Intervista a Renato Marengo, creatore del Movimento Musicale Italiano “Napule’s Power”

Il movimento musicale Napule’s Power, che quest’anno celebra il mezzo secolo, si dipana, appunto, attraverso decenni nonché attraverso plurimi e molteplici generi.
Ebbene, come nasce e come si sviluppa?

Nasce alla fine degli anni ‘70, a seguito di un periodo che aveva visto un proliferare di canzonette napoletane non più all’altezza dell’immensa musica napoletana prodotta alla fine dell’800 e durante i primi del ‘900.
Nasce per la presenza a Napoli delle basi NATO.
I giovani napoletani iniziano ad ascoltare Paul Anka, i Beatles, i Platters: c’era ovunque fermento musicale. I ragazzi anziché continuare ad ascoltare canzonette, degrado della grande tradizione napoletana, con melodia e ritmo d’alto livello, cominciano ad apprezzare lo swing. Renzo Arbore, Fred Bongusto, Peppino Di Capri, Peppino Gagliardi, Il giardino dei semplici: nascono artisti che “modernizzano” la canzone napoletana, rendendola omologa alla musica proveniente dall’America.
Il vero Napule’s Power è fatto di musica autonoma, creata, inventata.
Da chi? Ebbene, negli anni ‘60 c’era, da un lato, Renzo Arbore, jazzista, che, insieme, tra gli altri, a Roberto Murolo, applicava lo swing alla musica napoletana; dall’altro lato, c’era un gruppo formidabile, The Showmen con Franco Musella, James Senese e Franco Del Prete, i quali cantano in italiano modulando la voce alla maniera dei jazzisti neri americani.
I giovani musicisti napoletani frequentano a Napoli, ovviamente, locali situati vicino al Porto, a Bagnoli, a Posillipo, dove ascoltano musica rock, jazz…Importante è la presenza della NATO. Ogni sera, scendevano dalle portaerei americane miriadi di giovani. Invadevano i locali a caccia di alcool, “signurine” e musica. Molti portavano con sé gli strumenti: i musicisti napoletani, giovanissimi, suonavano con questi ragazzoni americani. A loro davano i nostri ritmi e le nostre melodie; noi prendevamo l’interzionalità. C’era una commistione di blues, swing, musica americana, musica napoletana. Una meravigliosa contaminazione che genera musica nuova: il Napule’s Power.
Io l’ho chiamato così: un napoletano americanizzato!
“Power” perché eravamo giovani ribelli. C’era stato il ‘68. Noi non tolleravamo il saccheggio che a Napoli si perpetrava da chi era vicino ad Achille Lauro. Non dimentichiamo “Le mani sulla città” di Franco Rosi. Non dimentichiamo Eduardo De Filippo che, dal teatro, cercava di educare alla cultura. La Nuova Compagnia di canto popolare con Roberto De Simone s’impegnava in tal senso con la musica popolare. Pino Daniele, Tullio De Piscopo, James Senese, Tony Esposito, Enzo Avitabile, che frequentavano la musica americana, si davano da fare per creare un movimento. A questo movimento diedi il nome, appunto, di Napule’s Power.
Alcuni di questi artisti, li ho prodotti io stesso perché da Napoli difficilmente sarebbero decollati. Io in quegli anni ero un giornalista italiano, non solo napoletano, lavoravo tra Napoli, Roma, Milano, venezia e mi occupavo di rock per una rivista molto importante, Ciao 2001, un po’ come l’attuale Rolling Stone. Allora, l’unica rivista ad occuparsi di jazz, rock e blues era proprio Ciao 2001. Vendeva tra le settanta e le ottantamila copie a settimana. I ragazzini facevano la fila all’edicola per accaparrarsi un numero. Io andavo a Londra per intervistare Tina Turner. Andavo a vedere i concerti dei Genesis. Con quella cultura riconoscevo nella musica nostra, napoletana, moderna, una cultura molto simile. Così ho prodotto Tony Esposito, Teresa De Sio, Nuova Compagnia di canto popolare, Eduardo ed Eugenio Bennato, Musica Nova, Concetta Barra. Li ho aiutati a farsi conoscere su queste riviste specializzate ed in RAI dove avevo programmi insieme a Carlo Massarini e Raffaele Cascone. Ho accostato i Napoli Centrale a gruppi internazionali. Inoltre, dopo averne scritto, parlato in radio e TV, ho ottenuto l’attenzione della discografia internazionale, tutta a Milano ed ostile alla musica napoletana, assimilata a Mario Merola. Ho portato il Napule’s Power al Festival internazionale di Monterey e ad Harlem. I neri del Black power ed i “negri” del Vesuvio. Sì, ci chiamavano così. Pino Daniele scriverà “Nero a metà”.
Negli anni ‘80 i ragazzi sono meno impegnati socialmente. La musica del Napule’s Power ha una battuta d’arresto, a parte Tony Esposito con Kalimba De Luna, Tullio De Piscopo con Andamento lento, Alan Sorrenti con Figli delle stelle.
Negli anni ‘90 c’è un ritorno all’impegno politico-sociale: ecco, 99 Posse ed Almamegretta. La musica napoletana è riascoltata con attenzione.
Oggi, i musicisti napoletani, soprattutto rapper, sono sostenuti da un sociologo Lello Savonardo, docente di “Teorie e Tecniche della Comunicazione” e “Comunicazione e Culture Giovanili” presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.

Lei cita musicisti legati alla ricerca colta e popolare, artisti folk e dal curriculum internazionale, giovani appassionati di rock’n’roll ed artisti visionari. Qual è il fil rouge sotteso a siffatta avvincente variatio generis?

No, Giusy, dammi del “tu”! E’ così che sono abituato!
Il fil rouge è la voglia di cambiare, evolvere, pur mantenendo le radici ben piantate nella tradizione. Roberto De Simone, ad esempio, cerca, con Carlo D’Angiò ed Eugenio Bennato, di recuperare i canti autentici della tradizione. Evolvere, non trasformare o violentare. Quelli citati sono grandissimi interpreti, sia strumentali che vocali, i quali hanno ascoltato e visto il rock; pertanto, nel loro spirito di ri-proposta della musica popolare c’è un legame con ciò che si sente e si fa in radio ed in televisione. La Nuova compagnia di canto popolare è portata da me a Milano ad aprire un concerto della PFM: ambedue rinnovano la tradizione. La PFM innova con gli strumenti elettrici. La Nuova compagnia di canto popolare con gli strumenti acustici. Durante quel concerto i ragazzi salgono sulle sedie e battono le mani come a scandire un rock! La fusione è la chiave!
Era il 1971 quando tu, Renato, concepisti d’adottare la definizione Napule’s Power per accorpare e scortare la vita musicale partenopea.
Erano gli anni del Black Power, il ’68 pulsava ancora.
Dunque, quale ascendente assume la politica nel panorama musicale che ha osservato?

Prescindendo da ciò che oggi significa “Destra” e “Sinistra”, nel 1970 Destra era conservatorismo; Sinistra era avanguardia, orientata al rinnovamento, alla modernizzazione. Per esempio, Eduardo De Filippo era un intellettuale di Sinistra e sosteneva Valenzi quale candidato sindaco, vicino alla cultura del rinnovamento. A Napoli, la Destra era addirittura ancora monarchica, arcaica. La Destra era rappresentata da faccendieri voraci. La Sinistra colta, universitaria auspicava il rinnovamento, l’evoluzione culturale. Si vuole, con la Sinistra,allontanare la cultura del Pulcinella, del “tutto passa”. Cito una canzone, sì divertente: “Ah, che bellu ccafè. Sulo a Napule ‘o ssanno fa” di Nino Taranto. Ebbene, è una dichiarazione di rassegnazione, di assistenzialismo. Pino Daniele idealmente risponde con “Na′ tazzulella è cafè/E mai niente cè fanno sapè/Nui cè puzzammo e famme/O sanno tutte quante/E invece e c’aiutà c′abboffano è cafè”: il caffè usato come tranquillizzante, una droga che blocca il pensiero.

La “cartolina” fotografa i napoletani rappresentati dal binomio “pizza e mandolino”, proiettandoli così lungo sentieri inclinati ed escamotage di cliché e luoghi comuni. I musicisti del  Napule’s Power hanno recuperato il volgare, il folclore, il sincretico per affrancare lo spazio identitario da ingredienti nocivi quali l’asfittica trappola nel vicolo cieco delle concezioni duali: moderno – arretrato, sviluppo – sottosviluppo.
Il Napule’s Power, pur indissolubilmente legato a Napoli, ha contribuito alla deterritorializzazione di Napoli stessa?

Brava! Gli artisti che ho citato prima, tutti o quasi tutti, avevano tentato di farsi produrre un disco. A Napoli, tuttavia, erano abituati alle canzoni di Aurelio Fierro, Tullio Pane, Mario Merola, per cui li consideravano dei perditempo, degli squilibrati e non artisti. Si voleva conservare un’immagine olografica, superata, abituata alla politica del “tira a campare”, del “qualcuno ci penserà”. Non dimentichiamo che a Napoli la camorra aveva le sue radici: alla camorra faceva comodo una Napoli felice con le canzonette, una Napoli credente alle superstizioni, che affida l’anima alla Madonna piuttosto che mettersi a lavorare per cambiare la propria esistenza; una Napoli socialmente disimpegnata, inconsapevole dei propri diritti e dei propri doveri. Una Napoli internazionale, riscattata dalla “cartolina” del ladruncolo, del furbetto, è quella che spinge tutti noi, scrittori e musicisti, intellettuali tutti vogliono testimoniare il cambiamento.
Napoli come Benjamin ha ingegnosamente sintetizzato è una “città porosa”: una combinazione affascinante di coerenza-incoerenza.

Gli artisti, protagonisti della tua narrazione, vanno da Pino Daniele ad Enzo Avitabile, da Lina Sastri a Patrizia Lopez. Moltissimi sono stati prodotti proprio da te.
Ci racconti un aneddoto che rievochi, Renato, con particolare nostalgia?

Più che con nostalgia, con simpatica ironia. Io sono diventato produttore per puro caso. Quando conosco la Nuova compagnia di canto popolare, ero già ambientato a Milano, Venezia, Roma. Tornato a Napoli, mentre scrivevo della PFM, vengo rimproverato da Eugenio Bennato di non scrivere della Nuova compagnia di canto popolare! Io mi sento quasi sfidato. Vado ai loro concerti e scrivo articoli pubblicati su Ciao 2001 con lo stesso taglio con cui parlavo della PFM. Ancora, Eduardo Bennato l’ho prodotto quasi per caso: Eugenio Bennato mi chiede di dare una mano al fratello, Eduardo, appunto, che già da sette anni provava ad imporsi come cantautore. Che faccio? Frequento Eduardo, lo presento ai discografici ed Eduardo, originale, bravissimo, diventa subito un protagonista.

 

Renato Marengo è un conduttore radiofonico, produttore discografico, giornalista e critico musicale italiano, scrittore. Ideatore del Napule’s Power, è stato creatore e conduttore di Demo di Radio1Rai. E’ tornato di recente alla Radio con due trasmissioni diffuse su tutto il territorio nazionale: ClassicRockonAir e Suoni e parole dalla città. Dal 2012 è direttore responsabile del mensile Cinecorriere. E’ passato alla storia per essere stato l’unico giornalista ad aver intervistato Lucio Battisti (intervista che ha raccontato in due libri: l’ultimo dei quali Parole di Lucio). E’ direttore artistico di Terra Battente, del BandContest di RockContest di ClassicRock e coordinatore della Mostra C.A Bixio Musica & Cinema nel 900. E’ docente presso l’accademia di Cinema e Tv Griffith di Roma del corso di Musica da Film.
E’ stato coordinatore generale del settimanale Ciao 2001. Ha collaborato con le maggiori testate quotidiane e settimanali nazionali tra cui Sorrisi e Canzoni TV, Radiocorriere TV, Telepiù. È stato anche autore e conduttore di numerosi programmi Rai. E’ autore di “Napule’s power- Movimento Musicale Italiano” con la prefazione di Renzo Cresti, curato da Paolo Zefferi, Tempesta Editore.

Giuseppina Capone

Mario Fillioley: Sesso più, sesso meno

Mario Fillioley è un insegnante di lettere in una scuola pubblica, ha tradotto diversi libri dall’inglese. Ha un blog personale, Aribiceci.com, e un blog sul Post. Vari suoi racconti e reportage sono stati pubblicati su IL. Un suo testo fa parte dell’antologia Non si può tornare indietro, edita da Marsilio nel 2015. Ha scritto per Minimum Fax “Lotta di classe” e “La Sicilia è un’isola per modo di dire”.

Peppe e Arianna si vedono e fanno sesso; Luca fa il cameriere nella pizzeria dove i due ogni tanto vanno e si diverte a osservarli; tenta di sedurre Brigida; Sergio e Cristina sono i rispettivi ex di Arianna e Peppe, animati da sete di rivalsa.
Quanto ha attinto allo sterminato patrimonio della commedia cinematografica in una scoppiettante contaminatio fabulae?

Non so, la commedia è il genere cinematografico che amo di più, ma non ho mai avuto simpatia per quella degli equivoci. Uno dei film che invece continuo a rivedere costantemente fin da quando ero ragazzo è Bianca di Nanni Moretti, così come anche gli altri titoli di questo autore, specie quelli del primo periodo. Forse è per questo che i personaggi del libro sono tutti molto nevrotici e scombussolati, come quelli del avere cinema che amo, Moretti o di Woody Allen o Nora Ephron. Un altro gigante del cinema che rivedo e rileggo spesso è Neil Simon, dalle cui commedie sono stati tratti molti film di successo tra i ’60 e gli ’80, e anche lui è prodigo di personaggi nevrotici e ridicoli, con un tocco di patetismo che io trovo sempre molto ben riuscito.
Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?
Il libro prova a descrivere e a raccontare un certo tipo di relazioni sentimentali, soprattutto mettendo in risalto gli aspetti più folli e idiosincratici dei personaggi, e lo fa tramite dei monologhi: ognuno dei protagonisti parla di se stesso con se stesso, nessuno sembra capace di rivolgersi a qualcuno. Non c’è quindi un’idea generale dei rapporti umani, ma solo il disegno di alcune personalità un po’ grottesche, che forse esistono in tutti noi.
La narrazione si dipana tra la costa jonica e i paesi etnei. Di quale senso sono forieri i luoghi siciliani citati?
Tenere la Sicilia orientale sullo sfondo non è semplice, tende a rubare la scena. Quindi ho cercato di descrivere un ambiente normale, geograficamente connotato, dettagliato anche, ma quotidiano. Poche cartoline, insomma, e più realtà. Di sicuro incontrarsi davanti a un tratto di costa jonica, sebbene con alle spalle degli scempi edilizi o urbanistici, ha sempre un suo fascino, che può senz’altro irretire i sensi. Mi pareva però il caso di attenuare questo aspetto “magico” dei luoghi, e renderli semplicemente degli spazi abitati.
Quanto deve l’erotismo al senso di curiosità, ossia al fascino sperimentato nei confronti di un corpo che non è il proprio, alla promessa di una coincidenza, interiore ed esteriore, con l’altro?
Questa è davvero una domanda difficile cui non saprei rispondere. Il libro è umoristico, e sta molto attento a non avventurarsi in questione così complesse come quella dell’eros. Se si vuole saperne qualcosa esistono testi molto più adatti. Io, mentre scrivevo, ne ho tenuti vicino a me due: i minima moralia di Adorno e i frammenti di un discorso amoroso di Barthes. Ma più per conforto, come una specie di coperta di Linus, che non per ispirazione o consultazione.
Sesso più, sesso meno: quale significato sottende questa formula?
Il titolo viene dalle prime pagine del libro. Uno dei protagonisti formula una delle (tante) teorie che usa per proteggersi da potenziali ferite e nel farlo utilizza questa espressione, compiacendosi anche del suo conio linguistico. Sesso più/sesso meno , alla fine, non è altro che un luogo comune: il sesso più sarebbe quel sesso arricchito da innamoramento e prospettive future, il sesso meno sarebbe una sorta di ginnastica, conclusa la quale ognuno torna alla sua vita senza il minimo coinvolgimento. Ovviamente è una banalità, ma il personaggio si illude di aver sondato chissà quale grande concetto e si baloca molto con i passaggi e le analogie che lo hanno condotto a questa rivelazione, imbastendoci sopra tutta una serie di corollari e ricami.

Giuseppina Capone

Stefano Scrima: Ghost Generation

Stefano Scrima, filosofo e scrittore, si è formato tra Bologna, Barcellona, Madrid e Roma. Fra i suoi libri: L’arte di sfasciare le chitarre. Rock e filosofia (Arcana, 2021); L’arte di disobbedire raccontata dal diavolo (Colonnese, 2020); Vani tentativi di vendere l’anima al diavolo (Ortica, 2020);per Castelvecchi: Digito dunque siamo. Piccolo manuale filosofico per difendersi dalle illusioni digitali (2019) e Socrate su Facebook. Istruzioni filosofiche per non rimanere intrappolati nella rete (2018); per Il Melangolo: Filosofi all’Inferno. Il lato oscuro della saggezza (2019) e Il filosofo pigro. Imparare la filosofia senza fatica (2017); per Stampa Alternativa: L’arte di soffrire. La vita malinconica (2018) e Nauseati (2016). “SatisPhilo” è la sua rubrica di filosofia su Satisfiction.

Quali sono le ragioni per le quali coloro che sono nati negli anni Ottanta reputa che si ritrovino afflitti da un precoce senso di fallimento esistenziale?

I nati negli anni Ottanta sono i trentenni di oggi, una generazione che – lo dicono i dati, ancor prima che le sensazioni – non ha la possibilità di vivere come ha vissuto la generazione dei suoi genitori. Le condizioni sociali sono profondamente cambiate, al contrario della mentalità e dell’educazione, le quali, sono andate invece a cristallizzare i valori assoluti del sistema capitalistico nel quale siamo cresciuti, primo fra tutti il lavoro come mezzo di identificazione identitaria attraverso la quale raggiungere la propria realizzazione esistenziale. È fisiologico che venendo a mancare la possibilità di lavorare – intendo, in particolare, assecondando la propria formazione per cui si sono spesi tempo, energia e denaro, e la propria inclinazione (chiamiamola, se vogliamo, passione) – lo spettro del fallimento non può che aleggiare sulle nostre vite. Beninteso, non è che non ci sia più lavoro (anche se la disoccupazione giovanile e nella fascia dei trentenni rimane spaventosa), è che il lavoro, per adeguarsi e rispondere alle esigenze del cosiddetto mercato, ha messo completamente da parte il benessere della persona (e figuriamoci allora la sua realizzazione) precarizzandosi, svilendosi, svuotandosi dei contenuti sociali e di dignità per cui avrebbe ancor senso “cercarlo”. Un lavoro precario, sfruttato, senza tutele, senza prospettive, oggi sempre più diffuso e spesso unico orizzonte per chi si affaccia nel mondo degli adulti, quale sentimento potrebbe suscitare in chi è sottoposto a tale condizione? Chiaramente, come scrivo nel libro, esistono delle soluzioni concrete, politiche, per tentare di cambiare rotta, ma prima di tutto è necessario aver coscienza di questo tradimento sociale e mutare la mentalità tossica che fa sì che la colpa sia addossata a chi non si adegua. Non è così e non deve essere così. La rivoluzione culturale parte dal ribaltamento dei valori assoluti e mai indagati della modernità liquefatta, più che liquida. Il lavoro, ad esempio, soprattutto nelle condizioni in cui versa (ma è ovvio che va cambiato tutto, non si può andare avanti così, e finché non sarà messa al centro la persona non andremo da nessuna parte), non può più assumere le sembianze dell’unica dimensione delle nostre esistenze. Non siamo nati per lavorare e basta, schiacciati dall’angoscia di non riuscire a trovare o mantenere un qualsiasi lavoro. Abbiamo le risorse tecnologiche per immaginare e realizzare un mondo diverso, evidentemente mancano quelle morali, o semplicemente umane.

Lei adopera l’espressione “gioventù incenerita”. Quali sono le differenze tra la gioventù che realizzò il ‘48 de “L’educazione sentimentale” di Flaubert e la “gioventù bruciata” degli anni Cinquanta?

Probabilmente ogni generazione ha le sue ragioni per sentirsi fallita, ma la differenza della mia generazione – e per questo la chiamo “gioventù incenerita”, che non sta nemmeno più bruciando – è che vive come se fossimo alla fine dei tempi, come se dopo non potesse esserci più niente, alcun cambiamento, come se l’unico orizzonte possibile fosse quello che abbiamo sotto gli occhi, nel bene e nel male. E, ancora una volta, non è così. È un atteggiamento culturale tipico dell’ideologia capitalista, che si ritiene unica in grado di garantire il solo progresso utile all’umanità. È una gioventù incenerita anche perché, al contrario della generazione di Flaubert, o quella di James Dean, o quella del ’68, del ’77, ma anche della generazione X, sente di non aver realizzato nulla e avverte vivida la propria impotenza. Vive di ricordi mai vissuti. Se esiste una colpa per tutto questo non so di chi sia, ma di certo è la prima volta nella storia moderna, diciamo dalla Rivoluzione francese, che una generazione intera viene cresciuta senza alternative, chiedendole nient’altro che adeguarsi al sistema, fare il suo gioco e cercare di vincere qualcosa a discapito degli altri.

“Chi sono io?”, “Chi siamo noi?” Ebbene, come risponde ad un quesito identitario di tal fatta chi non ha un lavoro, risultando un inetto?

Eh, bella domanda. Nella nostra società se non hai un lavoro non sei nessuno o, meglio, sei un inetto, appunto. Oppure, se un lavoro ce l’hai, diventi quel lavoro, al netto della sua natura precaria, destabilizzante, ansiogena. Insomma, se non sei riuscito a ottenere un lavoro migliore è solo colpa tua. È ovvio che non è realmente così, ma il giudizio sociale, figlio di una mentalità subdola e ipocrita (in cui più sei ignorante e ti adegui allo stato delle cose meglio è e meglio vivi), pesa come un macigno. Non potrebbe essere altrimenti. Realizzarsi nel segno del proprio essere, diventare se stessi, come direbbe Nietzsche, non passa ovviamente attraverso il lavoro per come è inteso oggi. Passa invece attraverso la scoperta delle proprie qualità, dei propri talenti, nel riuscire a esprimere il potenziale che ognuno ha dentro di sé. Che sia attraverso un’attività remunerata o meno non dovrebbe incidere sul riconoscimento collettivo della persona, creando diseguaglianze economiche e morali che spesso si basano sulla malafede di chi vive solo per interessi personali a discapito della società (atteggiamento foraggiato dal sistema). Finché non costruiremo una società che ha a cuore la “fioritura” (termine che va tanto di moda, senza però che si metta mai in dubbio il sistema che fa di tutto per farci appassire) della persona, ma solo la quadratura economica improntata alla crescita infinita, le cose non faranno che peggiorare, e riconoscerci, trovare noi stessi, sarà sempre più difficile, se non addirittura impossibile.

Il meccanismo perverso del capitalismo oggi punta sul “sogno”. Qual è il valore commerciale del “sogno” e come si reagisce alla disillusione del sogno infranto?

Donne e uomini sono fatti per sognare, sono programmati così, non possiamo farci nulla. Leopardi, fra gli altri, ci aveva messo in guardia da questo sognare, pieno di splendide illusioni che nella maggior parte dei casi verranno disattese provocando in noi sentimenti di dolore, frustrazione e noia. E quindi? Bisogna smettere di sognare? No, mai. Sognare fa parte della vita e più è difficile tramutare il sogno in realtà più saremo felici, anche se, non contenti dell’obiettivo raggiunto, inseguiremo mille altri sogni fino alla fine dei nostri giorni. Detto questo, una società che cresce i suoi figli attraverso illusioni – nel libro parlo in particolare del sogno americano del “puoi diventare ciò che vuoi” e dell’italianissimo sogno del posto fisso –, andando a stimolare e creare sempre nuovi bisogni che non servono altro che ad alimentarla, è una società malata. Il consumismo di oggi ha sempre meno a che fare con gli oggetti, la merce, e sempre di più con le esperienze, i sogni, le illusioni. Siamo costantemente spinti da ogni dove a volere, desiderare, sognare. Per poi vedere i nostri sogni sgonfiarsi nel cielo dell’indifferenza. Non c’è modo di reagire a questo circolo vizioso se non smascherandolo, smettere di sognare in funzione del sistema e farlo per noi, per quello che siamo e vogliamo veramente. Impresa erculea, quando siamo stati plasmati proprio da questa cultura.

Perché la definizione di “Ghost Generation”?

Perché la disperazione e l’angoscia quotidiana dei trentenni di oggi non è riconosciuta. Per questo è una generazione dimenticata, fantasma. Per malafede, vergogna, incapacità, impotenza di chi potrebbe fare qualcosa e non lo fa. Certo, anche gli stessi trentenni dovrebbero fare qualcosa, ma non sanno cosa e soprattutto come, schiacciati come sono a vivere alla giornata e con prospettive ridicole. Serve un’alternativa, un modello culturale antagonista nel quale riconoscersi. Non esiste nulla di tutto ciò, soltanto un’unica narrazione che vuole che questo sia il miglior mondo possibile. Io mi chiedo solo quando ci stancheremo di tutto questo e inizieremo a rivendicare un po’ di futuro anche per noi.

Giuseppina Capone

Rosaria Famiglietti e il Tempo sospeso

Rosaria Famiglietti è docente di Italiano al Liceo di Sant’Angelo dei Lombardi, Dottore di ricerca in Italianistica, cultore della materia presso l’Università di Tor Vergata, studiosa di Pirandello, collabora con la rivista Pirandelliana e con altre riviste nazionali. Si occupa soprattutto della letteratura di genere, tanti sono i suoi interventi seminariali.

Il suo romanzo narra di madre ed una figlia legate da un laccio sentimentale inscindibile, quello della famiglia.
Perché i legami familiari sono sempre così passionali, in grado, al contempo, di allontanare ed attirare, congiungere e dividere, annientare e generare?

Il legame familiare, indipendentemente dalla convivenza o meno, è quello che fortemente incide sulla crescita e sullo sviluppo emotivo dei bambini. È la famiglia il primo e fondamentale contesto per lo sviluppo sociale e cognitivo, ed è attraverso la famiglia che i bambini costruiscono i punti di riferimento della loro vita. L’osservazione dei comportamenti dei genitori consente al bambino di formare l’idea basilare di sé in relazione al mondo.
Non è semplice per i genitori far fronte ad una responsabilità così forte e faticosa, generalmente gli impegni pratici, dell’accudimento, assorbono le forze e tolgono il respiro, le esigenze dei figli destabilizzano l’equilibrio di coppia e generano tensioni, soprattutto quando è necessario fare i conti anche con gli impegni di lavoro.
Dunque si tende a sottovalutare il ruolo principale e determinante del clima familiare sullo sviluppo emotivo del bambino.
Secondo Winnicott per poter garantire ai figli uno sviluppo sereno e armonico è necessario un ambiente vivo, aperto al confronto, pronto ad accogliere e sostenere il bambino con i suoi desideri, le sue paure, le sue esigenze fisiche, ma soprattutto emotive, cognitive, sociali, in una dimensione comunicativa.
Tanto complessa, però, risulta l’attuazione!
Ed è proprio nella complessità comunicativa che vanno ad annidarsi le incomprensioni, le insofferenze, le paure, le ansie.
All’interno del mio racconto ho cercato di percorrere le strade della comunicazione, della narrazione per trovare un punto di incontro:
“Scendere nelle sofferenze profonde, nei ricordi rimossi, nell’infanzia, ma soprattutto analizzare il rapporto con la propria madre è necessario per vivere con maggiore consapevolezza il rapporto con la propria figlia.
Prima di essere madre è importante riconnettersi con la propria madre attraverso un gesto d’amore a cui le figlie non sono preparate perché richiede il superamento di posizioni condizionanti, radicate e irrigidite dal tempo, si tratta della capacità di perdonare la madre.
Il perdono nasce dal desiderio di superare ed elaborare la parte dolorosa e scomoda, cercando di riacciuffare la parte migliore per vivere meglio il presente. Il sentimento negativo che genera il rapporto con la madre non può essere paragonato a nessun altro dolore, non basta tagliare il cordone ombelicale, la sua carne è la nostra carne, il suo corpo è un’estensione del nostro.
Non devo aver paura degli scontri, dei conflitti perché la crescita passa anche di lì, dalla capacità di rielaborarli e di vederne il lato costruttivo.
Questo viaggio interiore mi ha spinto verso un labirinto faticoso che avevo sempre rinnegato, piano piano sto riavvolgendo il filo e tu sei lì, ne tieni ancora il capo, altro da me, ma parte di me.
In questo cammino doloroso ho scoperto un qualcosa che mi manca tanto, che ho smarrito non so dove, né quando, ma che vorrei ritrovare con te, cerchiamolo insieme, ricominciamo a sorridere e ad essere leggere: inventiamoci un motivo per ridere insieme. Sempre”
Dunque, probabilmente, un ingrediente indispensabile per l’armonia familiare può essere ricercato nella leggerezza e nell’ironia, nella capacità di mettersi in gioco e di mostrarsi accoglienti.

Una comunicazione diaristica ininterrotta. E’ possibile tessere relazioni efficaci attraverso la scrittura?
Sarà per le mie esperienze lavorative e la mia formazione pedagogica, ma tendo a ricondurre le mie riflessioni alle esperienze sul campo.
Il metodo autobiografico, al di là della funzione terapeutica in senso stretto, svolge un ruolo fondamentale nella didattica: Il metodo delle storie di vita può offrire la possibilità agli insegnanti di conoscere i propri studenti. Il dialogo tra docenti e studenti, attraverso la narrazione del proprio vissuto, rappresenta una modalità educativa fortemente inclusiva che accoglie e valorizza le diversità. La relazione educativa esce sicuramente rafforzata da questa pratica del racconto autobiografico poiché mette in campo persone e non ruoli. Tale approccio consente, inoltre, di superare i divari generazionali e di incontrarsi in un luogo neutro, aperto, flessibile e privo di pregiudizi.
Incoraggiare i ragazzi a raccontarsi li aiuta a giungere ad una più approfondita conoscenza di se stessi, dei propri limiti e delle proprie potenzialità, e si acquisiscono punti di vista differenti.
Attraverso l’atto del narrarsi si crea una sorta di rete, un’intelaiatura che permette di ottenere una visione meno superficiale degli avvenimenti, e delle situazioni vissute e dei sentimenti provati
Come si può comprendere, l’atto del raccontarsi risponde all’esigenza insita in ogni individuo di conferire unitarietà e senso agli eventi (personali e/o professionali) della propria esistenza in un’ottica emancipativa.
“L’autobiografia viene a poco a poco riconosciuta non tanto come scopo ma come mezzo che accompagna lo scrittore alla riscoperta della propria storia che riesce ancora a stupirlo. Inoltrandosi nel racconto autobiografico, egli accetta infatti di essere depistato dal percorso previsto per lasciarsi andare al ricordo involontario seguendo anche rievocazioni disordinate; trasportato dalla scrittura, si scopre a raccontare fatti o sentimenti che credeva di aver dimenticato e che sono invece affiorati alla memoria all’improvviso e in questo risiede lo stupore dell’autobiografia: non si scrive per dire ciò che si conosce, ma per avvicinarsi di più a ciò che non si conosce”. ( A. Bolzoni, Oltre l’oralità, in D. Demetrio [a cura di] L’educatore Auto(bio)grafo. Il metodo delle storie di vita nelle relazioni d’aiuto, Unicopli, Milano, 1999, pag. 50)
Sicuramente per un docente è più semplice costruire un dialogo, porsi in relazione positiva con gli studenti perché il distanziamento emotivo e il contesto consentono un equilibrio più solido. Per i genitori, invece, non è così semplice, le dinamiche familiari risultano più complesse e condizionate da una quotidianità spesso soffocante.
Io ho provato a portare in famiglia una tecnica didattica e pedagogica:
“La scrittura è stata da sempre una valida amica, capace di dare ordine ai pensieri, di renderli concreti per guardarli in faccia, per perdersi tra le righe, per riconoscersi o per perdersi ancora, lo è per me, ma lo è anche per te.
Forse in questo spazio neutro e vitale sarà possibile costruire un mondo accogliente, nel quale esprimersi, mettersi a nudo, senza il timore dell’altro, senza dover sopportare lo sguardo dell’altro. Questo cantuccio saprà svelare i misteri di un rapporto segnato da sofferenze ataviche”

Incertezza, precarietà, fragilità, inquietudine, indefinibilità paiono costituire il filo rosso della vita. Qual è la chiave per placare la febbrile ricerca del senso dell’esistenza?
Non credo sia importante placare la febbrile ricerca del senso dell’esistere, ritengo invece fondamentale orientarla e supportarla nel modo giusto.
Incertezza, precarietà, fragilità, inquietudine hanno da sempre accompagnato gli animi più sensibili e la scoperta della letteratura e della lettura può aiutarci a dare un senso alla nostra esistenza e al destino che ci attende, la lettura rappresenta una palestra che ci aiuta ad interagire con il mondo.
“Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere. La lettura non ha niente a che fare con l’organizzazione del tempo sociale. La lettura è, come l’amore, un modo di essere”
La lettura, come le passioni e l’arte in generale possono riempire di senso il nostro tempo, ma soprattutto possono essere balsamo nelle tormente dell’esistere.
Il periodo della pandemia ha segnato indelebilmente le nostre vite, ma ha rafforzato il mio pensiero, i ragazzi che aveva coltivato passioni, letture, musica, teatro, cinema, sono riusciti a trovare la forza per resistere e reagire al distanziamento sociale. All’interno del libro c’è un capitolo, Tempo sospeso, dedicato appunto al momento della DAD e delle vite sospese che riescono a ritrovarsi tra letture e scritture.
“Nella nostra scuola organizzare l’evento di Natale è una tradizione molto sentita che coinvolge tanti studenti. Quest’anno non è possibile riunirci a teatro, per questo vogliamo girare un video e trasmetterlo in streaming. Questa iniziativa vuole essere un invito a vedere la vita con più leggerezza, anche in un momento così delicato. In ogni situazione, anche in quelle più difficili, ci deve essere spazio per la speranza”
“Una luce nei momenti bui, un modo per non lasciarsi sopraffare dalle difficoltà e per restare in contatto con noi stessi”
“Proprio la speranza deve fare da filo conduttore a tutte le scene del video-spettacolo”.
“Dunque, mentre continuiamo a sperare e a sognare un futuro migliore, possiamo far tesoro dell’attesa. Soprattutto dobbiamo imparare a prenderci del tempo per fare qualcosa che ci faccia stare bene”

Uno dei temi su cui si innesta la sua riflessione è il cambiamento fisico adolescenziale. Tra le pagine si coglie l’introversione, la scontrosità, l’inquietudine e la disubbidienza adolescenziale. Quali tratti assume la giovinezza nella ricerca di coordinate, d’interpretazioni univoche della realtà, di superamento delle contraddizioni?
L’inquietudine e lo spaesamento sono elementi dell’essere adolescente, appartengono alla paura e al desiderio di costruire e di costruirsi. Le ansie, le crisi, ma soprattutto i contrasti con i genitori sono tasselli indispensabili per l’affermazione del sé.
Il corpo cambia, le emozioni si modificano e si fanno più intense, sentono il bisogno di prendere le distanze dalla figura infantile e in questo turbinio di eventi il primo ad essere travolto è il rapporto con i genitori. Per ristrutturare la propria personalità, spesso, sentono il bisogno di demolire quella dei genitori. È proprio in questa situazione di instabilità che i genitori devono curare l’ambiente familiare per aiutare i ragazzi a trovare la propria identità, rispettare la ricerca di spazi solitari, sopportare gli sbalzi di umore, le incertezze, essere accoglienti. È importante, però, che l’adulto mantenga la propria autorità che il suo ruolo comporta pur adoperandola nella maniera più democratica possibile, incoraggiando, al contempo, lo sviluppo del senso di autonomia e responsabilità.
C’è un capitolo che in modo forte affronta il tema dell’adolescenza, Viaggi.

“Vedi figliolo, se ti concentri troppo su quello che pensi dovrà essere, non godrai mai di quello che sta succedendo. Se porti fretta al tuo destino, non proverai il gusto più saporito, ovvero quello dello scorrere della vita.
Devi imparare a lasciare che scorra, ma ciò non vuol dire lasciarsi completamente portare dalla corrente, altrimenti rimarrai perduto: il ragazzo della storia ha comunque dovuto remare.
Metti la tua forza di volontà in ciò che fai, ma non credere che forzare le cose porterà mai a qualche bene.

Professoressa, quale idea desidera che emerga dei rapporti umani tra generazioni, anche in riferimento alla sua esperienza di docente?
La parola che ripeto spesso, sia in classe che a casa è “rispetto”; credo che se i rapporti vengono costruiti sul rispetto sarà sempre possibile sanare incomprensioni e fratture. Avere rispetto significa essere aperti all’altro, avere la capacità di praticare un ascolto attivo, necessario per poter realmente entrare in empatia con l’altro, assumersi la responsabilità di comprendere ciò che dice l’altro, sospendendo giudizi e preconcetti, imparare a mettersi nei panni dell’altro, cambiare la focalizzazione. Anche in questo caso faccio riferimento a esperienze di ricerca- azione nel campo della pedagogia. Carl Rogers ci ha insegnato che bisogna ascoltare l’altro con attenzione, e in modo non direttivo, costruendo fiducia, rispetto ed empatia con l’interlocutore in modo che quest’ultimo possa esprimersi liberamente, senza paura di un giudizio affrettato e soprattutto senza pressioni.
L’ascolto attivo deve essere accompagnato dallo sviluppo delle competenze argomentative, bisogna guidare i ragazzi a riflettere e a costruire idee e pensieri attraverso solidi principi di autorità. La società ha bisogno di riappropriarsi della cultura, dell’educazione e del rispetto.

Giuseppina Capone

Pianeta Napoli 2, la nuova idea letteraria di Antonio Lanzaro

 

Abbiamo incontrato il prof. Antonio Lanzaro, Presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus, autore di numerose pubblicazioni e di alcune raccolte di racconti e poesie. Con lui abbiamo parlato della sua ultima produzione letteraria.

Presidente Lanzaro, da autore di libri e pubblicazioni di diritto a narratore e poeta, come mai ha deciso di intraprendere questa strada letteraria?

In effetti non c’è stata alcuna programmazione o decisione ma “solo una”, imprevedibile “senilità” incombente che ha comportato l’esigenza di rispolverare ricordi, persone, avvenimenti che hanno caratterizzato la mia vita. Ovviamente l’unico strumento per lasciare il… segno era la scrittura e quindi …

Quando e com’è nata l’idea di scrivere questa raccolta di racconti?

Come ho detto nella premessa a “Racconti Fantastici” molti racconti sono autobiografici. Su alcuni ci ho ricamato sopra, altri sono frutto di fantasia, comunque tutti i personaggi sono napoletani, eroici, generosi, altruisti, dotati di inventiva e indiscusse capacità.

Quanto della sua esperienza personale è presente nei racconti di “Pianeta Napoli” e “Racconti Fantastici”?

Certamente l’esperienza personale è stata determinante, avendo perso mio padre a venti anni si potrà immaginare quanto … ho “vissuto”, studiato, lavorato e alla mia età quante persone ho conosciuto nel bene e nel male.

La fantascienza è il leitmotif di questo libro, i tempi che stiamo vivendo quanto hanno inciso nella scelta dei contenuti di questa pubblicazione?

Ho precisato nella premessa a “Racconti Fantastici” il mio interesse per la fantascienza e per la cinematografia in genere e da ragazzo seguivo il sogno di imitare autori come Asimov, Clarke, Dick, Ballard.

Ma nel 1970, pubblicai il mio primo articolo giuridico sulla rivista “Orizzonti Economici” della Camera di Commercio e quindi la realizzazione del sogno fu rinviata: “Maiora Premebant!!!”

A quando la prossima “fatica” letteraria?

Salute e Covid permettendo ho in mente di scrivere una commedia comica in due atti.

Diciamo questa estate. Ovviamente né darò notizia su “Lo Scugnizzo” il giornale della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus di cui sono Presidente.

Alessandra Desideri

Luis Enrique: quando il dolore non incrina uno spirito puro

L’allenatore del calcio spagnolo, la perdita di sua figlia Xana e le sue eloquenti parole per il calcio italiano.  

“Nostra figlia Xana è venuta a mancare questa sera all’età di nove anni dopo aver lottato per cinque lunghi mesi contro un osteosarcoma. Ci mancherai tantissimo, ma ti ricorderemo ogni giorno della nostra vita, con la speranza che un giorno ci incontreremo di nuovo. Sarai la stella che guiderà la nostra famiglia. Riposa in pace, Xanita”, dichiaravano Luis e la sua famiglia in seguito alla morte della piccola, il 26 agosto del 2019.

Non si dovrebbe mai sopravvivere ai propri figli. Eppure la vita a volte è ingiusta. Luis Enrique (Allenatore della CT della Nazionale spagnola) ha perso sua figlia di soli 9 anni il 26 agosto 2019. Tuttavia, malgrado la forte sofferenza, l’allenatore ha, con grande forza di volontà, trovato la grinta per andare avanti dimostrando, inoltre, di possedere una grande intelligenza e  un animo sensibile, umile e altruista.  Luis  è ad oggi stimatissimo anche dagli italiani che, alla vittoria della partita contro la Spagna dello scorso 6 luglio, sono rimasti colpiti dalla sua straordinaria umiltà:

“Sono felice per quello che ho visto. Ho goduto di una partita di alto livello, con due squadre forti che cercavano di giocare un bel calcio, è stato uno spettacolo per i tifosi. Voglio fare i complimenti all’Italia, spero che in finale possa vincere questo Europeo. Tiferò per gli azzurri”, ha dichiarato.

“L’errore che non dobbiamo commettere – aveva detto alla vigilia – è non essere la Spagna. Poi potremo perdere, vincere o pareggiare, ma so che la mia squadra sarà fedele al nostro spirito”.

Il messaggio di Enrique ha voluto trasmettere diversi significati: la sofferenza non deve portare a diventare meschini e a perdere fiducia nella vita.

Al contrario, Luis ci insegna che le tragedie devono far sì che il proprio punto di vista sulla vita possa mutare affinché si arrivi a comprendere quali sono le priorità e per cosa valga la pena soffrire o gioire. Ancora, ci ha insegnato a esultare anche per la vittoria del prossimo e che la competizione è giusta solo se è sana.

La passione per il calcio

La sua passione per il calcio nasce da bambino: gioca nelle giovanili dello Sporting Gijòn e da lì a poco diventa calciatore fino a divenire allenatore. Ha trascorso la maggior parte della sua vita in campo, l’unico momento in cui ha preso una pausa è stato per una giusta quanto delicata causa: 19 giugno 2019 si dimette da allenatore della Spagna per ben sei mesi per stare accanto a sua figlia Xana di nove anni che, per sei lunghi mesi, ha combattuto una dura lotta contro il cancro alle ossa ma purtroppo non l’ha vinta.

Di caloroso conforto fu il calcio italiano per Luis che, con gesti d’amore e tante parole d’affetto, gli ha dimostrato di essergli accanto. Non solo, tante sono state le dediche per Luis ricche di parole di conforto, di sostegno  e di incoraggiamento per una persona di un grande valore d’animo che avrebbe dovuto sopravvivere alla scomparsa della propria figlia.  Christian Vieri: “Xana è volata in cielo, preghiamo per la famiglia di Luis Enrique”.  “Una notizia che mi addolora molto, a te e alla tua famiglia vanno le più sentite condoglianze”, scrisse Roberto Mancini. Francesco Totti: “Non ci sono parole. Riposa in pace piccola stella” . E tante altre dediche colme di parole d’affetto che Luis porterà sempre nel cuore.

Alessandra Federico

 

 

 

 

 

 

 

Alessandria: donna uccide il marito per le troppe violenze subite

È accaduto lo scorso 11 luglio a Borghetto di Borbera in provincia di Alessandria. La donna, (sessantenne, ha ucciso il marito di 64 anni sedandolo e strangolandolo con i lacci delle scarpe. La donna ha immediatamente telefonato i carabinieri per confessare l’omicidio e il  motivo per il quale ha commesso questo omicidio. Sembrerebbe che quest’ultima sia stata vittima, per anni, di violenze (fisiche e psicologiche) da parte del marito. La moglie era disperata e sembrerebbe, dunque, che questo gesto sia stato dettato dall’esasperazione, per difendere sé stessa e suo figlio dalle botte subite per anni all’interno delle mura di casa.

Poche ore prima dell’omicidio, l’uomo si era recato in ospedale a causa delle ferite che aveva in volto in seguito ad un litigio con sua moglie, ma veniva dimesso poco dopo essendo in ottime condizioni di salute.

La donna ha raccontato che il marito, nel pomeriggio prima dell’omicidio,  aveva avuto una forte lite con suo figlio arrivando anche a lanciarsi bottiglie. La situazione stava decisamente degenerando, soprattutto nel momento in cui l’uomo rimane ferito ad un orecchio. Decidono entrambi di chiamare i carabinieri. Secondo quanto raccontato dalla donna, l’uomo, negli ultimi 3-4 anni, sarebbe diventato più aggressivo e prepotente, anche se non c’erano mai state denunce prima d’ora da parte della donna per i maltrattamenti subiti dal marito. Di fatti,  gli investigatori escludono che la questione andasse avanti davvero da anni. Soprattutto perché, i due coniugi, erano considerati due persone gentili e amorevoli dai loro concittadini, quindi nessuno (nemmeno tra amici più intimi) avrebbe mai sospettato ci fosse violenza tra loro.  Ma c’è anche da dire che spesso l’apparenza inganna e che dall’esterno non si è a conoscenza del vero rapporto di una coppia.

 “Ero stanca delle botte a me e a mio figlio”. Arrivare  a compiere un atto del genere senza preoccuparsi delle conseguenze, avviene nel momento in cui si arriva davvero all’esasperazione.

La violenza sulle donne è più frequente di quanto si possa immaginare. La violenza fisica o anche quella psicologica è all’ordine del giorno e la si riscontra in una coppia su tre. In questo caso, la donna ha deciso di sacrificarsi e di rinunciare alla sua libertà pur di porre fine a tutto lo strazio, alle sofferenze, e alle umiliazioni subite per anni dal marito, pur di difendere  e mettere in salvo suo figlio, soprattutto.

Ad oggi la donna è stata sottoposta a fermo nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. La protagonista della vicenda ha dimostrato, senza ombra di dubbio, di possedere un forte coraggio, e che i figli vengono prima di ogni altra cosa.

Ma c’è qualcosa che possiamo fare noi donne prima di arrivare a questo? E’ anche vero che, quando la mente umana viene plagiata, assillata, esasperata, si può arrivare a compiere  atti estremi come questo omicidio. La soluzione potrebbe essere quella di scappare via al primo schiaffo, alla prima minaccia, alla prima aggressione anche se verbale. Bisognerebbe trovare immediatamente il coraggio di dare un taglio netto alla storia anche se dura da tutta una vita, perché alla prima parola offensiva significa che da quel momento in poi la situazione non può che peggiorare. Quando si ha difficoltà nel trovare il coraggio di troncare, è necessario chiedere aiuto a qualcuno, raccontare ciò che si sta vivendo. Ogni donna non deve mai dimenticare che la sua libertà è la cosa che conta di più e che non ne vale mai la pena sacrificarla per un uomo, chiunque esso sia.

Alessandra Federico

Laureato a undici anni: Laurent Simons   viene definito bambino prodigio

“Se un giorno inventerò qualcosa, lo metterò su internet a disposizione di tutti”.

Sono le parole di Laurent Simons, il bambino prodigio belga che all’età di soli 11 anni si è laureato in fisica all’Università di Anversa con il massimo dei voti. Simons era già noto per il suo quoziente intellettivo altissimo e infatti ha completato gli studi portando a termine un percorso di tre anni in solo dodici mesi. Il piccolo genio, quando viveva in Olanda, era già a un passo dalla laurea ma a causa di un disaccordo con il direttore dell’Università (riteneva che Laurent fosse troppo giovane per potersi laureare) non completò gli studi. Il piccolo Simons ha già seguito alcuni corsi per seguire il programma di un master e non solo, ha intenzione di intraprendere un dottorato al termine del master.

“Vorrei inventare organi artificiali che sostituiscano quelli reali – ha dichiarato Laurent Simons . – Così anche i miei nonni potranno vivere più a lungo”.

L’obiettivo di Laurent è quello di riuscire, un giorno, a sostituire con la tecnologia tutte le parti del corpo, per far sì che la vita umana possa prolungarsi, mantenendo, però, un collegamento con il cervello per salvaguardare la loro coscienza.

Un bambino che a soli undici anni possiede una conoscenza approfondita di una o anche più settori, che riesca ad ottenere risultati del livello di un adulto, non può che essere definito bambino prodigio.

Il bambino prodigio

“Ci hanno detto che è come una spugna” dichiara entusiasta il padre di Laurent.

I nonni del piccolo Laurent, hanno, sin da subito, ritenuto che il bambino fosse “dotato di un dono” motivo per il quale le sue capacità di apprendimento fossero, da sempre, risultate superiori rispetto ad un bambino della sua età. Lydia e Alexander Simons (genitori di Laurent) erano titubanti al riguardo fino a quando gli insegnanti  del bambino hanno confermato la teoria dei nonni e cioè che Laurent il dono ce l’ha. Laurent è stato testato, risultato IQ oltre 145.

“Penso si concentrerà sulla ricerca e la scoperta, l’assorbimento delle informazioni non è un problema per Laurent”, afferma Alexander. Per quanto riguarda il dottorato di ricerca, invece, Alex e Lydia non hanno ancora voluto rivelare la scelta del figlio. Intanto, il piccolo fenomeno, è conteso da prestigioso atenei di tutto il mondo.

È semplicemente straordinario

“È lo studente più veloce che abbiamo mai avuto. Non solo è iper intelligente ma anche molto simpatico. Gli studenti speciali che hanno buone ragioni per farlo, possono organizzare un programma adeguato. Succede anche agli studenti con impegni sportivi” – ha dichiarato, durante un colloquio con i genitori del piccolo,  Sjoerd Hulshof, il direttore della Facoltà del TUE. L’università di ingegneria ha dato la possibilità a Laurent di completare il corso molto prima rispetto agli altri studenti. Sjoerd, ha ritenuto opportuno lasciar libero Laurent di andare avanti senza ostacolarlo, nonostante la sua tenera età. Il direttore ha ben compreso che una persona con un IQ così alto non la si può reprimere. La si può solo far crescere. Far prendere il volo.

Al contempo, però, come tutti i bambini della sua età, il piccolo Laurent ancora non sa bene cosa vuole fare da grande. Vorrebbe diventare medico chirurgo e fare l’astronauta. È  importante che ogni bambino, seppur l’eccezione di un piccolo genio, abbia il diritto di vivere la spensieratezza che quell’età richiede e che si senta libero di coltivare anche il suo lato infantile come tutti i bambini del mondo; di fatti, il piccolo Simons, ama giocare con i suoi coetanei anche se gli attende un futuro totalmente diverso.

Alessandra Federico

Un mito, una leggenda, addio a Raffaella Carrà, la più amata dagli italiani

 

Raffaella Carrà, una delle più grandi showgirl italiane, ci ha lasciato all’età di 78 anni a Roma, in una clinica. A dare l’annuncio è stato Sergio Japino, regista di tutti i suoi spettacoli e, per lunghi anni, suo compagno di vita. “Raffaella ci ha lasciati. È andata in un mondo migliore, dove la sua umanità, la sua inconfondibile risata e il suo straordinario talento risplenderanno per sempre”, ha detto, “unendosi al dolore degli adorati nipoti Federica e Matteo, di Barbara, Paola e Claudia Boncompagni, degli amici di una vita e dei collaboratori più stretti”.

Raffaella Carrà il cui vero nome era Raffaella Maria Roberta Pelloni era nata a Bologna il 18 giugno del 1943. Aveva iniziato la sua sterminata carriera nel mondo dello spettacolo, cantante, ballerina, conduttrice, attrice, autrice all’età di 9 anni, nel 1952: e nonostante l’enorme successo in tutto il mondo è riuscita a rifuggire dalla mondanità, dalle ospitate e dai gossip.

Si è spenta dopo una malattia che, ha spiegato sempre Japino, “da qualche tempo aveva attaccato quel suo corpo così minuto eppure così pieno di straripante energia. Una forza inarrestabile la sua, che l’ha imposta ai vertici dello star system mondiale, una volontà ferrea che fino all’ultimo non l’ha mai abbandonata, facendo si che nulla trapelasse della sua profonda sofferenza. L’ennesimo gesto d’amore verso il suo pubblico e verso coloro che ne hanno condiviso l’affetto, affinché il suo personale calvario non avesse a turbare il luminoso ricordo di lei”. La Carrà, la più amata dagli italiani, era famosissima non solo in Italia, ma anche in Spagna ed in America Latina, “icona gay per le mie canzoni e la mia allegria”, come aveva raccontato a Massimo Gramellini, era stata celebrata lo scorso novembre da un lungo articolo del quotidiano britannico «Guardian», che metteva in fila alcuni dei passaggi più noti del suo percorso artistico, dall’ombelico mostrato durante Canzonissima a «A far l’amore comincia tu», da «Tanti auguri» al Tuca Tuca con Enzo Paolo Turchi, salvato dalla censura Rai da Alberto Sordi e la incoronava la «pop star italiana che ha insegnato all’Europa la gioia del sesso».

Icona della tv e dello stile, dal 1970 la grande artista, infatti, ha venduto oltre 60 milioni di copie in 37 Paesi nel mondo e ha conquistato 22 dischi di platino e d’oro. L’ultimo progetto discografico pubblicato risale al 2018, in occasione delle festività natalizie: “Ogni volta che è Natale”. “Quando la Sony mi ha proposto di incidere un album di Natale ci ho pensato a lungo, ha detto Raffaella in quell’occasione è stata la garanzia di avere carta bianca nella scelta dei brani e degli arrangiamenti a convincermi. Sono felice di averlo fatto. Dirò di più: nel mio ufficio ho una parete tappezzata di album d’oro e di platino. Ho ancora uno spazio libero, con questo disco mi piacerebbe chiudere il cerchio”. Sono 23 gli album pubblicati da Raffaella Carrà in Italia e nel mondo e 45 singoli. Il primo album ad essere tradotto per il mercato spagnolo è stato “Felicità tà tà” del 1974, distribuito in Spagna nel 1975 con il titolo “Rumore”.

I funerali si sono svolti venerdì 9 luglio nella chiesa di Santa Maria in Ara Coeli.
“Chiedo a tutti i suoi fan, in Italia, nel mondo, nelle chiese dei piccoli paesini come in quelle delle grandi città, di darsi appuntamento alle ore 12 di questo venerdì, per offrire tutti insieme l’ultimo saluto virtuale a Raffaella», è stato il messaggio commovente lanciato da Sergio Japino, per anni compagno dell’artista scomparsa.

Nicola Massaro

Raffaella Carrà: è morta la regina della televisione italiana

“Raffaella… non posso crederci. Il cuore a pezzi. Il mio sogno da bambina era di diventare un po’ come te, ed essere ospite in una tua trasmissione era la mia più grande ambizione. Ti ho incontrata molto presto e ho anche avuto il privilegio di passare del tempo con te, fuori dal piccolo schermo, con amici e con una cara amica in particolare. Tu eri così, semplicemente meravigliosa. Eri raggiante, positiva, umile, sempre. La tua inconfondibile risata risuonerà con forza per sempre e dentro ciascuno di noi. Grazie per tutto quello che ci hai donato, grazie per tutto quello che ci hai insegnato, soprattutto. Grazie per la tua anima bella e grazie per esserci stata. “

Saluta così, Elena Sofia Ricci la sua amica Raffaella, attraverso un post su Instagram dove dimostra tutto l’affetto e la stima che nutre nei confronti della regina della televisione italiana. Tante sono state le dediche da parte di chi ha amato Raffaella perché la televisione ha perso una delle sue più grandi stelle dello spettacolo italiano.

La vita privata della Carrà

Raffaella Maria Roberta Pellone nasce a Bologna il 18 giungo del 1943. Figlia di Padre romagnolo e madre siciliana, trascorreva molto tempo, sin da bambina, nella gelateria del padre (Rimini) dove era solita seguire la trasmissione in tv  Il Musichiere e dove, grazie  a questo programma, imparò a memoria tutti i balletti e le canzoni.  E fu proprio lì che nacque la sua passione per il ballo e per la musica, infatti, all’età di soli 8 anni si trasferì a Roma per proseguire gli studi presso l’Accademia Nazionale di Danza, poi al centro sperimentale di cinematografia. Da lì a poco iniziò la sua carriera cinematografica (anni ‘50), partecipò come attrice bambina (età 8 anni) al film di Mario Bonnard Tormento del passato. Da quel momento in poi la sua carriera come attrice fu rapida e in ascesa, partecipando ad uno svariato numero di film, seppur bambina, interpretando anche piccole parti.

La vita sentimentale

La bella e affascinante Raffaella è stata fidanzata per 8 anni con il calciatore della Juventus Gino Stacchini. Ha avuto, in seguito, altre relazioni importanti tra cui quella con l’autore televisivo Gianni Boncompagni, con il regista e coreografo Sergio Japino e con il cantante Little Tony. La bella Carrà era anche molto corteggiata da Frank Sinatra con il quale divise il set del film Il colonnello Von Ryan. Purtroppo Raffaella non ha mai avuto figli ma l’adozione a distanza le è sempre stata a cuore tanto da farle adottare molti bambini in diverse parti del mondo,  nel 2006 condusse un programma televisivo chiamato amore e nel 2004 uno speciale alla tv spagnola chiamato Contigo, in cui parlava di bambini e adozioni.

Il cinema

Nel 1960 conseguì il diploma al Centro sperimentale di cinematografia e nello stesso periodo debuttò anche al teatro con Un giallo Romano (1960) Il seduttore  (1965) Processo di famiglia e tanti altri meravigliosi spettacoli. Raffaella col microfono a tracolla (1962) fu il suo primo programma alla radio. A seguire: Gran varietà (1972- 1976 Incontro con Raffaella  Carrà (1979) Carràdio che sorpresa (1996) .

In quel periodo interpretò diversi ruoli in diversi film: Tormento del passato, (1952; Valeria ragazza poco seria (1958); Europa di notte (1958);­ La lunga notte del 43 (1960); Il peccato degli anni verdi (1960); Ulisse contro Ercole (1961); L’ombra di Zorro (1962); Giulio Cesare, il conquistatore delle Gallie (1962); I compagni (1963); Dopo i buio (1964); Il colonnello Von Ryan (1965); Il santo prende la mira (1966); Rose rosse per Angelica (1968); Professione bigamo (1969); Il caso “venere privata (1970); Barbare (1980); Colpi di fortuna 2013; Ballo Ballo (2020) e tanti altri ancora.  

Lo spettacolo

“Io Agata  e tu” fu il suo primo spettacolo in cui Raffaella si cimentava nel suo stile di showgirl moderna. Poco dopo debuttò in Canzonissima al fianco di Corrado in cui mostrò per la prima volta l’ombelico durante il ballo della sigla Ma che musica maestro.  Mentre per la stagione successiva di Canzonissima entrarono in classifica tre singoli i quali Maga Maghella per il pubblico infantile, Chissà se va e il mitico Tuca Tuca . Sono ancora tanti gli spettacoli di Raffaella da citare: Musica Hotel (1963);  Il paroliere questo sconosciuto (1962-1963); Musica Hotel (1963); Incontro con la New Vaudeville Band (1967); Tempo di samba (1968); Vedettes d’America (1968); Milleluci (1974)  e il più ricordato e amato da tutta Italia Carràmba!che sorpresa. La showgirl italiana più famosa al mondo ha, inoltre, lavorato come doppiatrice e ha interpretato diversi ruoli in diverse serie tv.

Icona della televisione italiana, Raffaella, è stata, difatti, una showgirl, ballerina, attrice, cantante, autrice televisiva italiana, conduttrice televisiva, radiofonica. Presente nei palinsesti televisivi dalla fine degli anni 60 riscontra grande successo anche all’estero. La showgirl, nel corso di tutta la sua carriera, ha venduto oltre 60 milioni di dischi.

“Il Tuca Tuca lo ballai la prima volta con Enzo Paolo Turci, e L’osservatore Romano fece pressioni in Rai per stopparlo. Riuscii a riportarlo in tv solo grazie ad Alberto Sordi, a cui nessuno diceva no, io mi vestivo così, pantaloni e top corto, senza nessun secondo fine. Certo, le donne italiane hanno grande simpatia per me perché non sono una mangia uomini: si può avere sex appeal insieme a dolcezza e ironia, non bisogna per forza essere Rita Hayworth” . Dichiarava, la regina della televisione italiana.

Raffaella ha insegnato, alle donne di tutto il mondo, non solo a ribellarsi per ottenere i propri diritti (come indossare ciò che si desidera senza pensare di provocarne scandalo) e a sentirsi libera di essere ma soprattutto che la vera bellezza e sensualità non risiede nella volgarità bensì nella dolcezza e nell’eleganza di una donna, così come lo è stata lei; un mix di sensibilità, allegria, ribellione e delicata sensualità che facevano di lei una donna passionale senza cadere nella sgarbatezza. L’audace showgirl è stata una donna evoluta, capace di eliminare tabù riguardo al sesso e di andare contro ogni  pregiudizio sull’abbigliamento femminile dimostrandolo anche attraverso i suoi balli e le sue canzoni moderne. E infatti, nel 2020, è stata definita “’Icona culturale che insegnato all’Europa le gioie del sesso” dal quotidiano britannico The Guardian. Insomma, la carriera della Carrà è stata ricca di soddisfazioni e rivincite.

Raffaella Carrà è morta il 5 luglio alle ore 16.20 a Roma, all’età di 78 anni a causa di una malattia, Ma il mondo intero la ricorderà per il grande entusiasmo con il quale affrontava la vita, per l’emozione che ha trasmesso con ogni suo spettacolo, per ogni sua risata che donava a tutti gioia e spensieratezza.

Alessandra Federico

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