Franco Mimmi: Lontano da Itaca

Parliamo con Franco Mimmi della sua pubblicazione “Lontano da Itaca”.

Lei ha rievocato l’Odissea, uno dei testi fondamentali della cultura classica occidentale. Perché ha voluto dialogare con Omero?

Omero rappresenta, con Dante, Cervantes e Shakespeare, uno dei quattro vertici della letteratura mondiale, è praticamente impossibile evitare il dialogo con loro, sia pure dalla posizione più umile possibile. Basti pensare al paradosso di Harold Bloom, che sosteneva che Shakespeare ha influenzato anche gli scrittori che lo hanno preceduto. Diciamo dunque: in che cosa ho voluto dialogare con Omero? Quel qualcosa è stata l’attrazione di un personaggio come Odisseo, le cui peripezie, nel tribolato viaggio di ritorno a casa dalla sconfitta Troia, costituiscono il primo romanzo dell’Occidente infinite volte rivisitato, reinterpretato e rielaborato nei secoli successivi. Il re di Itaca attraversa il tempo come personaggio via via mitico, umanistico, romantico, naturalistico, moderno e certamente, qualunque cosa la parola significhi, anche postmoderno, e insomma protagonista ante litteram di qualsiasi momento o movimento letterario. Ha ispirato, in ventotto secoli, la reinvenzione sublime di Dante nel canto XXVI dell’Inferno (Fatti non foste a viver come bruti…) e quella giocosa di Guido Gozzano nel poemetto L’Ipotesi (Il Re di Tempeste era un tale / che diede col vivere scempio / un ben deplorevole esempio / d’infedeltà maritale…), quella decadente di Giovanni Pascoli in L’ultimo viaggio, dove si afferma che la morte è più dolorosa che non nascere (Non esser mai! Non esser mai! Più nulla,/ ma meno morte, che non esser più!) e quella iconoclasta di Jean Giono in Nascita dell’Odissea, dove la realtà è ben diversa dall’eroico mito ma a prevalere è quest’ultimo persino contro la volontà del protagonista. Ha ispirato l’Ulisse di Joyce, dove l’autore si concesse la variante di presentare un Telemaco/Dedalus più intelligente di Ulisse/Bloom, forse perché era con Dedalus e non con Bloom che si identificava. Ha ispirato il Viaggio di Odisseo di Vincenzo Consolo e Mario Nicolao, dove il nostos è un viaggio di espiazione per l’orrore della guerra e l’invenzione del “mostro tecnologico”, il cavallo di legno. E poi decine e decine di componimenti poetici, da Alfred Tennyson a Gabriele D’Annunzio a Umberto Saba fino allo splendido Itaca, di Kostantinos Kavafis, dove si canta il concetto che più dell’arrivo è importante il viaggio (Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / in viaggio: che cos’altro ti aspetti?). Sono soprattutto questa poesia e questo concetto che hanno ispirato Lontano da Itaca, la storia che anch’io ho voluto caricare sulle capaci spalle di Ulisse.

Nessuno fra i Greci ignorava Odisseo: la sua astuzia e la sua impulsività. Il suo desiderio di uccidere la morte, disprezzandola. Odisseo va inteso come paradigmatico d’una specifica maniera d’affrontare la vita?

Nessun greco ignorava Odisseo, anche perché quelli di Omero erano i testi fondamentali per l’insegnamento, ma già allora la sua figura era multiforme, e non solo d’ingegno. L’Odisseo dell’Iliade e quello dell’Odissea sono ben diversi, come quello dell’Aiace di Sofocle, dove viene definito “scaltro intruglio schifoso” ma è anche colui che salverà le spoglie del protagonista dal restare insepolte, e come quello delle Troiane di Euripide, dove Ecuba lo chiama “spregevole traditore, nemico della giustizia, / un mostro che non conosce legge”. È questo affascinante polimorfismo, che attraversa i secoli dal tempo di Omero a quello dei grandi tragici, che mi diede l’idea di inserire nel mio testo brani degli autori che ho citato ma anche di Eschilo e di Tucidide.

Poi verrà Dante Alighieri, che non conosceva il greco e mai aveva letto quei testi, sapeva di Odisseo, o meglio di Ulisse, grazie alle citazioni di autori latini – primo fra tutti naturalmente Virgilio e la sua Eneide – e a un compendio latino dell’Iliade, la Ilias Latina, di età neroniana, e per pura genialità si inventò un Ulisse tutto nuovo, spinto dal desiderio di scoprire che cosa vi sia “di retro al sol, del mondo sanza gente” al punto da preferire la nuova fatale avventura al ritorno a casa e agli affetti familiari. È questo l’Ulisse che ancora paga il prezzo del castigo divino, per troppo osare, ma che il Rinascimento libererà anche da questa catena, per esempio nel Morgante di Luigi Pulci, e che poi i moderni, affascinati, moltiplicheranno.

Ulisse è oculato, astuto e menzognero altresì debole, impegnato nella contesa con la propria limitatezza. Eppure è unanimamente reputato eroe. E’ la sua umanità foriera d’eroismo?

In realtà la debolezza di Ulisse si manifesta solo nel suo confronto con gli Dei ed è piuttosto un problema di impotenza, vista la statura dell’avversario, ma anche tra gli Dei ha degli ammiratori della sua resilienza che interverranno a dargli una mano. Il suo eroismo consiste soprattutto, come dice il poema del Tennyson splendidamente tradotto da Pascoli, nell’essere, lui e i suoi compagni grazie al suo esempio, “duri sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai.”

Odisseo muta incessantemente il suo status: eroe polýtropos, naufrago in balia delle onde, migrante vestito di cenci. C’è un tratto d’indole immutabile?

Nell’arco millenario della sua esistenza il tratto immutabile di Ulisse è l’audacia, della quale un eroe evidentemente non può fare a meno, ma per il resto l’abbiamo visto mutare continuamente, e possiamo scommettere che continuerà a trovare nuovi interpreti dei suoi vizi e delle sue virtù.

L’Ulisse dantesco, Frodo e l’impresa post-cubana del Che contraddicono la teoria di Christopher Vogler. Quali altri tipi di viaggio si profilano?

Non c’è motivo, ovviamente, perché il viaggio sia confinato alla dimensione spaziale, oltre che fisico può essere spirituale, mentale, interculturale, temporale: pensate per esempio ai viaggi compiuti da Darrell Standing, protagonista del Vagabondo delle stelle, di Jack London, mentre in realtà giace in prigione immobilizzato da una camicia di forza. E forse è meglio non spingere gli accostamenti oltre le colonne d’Ercole della buona letteratura, dove rischieremmo di vedere il mare richiudersi sulla fragile barca delle nostre ipotesi e delle nostre interpretazioni. Per ciò che riguarda Frodo, per esempio, mi costerebbe molto metterlo in una categoria ulissica: Il signore degli anelli non mi ha mai conquistato, non sono mai riuscito ad andare oltre un centinaio di pagine, e sono piuttosto d’accordo con l’impietosa critica che gli dedicò Edmund Wilson, sarcasticamente intitolata Oh, i mostruosi orchi!, che nel libro di Tolkien trovava cattiva prosa, scarsa originalità, e quanto alla pretesa di avere scritto un libro per adulti, “c’è poco, nel Signore degli anelli – commentò il grande critico americano –, che ecceda la testa di un bambino di sette anni.” Ho piuttosto l’impressione che il crescente entusiasmo degli adulti per il libro e per i film derivati siano un altro segno, insieme con il dilagare di supereroi, maghi e maghetti, zombi, vampiri eccetera, di un processo di infantilizzazione della specie.

Lascerei da parte anche Che Guevara, le cui imprese post-cubane furono probabilmente il frutto della delusione per come progrediva, o regrediva, la rivoluzione castrista, che era stata anche la sua ma che non vedeva più tendere all’avvento del nuevo hombre, l’uomo nuovo che avrebbe dovuto coniugare il rivoluzionario con l’umanista.

Interessante il richiamo a Christopher Vogler, ma anche in questo caso sarei per un distinguo: il suo libro è stato pubblicato in Italia con un titolo sviante, Il viaggio dell’eroe, quando in realtà si intitola The Writer’s Journey: Mythic Structure For Writers, ed è, insomma, una intelligente individuazione e sistematizzazione degli archetipi narrativi, sicché viene ad essere al tempo stesso una lucida analisi letteraria e un dotto manuale ad uso dei bravi artigiani che ci regalano i best seller e le serie televisive tanto in voga, l’equivalente attuale del feuilleton ottocentesco. Attenzione, però: il manuale di Vogler ci insegna il “che cosa”, ma Vladimir Nabokov avvertiva che il valore di un’opera letteraria andava cercato nei “divine details”, nei divini dettagli, e che la grandezza di un libro non stava nel “che cosa” ma nel “come”, e insomma nello stile. Qualcosa che nessun manuale e nessun corso di scrittura puó dare.

 

Franco Mimmi. Laureato in Lettere. Giornalista professionista (Il Resto del Carlino, La Stampa, Il Mondo, Italia Oggi, Il Sole-24 Ore, l’Unità) e scrittore. È autore di “Rivoluzione” (1979–Premio Scanno Opera Prima), “Relitti” (1988), “Villaggio Vacanze” (1994), “Il nostro agente in Giudea” (2000–Premio Scerbanenco), “Un cielo così sporco” (2001), “Cavaliere di grazia” (2003–finalista Premio dei lettori di Lucca e Premio città di Scalea), “Una vecchiaia normale” (2004), “Povera spia” (2006), “Lontano da Itaca” (2007), “Oracoli & Miracoli” (2009), “Tra il Dolore e il Nulla” (2010), “Corso di lettura creativa” (2011), “Una stupida avventura” (2012), “Il tango vi aspetta” (2013), “Le tre età dell’uomo” (2015), “Le sette vite di Sebastian Nabokov” (2016), “L’ultima avventura di Don Giovanni” (2016), “Il Sogno dello Scrittore” (2017), “Su l’arida schiena del formidabil monte sterminator” (2018), “Amanti latini, la storia di Ovidio e Giulia” (2020), “Il Topo e il Virus” (2020).

Giuseppina Capone

 

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