Per Hölderlin il simbolo è un’esperienza che precede la lingua. Qual è, a suo avviso, la natura di questa esperienza prelinguistica? Si tratta di un’intuizione mitica, di una risonanza ontologica o di una reminiscenza platonica?
È un’esperienza religiosa. La Tradizione della poesia occidentale, che nasce nella Grecia del mito, origina da un patto di reciproca fedeltà tra il dio e il poeta. Per Hölderlin la poesia nasce come sacerdozio della verità: questo significa che il linguaggio – da lui definito “il più pericoloso dei beni” – è in grado di fondare la realtà, di farsi mondo ad una sola condizione, che nasca sempre dentro un colloquio con l’Altro, con il dio stesso che è proprio colui che lo dona. Tanto più il poeta è in grado di testimoniare la verità, quanto più riesce a conservare la sua radice creaturale.
L’equilibrio tra aorgico e organico evocato da Hölderlin rimanda a una tensione irrisolta tra natura e intelletto. Come interpreta questa dualità nel contesto della crisi della modernità e della frattura tra logos e physis?
Hölderlin non parla mai esplicitamente di unità simbolica, eppure l’equilibrio tra aorgico (Dèi/natura) e organico (intelletto) che definisce più propriamente Armonia, richiama esattamente questa unità. È un perfetto equilibrio perché nessuna delle due forze in gioco prende il sopravvento sull’altra. Nessuna forza agisce da tiranna. In Hölderlin si ricava, seppur implicitamente, che soltanto in un’epoca della Storia l’unità simbolica si è perfettamente compiuta: proprio nella Grecia del mito. Tuttavia, l’idillio non poteva/doveva durare troppo a lungo. La tragedia La morte di Empedocle ci conduce nel punto esatto in cui il Poeta – in senso archetipico, perché lo svevo ripercorre ciò che è accaduto nella Tradizione della poesia occidentale, e quindi nella Storia, nell’avvicendamento tra paganesimo e Cristianesimo – rompe, pronunciando una parola sfacciata, il patto di fedeltà, costringendo gli dèì ad abbandonarlo. Empedocle, che è generalmente riconosciuto come figura di frontiera tra Mythos e Lògos, per Hölderlin ha l’altissima responsabilità di condurre al tramonto la civiltà del mito, inaugurando una lunghissima notte di abbandono. Quando Cristo farà irruzione nella Storia, l’antico equilibrio non sarà ripristinato. Il flutto, la fiamma, etc… col naufragio del simbolo, con l’interruzione del colloquio, resteranno disabitati. Poiché anche la parola fa parte della physis proprio come il flutto e la fiamma, il poeta abiterà da solo il linguaggio. Per andare al cuore della crisi della modernità, forse si può ricordare, proprio con Hölderlin, che gli dèi ci hanno abbandonati perché l’uomo stesso ha inteso farsi dio.
In un passaggio pare cogliersi la “tentazione titanica” del poeta; esso sembra alludere ad una hybris prometeica. In che modo Hölderlin incarna questa tensione tra fedeltà al divino e desiderio di fondare un nuovo mondo attraverso la parola?
Personalmente, ritengo che Hölderlin si trattenga, nella lacerazione che gli deriva dal naufragio dell’unità simbolica, dal voler fondare un nuovo linguaggio. La ragione è questa: la poesia è sacerdozio della verità e se il simbolo è un’esperienza (religiosa) che precede la lingua, il poeta sa che non è possibile ricrearla autonomamente. Una delle lezioni più importanti di Hölderlin è che la verità non è un prodotto del linguaggio. Dunque, se il simbolo, ovvero l’incontro col dio, non c’è nell’esperienza, l’io creativo del poeta non può sostituirlo, non può inventarselo con gli artifici della lingua, perché altrimenti dice il falso. Un esempio evidentissimo è proprio nell’inno Come quando il giorno di festa, che costituisce un punto di svolta nella tradizione della poesia occidentale. Il poeta, alla fine, interrompe bruscamente l’inno con un pianto, definendosi come “falso prete”: sembrava andare tutto bene, eppure l’affresco greco dell’inno, ormai relegato ad un passato non più ripetibile, è interrotto – quasi distrutto – dal pianto del poeta che non può descrivere l’equilibrio tra aorgico e organico, perché nel suo qui ed ora non c’è più.
Lei scrive che “il vivente è un’ombra”. È un eco dell’orfismo, del pensiero tragico o un riferimento all’inabitabilità del mondo contemporaneo?
Hölderlin stesso ci dice che il Cristo (detto anche il Conciliatore, colui che sanerà lo strappo con il dio che il titanismo dell’uomo/poeta ha causato) viene al crepuscolo per annunciarci la notte del nascondimento. In una versione tarda di Patmos, il poeta scrive “Nulla di immortale si vedeva”. Se il poeta non “vede”, non può efficacemente “dire” e ciò dentro uno dei paradossi che costellano la poesia hölderliniana, secondo cui la poesia sorge intorno alla maestà dell’invisibile. Cristo irrompe nella Storia con altre insegne rispetto agli antichi dèi greci, che non sono quelle della potenza ed è per questo che flutto, fiamma (e parola) rimangono disabitati.
Cristo come segno di un nascondimento ulteriore. In che misura Hölderlin anticipa la teologia del silenzio di Dio, così cara al pensiero novecentesco?
Credo che sia necessaria una premessa. La condizione spirituale dello svevo è talmente complessa e stratificata per cui la rigida categorizzazione della sua fede (o è greco nello spirito, o è protestante-pietista, o è ateo) non aiuta affatto ad inquadrarla. Certamente Hölderlin è protestante (basti guardare l’inno L’Unico/ Der Einzige), ma è pur vero che filtra il cristianesimo alla luce non della grazia, ma dell’antica legge della necessità nell’ansia di conciliarlo con gli antichi dèi: Cristo “doveva” chiudere la cerchia celeste, perché “doveva” portare a compimento quanto gli altri dèi, tramontando, avevano lasciato in sospeso. E riscontriamo una forma di ateismo, perché per il poeta, nel suo qui ed ora, non c’è il vivente, né nel senso del Dio vivente cristiano (scrive infatti che Cristo è venuto per morire e non per vivere), né nel senso greco, come dicevo prima a proposito di physis disabitata. La chiave del silenzio di Dio continua ad essere la tentazione titanica di rinunciare alla radice creaturale, di fare di sé stessi dio. E questo molto prima di dover agitare lo spauracchio terribile del dominio della tecnica.Il titanismo comincia sempre a partire dal linguaggio.
Si ravvede uno “strappo” non sanato: è la perdita del mito, il silenzio degli dèi, o la crisi della parola poetica? O, forse, sono tutte queste dimensioni a coincidere nella poesia hölderliniana?
Tutte queste dimensioni entrano in gioco. Hölderlin parla di una parola in crisi a causa del naufragio del simbolo. Quando si interpreta lo svevo, si insiste sempre sull’abbandono degli dèi, ma questo è solo un aspetto della faccenda. Ciò non si è compiuto per capriccio, per così dire, ma proprio perché non riusciamo (come non c’è riuscito l’uomo ai tempi del mito) a rinunciare al desiderio, per dirla con le sue parole e ancora una volta, di farci uguali al dio. Ma Hölderlin è fatalista: la libertà di tradire il patto è instillata dallo stesso dio.
Che funzione ha, secondo lei, la nostalgia nel sistema poetico di Hölderlin? È solo un sentimento elegiaco o diventa una categoria conoscitiva, una via d’accesso all’invisibile e al possibile?
In qualche modo, la lacerazione dovuta alla nostalgia del simbolo, traducendosi in poesia nel dire “ciò che non è”, diventa via conoscitiva.
Hölderlin, dall’esilio sulla torre, annuncia il ritorno dei Celesti. Come intende questo “ritorno”: come speranza messianica, come attesa metafisica o come potenziale risveglio dell’umano alla dimensione sacrale del mondo?
Hölderlin si aggrappa con tutto sé stesso a questo annuncio, che lascia ai posteri per i motivi che ho spiegato prima, a proposito del suo qui ed ora senza il vivente. Il poeta non sa, chiaramente, né quando, né come torneranno i Celesti; tuttavia, secondo me il sacrificio del suo ritiro nella torre sul Neckar (a mio avviso da leggere anche in funzione pietista), è un dono fatto alla stirpe (nel senso greco di ghénos) affinché torni, un domani, la consapevolezza della propria radice creaturale. È la speranza di tornare di nuovo colloquio, quindi poeticamente di nuovo canto.
Lei parla della poesia come parola forgiata dalla fame di azzurre lontananze. È un’immagine potentemente romantica, ma anche metafisica. È per Hölderlin la poesia una forma di ascesi o di naufragio?
Archetipicamente, nel ricostruire questa Tradizione della poesia, il poeta è precipitato da quelle lontananze. Perdendo il simbolo, non le ha recuperate più. Hölderlin, che rimane sempre un greco antico autentico nello spirito, è come se avesse vissuto personalmente questa perdita. La sente sua, come se fosse stato con Empedocle nel momento fatale, come se fosse stato Empedocle lui stesso. L’istante poetico hölderliniano ci dischiude i momenti più alti e più bassi della parola poetica: quando la parola si fa mondo, e quando mondo stesso e dio diventano gli “stolidi schiavi” del poeta titano, che ha preteso di versare da sé la fiala della vita, rendendo la parola incapace di fondare la realtà, la quale si dà sempre dentro una “compagnia”.
Nel ribaltamento della Tradizione operato da Hölderlin, la parola poetica smette di dire ciò che è e si rivolge a ciò che non è. Potremmo parlare di una vera e propria apofasi lirica? E quale relazione vede tra questa postura e le poetiche moderne del silenzio e dell’assenza?
Credo proprio di sì. La via apofatica è l’unica percorribile in assenza del vivente. Torno sul medesimo punto: se il vivente non c’è, cosa può dire il poeta? Se dice che c’è, perché se lo inventa, dice il falso. Solo a questa condizione il poeta resta credibile nel sacerdozio della verità, dentro una parola che si predispone all’attesa, all’inseguimento della realtà, di una pienezza di senso per come l’ho poc’anzi definita e che Hölderlin rimanda all’indeterminatezza del domani. Nel libro approfondisco un confronto non nuovo nell’interpretazione di Hölderlin, tra la figura di Empedocle e quella del Chandos di Hofmannsthal, molto simili e molto diversi. Chandos vive la crisi della parola, il naufragio della pretesa di ridurre il mondo ad un parto del suo io creativo. Ma non c’è mai il senso di colpa che invece attanaglia Empedocle. Ma potremmo richiamare benissimo anche Paul Celan, che ha vissuto la lacerazione della lingua (il tedesco come lingua degli affetti e, al contempo, come lingua dei carnefici) fino all’estremo. Hölderlin ci dà una traccia fondamentale circa l’assenza e/o il silenzio di Dio; per arrivare al fondo, bisognerà fare i conti con il desiderio di titanismo che si annida nel cuore dell’uomo.
Livia Di Vona è giornalista pubblicista e saggista. Collabora con diverse riviste, cartacee e online, di critica letteraria.
Giuseppina Capone