postmoderni.

Con un andamento dicotomico lei contrappone Eterno e Contemporaneo: non ravvede possibilità di sincretismo?

Premesso che ritengo l’arte, quella vera, che sia quella micenea o quella delle avanguardie del Novecento, tutta e sempre “contemporanea”; in quanto eternamente vivranno le pale d’altare del XV secolo come i dipinti notturni di Van Gogh. Il problema sorge piuttosto, quando l’arte è soltanto “contemporanea” ovvero, se si preferisce, postmoderna, e allora non è né arte né può essere definita eterna. Di certe “cose” non resterà traccia, fortunatamente.

Guardandosi intorno ritiene fattibile almeno il tentativo di riscattare la scienza e l’arte degli antichi, evitando di cadere in atteggiamenti di generica nostalgia?

Rispetto al passato, dove soprattutto tra Ottocento e primo Novecento, si è cercato di recuperare una tradizione sapienziale nel campo dell’arte, oggi questo avviene in modalità spesso più nascoste, quasi private e in maniera anche più difficile da realizzarsi.
La nostalgia potrebbe anche avere un valore positivo se psicotropa o comunque se fungesse da motore virtuoso per una conservazione attiva del nostro straordinario e unico passato artistico, culturale e – se me lo si consente – anche metafisico; invece troppo spesso assistiamo a deliri che sono dettati da un “nostalgismo” e che dunque ripetono in maniera sterile qualcosa che non è stato compreso. Non può oggi esistere, non creato a tavolino almeno, come vorrebbero alcuni, nessun “Rinascimento” né del resto, ancor meno, ci troviamo in un “nuovo Medio Evo”. Tutto muta, inesorabilmente in una caduta sempre più veloce alla fine di un ciclo e perché esista una vera e propria “rivoluzione” (dunque un ritorno all’origine) deve prima avvenire il crollo definitivo. E ci siamo vicini, forse lo vedranno le generazioni successive alla nostra, ma esso avverrà infallibilmente.

Può commentare l’aforisma di Ernst Jünger: «Il mondo diventa sempre più brutto e si riempie di musei»?

Condivido il pensiero di Jünger, è legato alla mia risposta precedente.
Il mondo peggiora, è nella natura delle cose, e di conseguenza il “brutto” un po’ come il Nulla de La Storia Infinita di Michael Ende, avanza.
Il brutto è Sauron con le sue orde di mostri, il brutto ormai è diffuso ovunque.
Per ciò che riguarda i musei invece il discorso è più complesso: spesso da luoghi di custodia e preservazione, di ricerca e di raccolta, sono diventati veri e propri cimiteri per l’arte, non visitati, negletti, abbandonati a loro stessi soprattutto i più piccoli, quelli che troviamo nella profonda provincia italiana e che a volte nascondono e rivelano, all’avventuroso viaggiatore che li visita, incredibili e stupefacenti sorprese. Dovrebbe essere modificata tutta la struttura legislativa relativa all’apparato museale italiano, ma sappiamo benissimo come è andata in questi anni, perciò godiamocelo così finché dura.

L’educazione e la cultura possono costituire una soluzione ancorché eroica per contrastare la volgarità, il pressapochismo ed aprirsi all’invisibile?

Voglio continuare a crederlo con ogni iota del mio essere. Sono intimamente e profondamente convinto che sia così, a patto che questo sia un vero atto generato da persone capaci, consapevoli e competenti e non da improvvisati millanatatori pieni di loro stessi – ovvero del niente – che ripetono in continuazione sterili e verbose formulette prive di senso ma pregne di arrogante presunzione. Sono per un’azione culturale generata dalle élite intellettuali che hanno la dignitas per fare questo. In senso platonico, dovrebbero essere i dotti e i sapienti ad indicare la direzione, anche e soprattutto nella politica, e non gli o le influencer o, forse ancor peggio, gl’improvvisati filosofi di una tuttologia frutto del pensiero altrui, peraltro mal compreso. L’apertura all’”invisibile” la si ottiene con un altro tipo di percorso, un cammino che si compie da soli, o se insieme a qualcuno, per Amore e nulla più. Un atto “eroico” allora sì, indubbiamente.

Dalmazio Frau è pittore, illustratore, scrittore e conferenziere. Studioso d’Arte, di Miti, Simboli ed Ermetismo nella Tradizione Europea, ha scritto: L’Arte Ermetica. Bosch, Brueghel, Dürer, Van Eyck (Edizioni Arkeios, Roma 2014), Senza arte né parte. Come evitare l’arte contemporanea e vivere felici (Edizioni Simmetria, Roma 2012 e Tabula Fati, Chieti 2020) e L’Arte spiegata a mia cugina. Pensieri sull’Arte nella Tradizione, nella Politica, nel Fantastico, in pieno Kali Yuga (Tabula Fati, Chieti 2015), Crociata contro l’Arte. Trecento anni di guerra contro il Sacro (Idrovolante, 2017), L’Angelo Inquieto. Scienza e magia in Leonardo da Vinci, (Iduna Ed., Milano 2020). Scrive tra gli altri per L’Opinione delle LibertàTotalitàLa Confederazione italianaPangeaIl FoglioLa Biblioteca di Via SenatoCultura e IdentitàIl Giornale OFF e Nazione Futura. Vive a Roma.

Giuseppina Capone

Asperger: la vita oltre la diversità

“Certe volte mi dimentico del resto del mondo. Vivere con Lucas ogni giorno è come stare in un universo parallelo con delle regole tutte sue”.

La sindrome di Asperger è più frequente nei bambini maschi dai 4 ai 10 anni. Questa sindrome comporta varie problematiche riguardo il comportamento e la socialità. “Piccoli professori” fu cosi che li definì il pediatra Hans Asperger agli inizi del Novecento (da cui appunto prendono il nome i bambini Asperger) per la loro grande volontà nell’approfondire la conoscenza riguardo qualsiasi interesse essi abbiano: musica, scienza, letteratura, matematica, collezionismo, animali.  Capaci di arrivare ad essere più preparati di un  loro stesso insegnante. Allo stesso tempo, però, questi bambini speciali, hanno un carattere solitario, hanno difficoltà a comunicare e a relazionarsi con gli altri, utilizzano un linguaggio di poche parole ma parlano a raffica. Il gruppo di malattia che riguarda il comportamento prende il nome di “Disordini dello sviluppo”.

È considerata, da molti studiosi, come una forma di autismo poiché coloro che hanno la sindrome di Asperger assumono comportamenti simili a coloro che sono autistici: comportamento ripetitivo e schematico anche se, a differenza del bambino autistico, il bambino Asperger riesce a manifestare tranquillamente i suoi sentimenti nei confronti dei suoi familiari. Inoltre, ha un’intelligenza e un linguaggio nella norma e i suoi sintomi non peggiorano col passare degli anni.

È facile che l’origine possa essere multifattoriale, ovvero tanti  fattori che entrano in gioco nel determinare questa sindrome: predisposizione genetica, in considerazione della ricorrenza dei casi al’interno di alcune famiglie. Per di più, l’assunzione di sostanze tossiche durante la gravidanza potrebbe alterare il normale sviluppo del sistema nervoso centrale del bambino e predisporre la sindrome. Allo stato, però, ancora oggi non esistono dati scientifici certi.

Le difficoltà e le agevolazioni di un bambino Asperger

I bambini Asperger hanno difficoltà nel ricambiare sorrisi o nel guardare negli occhi l’interlocutore. Hanno inoltre un’ossessiva attenzione verso determinati oggetti o interessi come la scienza o la musica. Allo stesso tempo, però, possiedono una maggiore facilità nel memorizzare numeri o date e sono velocissimi nei calcoli matematici. Per un bambino Asperger, i suoi interessi e le sue passioni, sono una vera e propria risorsa in quanto continui stimoli per lui e non solo, può diventare un maggiore input per relazionarsi con gli altri bambini. Il bambino Asperger va supportato adeguatamente non solo dai suoi genitori ma anche dai suoi insegnanti, altrimenti potrebbe andare incontro a depressione o disturbi d’ansia perché si renderà conto, durante la sua adolescenza, delle difficoltà che incontra nei rapporti con il prossimo. In ogni caso, possono condurre una vita pari a quella di qualsiasi altra persona.

“Con mio figlio è una continua avventura, ogni giorno sembra di stare in un film diverso da quello del giorno precedente. Non è semplice stare ai suoi ritmi ma ce la sto mettendo tutta. Adesso abbiamo trovato il nostro equilibrio”.

Celeste, madre di Lucas (bambino con sindrome di Asperger) racconta la loro storia.

Quando avete scoperto che Lucas è un bambino Asperger?

Lucas aveva 5 anni quando iniziò a essere ossessionato da una pallina di carta. La buttava contro il muro e poi la andava a riprendere. Questo accadeva almeno per la maggior parte della giornata poi passava da un’ossessione all’altra: conosce a memoria tutti i nomi degli animali in particolare i dinosauri e li ripeteva in continuazione. Abbiamo quindi deciso di portarlo dal pediatra che a sua volta ci ha consigliato di consultare un neuropsichiatra infantile che ha approfondito la questione attraverso alcuni test specifici per la diagnosi della sindrome di Asperger, basati sia sulla valutazione del comportamento sia sulle capacità cognitive.

Come l’avete presa quando vi hanno dato la certezza che Lucas è Asperger?

Io sono scoppiata a piangere anche avanti al bambino e lo psicologo mi ha consigliato di non farmi mai vedere da Lucas in lacrime perché altrimenti potrebbe avvertire questa situazione come un disagio, come una cosa che rende tristi. Il neuropsichiatra, ci ha poi regalato un libro contenente tutti i consigli per come relazionarsi con le persone Asperger e devo dire che anche se inizialmente è stata dura, adesso ce la stiamo cavando.

 Avete un’educatrice?

Sì e devo essere sincera ci è stata di grande aiuto perché riesce a gestire la situazione in modo tale da evitare qualsiasi crisi nervosa che Lucas possa avere, qualora non dovesse ottenere ciò che vuole e a dirla tutta è stata un’educatrice anche per me e per mio marito, perché ci ha insegnato non solo ad essere forti ma soprattutto a riuscire a gestire da soli la circostanza quando lei non c’è. Lucas ha tutti i libri sugli animali e ogni volta che fa i capricci o non vuole mangiare o non vuole lavarsi scendiamo a compromessi: 10 punti ogni pasto quindi 30 punti al giorno e arrivati a 200 punti vince un libro. Praticamente un libro alla settimana. Questo è un metodo molto efficace che ci ha insegnato Maria, l’educatrice di Lucas. In sostanza, Maria è stata una mano dal cielo. L’educazione di Maria con Lucas è stata anche di grande aiuto per quanto riguarda il suo rapporto con i suoi compagni di classe.

Adesso Lucas come vive il suo rapporto con i suoi coetanei?

Decisamente meglio, ma ha trascorso parecchi anni in solitudine giocando da solo e leggendo ogni tipo di libro sugli animali e non solo, è preparatissimo in letteratura e in matematica anche più dei suoi stessi insegnanti tanto che spesso li interroga, affermando poi che non hanno studiato abbastanza. All’età di 13 anni Lucas ha iniziato a farmi domande sul suo modo di essere e del perché fosse cosi tanto diverso dai suoi coetanei. È stato difficile ma adesso, anche grazie a Maria, (la sua educatrice) Lucas sta conducendo una vita pari a quella dei suoi coetanei. Con Lucas è un mondo diverso, è spesso anche emozionante.

Alessandra Federico

Curvy: le difficoltà per la donna oversize

“Non esiste cosa più triste del voler cambiare il proprio aspetto perché convinti del fatto che, per essere belli, per essere accettati, bisogna a tutti i costi somigliare al canone di bellezza che ci mostrano. Io non posso credere che ogni donna voglia davvero essere uguale ad un’altra e che si sottoponga addirittura a una o più chirurgie plastiche per non essere quella diversa, per avere il corpo e il viso che ci impongono di avere. Rendiamoci conto, una volta per tutte, che ancora oggi non siamo liberi di scegliere come vogliamo essere, che ci annientano la personalità e  ci manovrano come marionette, ed è per questo che spesso mi pongo questo quesito: chi stabilisce come debbano essere le donne e qual è il modo giusto di vedere le cose? Io credo sia giusto confrontarsi e ispirarsi a qualcuno o a qualcosa ma senza annientare sé stesse. Il fatto è che noi crediamo di essere liberi di scegliere ma è la società che decide come dobbiamo essere e senza accorgercene obbediamo. Il modo in cui lo fanno non è diretto. In modo subdolo giocano sulla nostra psiche mirando sul nostro punto debole, ovvero sull’aspetto estetico di una donna: pubblicità, social media e tanto altro, per inculcare nelle nostre menti che quelle sono le regole giuste da seguire e che se non le rispetti non sarai accettata e, automaticamente, senza neppure che possiamo accorgere, pur di esserlo, diventiamo un branco di pecore pronte ad obbedire al nostro pastore. Quindi, il messaggio che voglio mandare alle donne,  è quello di riflettere e cercare di uscire da questa trappola che non ci fa vivere una vita felice ne tanto meno indipendente. Siate voi stesse, qualunque corpo voi abbiate, qualunque colore della pelle abbiate e da qualsiasi posto voi veniate”.

Quando una donna non segue tutte le regole per essere esteticamente impeccabile come vorrebbero che fosse, è facile che possa sentirsi derisa, o, addirittura, emarginata, esclusa in diversi ambiti soprattutto quelli lavorativi. Sembra quindi che disobbedire al canone di bellezza che ci viene imposto dalla società sia quasi eresia. Bisognerebbe, dunque,  seguire precisamente ogni regola per essere accettati, per essere considerati: essere sempre alla moda indossando capi d’abbigliamento di tendenza, non solo, anzitutto riuscire ad avere un aspetto esteriore che sia alla pari dello stereotipo di perfezione che ci mostrano, ossia, che  la vera bellezza sia quella di avere un corpo magro. E pare proprio che, non rientrare nella categoria della donna perfetta, chiuda tutte le porte, poiché una donna con un corpo da Barbie viene assunta immediatamente qualsiasi sia il settore lavorativo, per una donna oversize, invece, la probabilità che possa essere assunta è più difficile. Purtroppo chi ci rimette sono coloro che scelgono di vivere la loro vita nel modo indipendente senza sentirsi in  obbligo di dover avere un corpo o un viso chirurgicamente ritoccato come chiede  oggi la società. Ma secondo quale punto di vista di quale persona abbiamo deciso quale debbano essere le cose belle e quali quelle brutte? La vera bellezza è, semplicemente, quella che i nostri occhi riescono a vedere, a percepire nonostante le diverse imperfezioni che possa avere il corpo di una donna o anche di un uomo. Addirittura di un oggetto o di un animale. Ciò che conta è sentirsi a proprio agio nella propria pelle, vedersi belli allo specchio così come si sceglie liberamente di essere a seconda della propria indole, carattere e soprattutto di un personale gusto, a secondo di come si osserva la vita, perché tutto ciò che vedono i nostri occhi può diventare perfetto secondo il modo in cui decidiamo noi di osservarlo e di viverlo. In sostanza, sentirsi liberi di scegliere come voler essere è fondamentale, perché ci si sente, di conseguenza, accettati per quello che realmente si è, e soprattutto si ha la facoltà di condurre la vita che si desidera e non quella che vuole qualcun altro.

Samantha, quarantuno anni, racconta la sua storia da donna oversize.

Samantha, come vivi la relazione con il tuo corpo?

La mia relazione con il mio corpo è ottima, finalmente, dopo quasi trentaquattro anni di conflitto tra me e lui, me e la società. Oggi lo vedo come un alleato e parte di me, cerco di curarlo e tenerlo efficiente (ho 41 anni anche se non li dimostro e diversi traumi sportivi alle spalle) non lo vedo come un biglietto da visita o qualcosa da modificare, so che cambia con il tempo e lo accetto. Mi piace molto essere tonda, mi piace il mio viso e credo di essere fortunata, mi piacciono molto le donne tonde. Certo è normale anche per me ogni tanto essere giù di morale, o insoddisfatta, ma è una cosa passeggera e di certo determinata dall’influenza massiccia dei mass media e dei social (e di photoshop).  Io credo che anche il corpo di una donna in carne possa essere attraente.  Non si tratta, naturalmente, di incitare la donna ad avere a tutti i costi il corpo di una donna curvy, perché fino al momento in cui questo non causa problemi come l’obesità, tutto è lecito e ognuno deve sentirsi libero di stare bene nel proprio corpo senza il timore di essere preso in giro o che ogni giorno possa esserci qualcuno che ti guarda con l’aria disgustata.

Quale consiglio dai alle donne Curvy per far si che accettino il proprio corpo?

Accettare il proprio corpo non è facile, va detto, bisogna lavorare dentro di sé, studiare, mettere in discussione i mass media, la società e le esigenze del ‘business del corpo’ come lo definisco io, darsi molto tempo, riprovare, essere indulgenti con noi stesse e con gli altri corpi e persone, informarsi e non fermarsi alle facili formulette per la perdita di peso. Non solo, chiedere aiuto qualora non si dovesse avere la forza di farcela do soli. Molte donne non sanno nemmeno di essere dismorfofobiche o di soffrire di disturbi della propriocezione e alimentari.  Direi loro, prima di tutto, di ricordare che il cibo è una necessità e avere fame è naturale, rinunciare al cibo non aumenterà il nostro valore, e diventare magre come ci vogliono non aumenterà al nostra autostima perché non sono questi i valori che contano nella vita quanto la persona che scegli di essere. Le direi di non dar retta a chi non sa fare altro che soffermarsi sull’aspetto esteriore perché di quelle persone non ne avrà bisogno perché non faranno parte della sua vita. Provare ad accettare il proprio corpo nonostante diverse imperfezioni vi renderà perfette perché avrete imparato a guardare la vita con semplicità e soprattutto a dare importanza alle cose che contano davvero: l’essenza di una persona. Iniziare a pensare al proprio corpo come a un alleato da amare, coccolare, preservare, mostrare, vestire bene. Non a caso il motto della mia linea è: se ti piace è già l’abito adatto a te. Io mi sentivo divina e ho iniziato a vestirmi da diva. Vi assicuro che ha funzionato. Scegliete di indossare quello che vi fa impazzire non quello che vi camuffa, cercate online: c’è di tutto per qualsiasi taglia. Vestirci come ci piace ha un grande potere, perché l’accettazione parte dalla mente per poi arrivare al cuore e al corpo. Soltanto quando ci sono in ballo problemi di salute legati all’obesità, si dovranno prendere provvedimenti. Ma fin quando si tratta di essere “rotondette” o fuori dal canone di perfezione che impone la società, fregatevene.

Sei mai stata vittima di bullismo?

Oh si, sin da piccola, ovunque, e anche da adulta. Perché ero bimba grassa e bizzarra, da ragazzina ero grassa e non vestivo con abiti firmati, un calvario che però mi ha fortificata non poco. Anche ora che ho quarantuno anni sento battute, raccolgo occhiate, ma è molto diverso, non mi tiro indietro se c’è da difendermi o difendere.

Fatevi aiutare, se sentite di essere troppo oppresse, chiedete aiuto a qualcuno di neutro e autorevole. Ricordate che spesso chi vi discrimina è un poveraccio pieno di problemi che maschera fragilità e insicurezza attaccando voi, proiettando su di voi il mostro che lui vede in sé stesso. Con questo non voglio dire che dobbiate lasciarlo fare, può farvi pena ok, ma voi dovete proteggervi e proteggere le altre vittime d ei bulli.

Hai avuto difficoltà anche a cercare lavoro?

Mentre studiavo cercai anche lavoro in un bar, in diversi ristoranti e pub. Mi sentivo dire continuamente no, fino a quando decisi di domandare il perché: “abbiamo bisogno di clientela, e per averla abbiamo bisogno di u n bel corpo femminile che serve ai tavoli”. Scappai in lacrime, anche perché avevo solo 22 anni. Ad oggi gli avrei fatto una bella risata in faccia. Penso sia una cosa molto triste questa, perché scelgono ragazze belle anche se non sono capaci di servire un caffè. Nel  2014 ho capito che  potevo creare per altre donne abiti come da sempre creavo per me stessa. Sono cresciuta con nonna sarta e magliaia, ha sempre realizzato per me abiti  bellissimi e da lei ho imparato a cucire. Crescendo ho capito che per la mia taglia non c’era nulla di mio gusto quindi ho iniziato presto a cucire per me. Avere un mio stile unico e gusto autonomo nel vestire è stata per me una grande rivincita contro tutte quelle persone che vestono uguali. La mia passione vera non è la moda, ma l’arte: sono laureata in scultura all’accademia di Brera e di Atene. Poco tempo fa mi chiesero se volevo sfilare come modella Curvy ma  rifiutai. Non ho mai pensato di diventare  modella, almeno non nel significato classico del termine, ma essere esempio (role model come direbbero in USA), quello si, vorrei essere una donna esemplare più che una modella. Mi piace usare il mio corpo come mezzo per comunicare e aiutare le altre donne, ma mi piace molto anche fare ricerca e parlare ai convegni\ conferenze. Essere modelle oggi, con tutto il carico di responsabilità nei confronti delle donne e bambine, è un compito difficile, anche per le modelle oversize e curvy, che spesso dimenticano che non basta essere belle, bisogna essere anche esemplari. Attenzione però, a percepire bene il significato messaggio che voglio mandare. Mi spiego: non è incitare le donne ad essere in sovrappeso perché si sa che l’obesità è una malattia, e non è nemmeno un messaggio per dire loro che fanno bene ad esserlo, Ma è, chiaramente e per chi lo riesce a capire, un messaggio di conforto per far capire loro che fanno bene a sentirsi a proprio agio con il proprio corpo nonostante vengano prese in giro. Che poi col tempo possano risolvere, nel caso dovessero averne, problemi di salute, noi glielo auguriamo con tutto il cuore. Inoltre,  auguro loro di sentirsi libere di essere e non di apparire.

Alessandra Federico

Silvia Celani: Ogni piccola cosa interrotta

Silvia Celani è al suo esordio per Garzanti con “Ogni piccola cosa interrotta”.

 “Sono le nostre imperfezioni a renderci più forti. Sono loro a tracciare la strada delle nostre cose interrotte” Questo sembra essere il senso della sua narrazione. Può esemplificare il concetto racchiuso nel termine “imperfezione”?

L’imperfezione è tutto ciò che non rientra nel canone. Nello schema. È la diversità. La particolarità. In un certo senso, le imperfezioni modellano la nostra identità. Siamo ciò che siamo, grazie alla mappa di nèi che ci contraddistingue. Eppure, spesso l’imperfezione è vissuta con valenza negativa, diminutiva. Mentre scrivevo di Vittoria, speravo proprio di ribaltare questo assioma. Di sfatarlo.

Il percorso della protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

C’è un filo che lega il passato al nostro presente, e che, in qualche modo, definisce anche il futuro che intendiamo costruire. Le esperienze, quelle che ricordiamo, ma anche quelle che sono sbiadite, che ci si presentano interrotte; finché non troviamo il coraggio di fare i conti con tutto questo, è complicato compiere i passi che servono per vivere pienamente le nostre vite. Per capirle fino in fondo. Quindi, sì: credo che con il nostro passato non solo si possano fare i conti, ma in realtà si debbano fare i conti. Un po’ come decide di fare Vittoria, anche se con grandissimo dolore e con enormi difficoltà.

“Ogni piccola cosa interrotta” fa riferimento alle piccole increspature dell’anima. Le crepe possono essere foriere di benefici interiori, quantunque le ferite?

Le crepe sono un passaggio. Come le imperfezioni, spesso vengono appesantite di un valore negativo: ma attraverso una crepa può passare la luce, attraverso una crepa può defluire un dolore. Il passato mischiarsi con il presente, sfociare nel futuro. Una superfice perfettamente liscia è incapace di trattenere. Non produce attrito. Non lascia spazio a nessuna scintilla. Dovremmo imparare a perdonare i nostri difetti. Accoglierli. Vestirli, come si indossa un abito. Miglioraci accettandoli, e accettandoci.

“L’amore che ognuno di noi riceve ha la stessa funzione delle stelle per i navigatori. Ci indica la rotta. Rimane in fondo alle nostre tasche, così, ogni volta che lo desideriamo, ogni volta che ne sentiamo la necessità, possiamo accertarci che sia sempre lì affondandovi una mano.” L’amore s’inabissa ma non scompare?

L’amore è l’unica cosa che dura. Ha un nucleo di metallo pregiato, inscalfibile. Soprattutto l’amore che riceviamo durante la nostra infanzia e durante l’adolescenza. Quell’amore ci definisce. Ci rende ciò che siamo.

È una specie di tesoro sotterraneo.

Amore, condivisione, solidarietà sono solo alcuni dei temi che affronta. Qual è il messaggio etico ultimo che intende veicolare?

Imparare a guardarci allo specchio. Non avere paura di noi stessi. Non avere paura di essere felici, anche se questo significa andare oltre il solcato. Essere diversi. Essere imperfetti.

Giuseppina Capone

Quello che non sono mi assomiglia

Gianluca Giraudo, dopo la laurea in Ingegneria del Cinema e dei Mezzi di Comunicazione a Torino ha frequentato un dottorato in Scienze Sociali a Roma, dove si è appassionato ai temi dell’identità e dei cambiamenti della società. Ora lavora nell’ambito della produzione televisiva.

Fughe intenzionali, amori inammissibili, piccole ossessioni, flirt goffi, mestizie fulminee, inerzia dell’esistenza, desideri latenti, lontananze subìte e cercate, famiglie sguaiate e complesse, ricerca di inediti equilibri e nuove identità. Molteplici e plurimi temi per un romanzo corale. Può motivare la scelta della polifonia?

Iniziando a scrivere ho capito che tra i tratti della mia voce dovevano esserci la sfumatura, la scomposizione dei punti di vista e la restituzione di una storia che fosse la somma di tante storie diverse. Credo che oggi l’identità, tema che ritrovo al centro di “Quello che non sono mi assomiglia” (Autori Riuniti), si presti moltissimo a questo modo di lavorare e intendere le storie.

Dieci capitoli, dieci nomi propri e dieci personaggi. C’è un filo rosso che li attraversa?

Ho una passione e una grande memoria per i nomi. Tendo a conservarli e a cercare corrispondenze, un po’ seriamente un po’ per gioco, tra il “bagaglio” che si portano dietro e le persone cui sono associati. Ritengo che tutti e dieci i personaggi siano coprotagonisti del romanzo, poi certo, c’è Ignacio, che è il protagonista tra i protagonisti. Il suo nome e la sua storia aprono il libro e lo accompagnano in tutti gli snodi.

Lei esplora la provvisorietà dell’Occidente sincronico come Annie Ernaux o Yasmina Reza: sagacia solo a prima vista distratta e breve intuizioni. Qual è la cifra caratteristica della sua narrazione?

Sono lusingato, e un po’ intimorito, da questi accostamenti. Ernaux e Reza rappresentano due autrici cruciali per le mie letture e la mia ispirazione. Apprezzo il modo che hanno di esplorare i processi laterali, più nascosti, che accompagnano le vite di ognuno, senza la vergogna di tirare fuori anche il marcio o l’indicibile. La loro scrittura giova di questo coraggio, risultando di un’eleganza irraggiungibile. Muovere anche solo un passo in questa direzione è per me fonte di motivazione e spinta a lavorare sodo.

“Grazie al mio lavoro so bene che di una persona non vediamo mai la persona, ma solo una rappresentazione.”. Quale idea intende veicolare della verità e della sua discutibile univocità?

Come accennavo sopra, per la mia idea di narrativa ritengo fondamentale la scomposizione dei punti di vista, la credenza che non esista una verità, ma solo tante versioni dei fatti. In “Quello che non sono mi assomiglia” ogni personaggio non solo aggiunge un pezzo di sé al romanzo, ma cambia anche le carte in tavola rispetto alle dichiarazioni dei personaggi che lo hanno preceduto. E al lettore non resta che questo: la sfida di tracciare una sua personale strada tra le storie o, meglio ancora, trovare la forza di accoglierle tutte, senza necessariamente trovare una sola “verità”.

I numeri a piè di pagina disposti al contrario: per quale ragione?

Si tratta di una cifra stilistica della casa editrice Autori Riuniti, che si ritrova in tutti i suoi bei libri. Devo dire che questa peculiarità si è adattata bene al mio piccolo “giallo”.

Giuseppina Capone

Lorenzo Sartori e “La Sindrome di Proust”

Lorenzo Sartori, giornalista, vive tra Crema e Milano. Dal 2000 è editore e direttore responsabile della rivista Dadi&Piombo, la prima testata italiana che si occupa di wargames e ricostruzioni storiche in miniatura. E’ autore de La sindrome di Proust (Plesio Editore/Lambda House, 2020, romanzo, thriller futuristico).

 “Madeleine de Proust” è una locuzione che può designare una parte della vita quotidiana, un oggetto, un gesto, un colore e in particolare un sapore o un profumo, che evocano in noi ricordi del passato, come una madeleine al narratore de “Alla ricerca del tempo perduto”. Quanto il titolo del suo scritto evoca la cosiddetta “memoria olfattiva”?

La Sindrome di Proust è un thriller incentrato sul tema della memoria e dell’identità di un individuo. È ambientato in un futuro in cui la cosa più preziosa che abbiamo, i ricordi, rischiano di non appartenerci più, di diventare qualcosa di prezioso anche per gli altri, qualcosa per cui possa valere la pena uccidere. Il titolo è un esplicito riferimento alla memoria olfattiva perché solo gli odori sono capaci di svegliare in noi i ricordi con quella prepotenza che in un thriller può rivelarsi decisiva. L’olfatto è in grado di aprirci all’improvviso una porta sul passato e l’esperienza può essere piuttosto forte e completa.

Il percorso del protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

Non credo si possano mai chiudere i conti con il passato. Forse si possono sospendere. I ricordi sono la nostra identità e il tema dell’identità a me è molto caro. Siamo quello che siamo proprio perché ricordiamo. Il presente, o meglio, la nostra percezione del presente dipende in modo imprescindibile da ciò che è stato il nostro passato. O ciò che ricordiamo che sia stato.

Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller . Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?

Credo che La Sindrome di Proust sia un thriller sui generis, almeno per il panorama italiano, dove spesso thriller e gialli sono la stessa cosa, cambia solo l’etichetta e dove troppo spesso la figura del serial killer sembra essere l’unica in grado di caratterizzare il genere, impersonificando il male assoluto e al tempo stesso ricoprendo il ruolo di un degno antagonista. Per me il thriller è prima di tutto tensione e colpi di scena. Ci sono autori che sono in grado di costruire tutto ciò con pochi ingredienti e soprattutto con poco sangue. Credo che un buon thriller debba lavorare soprattutto sulle immagini e sulla capacità di suscitare emozioni buttandoci dentro il lettore. In campo cinematografico penso a Hitchcock, alla sua abilità nel rendere iconica e al tempo stesso tensiva una semplice sequenza.

La Sindrome di Proust non è un thriller investigativo in senso stretto, il protagonista non è un poliziotto o un investigatore o un giornalista, uno abituato appunto a indagare, magari tormentato da un trauma del passato. Alec Raines è un giovanotto di 27 anni che ama il suo lavoro, un possibile lavoro del futuro, quello del “correttore di ricordi”, che gli permette di avere accesso alle vite degli altri. Un lavoro che solleva questioni etiche che lo stesso protagonista inizia a porsi. Un lavoro che lo condurrà dentro a un qualcosa di più grande di lui prima che se ne possa accorgere. Questo è un romanzo dove il confine tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che sbagliato, non è così netto.

“Di fatto si sapeva che i pensieri e i ricordi sono il risultato di un mutamento del nostro DNA. Se annusiamo o tocchiamo un oggetto il nostro cervello memorizza le informazioni ricevute e lo fa modificando un certo numero di neuroni in modo da fornirci una memoria di quell’oggetto. E i neuroni contengono DNA. E’ su questo che si basa poi la digitalizzazione dei ricordi.” In cosa consistono il download e l’upload dei ricordi?

La digitalizzazione e quindi lo scarico e la conservazione dei ricordi è qualcosa di ancora lontano, ma non quanto si potrebbe pensare. Il DNA, e i nostri neuroni contengono DNA, può contenere dati digitalizzati e pure tanti. Lo stato dell’arte è che in un solo grammo di DNA (sintetico, realizzato il laboratorio, ma tecnicamente potrebbe essere anche quello umano o animale) si possono archiviare fino a 700 tera byte di dati digitali, ovvero 700mila giga. Non solo, questi dati possono durare per migliaia di anni. Nessun hard disk si avvicina neanche lontanamente a questo potenziale. Il “ponte” tra dati digitali e essere viventi è stato gettato, con quali prospettive future, beh, è forse il caso che iniziamo a pensarci.

L’inviolabilità della memoria suscita riflessioni di natura etica?

Direi proprio di sì. I ricordi sono la sfera più intima della nostra identità, violata quella sfera possiamo solo andare incontro agli scenari immaginati da Orwell in 1984, dove la psicopolizia ti può leggere nel pensiero e il libero arbitrio cessa di avere qualsiasi importanza. Già adesso l’intelligenza artificiale sta condizionando le nostre scelte e le nostre vite: ogni volta che facciamo una ricerca su Google in qualche modo diamo informazioni preziose sui nostri interessi e desideri. Ormai da anni lasciamo ovunque tracce digitali della nostra vita (viaggi, acquisti, visite mediche e ricoveri…) e anche questi sono ricordi di cui facilmente perdiamo il controllo e di cui qualcuno potrebbe approfittare.

 

Lorenzo Sartori è anche autore di diversi giochi di simulazione, storici e fantascientifici, alcuni dei quali tradotti in diverse lingue e apprezzati in tutto il mondo. Si occupa anche di organizzazione di eventi sia di carattere ludico che letterario. È direttore artistico del f estival letterario Inchiostro (www.festivalinchiostro.it) e della rassegna DeGenere (http://degenere-storie.blogspot.com). In ambito letterario ha pubblicato le seguenti opere: Home Run (Sad Dog Project 2015, racconto lungo, fantascienza); Sonata per violino (Sad Dog Project 2016, racconto lungo, noir paranormale); Michael Farner (Nativi Digitali Edizioni, 2016, romanzo breve, noir surreale);L’ombra del primo re (Gainsworth Publishing, 2017, romanzo, fantasy);Alieni a Crema (Plesio Editore, 2018, romanzo, fantascienza).

 Giuseppina Capone

Whitney Houston: I Will Always Love You supera 1 miliardo di views

 Un successo senza tempo per la terza volta disco di diamante.

Il fulminante debutto con l’omonimo “Whitney Houston” del 1985, la portò in vetta alle classifiche mondiali, grazie a brani memorabili come “Saving All My Love for You”, “How Will I Know” e la cover di “Greatest Love of All”. La cantante statunitense ottenne lo stesso successo internazionale due anni dopo con il suo secondo album, pubblicato il 2 giugno 1987 dall’ Arista Records. L’album “Whitney” conteneva ben cinque canzoni capaci di raggiungere la Top Ten Usa. “I Wanna Dance with Somebody (Who Loves Me)”, “Didn’t We Almost Have It All”, “So Emotional” e “Where Do Broken Hearts Go”. I primi quattro singoli, raggiunsero il primo posto nella Billboard Hot 100, un record assoluto che ha fatto dell’ interprete, la prima artista donna a realizzare questa impresa. “Whitney” comprendeva anche “Love Will Save the Day”, l’unico singolo dell’album non trainato da un videoclip, fondamentale all’apice dell’era di MTV, capace di raggiungere lo stesso la top ten. Il perdurare della popolarità di colei che la presentatrice Oprah Winfrey ribattezzò “The Voice” è stato confermato nei giorni scorsi, quando il video di “I Will Always Love You” ha raggiunto il miliardo di visualizzazioni su YouTube. Garth Brooks, cantante country statunitense, detiene il record per il maggior numero di album certificati come diamanti, ben nove. Altri con tre o più album che hanno raggiunto lo status di diamante sono i Beatles, i Led Zeppelin, Shania Twain e gli Eagles. Non si tratta del primo brano capace di raggiungere questo straordinario traguardo. La gran parte dei pezzi che ci sono riusciti sono più recenti hit e tormentoni degli anni Duemila. Ma anche qualche brano storico ha già raggiunto tale successo, come ad esempio Bohemian Rhapsody, prima canzone degli anni Settanta a superare il miliardo di views.

Anche dopo la morte Whitney Houston continua a fare storia, per la terza volta un suo album è disco di diamante. Questa volta si tratta di ‘Whitney’ (1987). Lo status di diamante equivale a dieci milioni di album venduti. Lo stesso status era stato ottenuto da ‘Whitney Houston’ (1985) e ‘Bodyguard’ (1992). E’ la prima volta che un’artista afro-americana raggiunte un tale primato.

Nicola Massaro

Giacomo Balzano: Il vuoto dentro

Giacomo Balzano, psicanalista di orientamento adleriano. Fra le sue opere ricordiamo: Disagio Giovanile: storie di cambiamenti, Giovani del Terzo Millennio (volume che ha vinto nel 2006 il Premio Internazionale di saggistica “Città delle Rose”), I nuovi mali dell’anima, Oltre il disagio giovanile. Per Besa editrice ha pubblicato il romanzo Alessia e le sue tenebre (2011) e il saggio Alfred Adler e lo scisma della psicoanalisi (2014).

Può definire le peculiarità del senso di vuoto ed i modi più frequenti in cui si tenta di colmarlo nella scansione del proprio percorso umano ed esistenziale?

Il senso di vuoto è un vissuto di mancanza, di assenza affettiva che spinge il bambino (la personalità di un individuo si forma nei primi 5 anni) a rincorrere abnormi compensazioni per colmarlo e contenere le angosce associate. Queste compensazioni sono centrate sull’assunzione di condotte di stampo narcisistico che inseguono un’ipocritica grandezza. E il modello di Narciso, connota l’attuale spirito dei tempi e influenza la formazione e gli ideali perseguiti dalla persona.

Il disagio giovanile nella fase adolescenziale è il tema che affronta. Chi sono gli interessati?

L’OMS (L’Organizzazione Mondiale della Sanità) in un suo studio del 2008 aveva affermato che nel 2020 i Disturbi in Età Evolutiva, sarebbero stati la prima causa di morte e disabilità. Ed è ciò che sta accadendo. Il disagio nei bambini, nei preadolescenti e negli adolescenti sta diventando una vera e propria epidemia psicosociale. Un dato su tutti forse può illustrare la situazione: in Italia ogni anno si tolgono la vita 3.000 giovani dai 15 ai 25 anni, mentre gli incidenti stradali (spesso suicidi mascherati) sono la prima causa di morte in adolescenti e giovani adulti.

Lei è uno psicoanalista ad orientamento adleriano. Per i non addetti ai lavori, quali peculiarità riserva siffatta propensione rispetto a temi come prevenzione della devianza minorile e della dispersione scolastica, l’educazione alla salute, l’educazione affettiva e la formazione dei genitori e degli insegnanti?

Alfred Adler è stato il primo apostata della psicoanalisi (dopo aver collaborato con Freud per nove anni) e il primo analista a fondare un’autonoma scuola denominata “Psicologia Individuale”. E’ stato l’iniziatore del filone socio-culturale della psicanalisi ed ispirato l’opera di Fromm, Sullivan, Horney ecc. Tra i suoi allievi troviamo Victor Frankl il creatore della logoterapia mentre anche Karl Popper, che prima di diventare il famoso filosofo della scienza era uno stimato psicopedagogo, seguì il lavoro innovativo di Adler presso le scuole della Vienna socialdemocratica degli anni ’20. In quell’epoca, il governo della città diede proprio il compito all’analista viennese di riformare la Scuola. Adler e i suoi allievi si applicarono con abnegazione a questo lavoro e istituirono i primi consultori per i bambini problematici, tennero corsi di formazione per genitori e insegnanti, istituirono la figura dello psicologo presso gli asili e le scuole di ogni grado e crearono anche una scuola sperimentale che operava secondo i principi del cooperative learning. Tutte iniziative, come possiamo osservare, ancora attualissime.

La cronaca segnala, soventemente, episodi di inaccettabile violenza compiuta da o tra giovanissimi. Possono la brutalità, la sopraffazione, l’abuso essere percepiti dagli adolescenti come curativi rispetto all’indicibile dolore provato?

Il bullismo e le condotte eterolesive sono spesso un modo distorto del giovane di cercare valorizzazioni, dopo aver sperimentato insuccessi nel perseguire mete affermative più utili e socializzate. Sono quindi compensazioni fittiziamente curative, in quanto prevedono distanza affettiva dall’Altro (e il barometro della normalità è la capacità della persona di strutturare legami compartecipativi nel proprio contesto comunitario) e l’indurimento “dell’anima”. Di contro, le ansie e i sensi di inadeguatezza, che in ultima analisi hanno determinato lo stile “brutale”, non sono adeguatamente riconosciute e risolte dalla persona.

Terapista e giovane paziente, intelligente, precocemente classicista; ambedue pongono in discussione le proprie granitiche certezze. Può esemplificare i tratti del loro rapporto?

Ogni rapporto analitico efficace dovrebbe vertere sulla costruzione di una creativa relazione empatica così che l’analista “Vede con gli occhi del paziente, ascolta con le sue orecchie, vibra con il suo cuore”. Ciò che ho cercato di riportare nel romanzo. In ciò seguendo anche i dettami dal celebre poeta Walt Withman: “Non chiedo ad una persona ferita come si sente, io stesso divento la persona ferita”. Concetti simili a quelli alderiani che guidano il lavoro degli analisti di questa scuola e che hanno diretto anche la scrittura del mio romanzo.

Giuseppina Capone

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