Nel componimento “Zelkova”, il passato si staglia come tronco vago a cui aggrapparsi mentre il presente smaglia le sue trame: la sua poesia sembra operare come una radice che cerca un‘origine o come un‘eco che trattiene il disgregarsi?
Ciò che lei afferma è vero: nei miei versi il tema della ricerca di un’origine è centrale. Quest’ultima è da intendersi in quanto luogo interiore a cui aggrapparsi nel dilagare delle peripezie a cui la vita ci costringe. Tale luogo originario e caldo, come l’utero materno, è un posto a cui tornare, un sentimento di casa, che, tuttavia, con l’età adulta, non può essere cercato al di fuori di noi, ma dentro noi stessi. Tornare al calore dell’interiorità, in quanto rifugio sicuro in cui il tempo non è più quello della frenesia, a cui il mondo ci costringe, bensì quello lento del pensiero, della riflessione. Tale motivo si lega – come giustamente notava – alla ricerca di qualcosa che trattenga il disgregarsi insito nella natura delle cose. Ecco che la poesia si fa linguaggio in cerca di un piano sovra-sensibile, di un orizzonte nel quale non s’imponga la legge della temporalità e dell’entropia. Tale orizzonte conduce inevitabilmente alla scoperta di un sentimento di compassione, che, assieme alla meraviglia, è ciò da cui la poesia originariamente nasce, dando voce all’istanza di bellezza che è nell’uomo. Un bisogno che è – appunto – necessità di una dimensione di eternità e di consolazione. Credo che oggi più che mai – nel mondo attuale, dominato da una violenza incessante e disumanizzante – vi sia bisogno di una poesia “spirituale”. Una poesia che, al di là delle religioni e dei formalismi, spalanchi la porta a un luogo in cui il linguaggio ci ricongiunga con la nostra parte più vera – oltre le maschere quotidiane – e ci ponga nuovamente in ascolto degli altri, del mondo, delle forme viventi, specie dei più innocenti e del loro richiamo.
Il verso “Si attraversa il mare / con un tocco di pane” pare condensare un’intera fenomenologia della parola poetica: è per Lei la poesia un gesto salvifico, un atto sacrale o una mitezza che consente l’attraversamento dell’indicibile?
La poesia è una compagna di viaggio. Qualcuno – e non qualcosa – con cui attraversare le stagioni della vita, soprattutto quando la sofferenza e la delusione ci sorprendono. L’espressione “attraversamento dell’indicibile” mi piace molto, poiché mette in luce un altro aspetto della poesia -che è, appunto, compagna e sguardo sulle cose del mondo bisogno di bellezza -, vale a dire la natura paradossale del linguaggio, di cui il poetare è espressione. Voglio dire che la parola, per quanto svolga una funzione sacra – in quanto, denominando, essa dà al caos un ordine e crea – resta pur sempre parziale e prigioniera di un’incompletezza di fondo: la vita, infatti, eccede in ogni istante il linguaggio, anche laddove questo pare spiegare perfettamente i fenomeni. Da ciò deriva che la poesia cerca di dare un nome a qualcosa che, comunque, resta indicibile. Questo “qualcosa” è la vita stessa, con le sue esperienze esteriori e interiori. Pertanto, la vera poesia, oltre che nel linguaggio, si radica nella vita, o meglio, nell’autenticità di vita di chi, quella poesia, non soltanto la scrive, ma la sente, la agisce, la porta nel mondo e nella quotidianità. Ecco che la poesia si appropria, così, di una tavola dove ci si riunisce in amicizia, di un pianto, di una carezza ricevuta, o della contemplazione della maestà di un bosco… Poesia, allora, è anzitutto uno sguardo sul mondo e sugli eventi del mondo, capace di non rinunciare alla compassione, alla partecipazione e in grado di non farsi assorbire dal cinismo e dal nichilismo dilaganti.
Nei testi si percepisce una tensione tra l’istinto tellurico della natura e la malinconia di una civiltà in disfacimento. Potremmo parlare, nel suo caso, di una scrittura “aurorale”, capace cioè di vedere l’inizio anche nella rovina?
Ogni aurora sorge sempre alla fine della notte… Mi viene in mente Nietzsche, la cui filosofia del mattino si dà proprio nel momento in cui crolla la vecchia metafisica e, con essa, i valori un tempo posti a fondamento dell’uomo e della sua civiltà. L’istinto tellurico – espressione davvero potente – è una componente innegabile della vita, che ha di per sé una natura ciclica, nella quale costruzione e distruzione si susseguono incessantemente, pensiamo al bosco e al suo ecosistema o, ancora, al mare, ma anche alle stagioni dell’uomo. Questo andamento duale si riflette nelle costruzioni sociali, politiche e culturali a cui l’umanità dà, via via, forma. Ogni grande impero, apparentemente eterno, è poi crollato. Allo stesso modo, correnti di pensiero che sembravano dominanti si sono rivelate insoddisfacenti, e persino certe teorie scientifiche, apparentemente inconfutabili, sono state abbandonate in un’epoca successiva.
Tuttavia, nel caso della rovina a cui Lei allude, le cose sono un po’ diverse. Difatti viviamo oggi in una realtà dominata dal progresso scientifico e tecnologico, in cui lo sviluppo di nuove tecnologie digitali, militari, biologiche ha raggiunto livelli senza precedenti, probabilmente questa tendenza si massimizzerà ulteriormente negli anni a venire, ma il problema sorge proprio qui: ci sarà un avvenire?
Oggi domina, sulla scena politica e sociale internazionale, una violenza devastante e dilagante e un atteggiamento diffuso di freddezza, quasi come se il cuore dell’uomo avesse cessato di battere e di provare pietà, accostandosi a quello delle macchine e realizzando così il sogno postumanista del cyborg perfetto. Una tale assenza di compassione – torno ad impiegare questo termine – costituisce, a mio parere, un punto di non ritorno, che ci espone concretamente al rischio che vengano impiegate armi micidiali di distruzione di massa. Armi nucleari, batteriologiche, chimiche, che un tempo non esistevano.
Il rischio è, dunque, concreto e la cura a una simile bestialità – che in nome dell’orgoglio sarebbe persino disposta a sacrificare interi popoli, la specie e il pianeta – si trova soltanto nel recupero della compassione e del legame autentico con l’alterità. Finché non si ripartirà da qui – dal riconoscere l’altro come persona e dal custodire la vita in quanto dono sacro – ciò che si lascia presagire è, appunto, l’alba della rovina. Tuttavia, il rischio concreto di una distruzione apocalittica, di cui tutti oggi facciamo esperienza, potrebbe costituire l’occasione per pensare ad un nuovo inizio, dando vita a legami sociali che non possono più basarsi sull’egoismo e sull’uso strumentale dell’altro. Proprio la gravità della situazione attuale richiede un’interrogazione collettiva e individuale, che conduca ad un cambiamento radicale di valori.
Le immagini femminili, madri, sorelle, amanti, contadine, abitano la raccolta come presenze arcaiche e silenziose: in che misura la sua poesia restituisce voce a un femminile sepolto sotto i detriti della storia e della modernità?
Il femminile, e la necessità di restituire ad esso una dignità piena, mi è assai caro. Nella mia ricerca letteraria, più volte, ho cercato di riflettere sulla condizione della donna e sulle cause all’origine della “sudditanza” a cui tutte le culture – prima o dopo, in modo esplicito o subdolo – hanno ridotto il femminile. Alla domanda relativa a come sia stato possibile edificare, in modo diffuso e trasversale, un’immagine che riduce il femminile ad “oggetto”, mi sono data la risposta che occorra parlare, anzitutto, dei punti di forza delle donne. La valorizzazione di tali punti di forza, in primis da parte delle donne stesse, è ciò che manca.
Troppo spesso, difatti, seppure a ragione, la donna è stata descritta come vittima, come debole, come mancante, come fragile e inferiore. Eppure – sebbene sia vero che la forza fisica di una donna è minore, in media, rispetto a quello di un uomo – ciò che non è vero, è il passaggio logico che, partendo da questa evidenza, vorrebbe legittimare l’inferiorità tout court delle donne. Ecco, tale manipolazione culturale e collettiva ha abituato le donne stesse a non focalizzarsi sui loro punti di forza, proprio per questo, la mia ricerca letteraria ha voluto, di contro, insistere sulle risorse di cui solo il femminile dispone. Prima tra tutte, la comunione istintiva che lega la donna alla natura e che la rende capace di costruire con essa e con l’alterità un legame di rispetto e non di dominio. Non è un caso che, nelle culture contadine e pre-industriali, proprio le donne fossero guaritrici, cultrici delle erbe, taumaturghe e così via. Il loro era quindi un sapere antico e profondo, seppure praticato in modo silenzioso. Questo femminile attivo, sapiente, quasi invisibile eppure forte, capace di rialzarsi dalle cadute e di fronteggiare le fatiche, lungi dall’essere identificabile con l’istinto o con l’animalità – come certe correnti maschiliste vorrebbero – è portatore di un sguardo di attenzione verso il vivente e sa integrare la natura e l’umano.
La donna è, inoltre, colei che dà la vita e che ospita in sé “l’altro da sé” (il figlio) nel momento della gravidanza. Questo dono della vita – a cui ovviamente concorre anche l’uomo – e, soprattutto, questo miracolo dell’accoglienza in sé della vita, non va inteso unicamente in senso biologico, ma anche spirituale: difatti, il femminile è qualcosa che trascende la maternità classica e fisiologica e include piuttosto una maternità universale, articolata essenzialmente in un pensiero antitetico rispetto a quello del potere e del dominio che ha fondato la civiltà odierna, la tecnica, la scienza e i loro effetti.
Il femminile, dunque, è l’acqua che genera la vita e che purifica, è la Madonna che è, al contempo, madre di Dio e dell’umanità, simbolo misterioso di un amore che si fa universale e che ricongiunge il finito e l’infinito. Tale amore insegna a rapportarsi alla vita secondo una logica dell’ascolto, del perdono, dell’accoglienza, piuttosto che secondo una logica strumentale, dello sfruttamento e dell’ottimizzazione, tipica delle società a stampo maschile o delle società in cui il femminile si omologa al maschile e, per questo, fallisce nel proprio progetto di emancipazione.
Negli anni ho pertanto voluto restituire al femminile – femminino sacro – la sua pienezza, emancipando, attraverso la scrittura, la figura della donna dall’ipersessualizzazione che subisce oggi, sia in Occidente, che nella maggior parte del mondo. Penso, a titolo di esempio, ai paesi islamici radicali, in cui vige la poligamia e le donne non possono studiare, né scegliere con chi sposarsi. Simili abusi, che riducono la donna ad oggetto e a proprietà di un maschile-padrone e perverso, che di dispone costei a piacimento, sono frutto di una concezione che vede il femminile come una minaccia e, per questo, lo rinchiude entro gabbie materiali, culturali, sociali e religiose. Nella mia scrittura ho voluto, da sempre, contrastare tale impostazione di pensiero, che relega la donna ad oggetto sessuale, a merce sessuale, a possesso, privandola così di un intelletto, della coscienza e della libertà vera. La libertà di scelta e che permette a ciascuna di costruirsi una propria personalità autonoma.
Molti versi evocano gesti minimi, raccogliere capperi, accudire con pane e olio, riconoscere gli odori, come forme alte di sacralità quotidiana. C’è in Lei un‘intenzionalità etica, quasi una difesa dell‘essere attraverso il dettaglio?
Simili dettagli mi affascinano, perché sono gesti che compongono una melodia sacra, una poesia immanente che si radica nel quotidiano. Ad esso, infatti, ho voluto volgermi, scorgendo un’inimmaginabile pienezza.
Ciò che cerchiamo disperatamente, spesso, si trova al nostro fianco e lo abbiamo già qui, occorre solo imparare ad accorger-si: questo è l’intento della mia poesia minimale, contadina, concreta e carnale. Volevo tornare a toccare la terra, ad annusare gli odori e, per farlo, ho dovuto trasformare il linguaggio, svuotarlo degli orpelli accademici e tipici dei sapienti, per restituirlo al presente, all’ordinario, tra le cui pieghe lo straordinario si dà.
Il mistero è tutto intorno a noi e, con esso, le risposte che cerchiamo, basta imparare a guardare e ad ascoltare. E poi, anche per le domande che non hanno una risposta, ciò che conta è imparare ad accettare che non tutto può essere compreso per via razionale, ma che spesso occorre, piuttosto, capire con il cuore e sentire con la mente.
La presenza ricorrente degli animali, sparvieri, corvi, tartarughe, pesci, pare inscrivere la sua poesia in un cosmo animistico: quanto della sua scrittura è debitrice a una visione premoderna e sacrale della natura?
La mia scrittura è spesso un esercizio che pratico per purificare la mente dai condizionamenti che ci circondano: rumori continui, chiacchiere, televisioni accese, stati di ansia e di angoscia, scene di prepotenza, d’indifferenza… Dinnanzi a tale spettacolo, in cui domina la legge del più forte, ho sentito la necessità di distanziarmi e l’ho fatto lasciando intenzionalmente la città, per rifugiarmi in campagna, in luoghi semi-nudi e semi-vuoti, in cui s’incrociava raramente qualcuno.
Questo ritiro fisico era, anzitutto, un ritiro mentale, che mi ha condotto nel cuore della natura, sviluppando in me una vena zoologica. Gli animali, con le loro leggi, i lori modi di fare, i loro richiami, sono divenuti i miei amici, non nel senso di una sostituzione della relazione umana – per me necessaria -, bensì nel senso di un momentaneo esercizio di decentramento. Ho voluto, cioè, osservare il mondo naturale che mi si è spalancato davanti lasciando la città, e i ragni, i rospi, le cicale, i corvi sono divenuti oggetto di osservazione e di contemplazione. Ciò che ho scoperto, è che vi è un’insita nobiltà anche nella bestialità animale: ogni azione, anche quella più feroce, si basa sempre sul non arrecare sofferenza inutile. Al contempo, nello sguardo di certi animali ho scorto quell’innocenza primordiale, che è anche negli occhi dei bambini: costoro non sanno cosa sia la cattiveria gratuita, non sanno cosa sia il male inflitto per piacere, e sono pertanto esseri pienamente vulnerabili. In questa innocenza, che non sa cosa sia il male ma segue unicamente la natura, ho trovato pace e speranza. Da questi sguardi puri, forse, il mondo ripartirà.
Ne “Erranza” si coglie una dolente figura di poeta-angelo che vaga tra i resti della civiltà: Lei intende la poesia come possibilità di sopravvivenza nel tempo dell‘estinzione dei sensi, o come estrema forma di fedeltà all’umano?
La poesia è una forma estrema di fedeltà all’umano ed è una provocazione che vuole infrangere la logica materialistica e utilitaristica che domina il mondo. Essa è una forma di resistenza dinnanzi al dilagare di una vita basata unicamente sul profitto, sull’apparire, sul predominio, sul successo, sulle cose. Eppure, oggi è particolarmente difficile fare poesia vera. E solo della poesia vera voglio parlare. E’ difficile – dicevo – fare poesia vera, perché essa risponde a specifici requisiti: non si vende al migliore acquirente e non si adegua ai parametri imposti dal mercato in nome del successo; non si fa portatrice dell’autoreferenzialità dell’autore, ma prova piuttosto a farsi sguardo critico sul mondo e sulla realtà; non si basa sul vittimismo come strumento di captazione di consensi; non si adegua allo spirito del tempo né promuove i suoi pseudo-valori, ma si fa visione che sfora nel futuro, in modo preveggente. La poesia vera è dunque una scelta di vita, che quasi certamente condurrà alla miseria economica e alla marginalità – quasi nessuno, infatti, vuole una poesia che non si adegua e che si fa strumento critico, interrogando le coscienze e mettendole in discussione… Ecco perché il poeta è una sorta di angelo terrestre, che vaga tra le rovine del mondo. Un mondo che, nella misura in cui condanna e uccide i suoi veri poeti, sta in realtà uccidendo se stesso e consegnandosi alla disperazione.
La lingua che usa, tersa, sensoriale, quasi medianica, sembra tendere a una rarefazione mistica del dire. Quanto è importante per Lei la dimensione musicale e sacrale della parola poetica?
La poesia è musica e, spesso, quando scrivo, sento delle melodie nella mia testa. La poesia è però anche preghiera: penso agli autori di icone, che prima di dipingere si svuotano e praticano una lunga penitenza, così da farsi anfore che vengono investite da una forza spirituale. Lungi dal praticare simili esercizi, e lungi dal ritenere che il poeta sia un vate, alla maniera di D’Annunzio, credo piuttosto che il poetare nasca dall’ascolto e che quindi implichi un decentramento dal proprio io. Se si è interamente presi da se stessi, la parola che nasce non ha nulla da dire. Preghiera, infatti, significa, in questo caso, riconoscenza verso il mondo, ovvero riconoscere il mondo, accorgendosi di esso.
Il Sud, il Mediterraneo, l’agave, il glicine, i muri a secco: la sua poesia sembra avvolta da un paesaggio preciso ma trasfigurato. È un Sud reale, autobiografico, o mitopoietico, simbolico?
È entrambe le cose. Difatti il mio rapporto con il sud e con il Mediterraneo si radica nell’infanzia, avendo io origini siciliane. Questo sud è ricerca di un legame con il mio passato, è sosta nella memoria di un tempo di calore, affetto e gioia che è svaporato. Tuttavia, oltre a questo aspetto autobiografico e istintivo, vi è quello simbolico. Inconsciamente – credo – il sud dev’essere diventato, per me, un desiderio impossibile: quello di ridare vita a ciò che è ormai perduto. L’impulso a ricreare quella dimensione di pace e armonia che ho avuto la fortuna di sperimentare nella mia infanzia e giovinezza, mi perseguita con immagini mediterranee… Tra questi paesaggi, fatti di pini, di mare, di muri a secco, del resto, sento che io stessa potrei trasformarmi in una pianta, o che potrei tranquillamente vivere di pane e acqua, dimenticandomi tutto il resto.
L‘ultima poesia della raccolta, “Un mondo prima di te”, parla di un’esplosione dell‘io nella vastità della notte. È in questo annientamento del sé che Lei intravede la possibilità di una rigenerazione poetica e ontologica?
Credo che per trovare il nostro vero sé, occorra prima liberarsi dell’io. Imparare, come ho già sostenuto, a non essere l’unico punto di riferimento, attorno a cui tutto il resto ruta in subordine. Da questa perdita dell’io – che è poi una liberazione dai condizionamenti, da ciò che gli altri e la società vogliono, dalle maschere, dalle preoccupazioni materiali che c’impediscono di dare la giusta priorità alle cose e così via – deriva la riscoperta del sé, la parte più vera di noi, che sa gioire anche del poco, che sa meravigliarsi, che sa non temere il giudizio e che, in parte, ci lega alla nostra infanzia. Inoltre, la rigenerazione poetica e ontologica di cui parla e che passa da questa spoliazione dell’io, richiede la verità. Ed è proprio a questo concetto, ostacolato e temuto, che voglio ricorrere: imparare ad essere veri con se stessi -ammettendo i propri limiti, i propri errori, la propria ignoranza- e con gli altri, per approdare alla gioia di vivere.
Nel pubblicare questa raccolta in edizione bilingue, con il romeno a fronte, quale urgenza ha avvertito: la volontà di aprire un dialogo intimo con un’altra geografia linguistica, o il desiderio di affidare alla lingua romena una risonanza altra, capace di rifrangere nuovi sensi del testo originario?
Senz’altro, la scelta di pubblicare la racconta in edizione bilingue, risponde all’urgenza di aprire un dialogo con un nuovo contesto, con una nuova letteratura. A tal proposito, leggere i miei componimenti in romeno mi ha fatto uno strano effetto. La musicalità dell’italiano, infatti, cede il posto a una sonorità più dura e decisa, che rende la poesia più penetrante. Al contempo, questa pubblicazione costituisce per me una sfida, che mi ha spinto a osare e a sottopormi al giudizio di un pubblico nuovo e di una critica non abituale. Sono certa che tutto questo mi farà crescere e che mi consentirà di evolvermi sia umanamente, che letterariamente, ed è ciò che più conta.
Giuseppina Capone