“Partigiane!”: perché ha ritenuto di dover dare voce ad una narrazione femminile della Resistenza?
Perché, come ebbe a dire Lidia Menapace, «se non ci fossero state le donne non ci sarebbe stata la Resistenza». Furono loro a nascondere uomini e soldati dopo l’8 settembre, a rifornirli di vestiario, viveri e medicinali, a trasportare armi, riferire informazioni logistiche: furono dei veri e propri ufficiali di collegamento, inoltre, sabotarono e parteciparono ad operazioni belliche.
In che modo il suo lavoro riesce ad intrecciare la dimensione personale e soggettiva delle protagoniste con l’orizzonte politico più ampio della Resistenza, mantenendo un equilibrio tra memoria individuale e storia collettiva?
L’orizzonte politico nelle storie delle donne casertane non emerge a tutto tondo: in primo piano è il loro contributo alla guerra contro il nazifascismo. Sono le loro azioni personali che affiorano dalla documentazione del ministero della Difesa. Solo leggendo i carteggi attentamente e ricreando la rete intessuta in quel periodo, si ha la visione del complesso di legami che le unirono ai partiti del CLN, in particolare al Partito d’Azione, Liberale, Socialista e Comunista, ma questi sono aspetti da approfondire. Di fatto esiste nelle loro storie un profondo equilibrio tra scelte individuali e politiche e storia collettiva.
Può spiegare come la metodologia adottata in “Partigiane” permette di riscoprire aspetti invisibili o marginalizzati delle esperienze femminili nella Resistenza?
Ho riportato integralmente nel volume la documentazione conservata presso l’Archivio centrale dello Stato nel fondo RICOMPART (ministero della Difesa, Ufficio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani) versato tra il 2009 e il 2012. In particolare, in quasi tutti i fascicoli è conservato il modulo di domanda predisposto dal ministero dell’Assistenza Post-Bellica, dal quale possono essere estratte informazioni preziose per ricostruire le relazioni tra formazioni partigiane, gruppi e personalità politiche aderenti ai Comitati di Liberazione locali e nazionali, ricostruendo un quadro di quello che fu, nell’area casertana, l’intervento femminile.
Qual è il ruolo della dimensione definita “di genere” nel suo racconto storico, e come reputa che questa prospettiva modifichi la comprensione dei concetti di coraggio, sacrificio e militanza nella Resistenza?
Non vado a modificare alcuno di questi concetti, piuttosto vorrei mettere in evidenza il determinante impegno femminile in ambito resistenziale. Le donne svolsero in silenzio il loro ruolo, una veste in cui da secoli del resto erano confinate. Potremmo parlare di rimozione della memoria per almeno un quarantennio. Renata Viganò fu la prima e l’unica partigiana combattente a raccontare, in modo romanzato con «L’Agnese va a morire», la sua storia nel 1949; il volume di Ada Prospero Gobetti, «Diario partigiano», è del 1956. Poi, ci volle il vento impetuoso della rivoluzione femminista per restituire voce alle resistenti, per citare i libri più conosciuti: solo sul finire degli anni ’80 abbiamo «Pane nero» della Mafai e «Portrait» di Joyce Lussu ed è del 2000 «Con cuore di donna» di Carla Capponi. La stessa storiografia femminile al riguardo prende il via solo all’inizio di questo secolo, mentre la storiografia in senso lato accenna al ruolo delle donne soltanto dal 2019, nella fattispecie mi riferisco al volume di Flores e Franzinelli «Storia della Resistenza».
Nel libro emerge una pluralità di identità femminili e di scelte etiche durante la Resistenza. In che misura queste diversità contribuiscono a problematizzare l’idea di un’unica “voce” partigiana femminile?
Ormai da oltre un decennio si parla di “Resistenza” al plurale. Le donne operarono come gli uomini: alcune combatterono, altre fiancheggiarono e aiutarono in vari modi, tante modalità differenti quante sono state le forme di Resistenza. Non un’unica voce quindi, parlerei più di un coro e di scelte diverse ma con un unico scopo: far finire il delirio della guerra nella prospettiva di un futuro di pace perenne. Questo uno dei motivi unificanti nel quale si vanno ad incarnare le diverse opzioni di lotta contro i nazifascisti che quel conflitto volevano continuare.
Come pensa che la rappresentazione delle donne partigiane in “Partigiane!” possa influenzare il dibattito contemporaneo sulle politiche di memoria e sulla costruzione dell’identità nazionale italiana?
Diciamo che mi piacerebbe vedere libri di storia diversi da quelli attualmente in circolazione, ad esempio nelle scuole, in cui uomini e donne interagiscono nel determinare gli eventi. Vede, la Storia (quella con la “esse” maiuscola) non si riscrive ma si approfondisce, va avanti grazie alla ricerca e allo studio della nuova documentazione che viene versata negli Archivi di Stato o nei tanti Istituti di cultura di cui è ricco il nostro Paese; di conseguenza non è mai detta una parola definitiva su ciò che è stato: ogni fenomeno storico va sempre approfondito e rivisto in base a ciò che emerge dagli archivi pubblici o privati che siano. Per il resto ritengo che gli italiani siano ben consci dei principi sui quali si fonda la nostra Repubblica e spero che il mio volume possa contribuire ad incrementare questo patrimonio di conoscenze: una prova di memoria collettiva onnicomprensiva dei generi.
In che modo la sua narrazione riesce a coniugare la dimensione eroica con quella quotidiana, spesso fatta di paura, dubbi e fragilità, senza perdere il rigore storico né cadere in una retorica vittimistica?
A questa domanda dovrebbero rispondere i lettori. Io, come già accennato, ho cercato di evitare connotazioni sentimentali riportando, da archivista quale sono stata e sono, i documenti. Paure, dubbi, fragilità e senso di responsabilità trapelano dalle carte d’archivio e si riflettono nelle testimonianze. Aggiungerei con le parole di Carla Capponi che: «personale e intima resta nel cuore gran parte della vita non svelata, quella delle riflessioni, quella pensata a lato delle azioni quotidiane». Essere fatte prigioniere dai tedeschi tra le montagne della linea Gustav mentre si spiano le loro postazioni e avere la freddezza di mentire sulle proprie intenzioni e notte tempo fuggire, o uscire sfidando il coprifuoco e le ronde, per recuperare feriti o portare armi e viveri adoperandosi per difendere perseguitati e persone in pericolo, fa di sicuro immaginare un miscuglio di sentimenti che dà un nuovo senso alla quotidianità. Aida Conforti, una delle mie partigiane, dice «Ci proteggeva l’incoscienza della giovinezza», mentre Ida Pontillo, nel suo ricorso per ottenere la qualifica partigiana, afferma «Le attività svolte non sono state delle più facili». Ma nessuna di loro si pone su un piano vittimistico: sono determinate a veder riconosciuta la loro collaborazione e volontà di esserci state, con orgoglio. Da rimarcare, infatti, che poi non parlarono delle loro esperienze né con i famigliari né lasciarono memoriali, tranne Aida Conforti che scrisse tre paginette per l’anniversario del 2003 e Margherita Troili che accenna al proprio vissuto di clandestinità nel volume «Una donna ricorda» (1987).
Quali sono state le principali difficoltà incontrate nel ricostruire il vissuto delle donne partigiane in una specifica area geografica?
Principalmente, proprio le difficoltà generate dal loro silenzio: queste donne non hanno lasciato testimonianze né archivi personali. Infine, ma non ultimo, il problema del riordinamento del fondo RICOMPART: versato tra il 2009 e 2012 presso l’Archivio centrale dello Stato, a causa della gran mole di documentazione, circa 7.430 buste, e della mancanza di personale ancora non è fruibile in modo organico e completo.
Come interpreta il rapporto tra la partecipazione femminile alla Resistenza e la successiva condizione sociale e politica delle donne nell’Italia del dopoguerra?
La Storia insegna che i cambi di mentalità sono lenti e faticosi, non si cambia una condizione in pochi anni, ci vogliono decenni se non secoli. Ancora oggi siamo in parte soggetti a questa mentalità retrograda che vede la donna in secondo piano o oggetto di possesso, nonostante la Costituzione affermi la parità di genere a tutti i livelli, dal privato al pubblico.
Alla luce del suo studio, quali aspetti della Resistenza e delle donne partigiane ritiene ancora oggi sottovalutati o misconosciuti dalla storiografia ufficiale e dalla cultura popolare?
Direi assolutamente tutti. Per una corretta visione del fatto storico bisogna ancora superare molti pregiudizi, in particolare quello di genere: finché la storia sarà un elenco di nomi maschili non avremo una ricostruzione effettiva dei fatti. Del resto le donne non hanno aderito solo alla Resistenza, hanno partecipato alla prima guerra mondiale, e in precedenza al Risorgimento, per fermarci alla storia recente. Ricordo, anni fa di essere stata colpita da una lettera scritta in previsione dei Plebisciti, conservata nel fondo Pepoli presso l’Archivio di Stato di Perugia: inviata «A Sua Maestà. Il Re d’Italia. Vittorio Emanuele» nel 1860 da «Angela Valentini di Matelica, dimorante in Stigliano in Sabina». Ho sempre con me la trascrizione. Le leggo qualche brano di quanto scriveva: «Maestà, non possiamo noi donne persuaderci che non abbiamo da votare come gli uomini, dunque noi siamo un nulla? Non sa vostra Maestà che ci sono donne che pensano meglio degli uomini! E che hanno coraggio quanto essi. E perché noi abbiamo da essere oppresse in tutto? Vogliamo ancor noi dare il voto, dare il sagro santo Sì al nostro redentore che ha reso la pace e l’unione a tutta Italia. Abbiamo dato prove ancor noi della causa Italiana. […] Se ci fosse bisogno di un Regimento di donne, tutte siamo pronte a imbrandire le armi ed io andrei avanti col Viva Vittorio Emanuele il nostro Re. Viva l’Italia Unita». Angela Valentini è una sconosciuta alla Storia del Risorgimento e del femminismo, e proprio per questo testimonia, oltre alla passione patriottica, l’accesa partecipazione delle donne alla vita politica da sempre. È grazie alla Resistenza che le donne italiane hanno ottenuto il diritto al voto. Il cammino è stato lungo, oggi godiamo di libertà e diritti grazie a tante sconosciute che hanno lottato per noi ma la strada da fare, dal punto di vista storiografico e non, è ancora molta.
Giuseppina Capone