Mine viandanti: l’homo viaticor come ordigno inesploso

 “Mine viandanti” di Valentina Barile è la narrazione di un viaggio. Può costituire oggetto di riflessione il viaggio velato di un alone di mistero e concepito come spostamento in un luogo sconosciuto ed ignoto laddove la realtà tecnologica in cui siamo immersi ci impone di non passare inosservati, puntando proprio sul dato noto e visibile?

La sana relazione tra passato e presente può esistere. In questo e in molti altri casi, diventa una convivenza meravigliosa.

Quale mezzo migliore per veicolare la storia a un target anagrafico medio-basso, vale a dire giovanile. E non solo. Trovo che la cultura debba democraticizzarsi molto più di quanto non lo sia già (non è abbastanza!), e i social network – per fortuna – hanno reso questo possibile. Un monumento, un sito archeologico, il basolato di una vecchia via, un paesaggio remoto possono entrare nella Home page di uno spazio Web. Possono vederlo tutti, conoscerlo, incuriosirsi ad ammirarlo dal vivo.

Il viaggio come maieutica socratica, certamente un approccio originale. Perché ha inteso applicare siffatto criterio di ricerca della verità, sollecitando le protagoniste a ritrovarla in sé stesse e a trarla fuori dalle proprie anime, osservando tuttavia il fuori da sé?

Etimologicamente, maieutico dal greco vuol dire far nascere la verità.

E la verità può affermarsi solo quando la si indaga con i propri occhi. In luogo di ciò, il sé statico ha bisogno del sé dinamico per evolversi, e trovo che uscire dal proprio habitat per mescolarsi consapevolmente a quello più vicino o più estremo, sia l’essenza dell’Homo sapiens, che altrimenti non potrebbe definirsi tale.

Il suo homo viaticor ha uno sguardo delicatamente carezzevole, accoratamente umile, soavemente poetico, fortemente empatico ancorchè mai profanatore dei luoghi e delle genti. In quale accezione possiamo declinare il suo uso del termine “viaggio”.

Il viaggio è capire dove si vive, cosa esiste intorno a sé. Il viaggio è il motore che muove gli esseri umani – ho scritto in uno dei miei libri – o, almeno, dovrebbe esserlo. Viaggiare dovrebbe essere un diritto, come il diritto all’istruzione. Viaggiare è libertà. Conoscenza. Ma soprattutto, è l’unica soluzione a un’ulcera che fa ancora sanguinare il mondo: il razzismo.

Le sue viandanti s’inoltrano nel profondo Sud attraverso la Via Popilia-Annia. Quali riflessioni può offrirci rispetto anche alla scoperta di un passato indissolubilmente congiunto al presente?

In riferimento alla via Popilia, che da Capua portava a Reggio Calabria, guardo la strada – una pedemontana che taglia l’Appennino meridionale – e vedo l’identità delle persone che la vivono oggi. Gente di montagna, lontana dalle onde e dalla brezza marina, che vive la propria esistenza a ritmi più lenti. E talvolta, tra questa gente vi si annida la brutalità dell’ozio e dell’illegalità, che tenta di sopraffare quelle anime d’Appennino che con dignità sostengono le proprie lotte quotidiane.

Perché due viandanti sono da considerarsi mine?

La mina è un ordigno esplosivo. Nel linguaggio politico e giornalistico è usata, in senso figurato, l’espressione mina vagante per indicare un fatto, una situazione, un problema che rappresenta una minaccia latente, e che può improvvisamente acutizzarsi sconvolgendo gli equilibri esistenti.

Un individuo può fare lo stesso… per meglio dire, le sue emozioni, se tenute in silenzio per un periodo di tempo non controllato, possono produrre gli stessi effetti delle mine inesplose.

I viandanti sono ordigni inesplosi, per questa ragione hanno la necessità di partire, allontanarsi, conoscere, esplorare, evolversi in una mina di livello superiore, pronta a esplodere quando si ferma. Per poi, riprendere il processo con ciclicità.

 

Valentina Barile è narratrice di viaggio. Collabora, tra l’altro, per Donna Moderna, Confidenze e varie testate sudamericane: Convergencia Medios (Cile), Rede Brasil Atual e Alajuela Digital (Web tv di Costa Rica). Ha organizzato la Fiera del Libro di Napoli, Ricomincio dai libri. Finalista al Premio Passaggi 2015, Festival della Letteratura di Viaggio. Il suo primo diario di viaggio, #mineviandanti sull’Appia antica (2016), ottiene due riconoscimenti: il Premio “Peppino Orlando” di Borgo d’Autore, il Festival del libro di Venosa, e il Premio “Enea – Buone pratiche per l’Italia” di Come il vento nel mare, il Festival delle narrazioni e di cultura politica, di Latina.

Giuseppina Capone

Vivere a colori

Arianna Di Presa è una giovanissima ma già affermata poetessa nel panorama della lirica italiana.

Si racconti; ci spieghi la ragione per cui ha scelto proprio la Poesia come codice comunicativo.

Personalmente, reputo la poesia un linguaggio armonico, senza veli, che permette di ascoltare l’anima nei suoi battiti più profondi, navigando negli abissi, riemergendo alla luce. La massima più evocativa è riassunta in testuali parole: “Per scrivere con l’Anima è necessario un dialogo con il Dolore.” La poesia, dunque, si prefigura come un dialogo costante di analisi esistenziale in tutte le sue sfumature, persino le più dettagliate, un filo invisibile di immense intuizioni sul quale accorpare l’etimologia del mondo e dei vissuti altrui per poter arricchire il proprio.

Lei pare affrancare il linguaggio dalla necessità di riprodurre il reale e dall’obbligo di evocare, ritenuti vessilli di virtù poetica. Esemplifichi il suo rapporto con il verso e le maglie della texture che lo tessono.

Il verso è un’aulica sinfonia, un rivelatore di sfumature delicatamente forti e al contempo prepotentemente delicate che trasmette una profondità sensoriale idonea ad abbracciare il silenzio palpitante dell’anima. Il verso costituisce, dunque, note dipinte da un’interiorità dialogica complessa che desidera leggerezza in un’elevazione leggiadra verso la grandezza del senso umano.

Leggendo, ad esempio “Pelle permeabile”, pare che il suo proposito sia dare un calcio al tedio delle convenzioni, saltellando tra denotativo e connotativo. Lei parodizza il nesso linguaggio-verità a quale intento?

Il linguaggio poetico annuncia trasparenza poiché permette di sorvolare dalla mediocrità si avvale di pienezza per affermare la propria essenza e per accorpare con lungimiranza le esperienze esistenziali tra partenze ed arrivi e annunciando nuovamente altre ripartenze. Il linguaggio è il viaggio del Vero che scorre in un insieme di sguardi intrecciati verso autentici ed inaspettati orizzonti.

In “Due lune” pare che il suo proposito sia dare un calcio al tedio delle convenzioni, saltellando tra denotativo e connotativo. Lei parodizza il nesso linguaggio-verità a quale intento?

La verità è sempre stata un’esigenza dell’Anima che non ho mai rifiutato di assecondare. Il linguaggio è il mezzo più idoneo per essere costantemente alla ricerca del Vero per immergersi nell’ unicità dell’istante e coglierne la pienezza. In un mondo dove tutto muta e passa freneticamente in cui l’omologazione sembra essere l’unica soluzione ho optato per restare me stessa porgendo un’accurata attenzione verso tutte le sfumature esistenziali perché la vita stessa è un dipinto a colori, che volutamente racconto ogni giorno attraverso la musica sgorgante della Poesia.

Uno degli aspetti che colpisce del suo poetare è l’essenzialità senza sconti. Da dove deriva il bisogno di dare alle cose il proprio nome, evitando i tortuosi labirinti delle perifrasi?

Sì, confermo una delle fondanti caratteristiche del mio poetare è proprio mettere in atto la sintesi arrivando al fulcro del senso concettuale. Un binomio di parole per me esprime già l’essenziale. L’essenziale viene concepito come il viaggio di una piuma tra le nuvole, per trasportare quel candore di purezza rivelatrice che caratterizza l’essenza interiore resa volutamente esplicita nel canto poetico.

 

Arianna Di Presa è nata a San Marino il 10 Novembre 1993. Diplomata al liceo psicopedagogico nel 2013, nel 2017 si laurea presso l’Università di Bologna in Psicologia e Scienze della Formazione con un elaborato di carattere umanistico dal Titolo Michel Foucault e la valenza trasformativa dell’educazione di genere con particolare attenzione al fenomeno del femminicidio. Partecipa al Catalogo “Lo stato dell’arte ai tempi della 57ma Biennale di Venezia” con la lirica Profumo di primavera curato da Giorgio Gregorio Grasso ed è Autrice del libro Vivere a colori. Aderisce a due cataloghi promossi dalla Casa Editrice Pagine e al volume “Caro maschio che mi uccidi” poesie di donne ammazzate promosso da Fusibilia Edizioni. Il 21 Novembre 2019 presenta il primo percorso d’Arte intitolato “Profondità Universali” fornendo una conoscenza artistica ed un’esposizione critico-letteraria in merito alle opere pittoriche e scultoree di Anna Vasile.

Giuseppina Capone

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