Giancristiano Desiderio: football. Trattato sulla libertà del calcio

 Jean Paul Sartre scrive: «Il calcio è la metafora della vita».

Questo luogo comune può essere rovesciato in: «La vita è la metafora del calcio.»?

E’ quanto faccio, dichiarandolo, in football. Gli intellettuali, ma non solo loro, vedono il calcio come metafora, immagine, simbolo e così ripetono quello che è, appunto, un luogo comune. Sulla scia di Sergio Givone, ma andando al di là della sua intuizione, ho capovolto il luogo comune e ho mostrato che è la vita ad essere la metafora del calcio: ossia è l’esistenza umana che sembra modellarsi sul gioco calcistico fino a imitarlo o copiarlo. Per capire questo capovolgimento è necessario prendere il calcio proprio per ciò che è realmente: football, palla calciata. Si vedrà, allora, che le due regole del gioco del calcio, il controllo e l’abbandono del pallone, sono anche le due regole della vita.

Nel Novecento il calcio ha sconfitto i totalitarismi di Hitler e di Stalin.

Quale funzione politico-sociale-antropologica assume oggi il football?

Oggi il calcio è né più né meno che un divertimento, un affare e, volendo esprimere un giudizio moralistico, oppio. E’ anche giusto così. Questo accade perché il gioco praticato in una condizione di libertà è soltanto un gioco, mentre se il gioco è giocato in un regime dispotico o addirittura totalitario, come nel caso della Germania di Hitler e l’Urss di Stalin, diventa un gioco pericoloso, a tal punto pericoloso che in gioco c’è la vita. Proprio come accade nel gioco della filosofia quando la pratica del lavoro critico è condotta fino in fondo. Però, non c’è bisogno di vivere sotto una dittatura per scoprire la carica umana del gioco del calcio. Il mio libro, in fondo, vuole svolgere proprio questa funzione e assume il calcio come stimolo per pensare la vita e la sua connaturata libertà.

Il suo trattato lascia intendere che calcio sia il modello cognitivo del controllo e dell’abbandono, sostitutivo del “sistema di sicurezza” della storia del pensiero occidentale.

Il calcio come idea di libertà?

Sì, proprio così. Per poter giocare a pallone non possiamo fare altro che mettere la palla in gioco ossia rischiare di perderla, di subire il gioco avversario, di essere anche sconfitti. Ma non c’è altro modo per giocare. Così accade anche nella vita: per vivere non possiamo fare altro che mettere la vita in gioco e anche per pensare la vita non possiamo fare altro che metterla in gioco. La vita e la verità sono a tutti gli effetti come la palla, la sfera. Non era forse un grande filosofo presocratico, Parmenide, a dire che la verità è come una ben rotonda sfera? Una sfera che rotola, direbbe Eraclito. E noi non possiamo fare altro che controllare e abbandonare la palla, controllare e abbandonare la vita perché non siamo e mai saremo i padroni assoluti né del pallone né della vita. Ma, si aggiunga, proprio per questo siamo esseri votati alla libertà, perché per essere liberi è necessario giocare, lavorare, operare, partecipare alla vita e alla vita del sapere, del pallone. In fondo, il numero 10 più grande di ogni tempo, lo diceva già in modo mirabile quando osservava che la vita umana “partecipa” alla verità cioè la possiede se non per il tempo ristretto del giudizio conoscitivo che poi abbandoniamo per vivere.

La Var possiede una pretesa: controllare il gioco ed eliminare l’errore.

Ciò non stride con il carattere “hayekiano” di siffatto sport, che si profila come l’esito delle azioni dei giocatori e non di una volontà pianificatrice calata dall’alto? L’errore non è una variabile da accettare?

La Var è prima di tutto un’illusione: il convincimento di poter e dover controllare tutto. Poi è un rimedio peggiore del presunto male: perché non elimina l’errore ma lo assume trasformandolo in verità e imponendolo ai giocatori. Ma i giocatori giustamente si ribellano perché è il Gioco stesso che si ribella attraverso di loro. La Var è l’introduzione nel gioco dell’ossessione del sistema di sicurezza nel tentativo maldestro di eliminare l’errore, lo sbaglio. E’ la quintessenza delle contraddizioni della nostra cultura quando rifiuta la sua dimensione umana, umanissima. Nel libro suggerisco di usare la Var solo per la geometria ossia per il fuorigioco o per le linee, ad esempio per vedere se il pallone è di qua o al di là della linea; ma per il resto, ossia per le azioni di gioco, non solo va eliminata la Var ma va rivisto anche il regolamento con le assurdità del fallo di mano automatico, delle braccia attaccate al corpo. Il calcio è una danza e le braccia servono per danzare con equilibrio.

“Football” è un testo zeppo di storie vere. Può offrircene una?

Beh, c’è la storia del giocatore che fermò Hitler, Matthias Sindelar, o l’allenatore più importante nella storia del calcio italiano, Arpad Weisz, ma la storia che a me piace ripetere è quella del calciatore che giocava in due squadre e in una delle due sotto falso nome oppure la storia del mister che allenava due squadre che militavano nello stesso campionato e una domenica le due squadre si incontrarono e lui passava da uno spogliatoio all’altro per illustrare la strategia di gioco, dicendo chissà che cosa. Il gioco del calcio, che come tutte le cose non dominabili fino in fondo ha una natura ironica, è anche questo.

Giancristiano Desiderio, laureato in Filosofia all’Università Federico II di Napoli, inizia il suo lavoro giornalistico come collaboratore del Secolo d’Italia. Nel 1996 entra a far parte della redazione del quotidiano beneventano Il Sannio  e nel 1999 ne assume la direzione. Nel 1999 inizia a collaborare con il Corriere del Mezzogiorno  e con Sette  del Corriere della Sera. Nel 2000 Vittorio Feltri lo assume come redattore politico di Libero e svolge il lavoro di cronista parlamentare. Nel 2004 passa a L’Indipendente diretto da Giordano Bruno Guerri e nel 2005, con la direzione di Gennaro Malgieri, ne diventa vicedirettore. Nel 2005-2006 conduce il programma televisivo Walk Show su Rai Futura, canale Rai diretto all’epoca da Franco Matteucci. Nel 2005 ha fondato la Biblioteca Michele Melenzio di Sant’Agata de’ Goti e ne è direttore. Dal 2008 al 2013 è editorialista del quotidiano Liberal fondato da Ferdinando Adornato e diretto da Renzo Foa. Ha scritto per Lo Stato, Il Giornale, Il Foglio, Il Riformista, Percorsi. Insegna filosofia e storia al Liceo Manzoni di Caserta. Scrive per il Giornale e per il Corriere della Sera.

Giuseppina Capone

Eros e Thanatos ne I Racconti di Canterbury di Pier Paolo Pasolini

Rossella Lisoni, Canterbury Tales è la fonte letteraria alla quale Pasolini si è ispirato per la realizzazione del suo film.

Quali caratteristiche possiede la narrazione di Chaucer ed in qual maniera è assorbita ed adottata da Pasolini nella produzione cinematografica in esame?

E’ lo stesso Pasolini ad asserire nella “Revue du cinéma image et son” a proposito del suo film I Racconti di Canterbury che egli non ha mai avuto l’ambizione di fare un film in inglese come se fosse un film in inglese, in quanto sapeva già prima di iniziarlo che sarebbe stato il punto di vista di un italiano che ha letto I Canterbury Tales e la notte ha sognato I Canterbury Tales.

Portando sullo schermo I Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer nel 1972 egli getta lo sguardo ad un’opera letteraria lontana nel tempo (“sono una forza del passato, solo nella tradizione è il mio amore” dirà il poeta in Poesia in forma di rosa), come se soltanto nel passato potesse ritrovare una dimensione gioiosa e incontaminata del vivere quotidiano e l’immagine di un eros liberamente vissuto.

I testi letterari ai quali attinge nei tre film de La Trilogia della vita “”Il Decameron”, I Racconti di Canterbury” e “Il Fiore delle 1000 e una notte” diventano nelle mani di Pasolini dei pre- testi, delle tracce narrative sulle quali costruire il suo personale discorso poetico, a volte distante dall’ideologia dell’autore preso in esame.

Certamente con “La Trilogia della vita” Pasolini fa esplodere certe tensioni presenti fin dall’inizio della sua produzione poetica, quello che ne “La religione del mio tempo” viene definito come “L ‘innocente bene della vita” Pasolini lo trovava un tempo nell’Africa nera (“Appunti per un’Orestiade africana”) e nell’India “Appunti per un film sull’India”), terre vergini ma non in grado di sottrarsi all’intervento di un Capitale che ne deforma il volto.

Negli anni 70 Pasolini si volge a riconsiderare un passato lontano dove ha origine la letteratura popolare, quindi una realtà autentica e sarà questa la filosofia che attraverserà per intero “La Trilogia della vita”.

Il desiderio di comunicare per far nascere la riflessione lascia ora con il film ‘I Racconti di Canterbury” il posto al piacere di fare, di raccontare per il piacere di raccontare.

Ricerca nostalgica quella di Pasolini, che sfugge alla logica della decadenza e rimanda ad un universo transtorico, per questo il Chaucer di Pasolini perde quasi del tutto ogni connotazione storica.

Pasolini si muove su due direzioni contrapposte: da un lato ignora la pagina chauceriana, il fatto cioè che il testo di Chaucer risenta di un’epoca gaudente che esce dalle paure medievali e si avvia a una concezione umanistica della vita e dall’altro Pasolini coglie, con colori lividi e atmosfere cupe, il momento in cui si afferma la società borghese, quell’economia mercantile che inesorabilmente finisce per imporre la propria logica perversa all’universo popolare e ai valori che lo caratterizzano.

Pasolini deideologizza il testo di partenza, ma dello stesso conserva la visione di un’età di trapasso epocale che porta con sé certezze passate e dubbi future.

Pasolini comprende che Chaucer prevede tutte le vittorie della borghesia, ma anche la sua fine .

Egli parla di una ricostruzione chauceriana visionaria, non un pretesto per ricostruire un mondo lontano dal punto di vista storico, in quanto la storia nel suo film è pura visione.

L’immaginario letterario e l’attività giornalistica di Paolini nella sua produzione cinematografica.

Ha ritrovato segni, rimandi, riverberi?

Fu lo stesso Pasolini ad affermare che “un poeta scrive sempre la stessa poesia e un regista gira sempre lo stesso film”. Gli assunti della sua poesia, dei suoi romanzi, dei suoi scritti corsari animano i suoi film. L’ amore viscerale per la propria terra e in seguito per le borgate romane, il tema dell’eros mai disgiunto da thanatos, il dissidio tra istinto e ragione, la critica ai valori della borghesia divenuti per Pasolini dei disvalori, assunti tipici delle sue poesie (“Poesie a Casarsa”,” La religione del mio tempo”) e dei suoi romanzi (“Ragazzi di vita”, “Una vita violenta”) confluiscono nel suo cinema. Sia nel cinema degli esordi, in cui è descritto il mondo sottoproletario e il suo cammino verso la morte (Mamma Roma, Accattone), che nel film “storico”: “Il Vangelo secondo Matteo”, in cui la storia del Cristo aderisce all’ottica dei film prima analizzati, con evidenti richiami al mondo contadino, il cui dialetto era stato analizzato nelle prime produzioni poetiche (“Poesie a Casarsa” e La meglio gioventù), che nel cinema di denuncia (Teorema), che nei i film in cui riecheggia la realtà storica a la propria biografia esistenziale servendosi del mito (Edipo Re, Medea) che infine nei 3 film de “La trilogia della vita”: Il Decameron, I Racconti di Canterbury e Il Fiore delle mille e una notte, in cui l’eros è un valore da contrapporre all’odiato presente, a quell’universo borghese che degrada la realtà. La differenza tra letteratura e cinema, sottolineerà il Pasolini teorico del cinema, sta nel maggior grado di realtà che quest’ultimo rispetto a quella riesce ad assicurare. Il confronto con la morte, inteso come assunto ossessivo, è  un dato ricorrente nell’intera produzione pasoliniana, è l’espressione del suo sentire profondo. Nel film I Racconti di Canterbury l’idea della morte ci accompagna lungo tutto il corso del film e la morte vestirà i panni del protagonista nel Racconto dell’indulgenziere. Sarà la morte ad avere la meglio su tutti, quasi a sottolineare che nel duello con la morte si esce sempre perdenti e che la vita termina là dove regna il denaro, cioè la corruzione. Il morire evocato sugli schermi pasoliniani si rivela come un non senso precipitato, quasi un improvviso non rendersi conto, pensiamo alla morte del quarto marito nella Novella della Donna di Bath. E’ quello degli anni 70 un Pasolini “corsaro” critico si della modernità derivante dall’omologazione delle conoscenze e della cultura operante direttamente dal potere e indirettamente dai mass-media, ma sempre in maniera contraddittoria (“per chi è crocefisso alla sua razionalità straziante, la rivoluzione non è più che un sentimento”). La qual cosa non gli impedisce di far salve le ragioni della poesia. Sarà lo stesso Pasolini a distinguere un cinema di poesia, al quale egli stesso tende, un cinema nel quale la macchina da presa fa sentire la sua presenza attraverso le riprese in soggettiva, da un cinema di prosa in cui certi procedimenti stilistici sono assenti.

Chaucer, probabilmente, offre a Pasolini un’occasione per elevare e glorificare il corpo nella sua dimensione più appagante e favolosa.

Quale idea emerge in relazione all’eros?

L’operazione che compie Pasolini ne I Racconti di Canterbury è ridurre il “dialogismo” Chauceriano e convertirlo in fatto visivo. La riconquista del reale va vista nei  procedimenti tecnico espressivi impiegati dal regista, cioè nelle scelte di scrittura che rendono autonoma un’opera che trae pur sempre spunto da un testo letterario.

Se il visibile è sottoposto alle leggi sociali e il discorso è limitato da un ordine imposto da un sistema ideologico, gli scarti tra l’uno e l’atro rappresentano i momenti in cui Pasolini può proporre l’autentico, la verità che il sociale reprime.

Far vedere il corpo nella sua integrità, mostrare l’atto erotico sullo schermo sono pratiche attraverso le quali l’intelletto fa irruzione sullo schermo, nella sua completa oscenità, in una società che tiene distante la sua esibizione.

Il regista interviene in maniera significativa sulla pagina scritta: ricondurre il dialogo sulla sfera del visivo non significa solo rendere omaggio ad un cinema che non esiste più, ma anche tenere cose e figure umane in campo mute, affinché il gesto, la corporeità fisica, anziché la parola, diventino elemento primario significante.

I Racconti di Canterburiy all’idea del corpo come vitalità, che era già stato del “Decameron” e che ritroveremo nel “Fiore delle 1000 e una notte” aggiungono un’immagine di questo stesso corpo completamente opposta.

Aleggia infatti all’interno del film un’idea di morte, di disfacimento fisico, di caducità dell’esistere che è presente soltanto parzialmente nel testo letterario di Chaucer.

Nel film sono presenti un corpus di novelle in cui l’eros è mostrato quale momento di liberazione e pienezza di vita, gioia del corpo e al contrario altre in cui l’eros sfocia nel thanatos, in cui emergono valenze tanatologiche nel momento in cui la società reprime la carica erotica, vitale dell’eros.

Allorché i corpi dei protagonisti delle novelle appaiono coperti esprimono una mercificazione e in ombra esprimono il peccato, come nel Racconto del Mugnaio, nel Racconto del Mercante, Racconto della Donna di Bath, mentre quando i corpi sono mostrati nudi e illuminati dalla luce del sole indicano una valenza positiva.

Nel Racconto del Fattore, la figlia del Mugnaio, la sola capace di dire la verità, ci appare nuda e illuminata dalla luce del sole. La sola figura femminile investita di un ruolo positivo e capace di esprimere un sentimento autentico, sganciato cioè dalla morale mercantile.

Nell’insieme però nel film il linguaggio del corpo non riesce a trasmettere una solare vitalità, comunica un senso di inerzia, di morte, di oppressione, unica eccezione la danza di Ninetto Davoli nel Racconto del Cuoco, danza che appare come una vana speranza.

Eros e Thanatos: è un connubio necessario ed imprescindibile? Inoltre, quanto è incisivo il contesto in cui si esprimono?

La morte, come più volte ricordato, rappresenta un assunto fondamentale nell’opera pasoliniana.

Presenta già nei primi componimenti poetici (Poesie a Casarsa) e nei suoi romanzi (Ragazzi di vita, Una vita violenta), trova nel cinema la completa rappresentazione.

Sarà lo stesso Pasolini ad affermare che la libertà è “libertà di scegliere la morte” e sarà proprio thanatos, come lato oscuro di eros, a rappresentare uno dei cardini de I Racconti di Canterbury.

Nel film è presente una morte medievale, allegorica e come ricorda Pasolini ” morte nello stesso momento volgare fino all’abiezione”. La strada affollata di uomini vivi del film diviene nel finale del film un gruppo mortuario, quasi una discesa all’inferno per gli uomini che hanno venduto le loro anime al diavolo per ottenere un profitto economico.

L’ idea della morte che aleggia nel film non è associata all’idea del pellegrinaggio medievale, con mortificazione della carne, digiuni, silenzi, preghiere, ma al contrario siamo immersi in un’atmosfera paganeggiante, il cui principale interesse è costituito dal profitto economico.

Il senso religioso è svanito e l’umanità ha perso i suoi valori fondamentali la punto da vendersi il velo di Maria.

Viene esaltato il valore della parola, come religiosità , come comunicazione ma soltanto per propagandare il valore del guadagno cioè thanatos.

Fine di ogni valore e morte in senso allegorico dell’eros cioè della religiosità,

Morte dell’anima ma non della carne, non più in grado però di procurare all’uomo felicità.

Pasolini dichiarò: “I racconti di Canterburysono stati scritti quarant’anni dopo il Decameron ma i rapporti tra realismo e dimensione fantastica sono gli stessi, solo Chaucer era più grossolano di Boccaccio; d’altra parte era più moderno, poiché in Inghilterra esisteva già una borghesia, come più tardi nella Spagna di Cervantes. Cioè esiste già una contraddizione: da un lato l’aspetto epico con gli eroi grossolani e pieni di vitalità del Medioevo, dall’altro l’ironia e l’autoironia, fenomeni essenzialmente borghesi e segni di cattiva coscienza.»

Può commentare tale asserzione alla luce dei suoi studi?

The Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer costituiscono un punto di riferimento basilare per una teoria dei generi tra Medioevo e Rinascimento, poiché sono una summa di forme e stili.

Con Chaucer la letteratura inglese del Middle English raggiunge la sua più alta espressione.

Egli diviene, per le sue proprie qualità, uno scrittore dotato di risorse tecniche, versatile e universalmente ammirato in tutto il medioevo inglese.

Il Medioevo di Chaucer è un’epoca in declino, i capisaldi del mondo medievale: la Chiesa e l’Impero mostrano segni di decadenza.

La borghesia, che con l’arma della satira trionfa sulle vecchie istituzioni, impone il richiamo alla religione.

Per il poeta il mondo dei sensi, lungi dall’essere una realtà intangibile, è un universo desiderabile anche nella sua caducità.

In qualità di gaudente, egli sa apprezzare tutto ciò che è terreno, non facendosi influenzare da preoccupazioni ultramondane, ma al contrario godendo di una serenità non riscontrabile negli altri scrittori medievali e riuscendo a ricavare dall’osservazione ironica, ma anche comprensiva dei suoi simili, quel genere di divertimento del quale solo l’artista sa godere. L’ambiente economico e sociale con le sue inquietudini e i suoi sconvolgimenti viene filtrato attraverso il carattere dei personaggi e trasfuso in esempi individuali e di egoismo e furfanteria, descritti con quello stesso interesse e gusto per il comportamento degli uomini e per le loro debolezze che si ritroverà in Shakespeare.

Il punto di vista di Chaucer è sempre quello di un laico, nonostante le testimonianze di un genuino sentimento religioso.

Egli nel suo complesso si mostra più attratto che scandalizzato dalle debolezze della natura umana.

Non un giudizio duro o un’aspra critica muove la volontà di Chaucer, bensì l’accettazione e la giustificazione di ogni creatura umana e la scoperta in essa di una profonda umanità.

Chaucer è volto al divertimento ed esalta la borghesia, come classe sociale produttiva e socialmente utile.

La grande capacità di Chaucer è la chiacchiera, i narratori più che narrare chiacchierano, le storie che raccontano sono un pretesto per dei meravigliosi pezzi di bravura comico-moralistica, con un’ infinità di citazioni preziose, di magniloquente didattiche fintamente arcaiche.

Chaucer, all’interno dell’opera, ha una duale identità, sia di autore che di pellegrino, elemento fondamentale che, insieme alle sue doti di narratore e umorista borghese, lo rendono quasi un antenato dei romanzieri del settecento inglese.

Il suo punto d’osservazione, anche se ironico, è sempre centrale, il tono anche se comico, mai buffo e ognuno dei suoi personaggi rappresenta una qualche verità essenziale dell’uomo, da qui la sua estrema raffinatezza.

 

Rosella Lisoni nasce a Marta in provincia di Viterbo, si laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne e Contemporanee presso l’ Università degli Studi della Tuscia con una tesi sul cinema di Pasolini. Inizia la sua attività lavorativa insegnando lingua francese, attualmente lavora nella Segreteria di Direzione del Dipartimento per la Innovazione nei Sistemi Biologici, Agroalimentari e Forestali I -DIBAF, presso l’ Università della Tuscia.

Per anni ha scritto recensioni cinematografiche sulla rivista Cinema60.

Ha collaborato su un quotidiano on line di Viterbo e attualmente collabora con la rivista culturale L’ Ottavo.

Nel luglio 2020 ha pubblicato un saggio su Pasolini dal titolo: “Eros e Thanatos ne I Racconti di Canterbury di Pier Paolo Pasolini”.

Giuseppina Capone

I sentieri delle Ninfe nei dintorni del discorso amoroso

Fabrizio Coscia è nato a Napoli, dove vive e insegna. È critico letterario e teatrale, collabora al quotidiano «Il Mattino». Ha pubblicato il romanzo «Notte abissina» (Avagliano, 2006), la raccolta di saggi narrativi «Soli eravamo e altre storie» (ad est dell’equatore, 2015, tradotta in tedesco), «La bellezza che resta» (Melville Edizioni, 2017, finalista al Premio Brancati 2017), «Dipingere l’invisibile. Sulle tracce di Francis Bacon» (Sillabe, 2018), «I sentieri delle Ninfe. Nei dintorni del discorso amoroso (Exòrma, 2019), «Lo scrivano di Nietzsche» (Mattioli 1885)

Alcuni testi tratti da «Soli eravamo» sono stati tradotti in inglese e pubblicati su riviste letterarie internazionali.

Omero con Calipso come HH, Humbert Humbert, il protagonista di Lolita, colti dalla mania della ‘ninfetta’.

Chi è la “ninfa”?

La Ninfa, secondo la mitologia, è una creatura mortale di origine divina, nata dalla spuma di sangue e sperma caduta in mare dalla castrazione di Urano. Ma è una creatura che, dai tempi dell’antica Grecia, continua a sedurci, a parlare alla nostra modernità attraverso le immagini, magari nascosta dietro l’icona di Bettie Page, la pin-up vestita solo di lunghi guanti di pelle nera, con un frustino in mano, sguardo dritto all’obiettivo, immortalata dagli scatti di Irving Klaw; oppure incarnata nell’eterna Marilyn Monroe, con la gonna del vestito bianco sollevata dal getto d’aria che esce dalla grata della metropolitana di Lexington Avenue. O la possiamo sorprendere nelle anonime modelle seminude delle pubblicità degli intimi e dei profumi sui muri della città o sugli edifici in ristrutturazione; o forse appena allusa in qualche immagine postata su Instagram, in qualche foto-profilo su Facebook, nei selfie ammiccanti che lasciano però solo un fugace segno nel mare della Rete, dove l’aura dell’incanto si perde, svapora nel trionfo di un effimero ripetibile all’infinito. È in ognuna di queste immagini che si possono seguire le deboli tracce della sua sopravvivenza. La ninfa moderna è solo il fantasma di ciò che un tempo è stata quella creatura mortale di origine divina, ma resta il fatto che essa è ancora viva, in quanto fantasma erotico, ed ecco perché, come tale, è pura immagine e parla attraverso le immagini, ma è un’apparizione che però rimanda immediatamente alla sua assenza, alla sua mancanza. Per questo le Ninfe sono «esseri di fuga», come l’Albertine di Proust, o la stessa Lolita di Nabokov, creature inafferrabili, che ci sono e allo stesso tempo non ci sono, rivelando dunque l’impossibilità del possesso nella relazione d’amore, e perfino il carattere intransitivo dell’amore stesso. Ci si innamora di un’immagine che nasconde un abisso. Per Platone però cadere preda della Ninfa, essere colti dalla mania, guardare in questo abisso ci permette di accedere a una dimensione superiore. Ecco, forse il mio libro cerca di capire, di indagare questo Altrove che sperimentiamo nell’ossessione amorosa.

Il mito elenca diverse categorie di Ninfe: ce ne offre una panoramica esemplificativa e ci indica la differenza con le Muse e le Moire?

Ogni Ninfa cambia nome a seconda dello spazio che abita: i boschi di montagna sono popolati dalle Oreadi, che possono vivere dentro gli alberi (come le Driadi o le Amadriadi); le fonti e i corsi d’acqua dolce sono il regno delle Naiadi: nelle sorgenti vivono le Pegee, nelle fontane le Creniadi, nei fiumi le Potameidi, nei laghi le Limniadi. Nelle profondità del mare nuotano le Nereidi; il cielo è popolato dalle Aurae, ninfe della brezza, e dalle Pleiadi. Il discorso amoroso è, pertanto, un movimento attraverso i luoghi delle Ninfe, che sono spesso emanazioni di un potere occulto, anche pieni di insidie, di inganni; ed è un movimento destinato a restare nei dintorni, nei paraggi, senza mai arrivare a destinazione, per così dire. Per quanto riguarda il loro rapporto con le Muse e le Moire, è difficile districarsi nella mitologia: le Muse, secondo le teorie più diffuse, sono considerate ad esempio «Ninfe dei monti», e le stesse fonti iconografiche più antiche che ci restano le rappresentano come Ninfe; così come le Moire, che tessono il filo del fato di ogni uomo e infine lo tagliano segnandone la morte, in effetti potrebbero essere apparentate alle Ninfe. Almeno così sembra suggerirci Omero, nel libro dell’«Odissea» in cui descrive, raccontando l’approdo di Ulisse a Itaca, l’antro delle Ninfe, dove si trovano, misteriosamente, anche dei telai di pietra. Queste Ninfe tessitrici sembrerebbe alludere proprio alle Moire, che decretano la vita e la morte dell’uomo. E del resto, quale fantasma erotico non è anche, allo stesso tempo, una musa ispiratrice (pensiamo alla Marthe di Pierre Bonnard, la modella più dipinta della storia dell’arte) e allo stesso tempo una raffigurazione di Thanatos?

Belle dame sans merci”, la figlia della fata cantata da John Keats nella sua splendida ballata.

La ninfa come una contemporanea incarnazione della femme fatale?

La femme fatale è una delle possibili incarnazioni della Ninfa: ha il suo archetipo primordiale in Lilith, principessa dei succubi, demone femminile di origine mesopotamica portatore di disgrazia, e vede il suo trionfo soprattutto nel Romanticismo e nel Decadentismo, con le figure di Salomè, le donne dannunziane, la Lulu di Wedekind, fino ad arrivare, se vogliamo, alla Lola di Marlene Dietrich ne «L’angelo azzurro», il film di von Sternberg, o alla donna pronta a spezzarti il cuore in due evocata dalla voce roca e profonda di Nico dei Velvet Underground. Anche qui, evidentemente, il fantasma ninfale si apparenta alla Moira, al suo potere di dare la vita e la morte.

Aby Warburg, ninfomane e ninfologo, storico dell’arte ebreo-tedesco ha fatto della Ninfa un’ossessione.

LaPathosformel inseguita da Warburg con il suo atlante di immagini come rivoluzione del concetto stesso di storia dell’arte, adoperando proprio il fermo immagine della Ninfa?

Per tutta la sua vita di studioso, a partire dalle ricerche sui quadri del Ghirlandaio, Aby Warburg è stato ossessionato dalla figura della Ninfa. Un’ossessione che lo ha portato fino alla follia, letteralmente, ma che allo stesso tempo gli ha dato anche la forza di risalire dall’abisso della follia. L’ultimo suo progetto è stato Mnemosyne, un atlante di immagini montate una accanto all’altra su grandi pannelli neri, in cui veniva abolito, appunto, il concetto di «storia dell’arte», sostituito dalle corrispondenze, le metamorfosi, le sopravvivenze delle immagini artistiche nel corso del tempo, anche da epoche lontanissime tra loro. Sono immagini legate da associazioni libere, non da rapporti storici o filosofici, ma da analogie sotterranee che spesso ci sfuggono e che Warburg definisce «psicologia dell’immagine», qualcosa cioè di molto simile all’inconscio freudiano. Ora, in questo progetto a cui lavorerà fino ai suoi ultimi mesi di vita, Warburg torna alla sua antica ossessione, alla Ninfa, alla sua Pathosformel, come la definisce, ovvero un fermo-immagine, una formula di pathos – letteralmente – qualcosa di stereotipico ma carico di energia, che ritorna e si ripete attraverso i secoli, per dare forma alla «vita in movimento», al demoniaco della vita in movimento, ovvero a qualcosa che non potrà mai essere ingabbiato, ma che sempre continuerà a emergere nonostante le rimozioni e i tentativi di neutralizzarlo.

Nympha, come racconta Ovidio di Clizia, può essere vittima di Eros.

L’amore perfetto è quello mistico?

Ninfa è, allo stesso tempo, predatrice e preda. Può far innamorare o innamorarsi. Nel mio libro parlo anche di Teresa d’Avila come una Ninfa di Dio. Dico che il suo amore mistico è perfetto, se amore perfetto può mai darsi, perché la sua estasi erotica, così ben rappresentata dalla scultura di Bernini, le permette di fare esperienza di qualcosa di straordinario: Teresa infatti esplora un godimento sessuale che la esilia da sé stessa, in un perpetuo trasporto verso l’Altro, però l’estasi, in questo caso, non è un’esperienza di trascendenza, ma al contrario di immanenza. Il godimento la fa uscire fuori di sé, per fondersi nell’Altro, confondersi nell’Altro, ma solo perché l’Altro, ovvero Dio, a sua volta si fonda e confonda nel suo corpo.

L’estasi di Teresa ci insegna, così, che non basta il cogito di Cartesio affinché esista l’io; che per «essere» occorre l’incontro con l’altro da sé, e se, come in questo caso, l’altro da sé è la divinità, allora l’infinito può dimorare in noi, attraverso il piacere che procura quell’incontro. Dio per Teresa smette di essere un’entità esterna, irraggiungibile, per diventare una realtà interiore e immanente. Se l’uomo posseduto dalle Ninfe può accedere al divino, ecco che la Ninfa posseduta da Dio scopre, del divino, la dimensione umana.

Giuseppina Capone

Gianpaola Costabile: Donne – Madonne. Memorie al femminile

Gianpaola Costabile è laureata in Lingue e Letterature straniere moderne. Ha pubblicato numerosi volumi tra i quali alcuni legati alla storia di Napoli, alla sua arte ed alla sua grande cultura (Napulera e Un Borbone per amico), altri di narrativa etica (Educare alla legalità. Istruzioni per l’uso, C come camorra, 70 ma non li dimostra) e di saggistica (Com passione). Nel giugno 2018 ha pubblicato Lo zaino della memoria, scritto in collaborazione con Maria Scialò e Daniela Cirillo. L’autrice è, inoltre, membro del comitato editoriale de ‘Il Papavero’ e cura alcune pagine culturali facebook quali quelle della Bibliomediateca «Ethos e Nomos» e della collana «La memoria narrata». Molti suoi racconti sono inseriti in antologie di recente pubblicazione. E’ Autrice di Donne – Madonne. Memorie al femminile.

Dodici ritratti di altrettante donne, un caleidoscopio di universi femminili, dissimili quanto ad età, condizione, ruolo sociale, esperienza esistenziale. Qual tratto le accomuna?

Le accomuna un comune sentire al femminile, un modo di impostare l’esistenza, di gestire il dolore investendo sulla capacità di affrontare le difficoltà: accogliendole e cercando possibili strategie di risoluzione delle stesse. Con senso di responsabilità e fiducia nella vita.

Maria Neve, Bernarda, Nunzia, Mariarca, Mirella, Consi, Mariangela, Azzurra, Dora, Rosaria, Mariama e Loreta vivono autonomi cammini che le pilotano tutte verso la spiritualità. E’ questa la chiave di lettura del libro?

La spiritualità è il motore del nostro agire. Non si può vivere, a mio avviso, solo di emozioni o di ragionamenti. E’ necessario integrare il nostro sentire ed il nostro pensare con una capacità empatica di interagire con il mondo immanente e trascendente. Non la vedo come una frattura tra diverse modalità di affrontare la vita, ma, anzi, un arricchimento esistenziale nel sapere armonizzare i diversi aspetti della nostra umanità.

Le sue pagine conservano un’impostazione laica, tuttavia il focus attentivo è puntato sulla spiritualità, vettore di un’umanità positiva. Cosa l’ha indotta valicare i confini del pudore che protegge, solitamente, la religiosità individuale?

Questa domanda è molto interessante, perché credo che, oggi, si abbia molto più pudore nell’affrontare questi temi che nel narrare invece scene di sesso: che sicuramente rendono la lettura più intrigante. Ho apprezzato molto Maurizio De Giovanni quando, nella sua bella prefazione al libro, ha sottolineato tale impostazione, definendola ‘coraggiosa’. Ma, come nelle precedenti produzioni, a me interessa scrivere in maniera coerente col mio modo di essere e di pensare. E, per dirla tutta, non credo tanto nella definizione di religiosità individuale: è un po’ come dire in un rapporto di coppia: “Ti amo, ma a modo mio”. Sinceramente credo che ci voglia una grande dose di onestà intellettuale per scindere quanto di egoistico esista nel relativismo che caratterizza molte nostre affermazioni ricorrenti.

Può definire il “trascendente” nell’accezione in cui le protagoniste della sua narrazione l’intendono?

“Trascendente” è il guardare in alto, al di là dell’orizzonte. E’ il non sentirsi soli sulla Terra, ma desiderati ed amati in ogni attimo della giornata. E’ il conoscere e vivere un codice di norme etiche e morali che presuppongono, però, un (se vogliamo) innaturale amore per il prossimo, specie per quello di cui faresti volentieri a meno nella tua vita.

Ogni storia è preceduta da un richiamo che annuncia al lettore il vissuto della protagonista mentre, al termine di ciascun racconto, vengono offerti testi poetici o brani di canzoni coerenti con gli argomenti dissertati. Può donarci un’esemplificazione?

In realtà ogni racconto si ispira ad una figura riferibile alla devozione mariana, che ho scoperto essere molto più attiva e sviluppata di quanto non immaginassi. Ma le Madonne che propongo, a loro volta, esprimono aspetti della vita che io ho come tematizzato, introducendoli con citazioni di artisti famosi e facendoli concludere con una breve antologia di brani ad hoc. Per questo trovo molto appropriata la definizione per ‘Donne-Madonne’ di caleidoscopio di universi femminili.

Giuseppina Capone

Salvatore Ferragamo: il rivoluzionario della calzatura italiana

Salvatore Ferragamo nacque a Bonito (provincia di Avellino vicino la città di Napoli) nel giugno 1898. Undicesimo di ben quattordici figli, conduceva una modesta quanto serena vita assieme ai suoi fratelli e i suoi genitori ma nonostante ciò, purtroppo, le loro condizioni economiche non diedero l’opportunità di far studiare lui e i suoi fratelli tranne che per il primogenito e, in ogni modo, in seguito a  grandi sacrifici da parte dei genitori.

Salvatore non si allontanò dal suo paese a differenza di altri emigranti di quel periodo e all’età di undici anni aveva lavorato per un anno a Torre del Greco presso un calzolaio e una volta compiuti dodici anni possedeva già una bottega di calzolaio tutta sua (acquistata grazie all’aiuto economico dei suoi fratelli maggiori), dove produceva scarpe su misura per le persone del posto. Nel 1912 all’età di quattordici anni decise di partire per gli Stati Uniti per raggiungere uno dei suoi fratelli a Boston e per perfezionare le sue capacità di designer e per trovare fortuna.

Una volta che si fu ambientato in America trovò lavoro in un negozio di scarpe a Los Angeles che forniva calzature per attori e cast dei film che si giravano ad Hollywood. Un giorno il regista protestò per la qualità di alcuni stivali  e Salvatore si offrì di confezionarli da solo. Il regista accettò e ne rimase soddisfatto ed entusiasta del risultato. Da lì a poco il numero di clienti fedeli a  Ferragamo crebbe velocemente: stelle del cinema da Anna Magnani, Sofia Loren a Marylin Monroe si rivolgevano a lui per i modelli unici e innovativi che Salvatore riusciva a realizzare. Il genio della calzatura italiana si affidava alla modernità della scarpa di quel momento e allo stesso tempo voleva unirla al concetto di qualità, ed è per questo motivo che successivamente si trasferì proprio ad Hollywood dove aprì l’Hollywood Boot Shop guadagnandosi il nome di “Calzolaio delle stelle”.

 “Ricordo di non essermi sentito ne triste ne pieno di nostalgia, un giorno sarei tornato ricco e famoso e avrei mostrato all’Italia come si dovevano fare le scarpe.”

Nel 1927 tornò in Italia dove aprì a Firenze il suo primo laboratorio dove realizzava scarpe da donna destinate, per i primi tempi, solo al mercato americano. In breve tempo diede vita alla sua prima azienda “Salvatore Ferragamo” e nel 1930 il pittore futurista Lucio Venna creò la prima etichetta e il primo manifesto pubblicitario Ferragamo. Ma la ditta dichiarò bancarotta nel 1933 a causa della inadeguata gestione amministrativa e della crisi mondiale. Ma, grazie alla sua geniale inventiva e creatività, per Salvatore ci fu ugualmente una rinascita: Palazzo Spini Feroni, negli Anni ‘50 (dove dal 1938 aveva creato la sua sede) era ormai meta di dive del cinema, delle famiglie reali e del jetset internazionale. Le giovani dive si recavano da Ferragamo per ordinare calzature che consideravano impeccabili per il designer, per la qualità e per l’inventiva.

Le calzature di Ferragamo sono state considerate vere e proprie opere d’arte: i suoi disegni spaziano da creazioni più bizzarre a linee di eleganza più tradizionale tanto da essere fonte di ispirazione anche per altri designer di calzatura del suo tempo. Una delle sue creazioni più famose fu negli Anni ‘30: la zeppa in sughero. Una vera e propria innovazione. Ferragamo realizzò la sua idea della zeppa in sughero durante il periodo del Fascismo quando la politica autarchica del regime era mirata sulla produzione interna consolidando in questo modo la moda italiana del tempo.

Salvatore Ferragamo muore nel 1960, ma la fama del suo marchio non è mai passata di moda grazie alla guida di sua moglie Wanda e dei loro sei figli Leonardo, Massimo, Giovanna, Fiamma, Ferruccio e Fulvia, che hanno portato avanti, sino ad oggi, il marchio Ferragamo.

Alessandra Federico

 

 

Omofobia e il coraggio di chi lotta: intervista a chi combatte ogni giorno per i suoi diritti

Quando si ha a che fare con le emozioni e con l’amore, nulla è sbagliato. L’omosessualità non è una malattia. È ora che le persone, tutte le persone, inizino a sentirsi libere di amare ed essere amate. A volte, però, incontrano nel corso della loro vita chi le fa sentire diverse, trovando difficoltà nell’accettarsi e nel dichiararsi apertamente gay. La vera battaglia inizia nel momento in cui decidono di raccontarlo ai propri genitori, con la speranza di essere accettati perché è lì che cercheranno rifugio. Infine, oltre le mura di casa, dove la loro vita diventa davvero difficile, dove sono costretti a lottare contro chi ancora crede che nell’amore ci siano regole da seguire, e dove c’è ancora la concezione che, se sei gay, sei diverso.

Seguire la massa

Parole razziste, provocazioni, veri e propri atti di bullismo sono costretti a subire da chi ancora vive con questi pregiudizi. Le parole delle persone omofobe sono una coltellata nel cuore di chi ama le persone dello stesso sesso. Ma cos’è che ci fa avere più paura a manifestare chi siamo davvero? Questa società ci impone di essere chi realmente non siamo, ci fa crescere con l’angoscia di non riuscire a essere come gli altri e di rimanere soli. Questo porta la maggior parte delle persone a vivere e comportarsi fingendo di essere chi non si è realmente, indossando una maschera per compiacere il prossimo. La paura di essere criticati o ancora peggio derisi, fa si che le persone, soprattutto nell’età adolescenziale, arrivino ad adeguarsi alla massa per essere stimati. Tale comportamento porta gravi conseguenze: difficoltà a relazionarsi, continua mancanza di fiducia in se stessi e nel prossimo, a volte aggressività o peggio ancora suicidio. Ma chi ha deciso che solo l’eterosessualità è naturale?

“Sono gay e non è stato facile per me farmi accettare. Ho attraversato un periodo difficile nella mia vita: oggi, però, grazie alla mia famiglia, riesco ad affrontare ogni pregiudizio”.

Queste sono le parole di Mauro, napoletano di 45 anni che racconta la sua storia e come ha lottato per sopportare la meschinità di chi ancora non accetta questa realtà.

Mauro, quanti anni avevi quando ti sei dichiarato?

Avevo 19 anni, precedentemente avevo avuto una sola fidanzata. Era molto bella: bionda con gli occhi verdi. Stavamo bene insieme ma nel momento in cui trascorrevo troppo tempo con lei, iniziavo a diventare insofferente. Credo di essere stato con lei solo per mascherare la mia vera natura, perché l’ho sempre saputo di provare attrazione verso il mio stesso sesso, ma avevo difficoltà ad accettarmi e ad accettare il fatto di essere ‘diverso’, perché è così che ti fanno sentire in questo mondo pieno di malignità e pregiudizi. Facevo dunque fatica a essere me stesso, a volte anche con chi poteva capirmi e starmi accanto. Temevo il loro giudizio, bastava uno sguardo per farmi iniziare ad avere paranoie e credere che mi stessero prendendo in giro. Avevo otto anni quando m’innamorai del mio compagno di banco, Massimiliano, ma questo l’ho sempre tenuto per me.

Qual è stata la prima persona con la quale ti sei sentito libero di parlare?

La prima persona con la quale mi sono apertamente dichiarato gay è stata proprio la mia prima e unica fidanzata, Giorgia. La sua reazione fece commuovere anche me. “Ti voglio bene, sono felice per te”, mi disse tra le lacrime. Mi ha sempre capito e per questo motivo ho sempre voluto che rimanessimo amici. La seconda persona a cui avrei voluto dirlo era mia madre, ma l’avevo persa da circa un anno. Mi accontentai di parlare alla sua foto. Io sapevo che lei c’era, mi bastava alzare lo sguardo e guardare le stelle per sentirla accanto. Era la stella che brillava di più. Decisi di confidare a mio padre questo mio piccolo segreto, gli parlai apertamente, senza peli sulla lingua. Sapevo mi avrebbe capito, così non passò molto tempo e ne parlai alle mie tre sorelle e i miei due fratelli. Il rapporto con la mia famiglia è da sempre stato speciale per me, ho sempre trovato conforto, il mio rifugio. Fuori di casa, però, la mia vita non era facile: subivo atti di bullismo, critiche e parole razziste.

Come hai affrontato queste situazioni?

La maggior parte delle volte li aggredivo per difendermi, ma si finiva sempre per scatenare una rissa. Tornavo a casa con un occhio gonfio o un labbro sanguinante almeno due volte a settimana. La mia famiglia mi ha aiutato, mi è stata vicino, mi ha fatto capire che non è importante ciò che pensano queste persone perché non è fondamentale avere il rispetto di gente come loro nella mia vita. Iniziai ad acquisire un altro metodo: l’indifferenza. Sorridevo quando mi prendevano in giro. Purtroppo in Italia c’è ancora troppa ignoranza e per evitare di soffrire ancora, decisi di andare a vivere a Londra per diversi anni. Adesso vivo in Italia da almeno dieci anni.

Adesso che sei tornato in Italia, vivi le stesse esperienze o le cose ti sembrano essere cambiate? Posso dire che sicuramente le cose oggi sono cambiate perché le persone hanno la mentalità più aperta ed è un po’ più difficile che io possa avere a che fare con un omofobo, anche se non ti nascondo che proprio ultimamente ho avuto un’esperienza poco piacevole con un mio collega che ha utilizzato parole offensive sul mio conto riguardo al mio orientamento sessuale. Posso dire che rispetto agli anni ’90, oggi riesco a rapportarmi quasi con tutti in Italia, anche se tornerei volentieri a Londra, dove sei libero da ogni pregiudizio.

E cosa ci dici sull’amore?

Sono stato fidanzato diverse volte, ora vivo una relazione a distanza con Andrea, napoletano come me, che vive a Bologna dove lavora come cuoco in una cucina di un ristorante. Stiamo insieme da circa due anni, ma non posso negare che la lontananza è dura per cui presto prenderemo la decisione di avvicinarci. Prima di stare con lui ho avuto altre storie d’amore ma spesso mi ritrovavo ad avere a che fare anche con uomini sposati con donne, quelli che hanno paura di dichiararsi omosessuali, quelli che temono il giudizio altrui, perché in questo mondo non è facile essere se stessi. Insomma, il mio di mondo non è semplice da vivere, ci sono tanti ostacoli da superare, lotte continue per avere gli stessi diritti degli etero e situazioni particolari da affrontare quasi tutti i giorni. Per quanto l’omosessualità possa essere stata accettata, viviamo ancora in un paese dove, per essere accettati, dobbiamo essere tutti uguali.

Secondo te quindi l’emancipazione è un’ipocrisia?

Non del tutto. Di certo non posso dire che dagli anni ’70 ad oggi sia tutto uguale o che sia tutta una finzione quella di accettare i cambiamenti. Ma posso dire che si respira ancora tanta ignoranza nella folla di questo Paese. La maggior parte degli uomini, oggi, sono ancora maschilisti, c’è ancora il cosiddetto ‘padre padrone’, quelli che tendono a manovrare la donna, tanto per dirne una. Inoltre, penso anche che la maggior parte delle persone fingano di accettare ‘quelli come me’.

Questa cosa come ti fa sentire?

È un qualcosa che ho imparato ad accettare nel corso degli anni e con l’esperienza, ci ho fatto l’abitudine. Ci sono persone poco sensibili e quelle le incontrerai sempre, quindi ho deciso di affrontare questa situazione con serenità, essendo sempre me stesso anche se non accettato da tutti. O meglio, non essendo accettato sul serio.

Che consiglio ti sentiresti di dare a chi ancora non si è dichiarato?

Penso che ognuno abbia i propri tempi, ma la cosa fondamentale è che non bisogna avere paura del giudizio altrui. Quindi se non ci si sente di farlo per il solo terrore di essere presi in giro, non è un buon motivo. Non c’è cosa più bella di essere se stessi. Se i diritti ottenuti dalle donne negli anni ’70 rappresentano un esempio di emancipazione della società, l’accettazione dei gay sarebbe un ulteriore passo avanti. Necessario per capire che nel mondo siamo tutti uguali.

Alessandra Federico

 

L’amore (im)perfetto

Pietro Falconetti, imprenditore, laureato in Filosofia e un master in Digital Reputation, è autore di “L’amore (im)perfetto.

Le sue righe suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, non si sceglie d’amare né d’essere amati?

Si viene scelti dall’amore e quando questo evento accade, spetta a Noi decidere la mossa successiva. Elena di Omero ha scelto Paride, ha scelto l’amore del momento alle regole scaturite da un amore già consumato, logorato da abitudini consolidate. Ha avuto coraggio. Elena, il personaggio del mio romanzo cerca con tutte le forze di restare ancorata al suo matrimonio senza voler annullare l’amore nato tra lei e Alessandro. Non vuole scatenare una “seconda guerra di Troia”. Fortunatamente per me, nel romanzo “L’amore (im)perfetto” non ci riesce, non mi vedrei nei panni di Omero.

L’amore, soventemente, appare fugace, ingannevole, temporaneo e deludente per i protagonisti dei suoi racconti. Ritiene che siffatto sentimento non possa assumere carattere salvifico?

L’amore è salvifico. Ci fa toccare il cielo con un dito e precipitare negli inferi quasi contemporaneamente. Ed è quest’oscillazione quasi impercettibile tra la somma felicità e l’oblio più recondito che salva l’essere umano dalle abitudini quotidiane. Non è possibile prescindere dall’amore. Dobbiamo accettarlo in tutte le sue sfumature, cercando di “scendere” quando ci porta molto su e di risalire quando tocchiamo il fondo. Amare è relazionarsi con l’altro, con il diverso. Questa è la sfida che ognuno di noi deve accettare e condividere.

Ci spiega l’esigenza di dedicarsi alla narrazione di breve respiro?

Nessuna esigenza in particolare. Piuttosto direi un desiderio di poter dare forma a dei pensieri, a delle idee. Esporre un concetto è molto rischioso. Passare dall’intangibile al tangibile è una strada tutta in salita, impervia e piena di curve. Si potrebbero perdere dei pezzi fondamentali di ciò che si vuole narrare, ma la smania di provarci è sempre in agguato e quando si desidera ardentemente, il desiderio va assecondato e realizzato, col rischio di schiantarsi contro di un muro.

Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Quale idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Abbiamo creato un mondo iperconnesso, perennemente collegato e l’assurdità è che vengono sempre meno le relazioni fisiche tra esseri umani. Ognuno di Noi è un soggetto, un individuo che ha necessità di relazionarsi, anche solo con se stesso. Qui nasce il problema: una relazione è sempre uno scontro con il diverso, con l’altro, in cui i sentimenti, le emozioni, tutto quello che non è fisico diventa predominante per far si che lo scontro diventi incontro. Ne “L’amore (im)perfetto” ho cercato di far emergere il momento topico delle relazioni: l’incontro.

I protagonisti della sua narrazione esistono in quadri della quotidianità che si scopre sotto i loro occhi mediante circostanze comuni che divengono le porte per una sensibilità, a volte, al limite della sopportazione. Perché ha deciso nei suoi racconti d’esplorare il banale, reale, vero quotidiano anziché l’esuberante straordinario?

Perché proprio la “Banale” realtà quotidiana che ad un certo punto di una relazione diventa lo “Straordinario”. L’intervento straordinario che ci troviamo ad affrontare consiste nel rivitalizzare qualsiasi momento già vissuto. Tutto ciò che è abitudine deve essere reinterpretato, reinventato, rivisitato e riadattato. Ed è per questo che ci si deve impegnare ad essere libri e lettori della propria vita e di quella altrui. Mai stancarsi di leggere e farsi leggere.

Giuseppina Capone

Charles Frederick Worth: il primo couturier a diventare  designer

Charles Frederick Worth è stato il primo a trasformare la figura del sarto in quella del designer quando, nel 1800, il popolo vestiva secondo le regole che imponeva la corte e seguendo il gusto della regina. Esistevano solo couturier fino a quando Charles Frederick Worth ha dato vita a quella che oggi chiamiamo storia della moda.

La moda è stata, a partire dal medioevo, prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abito per manifestare la preminenza del proprio ruolo gerarchico all’interno di una determinata comunità. Dimostra, con il modo di apparire, la saldezza del principio originario da cui discende il patto su cui si fonda un’intera civiltà mettendo in evidenza i segni della ricchezza e del potere. Ma fra il XIII e il XIV, nell’Europa occidentale, questa fissità tradizionale, è stata sostituita dalla regola della trasformazione e della modernità. Da lì in avanti l’abito non avrebbe rappresentato più il ruolo sociale di una persona secondo regole rigide ma soggette al gusto e all’inventiva di coloro a cui veniva riconosciuta la capacità di far avverare e mettere in pratica questa nuove creazioni.

La storia del  primo creatore di moda

Charles Frederick Worth nasce in Inghilterra nel 1825. Figlio di famiglia borghese inizia, sin da bambino, a lavorare in una ditta di tessuti londinesi. Nel 1845 si reca  a Parigi dove svolge il suo primo lavoro da commesso a La ville Paris.  Da li a poco si occupa del reparto di scialli e mantelli svolgendo il ruolo di assistente alle vendite de Gagelin.

“La mia inventiva è il segreto del mio successo”. Charles mette in atto per la prima volta il suo innovativo metodo di presentazione dei capi: Marie Augustine Vertnet (commessa presso Gagelin) diventa la sua prima modella in carne e ossa e da li a poco anche sua moglie. In poco tempo, le signore dell’alta società, vengono attratte da quei meravigliosi e innovativi abiti di creolina realizzati da Worth per Marie. Non solo, questi meravigliosi abiti danno il via ad una vera e propria rivoluzione della moda. In questi anni le nouve autés confectionnes fanno la prima comparsa nei reparti del magazzino. Nel 1851 a Londra la maison Gagelin era l’unica ditta mondiale a presentare una produzione di capi pronti all’esposizione universale. Non si può di certo dire che le persone non trovassero alcuna fatica nell’accettare il cambiamento e le novità proposte da Worth poiché implicavano la rottura delle vecchie abitudini dell’abbigliamento.

La carriera di Worth era ormai rapida e in ascesa: nel 1853 entra in società con il nuovo proprietario di Gagelin, Octave – Opime – Gagelin, ma nel 1858 il sodalizio si scioglie. Nell’aprile 1858 Worth entra in società con otto Bergh e nel 1860 la Worth et Bobergh viene definita come “couturirse e nouveates confectionnes” (cucito e nuove creazioni). Questa maison vende stoffe e propone abiti creati da Worth confezionati su misura dove però le persone potevano scegliere le sue varie proposte ma non avere una propria invenzione. Nasce cosi l’haute couture. Anche coloro che vestivano secondo lo stile dell’imperatrice iniziavano a rivolgersi a Worth. Nel corso degli anni 1850 per la realizzazione dell’abito femminile erano necessari lunghi metraggi di stoffa, anche per creare abiti con la creolina raddoppiando dunque le proporzioni di stoffa. Il modello che lo porta al successo è un abito da sera la cui gonna è ricoperta da tulle di seta. Però per far sì che il nome Worth diventasse sinonimo di moda, l’ingegnoso stilista conquistò l’imperatrice e le sue dame. Nel 1860 la moglie dell’ambasciatore austriaco, la principessa Pauline Von Metternich, convoca Marie Worth (moglie del designer) per avere una dimostrazione dell’album dei modelli delle creazioni di Worth. Da quel momento, grazie alla principessa Pauline e alla sua richiesta di far confezionare per lei un abito da sera e uno da giorno, il primo geniale designer inizia ad avere maggiore successo. Da li a poco diventa anche  fornitore ufficiale degli abiti da sera e di rappresentanza dell’imperatrice. Mentre l’azienda di Worth andava a gonfie vele, il designer iniziava ad apportare modifiche all’abito femminile proponendo idee innovative:  creare un abito il cui orlo si ferma alla caviglia sostituito da una sottoveste e una sopravveste drappeggiata, mentre la creolina aumenta di dimensione per qualificare lo status delle classi alte. Worth riduce drasticamente sul davanti spostando l’ampiezza sul dietro e dando forma ad un breve strascico, aggiunge un sopragonna lunga fino al ginocchio chiamato tunica. Nel 1869 riduce ulteriormente la creolina trasformandola in un sellino di crine rigido in modo da sostenere solo la parte alta del dietro della gonna. L’obiettivo era quello di seguire la silhouette femminile. L’abito richiedeva metri e metri di tessuto, di passamanerie e di nastri e, di conseguenza, Worth riduce il busto con un effetto a vita alta. Subito dopo nasce il modello princess: abito strutturato per intero in modo tale da seguire le forme del corpo della donna e svasando la gonna verso l’orlo. Ancora, nel 1874, lancia la moda della corazza: corpetto che arriva ai fianchi allungandosi sia al davanti che al dietro. La sopragonna viene aperta la centro unendo i due lembi sul dietro per formare uno strascico. Ancora una volta cambia la silhouette femminile passando ad una struttura longilinea dall’aspetto forte e corazzato.

Alessandra Federico

L’isola di Procida Capitale italiana della Cultura 2022

La vittoria di Procida, come Capitale Italiana della Cultura 2022, è stata celebrata anche oltreoceano. A tessere le lodi della piccola isola è stata la rivista economica statunitense Forbes. “L’isola di Procida nel Golfo di Napoli festeggia la conquista del titolo di Capitale Italiana della Cultura 2022, dopo aver combattuto la concorrenza di altri nove finalisti.

La minuscola isola, ammirata per la sua architettura vivace e le case dai colori vivaci, è arrivata al primo posto grazie alla sua presentazione “La Cultura non Isola, ovvero la cultura non isola” (giocando sulla parola “isola” in italiano)”, ha scritto la giornalista Rebecca Ann Hughes.
Queste le motivazioni alla base della scelta della giuria: “Il progetto culturale presenta elementi di attrattività e qualità di livello eccellente. Il contesto di sostegni locali e regionali pubblici e privati è ben strutturato, la dimensione patrimoniale e paesaggistica del luogo è straordinaria, la dimensione laboratoriale, che comprende aspetti sociali e di diffusione tecnologica è dedicata alle isole tirreniche, ma è rilevante per tutte le realtà delle piccole isole mediterranee.

Il progetto potrebbe determinare, grazie alla combinazione di questi fattori, un’autentica discontinuità nel territorio e rappresentare un modello per i processi sostenibili di sviluppo a base culturale delle realtà isolane e costiere del paese. Il progetto è inoltre capace di trasmettere un messaggio poetico, una visione della cultura, che dalla piccola realtà dell’isola si estende come un augurio per tutti noi, al paese, nei mesi che ci attendono. La capitale italiana della cultura 2022 è Procida”.

In gara c’erano anche altre città italiane Ancona, Bari, Cerveteri (Roma), L’Aquila, Pieve di Soligo (Treviso), Taranto, Trapani, Verbania, Volterra (Pisa), ma il fascino dell’isola e la sua unicità hanno sbaragliato la concorrenza.

Nicola Massaro

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