Quello che non sono mi assomiglia

Gianluca Giraudo, dopo la laurea in Ingegneria del Cinema e dei Mezzi di Comunicazione a Torino ha frequentato un dottorato in Scienze Sociali a Roma, dove si è appassionato ai temi dell’identità e dei cambiamenti della società. Ora lavora nell’ambito della produzione televisiva.

Fughe intenzionali, amori inammissibili, piccole ossessioni, flirt goffi, mestizie fulminee, inerzia dell’esistenza, desideri latenti, lontananze subìte e cercate, famiglie sguaiate e complesse, ricerca di inediti equilibri e nuove identità. Molteplici e plurimi temi per un romanzo corale. Può motivare la scelta della polifonia?

Iniziando a scrivere ho capito che tra i tratti della mia voce dovevano esserci la sfumatura, la scomposizione dei punti di vista e la restituzione di una storia che fosse la somma di tante storie diverse. Credo che oggi l’identità, tema che ritrovo al centro di “Quello che non sono mi assomiglia” (Autori Riuniti), si presti moltissimo a questo modo di lavorare e intendere le storie.

Dieci capitoli, dieci nomi propri e dieci personaggi. C’è un filo rosso che li attraversa?

Ho una passione e una grande memoria per i nomi. Tendo a conservarli e a cercare corrispondenze, un po’ seriamente un po’ per gioco, tra il “bagaglio” che si portano dietro e le persone cui sono associati. Ritengo che tutti e dieci i personaggi siano coprotagonisti del romanzo, poi certo, c’è Ignacio, che è il protagonista tra i protagonisti. Il suo nome e la sua storia aprono il libro e lo accompagnano in tutti gli snodi.

Lei esplora la provvisorietà dell’Occidente sincronico come Annie Ernaux o Yasmina Reza: sagacia solo a prima vista distratta e breve intuizioni. Qual è la cifra caratteristica della sua narrazione?

Sono lusingato, e un po’ intimorito, da questi accostamenti. Ernaux e Reza rappresentano due autrici cruciali per le mie letture e la mia ispirazione. Apprezzo il modo che hanno di esplorare i processi laterali, più nascosti, che accompagnano le vite di ognuno, senza la vergogna di tirare fuori anche il marcio o l’indicibile. La loro scrittura giova di questo coraggio, risultando di un’eleganza irraggiungibile. Muovere anche solo un passo in questa direzione è per me fonte di motivazione e spinta a lavorare sodo.

“Grazie al mio lavoro so bene che di una persona non vediamo mai la persona, ma solo una rappresentazione.”. Quale idea intende veicolare della verità e della sua discutibile univocità?

Come accennavo sopra, per la mia idea di narrativa ritengo fondamentale la scomposizione dei punti di vista, la credenza che non esista una verità, ma solo tante versioni dei fatti. In “Quello che non sono mi assomiglia” ogni personaggio non solo aggiunge un pezzo di sé al romanzo, ma cambia anche le carte in tavola rispetto alle dichiarazioni dei personaggi che lo hanno preceduto. E al lettore non resta che questo: la sfida di tracciare una sua personale strada tra le storie o, meglio ancora, trovare la forza di accoglierle tutte, senza necessariamente trovare una sola “verità”.

I numeri a piè di pagina disposti al contrario: per quale ragione?

Si tratta di una cifra stilistica della casa editrice Autori Riuniti, che si ritrova in tutti i suoi bei libri. Devo dire che questa peculiarità si è adattata bene al mio piccolo “giallo”.

Giuseppina Capone

Lorenzo Sartori e “La Sindrome di Proust”

Lorenzo Sartori, giornalista, vive tra Crema e Milano. Dal 2000 è editore e direttore responsabile della rivista Dadi&Piombo, la prima testata italiana che si occupa di wargames e ricostruzioni storiche in miniatura. E’ autore de La sindrome di Proust (Plesio Editore/Lambda House, 2020, romanzo, thriller futuristico).

 “Madeleine de Proust” è una locuzione che può designare una parte della vita quotidiana, un oggetto, un gesto, un colore e in particolare un sapore o un profumo, che evocano in noi ricordi del passato, come una madeleine al narratore de “Alla ricerca del tempo perduto”. Quanto il titolo del suo scritto evoca la cosiddetta “memoria olfattiva”?

La Sindrome di Proust è un thriller incentrato sul tema della memoria e dell’identità di un individuo. È ambientato in un futuro in cui la cosa più preziosa che abbiamo, i ricordi, rischiano di non appartenerci più, di diventare qualcosa di prezioso anche per gli altri, qualcosa per cui possa valere la pena uccidere. Il titolo è un esplicito riferimento alla memoria olfattiva perché solo gli odori sono capaci di svegliare in noi i ricordi con quella prepotenza che in un thriller può rivelarsi decisiva. L’olfatto è in grado di aprirci all’improvviso una porta sul passato e l’esperienza può essere piuttosto forte e completa.

Il percorso del protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

Non credo si possano mai chiudere i conti con il passato. Forse si possono sospendere. I ricordi sono la nostra identità e il tema dell’identità a me è molto caro. Siamo quello che siamo proprio perché ricordiamo. Il presente, o meglio, la nostra percezione del presente dipende in modo imprescindibile da ciò che è stato il nostro passato. O ciò che ricordiamo che sia stato.

Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller . Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?

Credo che La Sindrome di Proust sia un thriller sui generis, almeno per il panorama italiano, dove spesso thriller e gialli sono la stessa cosa, cambia solo l’etichetta e dove troppo spesso la figura del serial killer sembra essere l’unica in grado di caratterizzare il genere, impersonificando il male assoluto e al tempo stesso ricoprendo il ruolo di un degno antagonista. Per me il thriller è prima di tutto tensione e colpi di scena. Ci sono autori che sono in grado di costruire tutto ciò con pochi ingredienti e soprattutto con poco sangue. Credo che un buon thriller debba lavorare soprattutto sulle immagini e sulla capacità di suscitare emozioni buttandoci dentro il lettore. In campo cinematografico penso a Hitchcock, alla sua abilità nel rendere iconica e al tempo stesso tensiva una semplice sequenza.

La Sindrome di Proust non è un thriller investigativo in senso stretto, il protagonista non è un poliziotto o un investigatore o un giornalista, uno abituato appunto a indagare, magari tormentato da un trauma del passato. Alec Raines è un giovanotto di 27 anni che ama il suo lavoro, un possibile lavoro del futuro, quello del “correttore di ricordi”, che gli permette di avere accesso alle vite degli altri. Un lavoro che solleva questioni etiche che lo stesso protagonista inizia a porsi. Un lavoro che lo condurrà dentro a un qualcosa di più grande di lui prima che se ne possa accorgere. Questo è un romanzo dove il confine tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che sbagliato, non è così netto.

“Di fatto si sapeva che i pensieri e i ricordi sono il risultato di un mutamento del nostro DNA. Se annusiamo o tocchiamo un oggetto il nostro cervello memorizza le informazioni ricevute e lo fa modificando un certo numero di neuroni in modo da fornirci una memoria di quell’oggetto. E i neuroni contengono DNA. E’ su questo che si basa poi la digitalizzazione dei ricordi.” In cosa consistono il download e l’upload dei ricordi?

La digitalizzazione e quindi lo scarico e la conservazione dei ricordi è qualcosa di ancora lontano, ma non quanto si potrebbe pensare. Il DNA, e i nostri neuroni contengono DNA, può contenere dati digitalizzati e pure tanti. Lo stato dell’arte è che in un solo grammo di DNA (sintetico, realizzato il laboratorio, ma tecnicamente potrebbe essere anche quello umano o animale) si possono archiviare fino a 700 tera byte di dati digitali, ovvero 700mila giga. Non solo, questi dati possono durare per migliaia di anni. Nessun hard disk si avvicina neanche lontanamente a questo potenziale. Il “ponte” tra dati digitali e essere viventi è stato gettato, con quali prospettive future, beh, è forse il caso che iniziamo a pensarci.

L’inviolabilità della memoria suscita riflessioni di natura etica?

Direi proprio di sì. I ricordi sono la sfera più intima della nostra identità, violata quella sfera possiamo solo andare incontro agli scenari immaginati da Orwell in 1984, dove la psicopolizia ti può leggere nel pensiero e il libero arbitrio cessa di avere qualsiasi importanza. Già adesso l’intelligenza artificiale sta condizionando le nostre scelte e le nostre vite: ogni volta che facciamo una ricerca su Google in qualche modo diamo informazioni preziose sui nostri interessi e desideri. Ormai da anni lasciamo ovunque tracce digitali della nostra vita (viaggi, acquisti, visite mediche e ricoveri…) e anche questi sono ricordi di cui facilmente perdiamo il controllo e di cui qualcuno potrebbe approfittare.

 

Lorenzo Sartori è anche autore di diversi giochi di simulazione, storici e fantascientifici, alcuni dei quali tradotti in diverse lingue e apprezzati in tutto il mondo. Si occupa anche di organizzazione di eventi sia di carattere ludico che letterario. È direttore artistico del f estival letterario Inchiostro (www.festivalinchiostro.it) e della rassegna DeGenere (http://degenere-storie.blogspot.com). In ambito letterario ha pubblicato le seguenti opere: Home Run (Sad Dog Project 2015, racconto lungo, fantascienza); Sonata per violino (Sad Dog Project 2016, racconto lungo, noir paranormale); Michael Farner (Nativi Digitali Edizioni, 2016, romanzo breve, noir surreale);L’ombra del primo re (Gainsworth Publishing, 2017, romanzo, fantasy);Alieni a Crema (Plesio Editore, 2018, romanzo, fantascienza).

 Giuseppina Capone

Whitney Houston: I Will Always Love You supera 1 miliardo di views

 Un successo senza tempo per la terza volta disco di diamante.

Il fulminante debutto con l’omonimo “Whitney Houston” del 1985, la portò in vetta alle classifiche mondiali, grazie a brani memorabili come “Saving All My Love for You”, “How Will I Know” e la cover di “Greatest Love of All”. La cantante statunitense ottenne lo stesso successo internazionale due anni dopo con il suo secondo album, pubblicato il 2 giugno 1987 dall’ Arista Records. L’album “Whitney” conteneva ben cinque canzoni capaci di raggiungere la Top Ten Usa. “I Wanna Dance with Somebody (Who Loves Me)”, “Didn’t We Almost Have It All”, “So Emotional” e “Where Do Broken Hearts Go”. I primi quattro singoli, raggiunsero il primo posto nella Billboard Hot 100, un record assoluto che ha fatto dell’ interprete, la prima artista donna a realizzare questa impresa. “Whitney” comprendeva anche “Love Will Save the Day”, l’unico singolo dell’album non trainato da un videoclip, fondamentale all’apice dell’era di MTV, capace di raggiungere lo stesso la top ten. Il perdurare della popolarità di colei che la presentatrice Oprah Winfrey ribattezzò “The Voice” è stato confermato nei giorni scorsi, quando il video di “I Will Always Love You” ha raggiunto il miliardo di visualizzazioni su YouTube. Garth Brooks, cantante country statunitense, detiene il record per il maggior numero di album certificati come diamanti, ben nove. Altri con tre o più album che hanno raggiunto lo status di diamante sono i Beatles, i Led Zeppelin, Shania Twain e gli Eagles. Non si tratta del primo brano capace di raggiungere questo straordinario traguardo. La gran parte dei pezzi che ci sono riusciti sono più recenti hit e tormentoni degli anni Duemila. Ma anche qualche brano storico ha già raggiunto tale successo, come ad esempio Bohemian Rhapsody, prima canzone degli anni Settanta a superare il miliardo di views.

Anche dopo la morte Whitney Houston continua a fare storia, per la terza volta un suo album è disco di diamante. Questa volta si tratta di ‘Whitney’ (1987). Lo status di diamante equivale a dieci milioni di album venduti. Lo stesso status era stato ottenuto da ‘Whitney Houston’ (1985) e ‘Bodyguard’ (1992). E’ la prima volta che un’artista afro-americana raggiunte un tale primato.

Nicola Massaro

Giacomo Balzano: Il vuoto dentro

Giacomo Balzano, psicanalista di orientamento adleriano. Fra le sue opere ricordiamo: Disagio Giovanile: storie di cambiamenti, Giovani del Terzo Millennio (volume che ha vinto nel 2006 il Premio Internazionale di saggistica “Città delle Rose”), I nuovi mali dell’anima, Oltre il disagio giovanile. Per Besa editrice ha pubblicato il romanzo Alessia e le sue tenebre (2011) e il saggio Alfred Adler e lo scisma della psicoanalisi (2014).

Può definire le peculiarità del senso di vuoto ed i modi più frequenti in cui si tenta di colmarlo nella scansione del proprio percorso umano ed esistenziale?

Il senso di vuoto è un vissuto di mancanza, di assenza affettiva che spinge il bambino (la personalità di un individuo si forma nei primi 5 anni) a rincorrere abnormi compensazioni per colmarlo e contenere le angosce associate. Queste compensazioni sono centrate sull’assunzione di condotte di stampo narcisistico che inseguono un’ipocritica grandezza. E il modello di Narciso, connota l’attuale spirito dei tempi e influenza la formazione e gli ideali perseguiti dalla persona.

Il disagio giovanile nella fase adolescenziale è il tema che affronta. Chi sono gli interessati?

L’OMS (L’Organizzazione Mondiale della Sanità) in un suo studio del 2008 aveva affermato che nel 2020 i Disturbi in Età Evolutiva, sarebbero stati la prima causa di morte e disabilità. Ed è ciò che sta accadendo. Il disagio nei bambini, nei preadolescenti e negli adolescenti sta diventando una vera e propria epidemia psicosociale. Un dato su tutti forse può illustrare la situazione: in Italia ogni anno si tolgono la vita 3.000 giovani dai 15 ai 25 anni, mentre gli incidenti stradali (spesso suicidi mascherati) sono la prima causa di morte in adolescenti e giovani adulti.

Lei è uno psicoanalista ad orientamento adleriano. Per i non addetti ai lavori, quali peculiarità riserva siffatta propensione rispetto a temi come prevenzione della devianza minorile e della dispersione scolastica, l’educazione alla salute, l’educazione affettiva e la formazione dei genitori e degli insegnanti?

Alfred Adler è stato il primo apostata della psicoanalisi (dopo aver collaborato con Freud per nove anni) e il primo analista a fondare un’autonoma scuola denominata “Psicologia Individuale”. E’ stato l’iniziatore del filone socio-culturale della psicanalisi ed ispirato l’opera di Fromm, Sullivan, Horney ecc. Tra i suoi allievi troviamo Victor Frankl il creatore della logoterapia mentre anche Karl Popper, che prima di diventare il famoso filosofo della scienza era uno stimato psicopedagogo, seguì il lavoro innovativo di Adler presso le scuole della Vienna socialdemocratica degli anni ’20. In quell’epoca, il governo della città diede proprio il compito all’analista viennese di riformare la Scuola. Adler e i suoi allievi si applicarono con abnegazione a questo lavoro e istituirono i primi consultori per i bambini problematici, tennero corsi di formazione per genitori e insegnanti, istituirono la figura dello psicologo presso gli asili e le scuole di ogni grado e crearono anche una scuola sperimentale che operava secondo i principi del cooperative learning. Tutte iniziative, come possiamo osservare, ancora attualissime.

La cronaca segnala, soventemente, episodi di inaccettabile violenza compiuta da o tra giovanissimi. Possono la brutalità, la sopraffazione, l’abuso essere percepiti dagli adolescenti come curativi rispetto all’indicibile dolore provato?

Il bullismo e le condotte eterolesive sono spesso un modo distorto del giovane di cercare valorizzazioni, dopo aver sperimentato insuccessi nel perseguire mete affermative più utili e socializzate. Sono quindi compensazioni fittiziamente curative, in quanto prevedono distanza affettiva dall’Altro (e il barometro della normalità è la capacità della persona di strutturare legami compartecipativi nel proprio contesto comunitario) e l’indurimento “dell’anima”. Di contro, le ansie e i sensi di inadeguatezza, che in ultima analisi hanno determinato lo stile “brutale”, non sono adeguatamente riconosciute e risolte dalla persona.

Terapista e giovane paziente, intelligente, precocemente classicista; ambedue pongono in discussione le proprie granitiche certezze. Può esemplificare i tratti del loro rapporto?

Ogni rapporto analitico efficace dovrebbe vertere sulla costruzione di una creativa relazione empatica così che l’analista “Vede con gli occhi del paziente, ascolta con le sue orecchie, vibra con il suo cuore”. Ciò che ho cercato di riportare nel romanzo. In ciò seguendo anche i dettami dal celebre poeta Walt Withman: “Non chiedo ad una persona ferita come si sente, io stesso divento la persona ferita”. Concetti simili a quelli alderiani che guidano il lavoro degli analisti di questa scuola e che hanno diretto anche la scrittura del mio romanzo.

Giuseppina Capone

Archeologia e animali. La narrazione degli autori antichi

Michele Di Gerio, laureato in Medicina Veterinaria ed in Conservazione dei Beni Culturali -indirizzo Archeologico, area Classica, ha effettuato presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” ricerche su reperti ossei di specie animali da reddito rinvenuti negli scavi di Pompei. Ha condotto studi sugli strumenti chirurgici ritrovati negli scavi di Ercolano e Pompei. Nell’ambito delle ricerche riguardanti la figura del medico romano ha effettuato studi sulla pittura ‘Enea ferito’, rinvenuta negli scavi di Pompei. Col Dipartimento di Archeologia dell’Università di Colonia ha condotto ricerche su reperti ossei di specie animali e resti di molluschi del II-III secolo d.C. rinvenuti nelle ‘Terme romane’ di Baia. Presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” sta conducendo indagini su reperti ossei e dentali di cane rinvenuti negli scavi di Pompei. Le sue ricerche sono state pubblicate da Rivista di Studi Pompeiani e KuBA, rivista scientifica dei Dipartimenti di Archeologia delle Università di Colonia e Bonn. Tiene lezioni di Archeozoologia presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Ha pubblicato tre saggi: La pesca nel Mediterraneo antico. I popoli, le specie acquatiche e l’economia (Guida Editori) nel 2016, Il cane nell’arte pompeiana (Valtrend Editore) nel 2017 e Archeologia e animali. La narrazione degli autori antichi (Guida Editori) nel 2019.

Le fonti che adopera sono le opere di autori di lingua greca e latina. Può indicarci la metodologia che ha adottato per orientarsi in un ambito tanto arduo ancorché insolito come il coniugare l’archeologia ed il mondo animale?

Poiché gli animali sono presenti in pitture, mosaici, bassorilievi e statue, è necessario, in un moderno contesto di ricerca archeologica, un loro studio approfondito che oltre a fornire dati anatomici, fisiologici, patologici e zootecnici, possa anche dare informazioni sul ruolo occupato nell’antichità in ambito sociale, economico e religioso. Per utilizzare le fonti classiche è stata necessaria da parte mia una buona conoscenza del contenuto delle opere di lingua greca e latina dove è presente la figura animale in ogni suo aspetto. Per il mio libro, Archeologia e animali. La narrazione degli autori antichi, ho consultato ventidue opere in lingua greca e ventisei in lingua latina. In alcune di esse le specie animali sono trattate ampiamente, ad esempio La caccia di Senofonte si occupa del cane da caccia con una serie di informazioni riguardanti l’addestramento, l’allevamento, l’alimentazione e l’accoppiamento mentre la Storia Naturale di Plinio il Vecchio, descrive molte specie animali, suddividendole in ‘terrestri’ e ‘acquatiche’, ed evidenziando gli aspetti biologici, economici e sociali, infine La natura degli animali, di Claudio Eliano è dedicata a tantissime specie, selvatiche e domestiche, la cui esposizione è simile a quella pliniana. Potrei citare altre opere dove l’animale è ampiamente trattato. Invece, in altre produzioni letterarie gli autori dedicano poco spazio agli animali anche se le informazioni fornite sono preziose. Per esempio, vorrei ricordare Le Metamorfosi di Apuleio dove è descritto l’asino utilizzato come forza-lavoro per azionare le macine del grano.

L’allevamento è una pratica intrapresa nel Neolitico. Quanto è stata determinante per il cambiamento della storia dell’uomo e, nella fattispecie, per le popolazioni affacciantesi sul Mediterraneo?

Prima dell’allevamento ci fu la domesticazione degli animali. I popoli primitivi giunsero alla domesticazione delle prime specie animali dopo moltissimo tempo perché il passaggio dalla pura e semplice cattura, espressa con la caccia, sino alla definitiva domesticazione, fu lenta e graduale. Con la domesticazione, l’animale abbandonò forzatamente le abitudini tipiche dello stato selvatico, integrando il proprio comportamento con quello dell’uomo. Fra le migliaia di specie di mammiferi esistenti, soltanto ben poche sono cadute sotto il dominio dell’uomo. Con la domesticazione l’animale fu allevato e utilizzato per la produzione di generi alimentari, utensili e come forza-lavoro nel settore agricolo. L’addomesticazione degli animali e il loro allevamento, insieme alla mietitura del grano selvatico e poi alla sua coltivazione, ebbero conseguenze sociali, come è facilmente immaginabile, di portata vastissima non soltanto sulle popolazioni del Mediterraneo antico ma anche nelle aree dell’entroterra orientale. Aumentando la quantità di cibo disponibile e legando contemporaneamente le comunità alle zone di produzione dello stesso cibo si registrò un costante incremento della popolazione. Questo processo, che segna il passaggio dal Mesolitico al Neolitico, fu definito ‘Rivoluzione Neolitica’ dal paletnologo inglese Vere Gordon Childe il cui segno più appariscente è la nascita del ‘villaggio’. Il carattere ‘rivoluzionario’ del passaggio è caratterizzato da una relativa rapidità e da un completo capovolgimento (si passa dal procacciamento alla produzione), con conseguenze culturali e demografiche enormi.

Può esemplificare il rapporto tra uomo ed animali domestici, ad esempio con gli animali d’affezione?

Con gli animali domestici da reddito l’uomo, sin dall’antichità, ha instaurato un rapporto soltanto per fini economici, che si è protratto senza alcun mutamento, sino in epoca moderna. Del bovino domestico utilizza il latte e le carni; del maiale, le carni e le setole, delle pecore, il latte e il vello; delle capre, il latte e le carni. Il cane e il gatto, invece, sono animali domestici d’affezione che dopo migliaia di anni, in modo diverso fra loro, si sono integrati nel nucleo familiare. Il gatto è presente nelle abitazioni ma continua ad assumere, rispetto al cane, un atteggiamento indipendente e austero. Il cane, invece, è completamente dipendente dall’uomo. Come in epoca antica continua ad assolvere compiti ben specifici: per la caccia, la compagnia e in alcune aree rurali è ancora impiegato per la guardia alla casa o delle pecore al pascolo. Vorrei ricordare che il particolare collare di epoca romana detto melium da Varrone, costituito da una striscia di cuoio dove erano posti dei chiodi protesi con la punta verso l’esterno, per proteggere il collo dei cani a guardia delle greggi di pecore dai morsi famelici dei lupi, è stato utilizzato, con la stessa funzione, sino a poco tempo fa dai pastori appenninici.

In qual misura gli animali hanno costituito nell’antichità classica una fonte di reddito?

In misura rilevante perché il settore zootecnico, insieme a quello agricolo, costituiva una notevole fonte di reddito. Riferito ai primi secoli della storia di Roma l’allevamento animale era largamente praticato da piccoli allevatori, con poche decine di animali, solitamente di una stessa specie. Dal 202 a.C., anno della disfatta annibalica, si assiste alla trasformazione delle fattorie di epoca medio-repubblicana in villae grazie al flusso di nuovi capitali e a un elevato di numero di schiavi impiegati come forza-lavoro. Nella villa, che occupa una certa centralità nell’economia romana, diviene fiorente non soltanto l’attività agricola ma anche l’allevamento animale. In tale struttura vengono allevate molte centinaia di animali da reddito di diversa specie. Imperatori, personaggi della politica o anche diversi letterati, tra questi Orazio, erano proprietari di villae che garantivano ricchezza. Ma anche nei piccoli centri o nelle aree periferiche dell’impero, i politici e i personaggi dell’aristocrazia locale erano proprietari di villae. Catone il Censore, Varrone e Columella nelle loro opere descrivono, oltre al settore agricolo, anche l’allevamento animale con interessanti informazioni zootecniche e medico veterinarie ampiamente utilizzate da me e da altri studiosi nel corso delle nostre ricerche.

I popoli antichi hanno attribuito un valore sacro agli animali, reputandoli imperscrutabili e divini. Ci offrirebbe qualche scenario curioso?

Mi sembra curioso, ma di importanza sociale, un fatto riguardante la sacralità del gatto nell’antico Egitto. Erodoto fu il primo autore ad interessarsi in modo approfondito al culto del gatto ed alla dea Bastet. Secondo la narrazione dello storiografo chiunque uccideva volontariamente un gatto veniva messo a morte, se invece, involontariamente pagava una multa imposta dai sacerdoti. Diodoro Siculo conferma e rafforza l’informazione di Erodoto. Infatti, dall’autore sappiamo che chiunque avesse ucciso involontariamente o volontariamente, un gatto o un ibis, era condannato a morte. Egli fu testimone di un singolare evento. Un membro della delegazione romana in visita in Egitto uccise accidentalmente un gatto, e secondo le leggi vigenti non fu possibile alcun sconto della pena capitale neanche se l’avesse voluto il re in persona. Ma spesso era il popolo ad uccidere il colpevole senza aspettare alcuna sentenza. La folla accorse presso la casa del membro della delegazione romana per ucciderlo ma i magistrati, mandati dal re, ebbero il potere di sottrarre l’uomo alla terribile punizione popolare. Egli, comunque, non fu ucciso neanche successivamente.

Giuseppina Capone

Lunga è la notte

Marinette Pendola fa parte del gruppo di lavoro “Progetto della memoria”, istituito dall’ambasciata italiana a Tunisi negli anni Novanta, cui sono legate numerose pubblicazioni, tra cui “L’alimentazione degli italiani di Tunisia” (Tunisi, Finzi, 2005), “Gli Italiani di Tunisia. Storia di una comunità” (Editoriale Umbra, 2007). I suoi studi hanno ispirato anche “La riva lontana” (Sellerio, 2000), romanzo autobiografico che ripercorre un’infanzia tunisina nel periodo coloniale. Per Arkadia Editore ha pubblicato “La traversata del deserto” (2014), che rievoca il ritorno degli emigrati dalla Tunisia all’Italia, e “L’erba di vento” (2016), storia potente di una donna che non si sottomette alla convenzioni del suo tempo.

La Tunisia rimane elemento focale delle sue ricerche e della sua narrazione, un punto di vista interessante, giacché lei è nata da genitori siciliani. Quali caratteristiche assume questa sorta di migrazione alla rovescia dal punto di vista della “mescolanza” e dell’integrazione?

Sono nata da genitori di origine siciliana a loro volta nati in Tunisia. Appartengo alla terza generazione nata in Tunisia. Perciò il paese nordafricano non è solo il mio paese di nascita ma quello in cui la mia famiglia si è profondamente radicata. E dover lasciare quella che consideravamo la nostra terra ha rappresentato un trauma notevole, uno sradicamento da cui molti non si sono mai ripresi. Poiché la mia infanzia e parte dell’adolescenza sono trascorse là, sono impregnata dalla cultura locale, in primis la capacità di convivere con culture diverse, l’accettazione dell’altro, la tolleranza. Difficile è stato inserirsi, per l’ignoranza della lingua, dei costumi locali, per la diffidenza nei nostri confronti. Tuttavia, negli italiani degli anni Sessanta del Novecento, periodo del nostro arrivo, la curiosità ha sempre prevalso sul rifiuto. Il che non mi pare che avvenga adesso. Ecco perché l’Italia di oggi, in cui emergono razzismi e sguaiatezze, non mi appartiene: non la riconosco, non la so capire.

Lei affonda la penna in una comunità stigmatizzata, portatrice di stereotipi e clichè. Le granitiche convinzioni possono scricchiolare?

L’ambiente che ho conosciuto nella prima infanzia era coloniale, socialmente ben strutturato. In alto stavano i colonizzatori, in altre parole i francesi, in basso i colonizzati, cioè i tunisini. In mezzo c’erano gli italiani, né colonizzatori né colonizzati, semplicemente emigrati in un momento storico in cui i francesi avevano bisogno di molta manodopera per costruire tutte quelle infrastrutture di cui il paese aveva necessità, e l’Italia aveva un eccesso di manodopera a cui non era in grado di dare lavoro. E gli italiani erano trattati da migranti, erano oggetto di stereotipi e cliché esattamente come lo sono oggi coloro che arrivano nel nostro paese. Nel mio romanzo “Lunga è la notte”, appare un piccolo campionario di questi stereotipi. Con il tempo e la conoscenza dell’altro, questi cliché possono essere scalfiti. Io faccio la mia parte. So perfettamente che è solo una goccia d’acqua in un oceano. Ma sono ottimista, gutta cavat lapidem.

Il suo romanzo narra di un femminicidio. Quanto ha attinto dalla cosiddetta cronaca nera?

Non ho attinto dalla cronaca nera. Questa storia, realmente accaduta, mi è stata raccontata da un testimone oculare. La vicenda risale agli inizi degli anni Trenta. Ho volutamente creato tutti i personaggi (nessuno di loro, ad eccezione del prete, è realmente esistito) poiché la vicenda è ancora viva nella memoria dei discendenti. Del resto l’ho chiarito nella Premessa.

Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del noir. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?

È vero, il mio romanzo è farcito degli ingredienti tipici del noir. Ma non lo è. L’obiettivo di tutto il romanzo non è trovare il colpevole, ma ritrovare la memoria, mettere il protagonista di fronte al trauma rimosso e permettergli (forse) di uscire dalla gabbia in cui volutamente si è chiuso. La domanda che mi sono posta sin dall’inizio della stesura è stata: cosa succede alle vittime, a coloro che sopravvivono a una tragedia simile? L’obiettivo del romanzo è stato cercare di dare una risposta.

Il percorso del protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

La memoria di Mimmo, il protagonista, è “involontaria”, come direbbe Proust. Sono attimi del suo passato che riemergono all’improvviso sconvolgendo il presente, ma non portano mai a una epifania. La sua è una vita senza memoria, dunque senza qualità. Il passato nutre il presente, esattamente come l’albero che ha bisogno di radici profonde per nutrire la chioma. Più profonde sono le sue radici, più avrà la possibilità di trovare acqua e nutrienti, tanto più folta e vitale sarà la sua chioma. La memoria è fondamentale nella mia produzione. Lavorare ancorata a questo tema mi ha permesso innanzitutto di rivelarmi a me stessa, di prendere coscienza della mia identità e comporne armoniosamente i tasselli in modo da formare un mosaico unico. Il mio obiettivo però non è quello di lasciare una testimonianza di me (che forse potrebbe interessare i miei nipoti e nessun altro), quanto di fare emergere un’intera comunità dimenticata dalla storia, e dare voce a chi non l’ha, non l’ha mai avuta poiché appartiene alla fascia più umile di quella collettività. In fin dei conti mi piacerebbe che questa mia testimonianza contribuisse alla costruzione di una storia alternativa, che includesse tutte quelle Italie fuori dall’Italia. Non so, di fatto, se il mio lavoro sarà utile in questo senso. So per certo che lo è per tutti coloro che hanno vissuto la mia stessa esperienza poiché ha permesso loro di prendere coscienza della propria identità individuale, ma anche e soprattutto di sentirsi in qualche modo riconosciuti sul piano sociale e culturale.

Giuseppina Capone

Gucci ha rotto il vecchio canone della bellezza

“Penso che il mio aspetto abbia un impatto su molte persone, non capisco perché scateno una reazione così grande da parte di tutti, stanno solo cercando una faccia interessante”.

Sembra che Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, sia riuscito a distruggere lo stereotipo di bellezza che per secoli ha condizionato generazioni di donne nel credere che la vera bellezza sia quella di essere perfette esteticamente.  “L’originale” volto della nuova modella, però, pur essendo stato un distruttore di luoghi comuni, è diventato argomento di dibattito facendo scaturire diverse critiche sui social: parole crudeli, insulti, ingiurie, veri e propri atti di bullismo nei confronti di Armine Harutyunyan. Armine viene da Erevan, la capitale dell’Armenia, ha 23 anni ed è un illustratrice e graphic designer.

“Le persone sono spaventate da quello che è diverso. Non posso impedire loro di sparlare ma io posso ignorarle. Ci sono molti modi diversi di essere belli: consiglio di concentrarsi su di sé, su chi si è e su cosa si ama davvero. Credo inoltre che molte donne pensino spesso al loro aspetto e a dirla tutta ho pensato più volte di ricorrere a qualche chirurgia ma col tempo ho imparato ad accettarmi così come sono. Crescendo impari a capire te stesso e ad amarti”.

Parla così Armine durante un’intervista. Il suo tono di voce è sereno e le sue parole non fanno altro che dimostrare la sua sicurezza non solo per il suo aspetto estetico, pur ammettendo di aver faticato per arrivare ad accettare e ad apprezzare ad oggi il suo volto e il suo corpo, dopo aver pensato anche di ricorrere alla chirurgia, ma anche e soprattutto per la forte autostima che possiede in quanto consapevole di ciò che vale al di là del suo volto. La sua serenità d’animo e la sua mente intelligente vale molto di più di qualsiasi corpo o viso “perfetto” perché è questo che fa di sé una persona attraente.

Reagisce, dunque, con diplomazia e serenità Armine alle numerose critiche sui social da parte di chi ancora non accetta  un canone di bellezza differente da quello che impone la società, da chi vede la bellezza ancora solo nella perfezione estetica e non riesce a valutarla  personalmente se non attraverso gli occhi di tutti.

La vera bellezza sta soprattutto nel fascino di una persona, non solo nella forma o nel colore degli occhi, quanto nella profondità di uno sguardo. La vera bellezza in una donna non sta nella forma delle sue labbra ma nell’espressione intelligente che assume il suo volto. Non sta nel corpo perfetto ma nel portamento, nell’eleganza che assume quando lo muove. La vera bellezza è dentro di noi e nel come siamo capaci di esternarla.

Anche se una modella non ha lo stesso volto di tutte le altre, il suo garbo e lo sguardo intelligente fa diventare il capo che indossa più interessante. Perché una mente interessante rende tutto più affascinante e attraente.

Alessandra Federico

Kenzo Takada: il primo stilista orientale in Occidente

Lo stilista giapponese che ha unito la moda Orientale  con quella Occidentale.

“Non aveva senso che facessi anche io quello che facevano gli stilisti francesi, non sapevo neanche farlo. Così mi misi a disegnare vestiti in modo diverso, usando i tessuti dei kimono e fonti di ispirazioni diverse”.

Kenzo Takada è morto domenica 4 ottobre all’età di ottantuno anni, in un ospedale di Parigi dove era ricoverato a causa del Coronavirus. Kenzo, è stato il primo stilista giapponese a recarsi a Parigi nel 1964 , conquistando  immediatamente, con le sue creazioni folcloristiche e vivaci, una vasta clientela di giovani: la moda di quel momento stava subendo un grande cambiamento e Kenzo era entusiasta di voler far parte di quella grande rivoluzione della moda.

Il talentuoso stilista contribuì alla liberazione dalla rigida forma dell’haute couture inserendo il prêt-à-porter: abiti pratici dai colori vivaci e floreali. Kenzo presentava, durante le sue sfilate di moda, le sue meravigliose creazioni indossate da graziose modelle in groppa a un elefante. Lo stilista adottò il semplice taglio del kimono della sua patria combinandolo anche con elementi sudamericani, orientali e scandinavi. Ancora oggi mostra questa caratteristica nelle sue griffe. Kenzo era uno degli stilisti con maggiore inventiva, fantasia e soprattutto dotato di una grande volontà, nel 2012, presentò le sue collezioni un mese prima rispetto a tutti gli altri stilisti di moda. Oltre al prêt-à-porter femminile, creò anche una nuova linea per uomo e per bambino.

Kenzo Takada nacque a Himeji, vicino Osaka, il ventisette febbraio 1939 ed è stato uno dei primi studenti uomo a frequentare l’accademia di moda di Bunka, a Tokyo. La sua carriera fu rapida e in ascesa: vinse nel 1960 il premio Soen per nuovi stilisti emergenti. Nei grandi magazzini Sanai, Kenzo iniziò a lavorare disegnando abiti per ragazze fino a quando i lavori per le Olimpiadi nel 1964 cambiarono la sua vita:  la sua casa venne distrutta per costruire nuovi progetti e grazie al risarcimento donatogli, approfittò per fare un viaggio in barca da Hong Kong, Singapore, Mumbai fino alla Francia dove affittò una casa  Parigi, e dove iniziò a vendere bozzetti di abiti agli stilisti di alta moda.  Nel 1970 aprì una piccola boutique, “Jungle Jap”, con pareti floreali dipinte da lui perché il suo desiderio era fondere le sue due passioni : la giungla e il Giappone.

Verso il successo

Nel 1971 la rivista di moda Elle pubblicò in prima pagina uno dei suoi lavori e alla sfilata organizzata nella sua boutique andarono giornalisti da tutto il mondo. Kenzo non possedeva abbastanza danaro, era quindi  costretto a cucire insieme le stoffe comprate a Parigi e quelle portate da lui dal Giappone creando così una linea al quanto originale. Introdusse, nel 1983, anche l’abbigliamento maschile, nel 1986 una linea di jeans e nel 1988 profumi e l’arredamento. Nel 1990 morì il suo compagno e socio in affari Xavier.  Per questo triste motivo, Kenzo, nel 1993 vendette la sua azienda per 80 milioni di dollari a LVMH, il più grande gruppo del lusso francese di proprietà di Bernard Arnault, che comprende anche Christian Dior, Louis Vuitton, Fendi e Celine. Nel 1999 si ritirò dal mondo della moda. Continuò a disegnare costumi per l’opera e le uniformi della squadra olimpica giapponese del 2004 anche dopo aver lasciato l’azienda. Si dedicò  completamente all’arredamento e fondò il marchio K3 nel 2020.  Con il suo lavoro, Kenzo ha aperto la strada per Parigi ad altri stilisti giapponesi, come Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto.

Lo ricorderemo per i suoi originali abiti colorati, che trasmettevano un senso di libertà per il corpo della donna. Kenzo rimarrà per sempre il creatore di abiti “felici”.

Alessandra Federico

Sorelle Fontana:  le prime donne che hanno cambiato la moda italiana

 Il lusso è una delle chiavi interpretative più rilevanti per comprendere la moda occidentale. Il modo di vestire è da sempre stato utilizzato per comunicare anche altri significati che sono cambiati a seconda delle culture, delle situazioni e delle scelte individuali. La moda è stata, a partire dal medioevo, prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abito per manifestare la preminenza del proprio ruolo gerarchico all’interno di una determinata comunità.  Negli smodati anni 80’, ad  esempio, il Made in Italy fu uno stile innovativo e stravagante. Al termine degli anni 70’ il pret-a-porter italiano debuttò e Milano che in breve tempo assunse un ruolo catalizzatore di tendenza e di stili moderni.  Ma torniamo per un attimo alle origini, le prime stiliste della moda italiana risalgono agli anni 30’: le sorelle Fontana hanno fondato il primo atelier di moda in Italia.

Le sorelle Fontana

“Da grande realizzerò davvero un abito per una principessa”. Presto le parole di Micol Fontana (seconda delle tre sorelle stiliste) si realizzarono. La casa di moda della famiglia Fontana fu fondata a Parma nel 1907. Una volta diventate adulte, le tre sorelle romagnole,  Zoe, Micol e Giovanna, si trasferirono a Roma dove inizialmente furono costrette a lavorare in una sartoria guadagnando il minimo indispensabile per sopravvivere, fino a quando il loro  datore di lavoro si accorse della straordinaria dote di Micol e le affidò il compito di confezionare gli abiti da sera per la cliente più prestigiosa della boutique. Durante la Seconda Guerra Mondiale, con tanta audacia e determinazione riuscirono a realizzare il loro sogno: un atelier tutto loro dove poter creare abiti e organizzare sfilate di moda.

Nel 1958 l’atelier si trasferì a piazza di Spagna dove realizzarono la prima sfilata di moda sulle scale della maestosa piazza. Riuscirono, inoltre, a conquistare la aristocrazia italiana e le celebrità del cinema internazionale. Nel 1949 realizzarono l’abito di nozze per Linda Christian e la stampa internazionale non parlava d’altro. Da allora il Jet- Set di Hollywood si rivolgeva solo alla casa di moda italiana Fontana. Anche Liz Taylor, Ingrid Bergman e Ursula Andress vestivano abiti Fontana. La loro cliente fedele era Ava Garden, che, oltre al guardaroba, chiese loro di realizzare per lei anche abiti di scena tra cui uno  per il film “La contessa scalza”.  Tra le tre sorelle Micol era quella più determinata, aveva grandi sogni, progetti e ambizioni.

Il sogno di Micol

Oltre alle star di Hollywood, le creazioni delle sorelle Fontana erano molto apprezzate anche dalle nobiltà. La principessa Maria Pia di Savoia commissionò loro il suo abito nuziale poiché entusiasta della modifica al suo prezioso abito di cui se ne occupò proprio Micol. Non solo,  nel 48’ la celebre attrice di Hollywood, Myrna Loy acquista dalle Fontana il completo guardaroba per il film “ Il caso di lady Brook”.  Le Fontana iniziarono così a puntare sul mercato americano: Micol Fontana cominciò una serie di viaggi oltre oceano in seguito alle tante richieste per conto di grandi celebrità americane. L’audace Micol, si sposò due volte, il primo marito si rivelò fannullone interessato solo al denaro e ad avere molte donne. Insieme a lui, Micol generò la prima e unica figlia, Maria Paola, deceduta prematuramente per aver contratto il tifo in Calabria. Dopo il tragico avvenimento Micol decise di non voler lavorare più, ma grazie all’aiuto del suo nuovo amore, intraprese un nuovo percorso rinnovando la bottega e confezionando abiti con marchio Sorelle Fontana.  Micol morì il dodici giugno 2015 all’età di centouno anni.

Sorelle Fontana, un marchio che la moda italiana non dimenticherà mai.

Alessandra Federico

La figlia di Shakespeare

Paola Musa, lei costruisce una storia superlativa intorno alla superbia. Può fornircene una definizione contemporanea?

La superbia fa parte dei sette vizi capitali della dottrina morale cattolica, ed è considerato dalla stessa uno dei massimi peccati, giacché espressione della disobbedienza di Lucifero a Dio. Come sostiene sant’Agostino, «il diavolo non è lussurioso né ubriacone: è invece superbo e invidioso». Volendo dare una definizione contemporanea, direi che il superbo è un individuo che idealizza l’immagine di sé che vuole offrire agli altri, è alla continua ricerca di riconoscimento, si rifiuta di di accettare se stesso per come è realmente e quindi di elaborare una trasformazione interiore.

Quali altri peccati e i vizi individua nella società moderna?

Credo si possano trovare tutti, anche se in misura e frequenza differenti. Nel mio lavoro di indagine dei sette vizi capitali, sono partita dall’accidia. Sebbene sia un termine oggi poco usato, conosciamo tutti abbastanza bene l’inerzia, l’indolenza, la depressione. Nell’era tecnologica ci illudiamo spesso di essere protagonisti ma siamo in realtà meri fruitori di strumenti che spesso annichiliscono la nostra autentica volontà. Senz’altro anche la Superbia è molto diffusa. E l’invidia.

Un vecchio attore ed un collega della sua compagnia teatrale giovanile che ne pone in dubbio merito artistico e morale. Il gap generazionale attuale possiede caratteristiche peculiari?

Nel mio romanzo “La figlia di Shakespeare” (Arkadia editore) il protagonista (Alfredo Destrè) incarna la superbia nel contesto dell’ambiente teatrale. Trovavo interessante descrivere una persona che nel profondo teme la mediocrità e respinge con forza il suo passato e per tutta la vita altro non desidera che essere riconosciuto come grande attore Shakespeariano. Eppure , dalle sue opere sembra che Alfredo non abbia appreso niente, o quasi. Il suo vecchio collega, non a caso da sempre interprete del fool, ha la funzione di ribaltare tutto, di smascherarlo. Il romanzo comunque affronta anche altre tematiche, come ad esempio il conflitto generazionale. E’ mia opinione che spesso gli anziani che hanno già ottenuto riconoscimenti e successo, non lascino spazio ai più giovani. Tendono ad essere conservatori, nel senso letterale e ed egoistico di voler conservare tutto il loro potere.

Il protagonista del suo romanzo accetta di risollevare le sorti del più importante teatro della città, riscuotendo successo di critica e di pubblico. La sua è una riflessione relativa alla dilagante e spavalda decadenza culturale?

Nel romanzo affronto anche il problema di un’epoca incapace spesso di produrre arte di alto livello. Perché il settore della cultura è costretta troppo spesso a fare compromessi al ribasso, è alla continua e ossessiva di ricerca di consenso, di gradimento da parte dei media. Svilisce così il proprio potenziale, rinuncia al lungo e tortuoso percorso della grandezza per un risultato immediato, oppure sfrutta e strumentalizza ciò che è già conosciuto e facilmente riconoscibile, fagocitandolo.

Lei non fa sconti ai suoi personaggi: li penetra con una lama tagliente. Intende veicolare messaggi etici o morali?

Sì, è vero: cerco di scandagliare ogni aspetto della loro psicologia, ma in questo caso si tratta anche una necessità narrativa, perché prendendo come spunto un vizio capitale, il racconto ha la dimensione di una metafora delle varie debolezze umane. Tuttavia non mi pongo mai in una posizione di giudizio. In parte il messaggio etico è invece intrinseco all’argomento che tratto.

 

Paola Musa è una scrittrice, traduttrice, poetessa, vive a Roma. Ha ottenuto diversi riconoscimenti in ambito poetico. Collabora da anni con numerosi musicisti come paroliere. Ha firmato diverse canzoni per Nicky Nicolai insieme a Stefano Di Battista e Dario Rosciglione. Per il teatro ha composto le liriche per la commedia musicale Datemi tre caravelle (interpretata da Alessandro Preziosi, con musiche di Stefano Di Battista) e La dodicesima notte di William Shakespeare (per la regia di Armando Pugliese, sulla musica di Ludovico Einaudi). Ha scritto con Tiziana Sensi la versione teatrale del suo romanzo Condominio occidentale, portato in scena da attori vedenti e ipovedenti in importanti teatri romani, e al Festival internazionale Babel Fast di Targoviste (Romania). Lo spettacolo ha ottenuto la medaglia dal Presidente della Repubblica e la menzione speciale per il teatro al “Premio Anima”. Nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo, Condominio occidentale (Salerno Editrice), selezionato al Festival du Premier Roman de Chambéry e al “Premio Primo Romanzo Città di Cuneo”. Condominio occidentale è diventato un tv movie per Rai 1 con il titolo Una casa nel cuore e con protagonista Cristiana Capotondi (2015). Nel giugno 2009 è uscito il romanzo Il terzo corpo dell’amore (Salerno Editrice) e nel marzo 2012 la sua prima raccolta di poesie Ore venti e trenta (Albeggi edizioni). Con Arkadia ha pubblicato nel 2014 il romanzo Quelli che restano e nel 2016 Go Max Go, biografia romanzata del sassofonista Massimo Urbani. Del febbraio 2019 è il suo romanzo, L’ora meridiana.

 

Giuseppina Capone

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