Simonetta Tassinari: Il bello tra le crepe. Manuale di riparazione della vita quotidiana

Nel suo libro, la crepa si fa cifra e metafora. Pensa alla nozione giapponese di kintsugi, in cui la frattura viene nobilitata con l’oro. Lei però sembra spingersi oltre: non è solo una riparazione estetica, ma ontologica. Che cosa resta, secondo lei, del concetto stesso di “interezza” nella vita umana?

Sì, nel mio libro la crepa è una metafora centrale. Il kintsugi giapponese ci insegna che la frattura non va nascosta ma evidenziata, persino nobilitata. Tuttavia, a me interessa soprattutto quel che cambia nell’identità di ciò che è stato rotto. La riparazione non restituisce un “prima”, non è un restauro mimetico: è un altro stato dell’essere, spesso più autentico. Per questo, nel libro sottintendo una“riparazione ontologica”: ciò che siamo dopo una crepa non è meno intero, ma è un’interezza diversa. Meno compatta, forse, ma più vera.

Lei parla di “riparazione della vita quotidiana”. In un’epoca segnata dall’effimero, dal consumo e dalla sostituibilità, la riparazione sembra un atto controcorrente. È possibile pensare alla cura del quotidiano come forma di resistenza simbolica?

Certamente! In un tempo che tende a scartare ciò che è rotto – oggetti, relazioni, anche emozioni – scegliere di riparare è un gesto di resistenza, persino di disobbedienza creativa. È come dire: “Questo vale ancora, anche se non è perfetto”. Ma proprio qui vale la pena fermarsi: che cosa intendiamo oggi per “perfetto”? Spesso, il perfetto coincide con l’efficiente, il nuovo, il performante, ciò che non ci fa perdere del tempo. È una perfezione di superficie, senza storia. Una perfezione che non conosce l’attesa, né l’errore. Ma è davvero questo ciò che ci fa stare bene? La cura del quotidiano, al contrario, riconosce valore a ciò che è segnato dal tempo. Riparare non significa riportare all’origine, ma accompagnare una trasformazione, anche visibile, anche imperfetta. È un modo per sottrarsi alla logica della velocità, della prestazione, dell’indifferenza. È un atto controcorrente che restituisce profondità e pienezza al vivere.

E, soprattutto, è un atto che restituisce dignità anche all’incompiuto, al provvisorio, a ciò che non corrisponde ai canoni del “tutto e subito”. Una piccola forma di resistenza simbolica e concreta, insieme.

Nel testo si coglie una sensibilità quasi bachelardiana per gli oggetti, le stanze, i luoghi abitati. Crede che la riparazione interiore possa iniziare da una diversa relazione con le cose, secondo la logica dell’”intimità abitata” e non del possesso?

Credo fermamente che la riparazione interiore inizi anche dal nostro modo di abitare gli spazi. La filosofia dell’”intimità abitata” ci insegna che le cose non sono solo strumenti: possono diventare compagne di senso. Quando aggiustiamo una sedia o scegliamo di non buttare una tazza sbreccata, stiamo anche educando lo sguardo. Stiamo dicendo a noi stessi: “Nulla è solo da usare”. E questa è una forma di riconoscimento che può trasfigurare anche l’interno.

Spesso i manuali si rivolgono alla mente operativa, al “fare”. Ma il suo sembra un “anti-manuale”, un breviario esistenziale. Si sente più vicina alla tradizione dei moralisti francesi, dei pensatori dell’esperienza?

Sì, il mio libro è volutamente un “anti-manuale”. Non offre soluzioni pronte, ma inviti alla riflessione. In questo senso mi sento vicina a quei pensatori -Montaigne, Pascal, Joubert – che interrogavano la vita da dentro, senza schemi rigidi. Non esiste una tecnica precisa per riparare l’anima, ma esistono gesti, parole, silenzi che ci avvicinano a qualcosa di più umano.

C’è una componente quasi liturgica nei suoi gesti descritti: rifare il letto, aggiustare una sedia, preparare una tavola. È possibile leggere questi atti minimi come una forma di sacramento laico, alla maniera di Simone Weil?

Quei gesti quotidiani sono troppo spesso relegati sul fondo della coscienza, come “doveri minori”. Eppure, proprio lì, nel ripetuto e nel trascurato, si nasconde qualcosa di profondo: una forma di presenza. Non presenza spettacolare, ma silenziosa. Un atto che riconnette corpo, spazio, tempo e intenzione. Simone Weil ci ha insegnato che anche il gesto più umile, se compiuto con attenzione, può diventare offerta. E non solo offerta verso qualcosa o qualcuno, ma anche da parte nostra: un modo per dire “ci sono”, “mi prendo cura”,“questo conta”. In questo senso,   quei gesti possono diventare senz’altro sacramenti laici, piccole liturgie incarnate nella materia, in cui ogni piega, ogni ordine dato alle cose, diventa linguaggio.

In Il bello tra le crepe si percepisce una tensione tra fragilità e forza, vulnerabilità e splendore. Le sue pagine sembrano dialogare con pensatori come Adriana Cavarero o Judith Butler, dove la cura dell’altro nasce dall’esposizione, non dal dominio. Qual è, per lei, il volto della forza oggi?

Per me, oggi, la forza ha il volto della vulnerabilità consapevole, non della durezza. Non si tratta di debolezza passiva, né di cedere alla fragilità come resa, ma di scegliere diesporsi senza corazze, senza cinismi di difesa, senza il bisogno costante di apparire invulnerabili. Le pensatrici come Adriana Cavarero o Judith Butler ci hanno insegnato qualcosa di rivoluzionario: che la cura dell’altro non nasce dalla superiorità, ma dall’incontro tra debolezze che si riconoscono. Non si cura da una posizione di forza, ma da una postura di apertura. La relazione autentica non ha bisogno di gerarchie: ha bisogno di presenza, ascolto, reciprocità.

Il titolo evoca la categoria del “bello”, ma di un bello ferito, incrinato. Le chiedo: è ancora possibile oggi pensare il bello senza cadere nell’edonismo, o nel suo opposto, l’estetica della rottura sterile?

Il bellonon è un ideale astratto, né un piacere narcisistico. È ciò che ci fa sostare, anche solo un attimo, di fronte a qualcosa che risuona. La crepa, l’imperfezione, ci costringono a uno sguardo diverso, più attento. Evito l’estetica della rottura fine a se stessa, ma credo nel bello ferito: quello che contiene in sé la memoria del dolore e insieme la possibilità di luce.

Lei sembra proporre una nuova etica dell’attenzione. Non quella spasmodica e iperconnessa del nostro tempo, ma un’attenzione silenziosa, lenta, selettiva. È d’accordo con Iris Murdoch quando diceva che “la moralità comincia con l’attenzione”?

Concordo profondamente con Iris Murdoch. La sua frase  “la moralità comincia con l’attenzione”  andrebbe incisa su ogni agenda, su ogni schermo. Nel nostro tempo, in cui tutto ci invita alla distrazione, all’accumulo di stimoli e informazioni, l’attenzione èdiventata un atto etico, non solo cognitivo. Non si tratta più di “guardare”, bensì di scegliere di vedere. Di fermarci. Di fare spazio. Ma non ogni tipo di attenzione ci “salva”. Non parlo dell’attenzione ansiosa, spasmodica, iperproduttiva, quella che tutto registra e nulla custodisce. Piuttosto di un’attenzione lenta, selettiva, affettuosa. Un’attenzione che accoglie, non che scannerizza.

La sua scrittura ricorda certi toni della saggistica poetica: non illustra, evoca. Si sente più artigiana della parola o seminatrice di immagini interiori? E come si è posta, nella stesura, rispetto al rischio del didascalico?

Mi sento artigiana, perché scrivere, per me, è un lavoro di mani pazienti e di orecchio attento. Ogni parola va scelta, limata, ascoltata nel suo peso e nella sua risonanza. Ma mi sento anche seminatrice, se penso alle immagini interiori che desidererei  lasciare al lettore: non concetti da trattenere, ma visioni che germogliano altrove, nel tempo di chi legge. Non pretendo, né cerco, di  spiegare tutto. Non cerco l’esaustività, ma l’apertura. Preferisco evocare anziché illustrare, suggerire piuttosto che definire. Credo che il pensiero non debba imporsi, ma invitare. Ho cercato di evitare con cura il tono didascalico. Se il libro parla di lentezza, di attenzione, di fragilità, anche lo stile deve respirare quel ritmo. Nella speranza di esserci riuscita!

Nel mondo che si frantuma – tra guerre, alienazione, solitudini – lei propone la riparazione come via concreta, non utopica. Ma anche discreta. Quanto conta, oggi, l’umiltà come gesto culturale e come pratica di trasformazione?

L’umiltà, oggi più che mai, è un gesto necessario, culturale e insieme profondamente umano. In un mondo in cui tutto sembra competere per visibilità, dove il valore si misura spesso a suon di esposizione, numeri, clamore, scegliere di non occupare tutto lo spazio è un atto radicale.

L’umiltà permette di fare silenzio per ascoltare, di mettersi da parte per far emergere l’altro, di rinunciare a “dire la propria” per comprendere davvero ciò che accade.

E ascoltare è già una forma di riparazione.

 

Simonetta Tassinari ha insegnato storia e filosofia nei licei e nel Laboratorio di didattica della filosofia dell’Università del Molise. Da anni coltiva la psicologia relazionale, la psicologia dell’età evolutiva, il counseling filosofico e divulga la filosofia tra bambini e ragazzi. Anima partecipati caffè filosofici e tiene conferenze in tutta Italia e all’estero. Collabora con la fondazione Quid+ e con Treccani Futura.

Molto apprezzata dai lettori per la sua capacità di rendere la filosofia alla portata di tutti, è autrice per Feltrinelli del fortunatissimo Il filosofo che c’è in te (2019), cui ha fatto seguito Il filosofo influencer (2020), Contro-filosofia dell’amicizia (2022) e Il bello tra le crepe. Manuale di riparazione della vita quotidiana (2025). Per Gribaudo ha pubblicato diversi manuali, tra cui Instant filosofia (2021) e Il libro rosa della filosofia (2024). È stata candidata al premio Strega 2023 con il romanzo storico Donna Fortuna e i suoi amori (Corbaccio).

Giuseppina Capone

Simonetta Tassinari: S.O.S. Filosofia. Le risposte dei filosofi ai ragazzi per affrontare le emergenze della vita

“S.O.S. Filosofia. Le risposte dei filosofi ai ragazzi per affrontare le emergenze della vita” ne parliamo con l’Autrice Simonetta Tassinari.

In che modo utilizza il pensiero di Platone ed Erich Fromm per offrire consigli su relazioni amorose complesse agli adolescenti?

Platone ed Erich Fromm, tra gli altri, offrono spunti preziosi per riflettere sulle relazioni amorose, soprattutto nel caso degli adolescenti che stanno attraversando il delicato processo di scoperta di sé e degli altri. Platone, nel Simposio, ci presenta un’idea dell’amore come un itinerario di scoperta e conoscenza che evolve dall’amore per il corpo fino alla contemplazione delle idee più elevate e pure. Il suo mito della biga alata illustra perfettamente come l’amore possa unire anima e corpo e rappresenti  una forza che conduce l’individuo verso la perfezione; insieme, l’amore è presentato come un cammino che, per essere compiuto, richiede crescita, comprensione e un equilibrio tra le diverse dimensioni dell’essere umano. Erich Fromm, da parte sua, ci ricorda  che l’amore è un’arte che dev’essere coltivata con impegno e saggezza. Non basta la passione iniziale, occorre imparare ad amare nel tempo, affrontando le difficoltà, costruendo un legame che vada oltre l’apparenza superficiale, imparando a conoscere l’altro e soprattutto a conoscere se stessi, perché solo chi si conosce sa amare davvero.  Entrambi i filosofi, dunque, suggeriscono che un amore sano non sia affatto un’utopia, bensì un obiettivo che si costruisce, passo dopo passo, con intelligenza,  passione… e pazienza.

Quali insegnamenti degli Stoici e di Thomas Hobbes vengono proposti per affrontare situazioni di bullismo scolastico, e come si integrano queste prospettive filosofiche nel contesto moderno?

Hobbes, coerentemente  con la sua visione della natura umana e di quanto espresso  nel Leviatano, suggerirebbe di affidarsi all’autorità per risolvere il problema del bullismo, in quanto solo un potere superiore può garantire ordine e sicurezza. Gli Stoici, invece, come Seneca ed Epitteto, insegnano a non lasciarsi toccare interiormente dagli insulti e dalle ingiustizie, perché ciò che conta non è l’evento in sé, bensì il giudizio che noi diamo su di esso. Nel contesto moderno, questi due approcci si integrano: da un lato è fondamentale che le istituzioni scolastiche e gli adulti intervengano per proteggere i ragazzi, dall’altro è utile fornire agli adolescenti strumenti filosofici e psicologici per rafforzare la loro resilienza interiore.

In che modo Kierkegaard viene utilizzato per persuadere i giovani a valorizzare l’interiorità rispetto all’esteriorità, e quali argomentazioni filosofiche supportano questa posizione?

Kierkegaard, con la distinzione tra vita estetica ed etica, sospinge a riflettere su come la ricerca dell’apparenza e della popolarità possa condurre a una vita superficiale e insoddisfacente. La sua idea dell’“autenticità” come impegno esistenziale mostra agli adolescenti che concentrarsi sull’interiorità, invece di inseguire l’approvazione altrui, porta a una vita più esaminata, profonda, e anche più felice. Inoltre, il concetto dell’“ora della mezzanotte”, quella in cui la maschera cade e ci si trova ad affrontare il vuoto, dovrebbe farci comprendere che la corsa verso la perfezione non ha scopo né fine, e che piuttosto quella che va curata in ogni modo è la personalità. L’identità non si costruisce con l’omologazione, ma con scelte consapevoli.

Come viene presentata la riflessione kantiana sul “diritto di mentire” nel contesto delle decisioni adolescenziali riguardanti la verità e la menzogna?

Kant sostiene che mentire sia sempre moralmente sbagliato, anche in situazioni estreme, perché mina la fiducia alla base della società. Nel contesto adolescenziale, questa posizione viene analizzata attraverso dilemmi quotidiani: è giusto mentire per proteggere un amico? O per evitare una punizione? Le “mezze verità” sono in realtà delle “mezze bugie” , e questo dovrebbe essere il metro di giudizio basilare. Tuttavia Benjamin Constant, sul quale mi soffermo nel libro anche per stemperare il rigorismo kantiano, ci ricorda che, se dicessimo sempre e solo la pura verità, le relazioni umane sarebbero impossibili! Dunque sì al rigorismo come meta e modello, tenendo pur presente che  la realtà è ben più complicata e ricca di sfumature  di una regola assoluta.

In che modo il libro affronta il tema dell’ossessione per l’immagine personale, e quali filosofi vengono citati per discutere l’importanza dell’autenticità rispetto all’apparenza?

L’ossessione per l’immagine viene analizzata attraverso pensatori come David Hume, il quale è piuttosto bonario su questo “vezzo” umano, e poi Kierkegaard, che  con la sua nozione di autenticità, offre una prospettiva utile per aiutare i ragazzi a liberarsi dall’ansia di essere accettati dagli altri e a concentrarsi su ciò che sono veramente, passando per l’immancabile Kant, con la sua definizione di bellezza. Anche Nietzsche è chiamato in causa con i suoi suggerimenti sul “conferire” stile al proprio carattere.

Quali emergenze della vita quotidiana degli adolescenti vengono analizzate nel libro, e come la filosofia offre strumenti per affrontarle?

Il libro affronta problematiche come la felicità, il successo, il bullismo, l’ansia per il futuro, la solitudine, la paura del giudizio, i cambiamenti in famiglia, il rapporto con la natura, i troppi impegni e il non riuscire a gestirli, e così via: per la scelta dei temi  mi sono basata sia sull’osservazione dei miei alunni, che sul dialogo intessuto con loro, ma anche con i bisogni che emergono da incontri come i “Caffè filosofici”, in genere molto partecipati.  In primo luogo, la filosofia, alle persone di ogni età, giovanissimi compresi, insegna a riflettere criticamente sulle proprie emozioni, azioni e decisioni, sviluppando una consapevolezza che consente di prendere distanza dai conflitti interiori e dalle pressioni esterne. Con la filosofia, gli adolescenti imparano a porsi domande fondamentali sulla propria identità, sul significato delle relazioni, sulla libertà individuale e sul proprio ruolo nella società. La filosofia, infine, promuove il valore del dialogo e della ricerca del senso, invitando gli adolescenti a indagare le proprie convinzioni e a metterle in discussione e, nel contempo, a riconoscere che la ricerca di risposte non finirà mai.

In che modo la filosofia viene presentata come una “miniera di spunti” per ridisegnare i problemi quotidiani, e quali metodologie filosofiche vengono suggerite per applicare il ragionamento alle emergenze della vita?

Il libro mostra che la filosofia, più che fornire risposte pronte, insegna a porre le domande giuste. La filosofia è una “miniera di spunti” perché fornisce strumenti di pensiero che permettono di vedere i problemi quotidiani sotto nuove prospettive. Piuttosto che fornire soluzioni immediate e preconfezionate, la filosofia insegna a porre domande, ad analizzare le situazioni con spirito critico e a sviluppare un atteggiamento riflessivo che aiuta a riorganizzare il modo in cui percepiamo le difficoltà. Le metodologie filosofiche suggerite per affrontare le emergenze della vita comprendono ad esempio:  il dubbio e il pensiero critico, che aiutano a non accettare le situazioni in modo passivo, ma a esaminarle in profondità per capirle meglio; il dialogo e l’argomentazione; la ricerca di principi generali, che aiutano a individuare le connessioni tra eventi apparentemente caotici, offrendo una visione più chiara delle situazioni; l’autoconsapevolezza e la riflessione etica, che permettono di comprendere i propri valori e di prendere decisioni meditate anche in momenti di crisi.

Come viene interpretata la citazione di Cicerone “La filosofia ci aiuta nei casi più gravi e sa intervenire nelle più lievi difficoltà” nel contesto del libro?

La citazione viene utilizzata  per mostrare che la filosofia non è solo un sapere astratto, ma uno strumento concreto che aiuta a gestire sia grandi crisi esistenziali sia piccoli problemi quotidiani. In questo senso, la filosofia è una “cassetta degli attrezzi” sempre utile.

In che modo il libro incoraggia i lettori a diventare “amici dei filosofi” per sentirsi più attrezzati interiormente ad affrontare cambiamenti improvvisi, come quelli sperimentati durante la pandemia?

Il libro incoraggia i lettori a diventare “amici dei filosofi” nel senso di avvicinarsi alle loro idee con curiosità, scoprendo che molte delle loro domande e risposte sono ancora attuali e possono aiutare a interpretare la complessità della vita moderna. Durante la pandemia, molti hanno sperimentato ansia, isolamento e un senso di precarietà. La filosofia aiuta a dare significato a questi momenti, insegnando che il cambiamento è una costante dell’esistenza e che affrontarlo coscientemente può renderci più forti. Attraverso il dialogo con il pensiero filosofico, i lettori imparano a sviluppare un atteggiamento più riflessivo e critico, evitando di farsi travolgere dalle paure o dall’ansia del futuro, che, come scrive Epicuro, “non è del tutto nostro, ma neanche del tutto non nostro”, sicché è possibile governarne quantomeno il pensiero.  In sintesi, il libro suggerisce che essere “amici dei filosofi” non significa solo studiarli, ma lasciarsi ispirare da loro per affrontare i momenti di crisi con maggiore lucidità e determinazione.

Quali sono le principali emergenze adolescenziali trattate nel libro, e quali filosofi vengono chiamati in causa per offrire soluzioni puntuali e concrete?

Le emergenze analizzate includono l’ansia da prestazione, il senso di inadeguatezza, il bullismo, la difficoltà nelle relazioni,  la paura di non riuscire a essere felici, il fatto di non piacersi, di credersi dei “falliti”, di non riuscire ad accettare i cambiamenti, in famiglia e nella vita. Per ognuna di queste, il libro propone un dialogo con i filosofi. Un esempio tra i tanti: nel capitolo relativo ai segreti sono chiamati in causa Bentham e John Stuart Mill, in quello sui cambiamenti Lao- tzu. Il  ventaglio da me utilizzato è molto variegato: in realtà ho “chiamato a raccolta” i  filosofi di tutti i tempi!

Giuseppina Capone

Il libro rosa della filosofia. Da Aspasia a Luce Irigaray, la storia mai raccontata del pensiero femminile

Nel testo lei cita la filosofa e sociologa francese Annabelle Bonnet, autrice de “La barba non fa il filosofo”.

Ebbene, quali e quanti ostacoli deve saltare una filosofa?

Nei tempi passati gli ostacoli sono stati innumerevoli, tant’è vero che purtroppo pochissime ce l’hanno fatta, e qualcuna, tra queste donne coraggiose,  ha addirittura perso la vita, come la celebre Ipazia e Olympe de Gouges, quest’ultima all’epoca della rivoluzione francese. Attualmente  quasi tutti gli storici impedimenti sono stati rimossi, e nelle facoltà di Filosofia le presenze femminili sono considerevoli. Non ancora, però, si è sfiorata o raggiunta la parità negli incarichi universitari e direttivi, sicché per molti versi è ancora vero che per, filosofare, ci vuole la barba, ovvero occorre essere uomini…

Così come avvenuto per tante professioni, l’eredità delle filosofe è stata cancellata, oscurata, dimenticata.

“Che cosa ha perso il mondo, impedendo al genere femminile di esprimere la propria voce e di contare?”

È molto difficile immaginare come sarebbero andate le cose se il pensiero femminile  fosse stato libero di esprimersi: è stata, per così dire, “silenziata” una metà dell’umanità perfettamente in grado di scegliere, di prendere decisioni, di assumersi  responsabilità. Insomma, non stiamo parlando di una metà “minorenne”, come invece parecchi filosofi hanno sentenziato, bensì di adulte che, per farsi ascoltare, hanno invece dovuto agire all’ombra dei maschi o usare dei mezzi traversi (l’attrazione sessuale, lo spirito, la pazienza, la dedizione a un uomo) per poter – almeno parzialmente – contare. Tutto questo è estremamente  umiliante.

Lei scrive nella prefazione: “Filosofe pubbliche o private, filosofe mancate, filosofe perseguitate, filosofe famose o misconosciute, donne che sono scese in piazza a protestare e donne che hanno taciuto, ma hanno spronato le loro figlie a uscire di casa: è di loro, è di noi che si parla in questo libro.”

L’assenza di un pensiero femminile sui libri quanto stride con la consapevolezza contemporanea?

Le ragazze, soprattutto, si indignano; ma non solo le ragazze. A me sembra un’ottima cosa, perché fino a non molto tempo fa lo si dava praticamente per scontato: filosofare è cosa da uomini, di donne filosofe non ce ne sono..il che, peraltro, è una menzogna.

“Filosofare ha in sé qualcosa di rivoluzionario e pericoloso”: quali competenze richiede il filosofare?

Filosofare richiede studi preliminari per impadronirsi dei concetti principali e della terminologia della disciplina, per aver chiaro il divenire e l’evolversi della storia del pensiero; richiede inoltre molte letture e molto confronto, dialoghi e dibattiti, e soprattutto la libertà,  il tempo, il modo e  la volontà e di riflettere.

Da Senofonte ad Aristotele, da Cicerone a Seneca si è reputato che le donne fossero manchevoli della ragione speculativa.

In qual misura la propaganda maschile ha inciso sul sbarrare la strada al pensiero filosofico delle donne?

Probabilmente i filosofi “misogini” (l’assoluta maggioranza) hanno razionalizzato e trasmesso, camuffandolo in modo filosofico, un modo di sentire comune e diffuso nella loro epoca e nella loro società; hanno solo nobilitato – ammesso che si possa usare il termine in questo processo di svilimento – il pregiudizio, anzi spesso lo hanno cavalcato trionfalmente.

Mary Astell, integralista religiosa con un’inclinazione femminista: “Un’ardente fede cristiana la sorresse nella sua strenua lotta per emancipare le donne”

La filosofia femminile non prosperò solo nelle celle dei conventi?

Più o meno, sì; ma anche nelle case nobili, dove alle donne veniva concessa l’istruzione; oppure nel caso delle figlie predilette di uomini di grande cultura;

mosche bianche, malauguratamente.

Olympe de Gouges s’impose nonostante “La donna è la femmina dell’uomo” recitato sentenziosamente nell’Encyclopédie.

Quali sono le ragioni, insospettabili, dell’Illuminismo ostative di una promozione della parità di genere in campo culturale?

Non ci si stupisce (fino a un certo punto, naturalmente)  dei pregiudizio contro le donne delle cosiddette epoche oscure (e le chiamavano così proprio i philosophes francesi), ma ci colma di meraviglia, al contrario,  la chiusura assoluta dell’Illuminismo nei nostri confronti. Quei grandi pensatori ci reputavano, alla stregua del  popolo ignorante della loro epoca (definito la canaille) ancora impreparate, non pronte, inadatte a un ruolo diverso. Forse,- si auguravano- attraverso i secoli, l’educazione, ci saremmo evolute in positivo, tante volte non si sa mai…

Lei ha adottato un criterio cronologico: dalle pitagoriche Teano e Timica fino al postmodernismo di Judith Butler.

Cosa ci attende per il futuro?

La speranza è che non ci sia più il bisogno di scrivere un libro settoriale sulla filosofia femminile, essendo tale filosofia già inserita, e a pieno titolo, in un “normale” testo di storia della filosofia.

 

Simonetta Tassinari – Ha insegnato “Laboratorio di didattica della filosofia” presso l’Università del Molise, è stata tutor universitario del TFA (Tirocinio Formativo Attivo), da anni coltiva la Psicologia relazionale, la Psicologia dell’età evolutiva, il counseling filosofico e la divulgazione filosofica per bambini e ragazzi. È l’animatrice di partecipati “Caffè filosofici” e tiene conferenze e presentazioni in tutta Italia. Ha pubblicato romanzi per Giunti, Meridiano zero e Corbaccio, testi di argomento storico e filosofico (tra gli altri, per Einaudi scuola) e il saggio “brillante” – sull’insegnamento della filosofia nelle scuole – La sorella di Schopenhauer era una escort (Corbaccio). Per Feltrinelli ha pubblicato nel 2019 Il filosofo che c’è in te, alla terza edizione e uscito in edizione speciale come supplemento al quotidiano “la Repubblica”; S.O.S. filosofia. Le risposte dei filosofi ai ragazzi per affrontare le emergenze della vita, rivolto agli adolescenti; Il filosofo influencer. Togliersi i paraocchi e pensare con la propria testa (2020); per Gribaudo Instant Filosofia (2020) e Le 40 parole della filosofia (2021).

 

 

 

 

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