Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato? In “Non salvarmi” ho aderito a tutti gli stilemi del genere, pur decidendo in alcuni casi di attualizzarli. Il romanzo è infatti giocato su una suspense crescente, sui colpi di scena legati ai diversi protagonisti e sui twist della storia, tutti elementi congeniali al mistery. Avevo però anche la necessità di scardinare alcuni canoni dell’alta tensione. L’incipit del libro ne è un esempio. Siamo all’aeroporto di Phoenix e la protagonista, Deva Wood, sta per imbarcarsi su un volo diretto a Milano. Attraversa la hall per andare in bagno, e qui viene ripresa per l’ultima volta con le gambe macchiate di sangue. Da quel momento scompare misteriosamente e non salirà mai sul suo aereo. Generalmente il reato in un thriller viene associato all’ignoto e al buio. Qui invece accade tutto il contrario. Ci troviamo in un luogo di massima sicurezza in pieno giorno, sorvegliato dall’occhio imperscrutabile della videocamera. In questo ambiente siamo rassicurati che nulla possa fuggire al nostro controllo. Invece è proprio qui che si innesca il mistero. “Ecco chi siamo” pensa. “Fiocchi di neve destinati a sciogliersi a terra” Lei scandaglia esistenze elitarie, privilegiate ma fragilissime. Il dolore come condizione ontologica? Nel libro indago le storie di diversi protagonisti, molti dei quali appartenenti al mondo privilegiato di Hollywood. Nonostante le loro carriere dorate e la loro fama, ogni personaggio in questa storia cova un dolore profondo e sotterraneo. Ma nel mondo del potere, la fragilità come il fallimento e la debolezza sono degli stati umani da censurare e isolare. I figli di queste star milionarie, affetti da dipendenze di varia natura, dalle droghe al sesso compulsivo, vengono infatti curati in un centro di rehab nel deserto dell’Arizona. Un luogo estremo, in cui non sono ammesse comunicazioni con l’esterno e dove la vita quotidiana è ridotta alla basica volontà di sopravvivere. Come dichiara il filosofo Byung-Chul Han: “Nella società odierna il dolore viene interpretato come un segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione.” In realtà è proprio la sofferenza a rendere unica l’esperienza umana e a dare valore alle nostre vite. Nel romanzo inesorabilmente ogni personaggio si troverà a dover affrontare il proprio dolore e a comprendere, al di là delle maschere dell’eterno consenso, chi è veramente. Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani? Ritengo che i rapporti umani siano la base di tutti i nostri raggiungimenti e allo stesso tempo dei nostri ostacoli invalicabili. Sono le piccolezze quotidiane dovute alle nostre relazioni, quelle minuscole inquietudini e ossessioni irrisolte, che nel tempo crescono fino a diventare così intense da modificare le traiettorie del nostro destino. La tensione di “Non salvarmi” si svela proprio in questa sfaccettata dimensione emotiva dovuta all’interdipendenza di ogni personaggio. Per questo ho scelto la soluzione del thriller corale, proprio perché il vero mistero è legato alle conseguenze dei rapporti umani. Mettere da parte la nostra visione egoica e autoreferenziale è sicuramente il modo per approcciarsi all’altro, gratificando non solo noi stessi, ma anche la vita delle persone intorno a noi. Abbiamo più bisogno di alterità che di uno specchio che continuamente rimandi la percezione di noi stessi. La sua scrittura, scorrevole ed incisiva, diretta ed immediata, pare rinviare al linguaggio delle serie TV. Quanto risponde ad una sua precisa volontà la contaminazione dei linguaggi? Sicuramente la congiunzione di diversi stili è stato l’obiettivo compositivo di questo romanzo. Per definire la mia voce prima di tutto ho lavorato sulla potenza e l’immediatezza dell’immagine attraverso le ambientazioni. Da una parte abbiamo la suggestione del deserto dell’Arizona, nella sua nuda immensità e nel suo silenzio scalfito solo dalle onde di colore in continuo movimento. Dall’altra parte abbiamo Milano, nella sua frenetica ascesa espansionistica e il fascino rivoluzionario della sua architettura verticale. La polarizzazione di queste due location così diverse ha reso al meglio il mio approccio cinematografico e ha regalato alla storia un ritmo molto intenso simile a quello delle serie tv. Avevo però anche la necessità di indagare psicologicamente i miei protagonisti, regalando al lettore delle emozioni sospese, le stesse che si possono vivere al cinema quando al buio si vede un film e si può assorbire la storia visceralmente in ogni suo dettaglio. Lei è Film Promotion Coordinator Southern Europe per la company UCI Cinemas. Il suo ruolo l’ha supportata nel puntare l’attenzione sui figli di Hollywood? Il mio ruolo professionale mi ha dato il privilegio di vivere il cinema da addetta ai lavori. In questi anni ho vissuto esperienze straordinarie che sono state ispirazionali per il mio libro. Partecipare alle anteprime mondiali con le grandi star del cinema, condividere con i leader del mercato strategie e visioni del business per il lancio dei film di successo globale, mi ha dato la possibilità di comprendere fino in fondo il settore cinematografico. Ho potuto quindi raccogliere testimonianze e retroscena che non sono accessibili al pubblico e rivelano anche l’anima nera di questo mondo in evoluzione. Ad esempio nel romanzo il finanziere più potente del mondo hollywoodiano, si trova a Ryhad perché sta portando il cinema in Arabia Saudita, dopo trentacinque anni di chiusura delle sale cinematografiche. Questo processo elettrizzante l’ho potuto seguire realmente da vicino perché è stato proprio il nostro gruppo, AMC, a riaprire la prima sala a Ryhad nel 2018.
Livia Sambrotta è laureata in Lingue e Letterature Straniere con indirizzo spettacolo, dopo aver lavorato come redattrice per i magazine di promozione cinematografica 35mm e Primissima, nel 2015 pubblica il primo romanzo noir Amazing Grace (Tragopano Edizioni) e diverse short stories. Nel 2017 vince con un suo racconto il premio letterario Torinoir Memonoir 2017 del gruppo letterario fondato dall’autore Enrico Pandiani. Dal 2015 ha condotto diversi seminari di scrittura creativa a Milano. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo noir Tango Down (Edizioni Pendragon). Il romanzo è stato selezionato tra i finalisti al Festival Giallo al Centro Rieti e ha ricevuto il Premio Menzione Speciale al Festival Garfagnana in Giallo. Attualmente lavora a Milano per la company internazionale UCI Cinemas come Film Promotion Coordinator Southern Europe. Il suo ultimo thriller Non salvarmi (SEM Libri) ha vinto il Premio Selezione Bancarella 2021.
Le Comunarde si sono formate politicamente e pubblicamente in un contesto
storico che le negava proprio in quanto donne.
Quale idea di collettività propongono?
Le comunarde sono tante e diverse. Non
propongono un’idea univoca di collettività, né ricette politiche valide per
tutte e tutti. Sanno intessere storie e strategie di lotta alleandosi senza
annullarsi, rispettandosi nelle loro differenti visioni e genealogie politiche.
Non hanno una visione ideologica della società che vogliono contribuire a
creare. Rifiutano il potere, lo Stato, l’imperialismo, e ci restituiscono
un’idea plurale, contingente di politica: radicata nelle relazioni, nei
vissuti, che nasce nelle strade, negli spazi condivisi, fuori dai palazzi
governativi. Che si fa lottando, cantando, scrivendo, discutendo in assemblea,
e in mille altri modi. Le Comunarde sfuggono alle narrazioni misogine dell’epoca. Ebbene, quali
percorsi seguono per imporsi?
Non credo che “imporsi” sia il termine
più appropriato. Ciò che importa loro, in prima istanza, è svincolarsi,
“schivare”, quelle narrazioni. Hanno un obiettivo – creare una società nuova,
diversa, più giusta – e vogliono realizzarlo assieme. Si muovono su un piano
per certi versi inatteso, quello delle pratiche quotidiane e delle assemblee.
Non mirano a prendere il potere, a creare un governo, a istituire leggi:
vogliono esserci, ed esserci tutte intere. Vogliono che la loro parola politica
abbia valore, così come le loro decisioni collettive. Vogliono poter agire e
dare vita, nei fatti, concretamente, a una nuova società. Ma la società del
tempo dice loro cosa essere, a cosa aspirare, dove stare. Le fa madri o
puttane, vittime o assassine. Ne dequalifica il pensiero, la riflessione
collettiva e soprattutto cancella la portata politica della loro azione. Di
nuovo, come nel 1789, rischiano di essere lasciate sullo sfondo, fuori dalla
scena politica vera e propria. Questo perché una lunga tradizione di pensiero,
che risale almeno alla polis ateniese, vede le donne e il potere come piani
opposti e inconciliabili. Le comunarde dimostreranno che la politica è un
orizzonte più ampio del potere, e che non si esaurisce in esso. Come le
femministe italiane sottolineeranno a un secolo di distanza, “potere e politica
non sono la stessa cosa”. “Sante, puttane, furiose, sanguinarie, bestie, streghe, virago. Eppure,
nonostante questa fittissima cortina innalzata su di loro dallo sguardo
maschile, le comunarde oggi possono dirci e insegnarci davvero moltissimo”
Nell’anno del 150° anniversario quanto è attuale il loro messaggio politico?
Personalmente penso che la loro
esperienza abbia molto da insegnarci oggi, in tempi in cui le lotte femministe
si intrecciano con quelle di altre soggettività non eteronormate, creando
alleanze puntuali, contingenti e plurali. Ci insegnano a lottare insieme
nonostante le differenti genealogie politiche e le diverse esperienze verso un
obiettivo comune. Ci insegnano anche, però, che è fin troppo facile, nel
momento in cui si lotta insieme, dimenticarsi delle specifiche urgenze di ogni
soggettività o gruppo in lotta e cominciare a parlare per altrз. Ci insegnano
soprattutto che l’ideale non deve mai sovrascrivere la realtà dei vissuti e che
la politica si fa assieme, giorno per giorno, nelle pratiche e nel quotidiano.
Il saggio da Lei redatto rilegge l’esperienza della Comune di Parigi con
una visione femminista: “voglio rileggere questa esperienza a partire da una
postura femminista, incarnata e sessuata, lasciandomi orientare da chiavi
interpretative semplici: pratiche, alleanze, soggettività in conflitto, corpi,
relazioni, rapporti di genere, mutamento dell’immaginario.”
Quali sono le ragioni di tale approccio?
I femminismi mi hanno insegnato che
pretendere che il sapere non sia situato, ma che sia anzi oggettivo, razionale
e universale, e soprattutto che sia neutro, è una finzione che non solo
maschera la complessità del reale, ma che produce (e riproduce) oppressione. Il
sapere è un campo di forze, attraversato da numerose linee di potere. Nominare
il proprio posizionamento, e dunque la propria parzialità, orientando lo
sguardo verso ciò che quel sapere “scientifico” e oggettivo della modernità ha
lasciato in ombra in nome della “razionalità” – i conflitti, i corpi, i
vissuti, i rapporti tra i sessi – è in questo senso un atto radicale che libera
storie, relazioni e immaginari per tuttз. Louise Michel, Nathalie Lemel, Paule Mink, André Léo, Elisabeth Dmitrieff e
Victorine Brocher: figure antitetiche per molti versi.
Qual è il filo rosso che le accomuna?
Le comunarde hanno orizzonti politici,
genealogie, posizionamenti diversi. Lungi dal leggere la complessità come un
ostacolo o un elemento di difficoltà, le donne della Comune hanno saputo
pensare la politica come a un intreccio di relazioni, come un’alleanza che non
cancella, né assimila. Le accomuna la volontà di essere insieme, partecipare
alla Comune e alla creazione di una nuova società, dando priorità al
quotidiano, ai vissuti, alle urgenze concrete prima ancora che agli ideali astratti
o alle dinamiche classiche di potere, a cui sono scarsamente interessate.
Ripartono dalle esperienze, dalla materialità, dal fare assieme e immaginano un
mondo nuovo.
Federica Castelli, filosofa femminista e coordinatrice del Master in Politiche e studi di
genere dell’Università Roma Tre.
Il giovane e promettente
pittore Raffaello per approfondire la propria crescita culturale e artistica
(pur essendo già un artista affermato in Umbria) si trasferì per un breve
periodo a Firenze (1504-1508) per ammirare Leonardo e Donatello durante la
decorazione della medesima sala del Maggior Consiglio, e difatti, dedicò il suo tempo allo studio
della tradizione figurativa fiorentina. Durante il suo soggiorno a Firenze,
Raffaello, strinse amicizia con diversi artisti come Ridolfo del Ghirlandaio,
Antonio da Sangallo, Aristotele da Sangallo, Francesco Granacci e in breve
tempo riuscì ad ottenere numerosi incarichi da facoltosi cittadini come Lorenzo
Nasi (per il quale dipinse la Madonna del Cardellino) e Domenico Canigliari (per
il quale realizzò la Sacra Famiglia Canigiani). Il ritratto del facoltoso mercante
e illustre Mecenate Agnolo Doni, fu uno dei ritratti che Raffaello realizzò per
le famiglie dell’aristocrazia mercantile fiorentina. In questa opera l’artista
si rifà alla tradizione realistica e biografica più che psicologica del busto
fiorentino e si ispira ai modelli leonardeschi. Nella Madonna con il Bambino,
invece, applicò il nuovo principio di organizzazione formale con la nuova
flessibilità di ritmi compositivi suggeritagli da Leonardo. Mentre il tema sacro è quello in cui dedicò
maggiormente una grande ricerca di forme ed espressività. Per Raffaello queste
opere sono state il terreno di prova su cui si concentrano una chiara ricerca
di espressione, e così diede vita ad un proprio linguaggio figurativo.
Le varie tecniche artistiche di Raffaello
Nell’essenzialità
dell’impianto strutturale della Madonna del Prato (1506) l’organicità dello
schema piramidale stringe le nuove complesse articolazioni compositive in una
struttura bilanciata, conferendo all’immagine una nuova cinquecentesca
monumentalità. Le ricerche di Raffaello si articolano verso diverse direzioni:
nel dipinto della Madonna Esterhazy, Raffaello, è stato in grado di applicare
le tecniche apprese da Leonardo dando vita a diversi intrecci di movimenti e
donando all’immagine della Madonna l’espressione reale. Da lì a poco, Raffaello
abbandonò la tecnica appresa da quest’ultimo per attingere a una fermezza
monumentale (suggerita dalle opere di Michelangelo) assieme ad una ricerca di
naturalezza e armonia espressiva. Queste ricerche approfondite aiutarono il
pittore nell’evoluzione dello stile rinascimentale maturo.
Il principale modello per
le Pale d’Altare fiorentino del secondo decennio del secolo fu il dipinto della
Madonna del Baldacchino, grazie alla nuova ambientazione architettonica e al
respiro spaziale creato dalle figure scalate in profondità, Raffaello riuscì
a rendere intenso lo sguardo dei
personaggi religiosi dell’affresco, tanto trasmettere un grande senso di
naturalezza e umanità. Conclusa l’esperienza toscana, Raffaello si interessò
alla narrazione drammatica. Nel 1503 ricevette l’incarico dalle Monache del
convento di Sant’Antonio a Perugia di una Pala di Altare. Nel 1504 dipinse la
Madonna col Bambino e i Santi Giovanni Battista e Nicola. Nel 1505 si dedicò
all’affresco con la Trinità e Santi nella Chiesa del Monastero di San Severo (Perugia).
Da quel momento Raffaello era continuamente in viaggio per lavoro e nel 1505 partì per Urbino accolto alla Corte
di Guidobaldo da Montefeltro.
Sanzio, dipinse per il
Duca una piccola Madonna e tre tavolette come quella di San Michele e il drago,
un San Giorgio e il drago. Per alcune famiglie della borghesia medio-alta a
Firenze, Raffaello dipinse diversi affreschi di Madonna con bambino: la Madonna
del Cardellino e la Madonna del Belvedere e la Bella Giardiniera. Agnolo Doni,
la Dama col Liocomo e Donna gravida sono altri affreschi di Raffaello in cui è
presente un’evidente influenza di Leonardo. La pala Baglioni (1507) gli fu
commissionata da Atlanta Baglioni e destinata a un altare nella chiesa di San
Francesco al Prato a Perugia. Mentre la Madonna del Baldacchi fu l’opera con la
quale concluse la sua carriera artistica fiorentina (1507-1508). Nel 1508 il
giovane artista si trasferì a Roma in seguito alla convocazione del papa Giulio
II, il quale il suo intento era quello
di rinnovare, a livello artistico, la città e in particolare il Vaticano. Per
la decorazione dei nuovi appartamenti papali collaborarono diversi artisti come
il Bramantino, il Sodoma, Baldassare Peruzzi, Lorenzo Lotto e tanti altri. Il
papa rimase estasiato dal lavoro di Raffaello che decise di commissionargli
tutta la decorazione dell’appartamento. Raffaello in quegli anni si dedicò
anche alla realizzazione dei ritratti dando vita a nuove tecniche come nel ritratto
di Cardinale, oggi al Prado (1510-1511 )
il ritratto di Baldassarre Castiglione (1514-1515), il ritratto della Freda
Inghirami (1514-1516) e soprattutto con il ritratto di Giulio II che l’artista
manifestò tutto il suo nuovo studio di tecniche del ritratto. Le opere di
Raffaello comprendono un notevole numero di affreschi:
Ritratto di giovane donna, (1518-1519) olio su
tavola Strasburgo, Musée des Beaux-Arts. Santa
Margherita, (1518) olio su tavola, Vienna, Kunsthistorisches MuseumMadonna della
Rosa – Ritratto di Lorenzo de’ Medici
duca di Urbino (1518)olio su tela già Christie’s – Galleria degli Uffizi Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio
de’ Medici e Luigi de’ Rossi, (1518-1519) olio su tavola Firenze, Uffizi, Perla di Modena, (1518-1520) Modena,
Galleria Estense e tanti altri meravigliosi affreschi. A soli 37 anni Raffaello
morì ma nonostante la giovane età è stato uno degli artisti che hanno dato vita
alla storia dell’arte italiana.
Il percorso della protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si
serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine
adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore
attribuisce all’elemento della “memoria”? Si possono davvero chiudere i conti
con il passato?
Della memoria mi affascina la sua
illusorietà: non corrisponde mai a quello abbiamo vissuto, intendo a livello
emozionale. Per me dunque la memoria ha un valore solo relativo, mai assoluto:
guardo una foto e recupero il falso ricordo di un momento felice,
cristallizzato nelle pose plastiche e nei sorrisi richiesti dal fotografo. Ma
le mani intrecciate nelle fotografie si sciolgono repentine subito dopo lo
scatto: è quello il vero ricordo che la memoria dovrebbe recuperare. Invece non
è mai così. Ma paradossalmente, proprio la fallacia della memoria si trasforma
nel mio baule magico di scrittrice. Attraverso le storie ascoltate, i racconti,
gli album di fotografie, i vecchi filmini vado ad abitare pianeti e mondi che
non mi appartenevano e che diventano miei pur non avendoli mai vissuti. E sì,
si possono chiudere i conti con il passato. Avviene appunto quando se ne
ammette la sua imperfezione: quando riconosciamo ad esempio che i nostri morti
non erano così impeccabili come ci ostiniamo a descriverli, o quando abbiamo la
forza di ammettere con noi stessi che non si era più belli e più felici prima.
Siamo belli e felici anche ora, solo che non lo sappiamo.
“Le lesioni dell’anima” fa riferimento alle piccole increspature
dell’anima.
Le crepe possono essere foriere di benefici interiori, quantunque le ferite?
Le ferite si rimarginano, le crepe si chiudono.
È il come che fa la differenza, e questo “come” sta nel valore del tempo che ci
diamo per insegnarci la loro lezione. Delle volte siamo troppo frettolosi e
acceleriamo i tempi di guarigione; altre lo prolunghiamo eccessivamente come
quando ci scortichiamo volontariamente una ferita e la facciamo tornare a sanguinare.
Ciò vale anche per le crepe. Devono essere colmate, trovare quel materiale che
le riempia e le renda, in apparenza, di nuovo compatte. Il beneficio interiore
lo ricaviamo quando troviamo l’emozione giusta per riempire il vuoto che
sentiamo e ci diamo il tempo di trovarla senza sostituirla con palliativi che
anestetizzano l’anima.
Magia ed ascolto interiore paiono configurarsi come elementi focali per la
riscoperta dell’amore verso se stessi.
Come si coniugano?
Magia e ascolto interiore per me si equivalgono.
Mi spiego: quando impari amo a fare silenzio, a far tacere la nostra mente, il
mondo inizia ad apparire diverso. È apparentemente uguale a prima, è il nostro
sentire che fa la differenza. Si inizia a percepire il legame nascosto delle
cose, il filo rosso che unisce tutti gli elementi naturali. Ci sono momenti in
cui avverto una particolare vibrazione che mi indica che mi sto muovendo nel
modo giusto, o si manifestano delle coincidenze che altro non sono che il
legame nascosto tra ciò che si vede e ciò che è celato dalla nostra ragione. È
magia, e si manifesta solo quando ho saputo fare silenzio dentro di me.
Mizio ed Ada: legami, solitudini, ferite, volti incrociati casualmente.
Quale idea ha inteso veicolare delle relazioni interpersonali?
Nel corso degli anni, come dice lei, incontriamo
casualmente molti volti, molte anime. E veniamo a contatto per periodi più o
meno lunghi con altri percorsi, altre strade, altre esperienze di vita vissuta.
Ce ne appropriamo quando le sentiamo affini o ci allontaniamo quando non ci
corrispondono o quando non ci servono più. La maggioranza dei nostri legami è
data da persone che ci sono accanto per un tratto di vita e che poi prendono
altre strade, a volte con nostro rammarico, talaltre nella nostra più totale indifferenza.
E poi ci sono legami che esistono da sempre, da prima del tempo, patti
dell’anima che non si sciolgono ma che ad ogni nostra esistenza si rinnovano. E
badi bene, non parlo solo di legami romantici, anzi. Ecco, io credo che dal
primo vagito l’uomo si metta in cammino aprendosi alle esperienze terrene per
cercare le anime con cui ha stretto il patto prima di nascere. Nel mio libro
esprimo questa idea non solo attraverso le figure di Ada e Mizio, ma anche nel
legame di Ada con il figlio Francesco, anima che decide di non nascere, e nel
bellissimo rapporto di Mizio con la nonna Giovanna.
Le sue pagine conservano un’impostazione laica, tuttavia il focus attentivo
è puntato sulla spiritualità, vettore di un’umanità positiva.
Cosa l’ha indotta valicare i confini del pudore che protegge, solitamente,
l’animo umano, nella fattispecie muliebre?
La ringrazio per la domanda, che trovo davvero
appropriata, è un argomento che mi tocca molto, il legame tra la religione e la
spiritualità, e il cosiddetto sentire spirituale come un modo alternativo di
porsi. Ho sempre avvertito sin da piccola l’anelito alla ricerca di “altro”.
All’inizio trovavo risposte confortanti nella religione di cui mi affascinavano
le certezze dogmatiche, i riti, i mantra ripetuti, il raccoglimento collettivo.
Poi man mano che ho acquisito consapevolezza di me stessa, mi sono spostata: il
mio centro non erano più le sovrastrutture religiose, ma la mia cattedrale
interiore, la mia anima. E lì ho appreso e cerco di mettere costantemente in
pratica una delle azioni spirituali più importanti per me: il non fare di
castanediana memoria che è un invito all’astenersi per non creare debiti con il
karma, o cosa ancora più difficile per l’essere umano il fare senza partecipare
emotivamente. La nascita dei miei figli è coincisa storicamente con l’avvento
dei social, che non ha soltanto reso più veloce l’espressione del pensiero, e
più superficiale, ma ha avuto un dirompente effetto sulla modalità di
comunicazione tra persone. Tutto viene urlato, sputato fuori con rabbia, e
immediatamente dimenticato. Le parole sembrano non avere più valore, e invece
sono pietre, feriscono, fanno male. E da qui nasce la mia esigenza di
squarciare il velo del pudore e trasmettere il messaggio del silenzio e del non
fare, che nel libro viene simboleggiato dal ritorno di Mizio a Napoli, un
ritorno che non viene annunciato: Mizio si mette in paziente attesa e lascia
che sia l’anima di Ada a trovarlo. Maria Rosa Bellezza è avvocato, romanziera.
Uomini e merci tra Sicilia e Bruzio. Economia, scambi commerciali e interazioni culturali (IV sec. a.C.-metà II sec. d.C.)
Fabrizio Mollo è Professore Associato e insegna
Topografia Antica e Archeologia delle Province Romane presso il Dipartimento di
Civiltà Antiche e Moderne dell’Università degli Studi di Messina. È stato
collaboratore della Soprintendenza Archeologia della Calabria per un ventennio.
Autore di oltre centocinquanta pubblicazioni scientifiche (libri, articoli,
Atti di convegno) nelle sedi editoriali più prestigiose; ha partecipato a decine
di convegni scientifici nazionali e internazionali in Italia ed in Europa.
Svolge attività di ricerca in Calabria, Sicilia, occupandosi di popolazioni
indigene (Enotri, Lucani e Brettii). È componente dal 2014 della Missione
Archeologica Italiana presso Skotoussa, in Tessaglia–Grecia. Ha scavato,
pubblicato e si è occupato tra gli altri dei contesti di Tortora (l’antica
Blanda), di Serra Aiello-Campora S. Giovanni (l’antica Temesa), Licata
(l’antica Phinziade), S. Maria del Cedro (l’antica Laos) e Cerillae, curandone
in alcuni casi anche i progetti scientifici e didattici dei relativi Musei. Ha
scavato, pubblicato e musealizzato i contesti archeologici dell’area del Medio
Tirreno cosentino (da Belvedere Marittimo a Paola), realizzando il Museo dei
Brettii e del Mare di Cetraro.
Economia, scambi commerciali e interazioni culturali
tra il IV sec. a.C. e la metà del II sec. d.C.. Ebbene, quale metodologia si
adopera per ricostruire la storia economica e le relazioni commerciali tra
Magna Grecia e Sicilia ed in particolare tra la Calabria e la Sicilia?
Il volume utilizza lo studio dei
materiali e delle merci per ricostruire le complesse relazioni tra Magna Grecia
e Sicilia, per leggere le dinamiche relazioni, i rapporti tra uomini attraverso
la circolazione dei beni stessi, contenuti nelle anfore da trasporto, ma anche
attraverso le cosiddette merci di accompagno, ceramiche figurate e fini,
elementi che rispondono a mode e a gusti estetici e che completano i carichi
onerari, producendo importanti interazioni culturali. Chi sono i protagonisti di siffatte relazioni commerciali?
I protagonisti sono tutte le
popolazioni che vivono in Magna Grecia ed in Sicilia tra IV sec. a.C. ed età
imperiale: innanzi tutto i Greci, eredi della colonizzazione e protagonisti
della vita politica ed economica della Megale Hellas per secoli, i Cartaginesi,
che occupano la cuspide nord-occidentale della Sicilia, protagonisti in Sicilia
e lungo le rotte commerciali per secoli, le popolazioni italiche (Campani,
Sanniti, Lucani, Brettii), protagonisti in Magna Grecia, con il significativo
ruolo di mercenari, che intrattengono rapporti e relazioni con il mondo
cartaginese. Alla fine, con l’affermazione di Augusto, giunge a compimento il
processo di conquista messo in atto dai Romani, che lentamente si affacciano
dopo le guerre puniche nel Mediterraneo centro-meridionale, assurgendo a
protagonisti in ambito politico, ma anche economico.
Le anfore da trasporto attestano la circolazione commerciale di due beni in
particolare: olio e vino. Dal punto di vista sociale, chi ne sarà beneficiato ed in che modo muteranno
usi, costumi e consuetudini?
Le dinamiche politiche e sociali,
raccontate nella loro dinamica dimensione evenemenziale, rappresentano anche
l’affermazione di nuove prospettive economiche e commerciali, in autonomia
rispetto alla Grecia. I centri di Bruzio e Sicilia si specializzano in numerose
produzioni ceramiche e promuovono la circolazione commerciale di due grandi
beni, quali l’olio ed il vino. Le direttrici commerciali sono leggibili proprio
attraverso la circolazione delle anfore da trasporto. Attraverso la produzione
di questi beni si affermeranno le grandi élites sociali che, a partire dalla
tarda repubblica, saranno impegnate direttamente nelle contese politiche, nei
processi di conquista e nello sviluppo delle politiche coloniali e municipali
messi in atto da Roma. Lo studio delle produzioni ceramiche permette di
evidenziare anche i profondi mutamenti negli usi e nei costumi, nelle abitudini
alimentari, nelle modalità di circolazione dei beni di consumo. All’olio e al
vino si affiancano anche altre produzioni tipiche, come le salse di pesce, la
pece della Sila, l’allume di Lipari, la frutta secca, il miele. L’esame dei relitti calabresi e siciliani manifesta l’essenzialità della
ricostruzione delle rotte di cabotaggio.
Quali porti e siti strategici tocca la sua disamina?
Il vettore dei processi economici tra
uomini delle varie sponde del Mediterraneo è il mare: attraverso le anfore da
trasporto ed il loro contenuto, cercando di ricostruirne le rotte, soprattutto
di cabotaggio (come dimostra l’esame dei relitti calabresi e siciliani
raccontati nel libro), si cerca di delineare la storia economica di aree in
epoca antica floride e baricentriche nell’economia del Mediterraneo. L’analisi
interessa porti e siti strategici lungo le rotte (Napoli, Poseidonia, Velia,
Hipponion, Rhegion, Messana, Panormos, Lilibeo). Attraverso continui percorsi
di cabotaggio, di sosta nei vari porti, per imbarcare alcune merci e sbarcarne
altre, si componeva un melting pot mediterraneo che restituisce una dimensione
commerciale globalizzata, di circolazione di beni primari ma anche secondari,
elementi propulsivi dell’economia dei centri costieri, soprattutto lungo le
coste tirreniche. Le Eolie, le Egadi e Pantelleria sono state snodi e crocevia commerciali
basilari.
In qual misura hanno inciso nelle complesse dinamiche dei rapporti tra Roma e
Cartagine?
Il volume restituisce il giusto peso
alle Eolie, alle Egadi e a Pantelleria, che sono state snodi e crocevia
commerciali fondamentali in ogni epoca, ma anche lo sfondo di eventi storici
importanti, soprattutto nelle complesse dinamiche dei rapporti tra Roma e
Cartagine.
Roma, da potenza politica, economica e militare, costruisce la sua fortuna su
di una sapiente politica di rapporti e di relazioni, non sempre e non soltanto
di natura militare e bellica, anche frutto di alleanze, di patti e di
affiliazione (le famose civitates foederate, liberae ac immunes raccontate da
Cicerone nelle Verrine per la Sicilia, città legate da un foedus, da un patto
di amicizia, autonome), di scelte ponderate di mediazione. La mediazione
interessa direttamente anche gli aspetti economici e sociali e vede Roma al
centro di significative politiche commerciali. E le aree del Bruzio e della
Sicilia diventano terreno di interessi economici per la propria classe
politica, per i senatori e per i cavalieri, che coltiva i propri affari anche
in Magna Grecia e Sicilia, favorendone uno sviluppo armonico e partecipato
dell’Urbe. Insomma, ancora una volta, abbiamo la prova del ruolo centrale del
Mezzogiorno, ponte e luogo di relazioni umane, culturali, economiche con tutti
i popoli del Mediterraneo (Greci, Romani, Cartaginesi e tanto altro), dal quale
dovremmo partire, anche nel recovery plan, per riempire di contenuti
validi e sostenibili dal punto di vista economico e ambientale la proposta di
sviluppo di tali aree.
Raffaello Sanzio nasce a Urbino il 28 marzo del 1483 ed è stato uno dei
pittori e architetti più celebre del rinascimento italiano. La formazione di
Raffaello avvenne a Urbino nella bottega di suo padre Giovanni Santi (anch’egli
pittore) dove ebbel’opportunità di entrare in contatto con l’ambiente della corte dei
Montefeltro e non solo, grazie sempre a suo padre, aveva accesso alle sale del
palazzo Ducale per avere la possibilità di studiare le opere di Piero della
Francesca, Pedro Berruguete e tanti altri artisti. Nella bottega del padre
Raffaello apprese le prime tecniche artistiche di base (come la tecnica
dell’affresco) ma molto presto, quando il giovane Raffaello aveva solo 11 anni, il padre morì.
Questo tragico avvenimento affrettò i tempi per la crescita sia
personale sia dal punto di vista artistico di Raffaello e infatti, non trascorse
molto tempo quando decise di aggiornare la tecnica di Giovanni (considerata
purtroppo mediocre) attraverso lo studio dei più affermati pittori umbri
contemporanei: Perugino, Pinturicchio, Signorelli. Da Pietro Perugino ereditò la versione ideale e
armonica e
studiò i suoi processi
di organizzazione dell’immagine, fino ad assimilare completamente il linguaggio
figurativo, per questo motivo, per Raffaello, Pietro rappresentava un
fondamentale punto di riferimento.
L’arte di Raffaello è considerata innovativa, il suo innato talento e
la sua sensibilità lo indussero a uno sforzo di superamento della stessa
maniera peruginesca grazie anche agli apporti di altre tendenze artistiche.Ma fu grazie alla sua prima commissione (lo stendardo
della santissima Trinità realizzato per una confraternita locale) che Raffaello,
all’età di sedici anni, si trasferì a Città di Castello. Questa meravigliosa
opera presenta una innovativa freschezza e questo gli diede l’opportunità di
divenire ben presto un pittore di fama. Da lì a poco, Raffaello ottenne diversi
incarichi tra cui la Pala del beato Nicola da Tolentino (ottenuto dalle monache
del monastero di Sant’Agostino – 1500). “Magister Rafael Johannis Santis de
Urbino” venne così menzionato Raffaello nel contratto, lasciando tutti
sbalorditi e increduli dal fatto che un giovane artista diciassettenne potesse
essere già ritenuto autonomo e che avesse già terminato il suo apprendistato.
La Crocifissione Gavari e lo di Sposalizio della Vergine, sono le altre due
opere che Raffaello realizzò a Città di Castello. In queste opere si notano già
le espressioni del suo nuovo stile (1502- 1503). In breve tempo la carriera di
Raffaello fu rapida e in ascesa e a Perugia gli vennero commissionate tre Pale
d’Altare (Pala Colonna per la Chiesa di delle Monache di Sant’Antonio; La Pala degli Oddi per San Francesco al Prato e
un’Assunzione della Vergine per le Clarisse di Monteluce.) Ancora, diversi
dipinti di Madonna con il Bambino risalgono a quelle date (Madonna Diotallevi,
Madonna col Bambino tra i Santi Girolamo e Francesco e Madonna Solly). A Roma,
nel 1503 Raffaello entrò in contatto con la cultura figurativa classica, mentre
a Firenze vide per la prima volta le opere di Leonardo da Vinci e a Siena
collaborò con Pinturicchio per la preparazione dei cartoni per gli affreschi
della libreria Piccolomini. La tavola con lo Sposalizio della Vergine è l’opera
che mostra chiaramente tutto lo studio appreso di Raffaello da Perugino (1504).
Una straordinaria evoluzione intellettuale e stilistica crebbe in Raffaello in
seguito all’apprendimento delle tecniche delle opere di Leonardo e
Michelangelo. Per questo motivo, in soli quattro anni, Raffaello riuscì ad accrescere enormemente, il
linguaggio figurativo fino a dominare con sicurezza e dimestichezza la varietà
delle influenze del vivace contesto fiorentino di primo Cinquecento e a divenire uno dei protagonisti dello
stile rinascimentale maturo.
Donato di Niccolò di Betto Bardi, detto Donatello, (per il suo animo gentile e sensibile) è stato uno scultore, architetto e pittore italiano.
Donatello nacque a Firenze nel 1386 e sin dalla tenera età aveva dimostrato la sua passione per l’arte attraverso il disegno. Donatello ha dato vita (assieme a Brunelleschi e Masaccio) ad una nuova arte del Rinascimento elaborando nuove forme moderne come la riscoperta della realtà naturale e l’assunzione delle forme antiche. Ancora, rinnovò i metodi della scultura eliminando quelle del tardo gotico e diede vita alla tecnica dello stiacciato, sperimentando varie tecniche come marmo, pietra, terracotta e bronzo in modo da non impedire la creazione di uno spazio illusorio. Ma ciò che ha fatto la storia dell’arte del Rinascimento è stata la sua grande capacità di rendere le opere realistiche donando quel senso di umanità ai suoi capolavori.
Donatello, dal 1040 al 1407, fu a fianco di Ghiberti apprendendo da quest’ultimo i segreti della fusione del bronzo e la passione per la scultura a rilievo. Da lì a poco svolse il proprio apprendistato come scultore a Firenze alle dipendenze dell’Opera del duomo. Donatello fu anche amico e collaboratore di Brunelleschi e insieme a lui studiò le opere classiche e dal 1402 al 1404 si recarono insieme nella capitale italiana. Sono due i primi lavori artistici di decorazione scultorea più celebri di Donatello a Firenze: il Duomo (la facciata e la porta della Mandorla) e le nicchie di Orsanmichele. Eppure, sono le quattro sculture giovanili che mostrano il precoce trapasso dalle forme del gotico cortese a una matura espressione umanistica: Davide del 1408, statua del profeta Abacuc (zuccone 1423- 1425), San Giovanni Evangelista (1409- 1411), San Giorgio (1417) . Per il David, (Santa Maria del Fiore – trasportato nel 1416 a Palazzo Vecchio) l’artista seguiva ancora un canone di bellezza garbato, dai tratti gentili e delicati e infatti, alcune delle sue meravigliose sculture sono ancora legate a stilemi gotici ma che al contempo (i movimenti fisici del corpo della scultura e quello delle mani) indicano un attento studio dal vivo. Il san Giovanni Evangelista, (scultura destinata a una nicchia collocata a lato del portale centrale di Santa Maria del Fiore) invece, è intenta a trasmettere una sensazione di forza trattenuta: il volto del santo è basato su un principio gotico di idealizzazione, le spalle e il busto si conformano in un volume geometrico. E’ evidente che l’artista ha voluto inserire, in uno spazio costruito attraverso la prospettiva, la ricerca di una nuova rappresentazione dei corpi. Tuttavia, è con il San Giorgio (commissionata per una delle nicchie di Orsanmichele) che Donatello supera davvero gli elementi gotici. Mentre con Albacuc, (1423-1425 per il campanile di Giotto) riprende lo stile antico che si interseca con uno stile realistico e naturale: panneggi elaborati con estrema cura dei dettagli, caratterizzando i profeti del campanile secondo costumi e positure riprendendo il vecchio modello classico.
Nella tecnica dello stiacciato, ideata da Donatello, traspare, in maniera molto chiara, il desiderio di trasferire nella pietra le caratteristiche della pittura: la modulazione delle ombre e delle luci si ottengono grazie ad un effetto di spessore atmosferico e a quel senso di prospettiva aerea acquisite di conseguenza alla prospettiva di Brunelleschi. La tecnica dello stiacciato è un rilievo ottenuto con minime variazioni di spessore rispetto al fondo, inserendo il porticato in prospettiva, creando così effetti sorprendenti di profondità. In sostanza, Donatello era capace di assumere una tecnica nuova per dare un tono espressivo adatto a conseguire l’effetto che desiderava dare in quel momento, diventando oramai pienamente padrone della costruzione prospettica e riuscendo a convergere delle ortogonali di profondità verso un unico punto di fuga. Nel pannello bronzeo del Banchetto di Erode per il fronte battesimale del battistero di Siena (1425-1427) lo scultore applicò la tecnica giusta che richiedeva l’opera, rinunciando allo stiacciato. Nel David bronzeo (1430 – commissionatogli da Cosimo de’ Medici) interpretato come raffigurazione di Mercurio che contempla la testa recisa di Argo, è un capolavoro che rivela un immenso senso realistico. In quello stesso periodo eseguì l’incorniciatura architettonica del tabernacolo dell’Annunciazione in Santa Croce. In questa opera, Donatello, dimostra tutta la sua libertà culturale attraverso un rinnovato interesse classicistico e la profonda, quanto intensa, analisi prospettica delle figure.
Nel 1433 fino al 1438 realizza la sua più grande opera ardita di contaminazione culturale, la grande Cantoria. Un monumento di una sorprendente modernità nato dalla collaborazione di motivi bizantini e duecenteschi, classici e paleocristiani. Dal 1443 fino al 1453, Donatello si trasferì a Padova dove affermò la sua fama di scultore dei suoi tempi grazie anche alle numerose opere eseguite nella città veneta: il Monumento equestre a Erasmo da Narni detto il Gattamelata e l’altare maggiore della basilica di Sant’Antonio. Erasmo da Narni, detto il Gattamelata, era un uomo d’arme al servizio della Repubblica veneta, morì nel 1443 e il monumento che lo ricorda fu affidato a Donatello. Ma per la novità della creazione di Donatello, in rapporto al ruolo sociale del personaggio cui il monumento era stato dedicato, l’opera necessitò di un apposito beneplacito concesso dal Senato veneto. Poco tempo dopo, Donatello lavorò assieme ai suoi collaboratori alle statue e ai rilievi dell’Altare maggiore della basilica padovana del Santo (1446- 1450). Progettata, anche questa scultura da Donatello, erano riunite entro una struttura architettonica. Ma la più interessante, tra le sette statue e tutto tondo è, senza dubbio, quella della Madonna con il Bambino. La Vergine è ricca di particolari meravigliosi e non solo, la statua della Madonna con il Bambino era stata pensata per una visione frontale e quindi trattata come un rilievo monumentale.
Gli ultimi anni della carriera artistica di Donatello si svolsero a Firenze, dove indulgeva a un’accentuata religiosità che spingeva le opere a vertici di estrema drammaticità. Come nel Martirio di san Lorenzo dove la cubatura prospettica dello sfondo e il punto di vista basso concorrono alla forte emotività della scena. La carriera artistica di Donatello è stata lunga, soddisfacente e molto intensa tanto quanto le sue numerose e meravigliose opere d’arte.
Tommaso di Ser Giovanni di Mòne di Andreuccio Cassài, (detto Masaccio) nasce a San Giovanni Valdarno il 21 dicembre del 1401. Masaccio, pittore italiano, è stato il primo rivoluzionario della pittura del Rinascimento, il primo ad aver cercato di trasporre, in campo pittorico, gli ideali laici, classicistici e razionali dell’architetto della cupola (Filippo Brunelleschi).
La carriera artistica di Masaccio fu molto breve ma allo stesso tempo, però, è paragonabile a quella di pochissimi pittori nella storia dell’arte occidentale. L’artista, segnò un preciso spartiacque tra fasi storiche diverse, (nella storia dell’arte), spostando così in avanti e con improvvisa accelerazione il confine tra gli innovatori e i ritardatari.
Masaccio aveva dato alla pittura una nuova realtà: la raffigurazione dell’uomo come individuo reale, dotato di sentimenti e passione terrene, di un corpo solido e naturale fondato sullo studio del vivo e costruito in base alle regole della rappresentazione prospettica dello spazio inventate da Filippo Brunelleschi. La collaborazione con Masolino fu un’associazione alla pari tra due pittori maturi, un sodalizio basato sulla comune provenienza del Valdarno quella della collaborazione con Masolino da Panicale (pittore ancora legato al gusto tardogotico) che offrì a Masaccio l’opportunità di manifestare il suo genio entro composizioni di largo respiro.
Le opere di Masaccio risalgono al 1424 e il 1428 e fu proprio grazie a Masolino che riuscì a dare vita a una pittura di tipo completamente nuovo, riuscendo a liberarsi da quel gravoso retaggio. Questa umanità è inserita in un nuovo ideale pittorico basato sulla razionalità di cause ed effetti e sull’essenzialità e la concentrazione espressiva. Difatti, il Rinascimento nacque con l’aspirazione di riscoprire l’uomo e la natura. I due intraprendenti artisti erano orientati soprattutto nella ricerca che applicasse leggi oggettive, scientifiche che dessero corpo nelle arti visive.
Masaccio fu in grado di rivoluzionare interamente la pittura in breve tempo e non solo, (perché non si trattava del solo cambiamento tecnico della prospettiva) una volta terminato il dipinto, pareva davvero avesse scavato un’apertura nel muro grazie alla tecnica realistica che aveva realizzato. Pareva che i personaggi parlassero, fossero reali. Le opere Nel Trittico con Madonna in trono e santi della chiesa di San Giovenale e Cascia (Raghello) si delinea chiaramente la nuova poetica di Masaccio; l’intero polittico è unificato prospetticamente dal convergere verso un unico punto di fuga, delle linee del pavimento, in tutti i pannelli. Mentre i santi sono già figure solide, caratterizzate psicologicamente e rigorosamente scalate in profondità. Nonostante Masolino fosse più esperto, più famoso e avesse quasi il doppio dell’età di Masaccio, si era lasciato convertire dalle ragioni (molto convincenti) e dalla buona pratica e dalle nuove idee del suo collaboratore. Nell’opera Sant’Anna con la Madonna, il Bambino e angeli degli Uffizi (1424) è nota la collaborazione di Masaccio e Masolino. Il dipinto rappresenta la diversità di due stili e delle sue diverse epoche storiche, (Medioevo e Rinascimento). Masolino diede forma alla figura di Sant’Anna e agli angeli ma il nuovo stile di masaccio fu in grado di rompere l’unità del dipinto: l’espressione della Vergine dipinta dal giovane artista è solida come mai prima d’ora era stata, la sua espressione è ferma e consapevole ma allo stesso tempo dolce e aggraziata. “Vive et vere” era la poetica che Masaccio volle approfondire nel polittico eseguito nel 1426 (Chiesa pisana del Carmine). La Vergine s’incurva come a formare un bozzolo per proteggere il bambino. Mentre il suo trono è definito prospetticamente con un punto di vista ribassato, in relazione alla posizione reale dello spettatore. La stessa visione dal basso verso l’alto fu introdotta per la cuspide del polittico. (Crocifissione). Nel grande affresco della Trinità (1426. 1428 chiesa di Santa Maria Novella) racchiude tutta la nuova arte di Masaccio, considerato uno dei più importanti dipinti in cui le regole della prospettiva furono messe in pratica per dare un senso di profondità su una superficie piatta. Il giovane artista realizzò l’affresco senza scorci e senza variazioni di scala, in una visione frontale, attenendosi alle regole prospettico-illusionistiche. La Trinità è stata definita “un clamoroso manifesto rinascimentale entro la gotica Santa Maria Novella” poiché fu la prima volta, nella storia della pittura cristiana, in cui le effigi di persone reali assumono tanta rilevanza entro un dipinto religioso. Altri dipinti in cui sono chiare le nuove tecniche di Masaccio sono i riquadri delle storie di San Pietro, affrescate a Firenze in una cappella della chiesa del Carmine. Per dare verosimiglianze alle architetture, per attualizzare le storie sacre tramite l’inserimento di figure contemporanee, Masolino cercava, con molta passione e perseveranza, e soprattutto armandosi di tanta umiltà, di imparare dal suo compagno di lavoro, e infatti nel riquadro della Resurrezione di Tabita e risanamento dello storpio Masolino, cercò di impostare una scena prospettica secondo i dettami del suo stimatissimo collaboratore. Masaccio intervenne per aiutare Masolino e per terminare l’affresco. Le figure erano colme di gravità antica, ben armonizzate con lo sfondo, ricche di luce per trasmettere allo spettatore pace e serenità. Masaccio morì a Roma nel giugno del 1428 a soli 27 anni.
Alessandra Federico
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