Trump e lo “spettro della deglobalizzazione”

L’editoriale “Le fantasme de la démondialisation” pubblicato il 14 novembre dal quotidiano francese Le Monde, evidenzia come la rivoluzione tecnologica e il fenomeno della delocalizzazione del lavoro continueranno indipendentemente da chi considera il successo elettorale di Donald Trump un segnale premonitore della fine della globalizzazione.

Il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha denunciato gli svantaggi della globalizzazione. Brexit ha vinto grazie ai voti delle regioni della Gran Bretagna colpite dalla deindustrializzazione in parte imputabile alla delocalizzazione. Pertanto, i partiti europei di estrema destra (come Front National in Francia) interpretano la vittoria di Trump come un segnale della fine della globalizzazione.

La propaganda del nuovo presidente USA ha sfruttato una realtà già nota da diversi anni: la globalizzazione ha ridotto le ineguaglianze tra il Nord e il Sud del globo, ma con le delocalizzazioni – soprattutto in Cina divenuta l’atelier del mondo – ha depauperato molti territori europei e americani. Tuttavia anche la rivoluzione tecnologica ha contribuito allo smantellamento dei vecchi bacini d’impiego. Infatti, il progresso tecnologico favorisce la delocalizzazione più dell’ideologia della globalizzazione.

L’impatto della vittoria di Trump produrrà negoziazioni più dure tra gli Stati del Nord e quelli del Sud e più acri battaglie sulle condizioni di concorrenza. Probabilmente Trump non sosterrà i due principali trattati di liberalizzazione commerciale – quello con l’Asia e con l’Europa – proposti da Obama. Tuttavia, l’idea di un ritorno al passato basato sul rimpatrio del lavoro rappresenta un’illusione. L’incremento di tariffe proibitive sulle importazioni cinesi e messicane verso gli Stati Uniti scatenerebbe una guerra commerciale e la perdita milioni di posti di lavoro in America e in Europa. Ancor più devastanti potrebbero essere gli effetti di una deglobalizzazione.

 

Danilo Turco

 

 

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