Depressione post partum: la felicità di un bambino è il riflesso della serenità della madre

“ Mi sentivo come se mi avessero strappato via la mia vita, la mia libertà. Credevo di non poter mai più occuparmi di me, che sarei diventata una di quelle mamme che si trascurano e finiscono per diventare depresse. Da quel momento in poi capii che non ero più solo io, ma un continuo di me di cui avrei dovuto occuparmi per tutta la vita perché quel frugoletto me la stava totalmente stravolgendo  ed io non ero pronta a lasciarglielo fare”

La depressione post partum si presenta quando la mamma non è pronta ad interpretare il ruolo. Questa mancata prontezza nel divenire madre può suscitare in lei sentimenti quasi di odio nei confronti del piccolo: la forte percezione di rifiuto del proprio figlio dettata dalla paura e dalla sensazione che le stia rubando  la vita, non solo. Questo accade anche e soprattutto quando una donna vive di insoddisfazioni personali: traumi del passato e infelicità potrebbero essere una delle cause per cui, inconsciamente, possa provare questo negativo sentimento, credendo, inoltre, che il bambino sia il motivo dei suoi insuccessi o della fine della sua gioventù.

La realizzazione personale è fondamentale per avere una sana quanto giusta visione delle cose e della vita per poter dare, quanto più possibile, la giusta educazione per assicurare un futuro sereno al proprio figlio. Un altro fattore che potrebbe entrare in gioco per chi non è ancora pronto a prendersi cura di qualcun altro e non più solo di sé stesso, è la difficoltà nel  riuscire a distinguere la voglia di avere un figlio dettata dall’idea piacevole di costruire una famiglia ed essere indipendenti, dalla vera vocazione e desiderio di diventare genitori, in questo caso consapevoli del fatto che, la propria vita dal quel momento in poi subirà un notevole cambiamento. Ma per una donna il semplice fatto di essere riuscita a creare un’altra vita dovrebbe essere sufficiente per provare automaticamente amore incondizionato verso il proprio figlio? Si sa, resterà sempre la più grande gioia che una donna possa provare nella vita, ma alle volte, però, può accadere che non appena partorisce il primogenito, potrebbe iniziare a provare un forte desiderio di evadere lontano dal piccolo rischiando, di conseguenza, di lasciargli seri danni permanenti per la sua crescita.  Diciamo che, per viverla al meglio, non  bisogna affrontarla come una condanna, come un qualcosa che ci toglie la libertà, bisogna, al contrario, prendersi più cura di sé stesse, perché il benessere del proprio figlio è il riflesso della serenità e felicità della madre: una mamma serena, che si prende cura del suo aspetto estetico, che coltiva i propri interessi, una donna soddisfatta di sé sarà una madre maggiormente amorevole, perché bisogna avere tanta cura di sé prima ancora di prendersi cura del prossimo, e ancor di più quando si tratta del proprio bambino. Ricordiamoci, inoltre, che  la vita di una donna non finisce quando diventa mamma. Potrebbe iniziare una seconda quanto piacevole esistenza.

“Stavo rischiando di perdere i momenti più belli della mia vita, col tempo ho finalmente capito che per dare amore devo amare me stessa”. Con queste parole, Milena, una giovane madre di 26  anni napoletana racconta la sua esperienza con la depressione post partum.

Milena, durante o dopo il parto hai iniziato a sentire queste sensazioni negative?

Subito dopo aver partorito. Non riuscivo a tenere mio figlio tra le mie braccia. 9 mesi trascorsi nell’ovatta. Coccolata da mio marito, da tutta la mia famiglia e anche dalla sua. Non eravamo più nella pelle quando i ben 3 test di gravidanza dicevano che aspettavo un bambino da 5 settimane. E così da quel momento non abbiamo fatto altro che comprare tutine, culla e tutto ciò che potesse intrattenere la nostra euforia nell’attesa dell’arrivo di Leonardo. Non vedevo l’ora di tenerlo tra le mie braccia. Però poi come si può arrivare a sentire sentimenti di odio nei confronti dei propri figli una volta venuto al mondo? Eppure lo desideravo come poche cose nella mia vita ho potuto mai desiderare così. Ma una volta partorito mi è crollato il mondo addosso.  Non so spiegare come sia stato possibile ma non riuscivo a tenerlo in braccio ne ad allattarlo. I pensieri che formulava la mia mente erano brutti e negativi nei suoi confronti tanto da farmi spaventare  e farmi arrivare ad odiarlo, ma soprattutto ad odiarmi.

Come hai affrontato tutto questo?

Sono andata via di casa per qualche giorno. Nessuno riusciva a trovarmi e lo so che ho fatto l’errore più grande della mia vita perché mio figlio ne subirà le conseguenze ma per me era l’unica cosa da fare in quel momento altrimenti sarei finita per odiarlo davvero. Non riuscivo a guardarmi allo specchio perché quelle brutte frasi che sentivo uscire dalla mia bocca inconsapevolmente, mi stavano lentamente ammazzando.  Io non solo non riuscivo a dare affetto, ma sentivo un sentimento di odio nei confronti di mio figlio, non lo volevo. Avrei voluto tornare indietro per non concepirlo e più la mia testa pensava questo più stavo male, come se qualcuno pensasse al posto mio.  Pensavo che fosse una delle sensazioni più brutte mai provate e che forse, per tanta gioia provata durante la gravidanza era questo il prezzo da pagare? Non mi riconoscevo perché mai nella vita avevo provato tanto rancore verso qualcuno e mai mi sarei aspettata che se mai l’avessi provato, sarebbe stato verso mio figlio, verso la persona che più avrei dovuto amare al mondo.

 Ti sei fatta aiutare da qualcuno?

Dicono gli psicologi che quando inconsciamente si provano questi sentimenti negativi per il primo figlio, è perché forse non si è pronti a dover dedicare la tua vita ad un’altra persona. Diciamo che, almeno per i primi tempi, o, per i primi anni addirittura, ci si annulla quando si mette al mondo un bambino. La tua priorità diventa lui e sacrificare parecchie cose della tua vita diventa d’obbligo. E forse a questo io non ero pronta, mi piaceva l’idea di un bimbo tutto mio, di una famiglia tutta mia e forse sono stata anche troppo precipitosa e un po’ ancora infantile da non capire che avere un bambino tutto mio non sarebbe stato come quando giocavo a mamma e figlia a 8 anni o come quando ti prendi cura del bambino di tua sorella per qualche ora. Avere un figlio proprio significa prima di tutto riuscire a guardare la vita con altri occhi, attraverso i suoi, magari per comprenderlo al meglio.  Essere pronta a cambiare programma al momento per lui, a stravolgere i tuoi piani da un momento all’altro, perché lui è la cosa che più conta al mondo. Mio figlio è arrivato nel momento in cui avevo deciso di iscrivermi all’università ed è forse per questo che lo vedevo come il ladro della mi vita.

Adesso come vivi il rapporto con tuo figlio?

Ho faticato tanto per arrivare dove sono ora: mi sono avvalsa dell’aiuto di una psicanalista e insieme abbiamo trovato la strada giusta da intraprendere e mi ha accompagnata per parecchi mesi, fino a quando non sono stata pronta ad incamminarmi da sola. Ad oggi l’ho superato alla grande tanto che abbiamo ben 3 bambini e con gli altri due parti non ho vissuto questo dramma. Siamo arrivati alla conclusione che allora non ero pronta a tutto ciò che stavo vivendo e che avrei dovuto contemporaneamente realizzare i miei sogni. Con l’aiuto di mia madre e di mia suocera e non lo nego di una babysitter ho avuto l’opportunità di studiare e tra meno di un anno mi laureo. Credo ci voglia solo tanto coraggio e la forza di capire che nella vita una cosa non esclude l’altra perché una madre può anche essere una donna in carriera.

Alessandra Federico

Manuela Diliberto: L’oscura allegrezza

Manuela Diliberto è nata a Palermo e vive a Parigi dove si è occupata di archeologia e storia dell’arte antica fino alla pubblicazione del suo primo romanzo, “L’oscura allegrezza” (La Lepre edizioni, 2017). Lavora attualmente ad un libro di interviste e ritratti fotografici a personaggi che hanno fatto scelte difficili e ad un nuovo romanzo ambientato a Parigi durante gli attentati terroristici del 2015.

I rapporti dell’Europa con l’Islam, il dialogo interreligioso, la questione femminile e l’impatto degli stereotipi di genere sulla società occidentale, sono fra i principali temi della sua inchiesta che è, in primo luogo, esistenziale.

Il suo romanzo ha una costruzione “a specchio”. Quanto diverge dal genere codificato dalla tradizione e qual è la tecnica che ha adottato?

Ma penso che in fin dei conti diverga ben poco. Assieme alla narrazione intimista in prima persona, il cambio narrativo di prospettiva mi pare sia un tratto caratteristico della letteratura degli anni 90-2000. Non so perché mi viene subito in mente George R. R. Martin con A Song of Ice and Fire in cui la storia viene raccontata dai singoli protagonisti in capitoli che portano ognuno il nome di uno di loro. In quel caso, più che di costruzione a specchio si può parlare di costruzione a specchio frantumato. Ma gli esempi sono numerosi e non solo in letteratura: uno per tutti nel cinema è Pulp Fiction, del 1994, che rappresenta il racconto cinematografico scomposto per eccellenza.

Alla fine dell’800 i valori della società borghese hanno cominciato a svuotarsi di significato, di cifre positive, limitandosi ad esprimere i termini della crisi di una società. Nei primi decenni del ‘900 scrittori come Svevo e Pirandello o Kafka e Joyce hanno introdotto il conflitto interiore nel tessuto del romanzo. La lotta ha smesso di essere dell’individuo contro la società e ha cominciato ad essere dell’individuo contro se stesso, dando il via ad una società della crisi. Tutti imbrigliati in questa crisi interiore, molti scrittori della fine del ‘900 hanno frantumato, scomposto, sminuzzato i termini di tale conflitto inserendolo in una compagine di punti di vista individuali. Questo infittirsi dell’introspezione messa alla prova dal confronto con quella altrui e al tempo stesso con lo sguardo inevitabilmente critico del lettore (o dello spettatore), personalmente mi esalta. Dopo aver dato voce ad entrambi perché riportassero ognuno a modo proprio gli stessi fatti, mi ha entusiasmato sapere quali lettori abbiano simpatizzato con Giorgio e quali con Bianca.

A Game of Thrones, il primo tomo di A Song of Ice and Fire, è uscito nel 1996, il periodo in cui ho cominciato a formulare la struttura de L’Oscura allegezza. Nel bene o nel male siamo tutti figli del nostro tempo…

L’oscura allegrezza: quali sono le ragioni insite nella vicenda narrata sottese a tale ossimoro?

L’oscura allegrezza non era il titolo che avevo scelto io. Dovendo sceglierne un altro, in effetti, l’ossimoro mi era parso d’obbligo. E’ una delle mie figure retoriche preferite perché valorizza le infinite sfumature della realtà che se tale, è plurima. Il contrasto dell’ossimoro nel titolo esprime di certo quello legato al momento storico, vera e propria cesura a cavallo fra due epoche, ma soprattutto quello esistenziale del protagonista in conflitto con se stesso e in contrapposizione insanabile e dolorosa con la protagonista. E poi, siamo onesti, può esistere mai un’allegrezza che non sia passata prima attraverso l’oscurità?

I capitoli del testo sono intitolati in lingua latina e lingua francese. Quanto siffatta scelta è ascrivibile alla sua evoluzione esistenziale?

Moltissimo. Direi che la esprime interamente. C’è anche il tedesco fra i titoli. Il mio punto di partenza linguistico è il latino. Ho imparato la grammatica latina prima di quella italiana. Dalla scuola all’università questa lingua ha rappresentato la mia quotidianità per anni ed è stata una specie di chiave di lettura della realtà nei momenti oscuri. Catullo, Seneca e Severino Boezio mi hanno spesso stretto la mano, preservandomi. Il tedesco, l’inglese (che è anche presente nel libro) e il francese, rappresentano momenti della mia vita le cui fasi costituiscono ciò che sono oggi. Ho trascorso la mia giovinezza fra l’Italia e l’Austria, lavorato per poco meno di un anno a Londra e da tredici anni vivo qui in Francia, a Parigi. Che l’evoluzione esistenziale finisca per essere condizionata anche da quella geografica è inevitabile. A volte io stessa, nel definirmi “italiana”, non so neanche più cosa ciò voglia dire. Nel confronto con gli scrittori che vivono in Italia, mi sento a volte persa ed emarginata. Li invidio un po’ perché sono in maniera più definita. Io non sono francese, visto che non scrivo in francese, ma pur scrivendo in italiano non sono più neanche quello, visto che ormai l’Italia la conosco da lontano. Eppure ognuno sceglie in base alle proprie curiosità. Io non sono riuscita mai ad identificarmi interamente con l’Italia. La mia famiglia paterna è di origine danese. Ho sempre sentito sin da piccola un richiamo forte verso altri luoghi più lontani. Esistenzialmente non ho fatto che seguire quel richiamo.

Il libro fotografa l’epoca di transizione prima della prima guerra mondiale, prima della dichiarazione di guerra alla Turchia, prima dei grandi cambiamenti europei. In che misura quella congerie storica è paragonabile ai tempi dei social media?

Secondo me nessun periodo storico è paragonabile a quello che viviamo. Il peso dell’immagine sulla parola scritta, l’impatto dei social sulle nostre abitudini, sul modo di vedere perfino noi stessi che se non esponiamo non esistiamo, non ha assolutamente alcun precedente. Per qualche verso ricorda la corte di Luigi XIV a Versailles, un luogo in cui l’apparenza determinava un individuo e non si viveva che per la messa in mostra. Eppure rimaneva un’abitudine circoscritta ad un’élite. Oggi la maggior parte della gente se non si fa un selfie con il piatto di pasta, ha come la sensazione di non aver mangiato! La cosa positiva è che questa spirale mediatica comincia a generare anticorpi. Conosco sempre più persone che della dittatura dello smartphone non ne possono già più. Chissà, forse un giorno ce ne stancheranno tutti. A cominciare dai bambini.

Attualmente lei lavora ad un progetto letterario sul rapporto della società occidentale con l’Islam. Quali sono i cardini su cui tale proponimento si fonda?

In questo momento lavoro ad un romanzo che si svolge a Parigi che parla molto della solidità dell’amicizia fra donne e anche del rapporto della società francese con quella che è diventata la seconda religione in Francia, l’Islam. Nonostante l’islamizzazione dei movimenti terroristici favoriti e incoraggiati da istanze mosse più dalla politica che dalla religione, con i tragici fatti che ne sono seguiti, la maggior parte dei musulmani di Francia vive da decenni in pace e nel rispetto delle leggi come gli altri, atei, cattolici, protestanti o ebrei che siano. Io stessa faccio parte da ormai tre anni di un gruppo di dialogo interreligioso, un’esperienza unica. I miei vicini di casa sono musulmani, come moltissimi genitori e maestre della scuola dei miei figli. Tutta gente tranquillissima e normale. Vorrei parlare di questo Islam qui. Quello che non interessa ai media.

Giuseppina Capone

 

 

La lanterna nera

Alberto Frappa Raunceroy è laureato in Storia del Diritto Romano alla Cattolica di Milano. È autore de La condanna dei Tre Capitoli (Il Segno, 2007), Il serenissimo borghese, ispirato alla tragica caduta di Venezia così come vissuta dalla famiglia dell’ultimo doge, Lodovico Manin. Il romanzo, pubblicato nel 2012 dall’editore Il Segno e ripubblicato nel 2014 da Solfanelli e nel 2018 da Arkadia Editore, è stato inserito nell’antologia del Premio nazionale “Albero Andronico 2012” di Roma e, nello stesso anno, si è classificato secondo nella sezione Narrativa al Premio Nazionale “Mario Soldati” di Torino. Con Il parruccaio di Maria Antonietta (Arkadia Editore 2016), secondo classificato al Premio Letterario nazionale Palmastoria 2018, l’autore porta il lettore in un terreno intriso di contraddizioni e ricerca della bellezza, grazie alla potente figura dell’enigmatico Salamandre. La lanterna nera è il suo nuovo romanzo.

Cos’è la “lanterna nera” e quali furono i suoi effetti?

La lanterna nera è un adattamento letterario della “lanterna magica”, un dispositivo conosciuto fin dall’antichità che permetteva la proiezione di immagini statiche su pareti o schermi. Nel Rinascimento esso iniziò ad essere perfezionato attraverso l’utilizzo di lenti e specchi. Nel romanzo, la lanterna diviene allegoria e metafora della conoscenza e della scoperta, ma anche proiezione delle nostre paure di inoltrarci in mondi ignoti. E’ questo il motivo per cui Elke, la protagonista del romanzo spaventa e lascia allibiti subendo per questo un processo per stregoneria: ella – giovane e donna – diviene una pietra di scandalo che deve essere eliminata.

Un romanzo storico è un’opera narrativa ambientata nel passato, con un’accurata ricostruzione dell’epoca attraverso atmosfere, costumi, usanze, condizioni sociali e mentalità dei personaggi principali. In questo modo, esso trasmette lo spirito di un periodo storico attraverso dettagli realistici, intrecciando le vicende narrative con eventi realmente accaduti e documentati. Lei narra dell’Europa dei primi anni del 1600 tra Ginevra e Praga. Ebbene, quanto il suo romanzo trasgredisce siffatto tentativo di definizione, abbattendo i confini del genere?

Be’ … diciamo che non c’è una vera e propria “trasgressione” o diversione rispetto ai canoni che lei ha correttamente messo in evidenza. I miei romanzi rientrano agevolmente nella cornice del romanzo storico classico perché intelaiatura, sfondo e “scenografie” dell’epoca sono da me rispettati fino alla maniacalità: pensi che nel “Parruccaio di Maria Antonietta” (mio romanzo del 2016) facevo spostare i personaggi servendomi di documenti con i nomi originari delle vie e delle piazze come riscontravo in una mappa di Parigi del 1750.

Parlerei piuttosto di un adattamento alla sensibilità contemporanea dal momento che utilizzo una più approfondita analisi delle personalità. Quando sir Walter Scott o Manzoni diedero vita al genere non esisteva ancora la psicanalisi o il concetto di “nevrosi” pur essendo lo scavo psicologico dei personaggi notevole. Scrivendo oggi, è necessario tenere conto di tutto questo e unirlo alla trama. Tra i primi a dare vita a questa unione sono stati Marguerite Yourcenar, Maria Bellonci e Robert Graves mentre negli anni a noi più vicini vi sono riusciti perfettamente Tracy Chevalier con La ragazza con l’orecchino di perla e Patrick Suskind con Il Profumo. Detto questo ritengo che nel romanzo storico gli eventi debbano rispettare le fonti e lo stesso vale per i personaggi documentati. Ritengo che anche forzare la cronologia degli eventi implichi uno scardinamento dell’opera da “romanzo storico” a “fantasy”. So che è un sacrificio di studio e documentazione a volte molto duro, ma credo che solo così si preservi lo scenario in cui si ambienta una vicenda. Ecco quello che si può creare dal nulla invece sono i personaggi secondari, quelli non documentati e i dialoghi.

“A cosa erano servite la mia vita, i miei sforzi, a cosa erano servite le sofferenze inumane di Elke se tutto quello che la sua mente aveva prodotto era andato perduto a causa della paura, del terrore umano che un’intelligenza alberghi in un corpo deforme piuttosto che in uno sano o in un corpo femminile piuttosto che maschile?”

Donna e corpo poco attraente: una “piccola strega sapiente” deforme. Quale visione della società intende proiettare rispetto alle ampie questioni di genere oggi dibattute?

Per noi contemporanei non solo non è immaginabile ma nemmeno concepibile l’ordine (sociale, filosofico e religioso) che governava l’Europa fino a qualche decennio fa e troppo spesso dimentichiamo che l’eguaglianza di cui godiamo oggi non è stata concessa da nessuno ma è il frutto di secoli e secoli di sofferenze umane non quantificabili e che oggi rischiano di essere cancellate con un tratto di penna da tecnocrazie anonime che non rispondono a nessuno del loro operato.

Il romanzo involontariamente richiama ad alcuni punti che sono trattati da Margeurite Yourcenar nello straordinario romanzo L’Opera al Nero. Nel libro di Yourcenar, il protagonista, Zenone, è un medico alchimista con pulsioni omosessuali, e il solo fatto di esistere e operare con libertà intellettuale lo espone alla censura e alla condanna dei suoi contemporanei. Ne La lanterna nera la protagonista è una giovane donna che fa ricerca scientifica senza appartenere ad alcuna accademia. Questa libertà sarà la causa di tutti i suoi problemi.

L’innocenza è un tesoro inestimabile che si possiede da bambini, si dilapida da adulti e si rimpiange da vecchi” Le dinamiche interpersonali della narrazione narrano di diffidenza, sospetto, paura. Si può giungere innocenti alla morte, scevri di malizia ed egoismo?

L’innocenza è uno stato di grazia che nell’umanità può serenamente riferirsi solo ad un bambino. Per il resto degli uomini esso può essere vissuto solo come sentimento nostagico, Milton avrebbe detto “Paradise lost”.

Non esiste alcun bene materiale o immateriale in questa vita che possa donare lo stato di gioiosa pace di cui l’innocenza è unica fonte. Certo, esistono uomini che muoiono per ideali belli e alti, che si sacrificano per costruire mondi migliori o attraverso filosofie o ideologie si illudono di riprogrammare l’uomo per riportarlo all’uguaglianza o alla giustizia. Ma mi chiedo: in quale epoca della Storia è esistito tangibilmente uno stato di pace, giustizia e verità assoluta a cui dovremmo fare riferimento? Vorrei io stesso saperlo.

Chi si occupa di storia sa che ogni epoca ha vissuto tragedie inimmaginabili. E le grandi menti di ogni tempo hanno nutrito l’illusione di trovare soluzioni al male senza riuscirci. Oggi non abbiamo più filosofi, strateghi o pensatori ma tecnocrati che ergono a soluzione di ogni male gli algoritmi, la “scienza”e l’informatica: cioè dei circuiti elettronici che si attivano in base a matematica ed elettricità. L’uomo viene letteralmente messo da parte e considerato “obsoleto”. Si può essere sconsiderati? No: mai nessun essere umano è riuscito a riportare l’uomo allo stato di edenica pace riferito, ad esempio, dal libro della Genesi. Meno che mai ci riusciranno i “titani”della nostra epoca che pensano di rubare il fuoco agli dei. In questo gli antichi Greci erano più avanti di noi perchè avevano capito tutto.

In epigrafe si legge una citazione di Blaise Pascal “La natura possiede delle perfezioni per mostrare che essa è l’immagine di Dio, e dei difetti, per mostrare che ne è solo l’immagine”. Può motivare la scelta di tale riferimento?

Blaise Pascal è stata una delle più grandi menti che l’umanità abbia visto vivere e pensare su questa terra. Pur essendo un matematico e avendo dato vita a meccanismi complessissimi come gli antenati dei calcolatori, era un uomo che viveva una perenne pulsione verso l’Assoluto, verso Dio. Non avrei potuto trovare un riferimento più adatto per il mio romanzo dove la piccola protagonista, Elke, vive anch’essa una tensione alla ricerca della verità che la porta a indagare verso i misteri ultimi. Ecco: l’ultimo dei misteri, quello che non troverà mai soluzione ( e tantomeno con la scienza) è Dio. Per esso l’uomo dovrà rassegnarsi ad altri mezzi dopo aver sbattuto la testa contro il muro della storia e della propria superbia.

Giuseppina Capone

Twiggy: la prima modella con la minigonna

Lesley Horby, o meglio conosciuta come Twiggy Lawson, è stata la prima modella ad indossare con impeccabile eleganza la fenomenale creazione di Mary Quant negli Anni ‘60: la minigonna.
Un periodo di rinascita per l’Inghilterra quello seguente alla Seconda Guerra Mondiale, infatti la società stava cambiando e con lei anche la moda grazie soprattutto all’invenzione della minigonna fatta da Mary Quant.

La giovane stilista aprì una boutique dove poteva finalmente vendere le sue meravigliose creazioni, acquisendo una velocità immediata nell’apprendere i gusti dei giovani londinesi e a soddisfare quelli che erano le loro esigenze realizzando, con estrema professionalità, capi pratici e alla moda.

Le giovani donne iniziavano a desiderare gonne corte e comode, in sostituzione ai soliti abiti lunghi dalle gonne dai 40 metri di crinolina, perché la comodità stava diventando la priorità, contrariamente a ciò che si diceva in seguito: la minigonna non nasce per allusioni sessuali. Le giovani donne, ormai,  desideravano indossare collant e body dai colori sgargianti che trasmettessero una sensazione di serenità e soprattutto di agiatezza.
Non solo modella25

L’artefice del cambiamento della moda è stata la regina delle modelle: Twiggy, l’esile ragazza londinese nasce a Neasden il 19 settembre 1949. La prima modella con la minigonna diventa, nel 1966, una vera icona della moda lanciando il nuovo indumento capo nella Swinging London. Il suo soprannome significa “ramoscello”, non potevano dare nomignolo più appropriato per una ragazza esile dalle slanciate gambe,  dal viso lentigginoso e dagli occhi da cerbiatto che di fatti riuscì a conquistare le copertine di facoltose riviste di moda come Vogue, Elle, Seventeen e Interview.

Il suo carattere peperino insieme alla sua voglia di emergere e rivoluzionare il mondo non le diedero solo la possibilità di diventare la prima modella con la minigonna, ma le permisero di realizzare tutti i suoi sogni:  la sua popolarità non si ferma nel campo  della moda, Twiggy diventa attrice di fama interpretando il ruolo di una giovane cantante nel musical “the boy Friend” di Ken Russel nel 1971.  Nel 1980, insieme con Dan Aykroyd e Jhon Belushi la debutta nel film “The blue brothers” di Jhon Landis. Nel 1988 sostiene un importante ruolo in Madame Sousatza con Shirley MacLaine.

“Puoi essere bella a tutte le età, con la routine beauty giusta, il cibo sano e l’esercizio”. Con queste parole Twiggy ci comunica che proseguirà nella sua carriera anche come modella continuando a posare per diverse riviste, è stata appunto recentemente la protagonista dello speciale Valentino su Vogue Italia di ottobre 2019.  Insomma, la determinazione di Twiggy  e la sua costanza nel voler realizzare i suoi sogni è stato ed è un grande esempio da seguire anche per le giovani modelle emergenti di oggi, considerato che, la prima modella con la minigonna degli Anni ‘60, ha realizzato tutto ciò che desiderava.

Alessandra Federico

 

Addio a Diego Armando Maradona leggenda indiscussa del calcio

E’ morto Diego Armando Maradona. Ha subito un arresto cardiocircolatorio nella sua casa di Tigre, in Argentina, dove stava trascorrendo la convalescenza dopo l’intervento chirurgico alla testa di qualche settimana fa. Aveva appena compiuto 60 anni. Inutili i tentativi di rianimazione effettuati dal personale medico che lo assisteva 24 ore su 24. È successo in una data maledetta per i ribelli: erano morti il 25 novembre anche Best e Castro. Il Governo argentino ha ufficializzato l’istituzione di tre giorni di lutto nazionale per commemorare Diego Armando Maradona. Una vera e propria leggenda del calcio mondiale e soprattutto l’argentino più famoso del mondo. Anche la UEFA, per le gare di Champions ed Europa League in programma tra mercoledì e giovedì, ha predisposto il lutto al braccio e un minuto di silenzio su tutti i campi in memoria di Maradona. Anche in Serie A, ci sarà un minuto di silenzio per ricordare l’argentino nel prossimo weekend di campionato. E proprio il campo del Napoli, il San Paolo, può essere intitolato a Maradona come annunciato dal Sindaco De Magistris. L’esame autoptico è stato eseguito tra le 19.30 e le 22 di mercoledì, pochissime ore dopo la morte, nell’ospedale di San Fernando, ed è stato stabilito che l’insufficienza cardiaca ha provocato “un edema polmonare acuto”. La notizia è stata riferita dai quotidiani argentini il “Clarin” e “La Nacion”. Sei medici hanno preso parte e tra questi c’era anche un perito nominato dalla famiglia. Per avere il risultato definitivo bisognerà attendere l’esito degli esami tossicologici, che servono per far capire se Maradona aveva assunto farmaci, sostanze stupefacenti o alcol. Mentre il procuratore generale di San Isidro John Broyard aveva detto ufficialmente che gli esami preliminari avevano escluso “ogni segno di attività criminale e di violenza”. I familiari di Diego hanno chiesto ai medici che hanno effettuato l’autopsia in ospedale di non portare con sé i rispettivi telefoni cellulari, perché temevano fossero scattate delle foto inappropriate. Maradona dopo l’autopsia è stato trasportato nella Casa Rosada dove è stata già allestita la camera ardente. L’Argentina lo onora come si fa solo con i capi di stato.

Nicola Massaro

Rudy Salvagnini: Dizionario dei film horror

 

Rudy Salvagnini è uno sceneggiatore di fumetti. Ha scritto centinaia di storie per TopolinoIl GiornalinoIl Messaggero dei RagazziLancioStory e molte altre testate. In campo letterario, sono suoi il romanzo di fantascienza Il vortice dei ricordi (Alcheringa, 2017) e la raccolta di racconti horror Nel buio (Weird Book, 2020). Critico cinematografico, collabora a Segnocinema e a MYmovies. Ha scritto Hal Ashby (Il Castoro Cinema, 1992), Il cinema di Bob Dylan (Le Mani, 2009) e Il cinema dell’eccesso vol. 1 e 2 (Crac, 2015 e 2016). Ha scritto anche e soprattutto il Dizionario dei film horror (Corte del Fontego, 2007 e 2011), di cui è appena uscita la terza edizione (Bloodbuster, 2020). Ne parliamo con l’autore.

Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto. Da dove spunta il suo interesse per l’horror?

Quando mi interrogo sulla questione, credo di percepire che ciò che mi ha da subito attirato verso questo genere è l’aspirazione al soprannaturale, che non è un elemento essenziale dell’horror, ma è molto frequente in esso. In un piccolo e modesto film spagnolo, Errementari, a un certo punto un pavido e insicuro sacerdote si trova di fronte a una micidiale creatura demoniaca e, in modo solo apparentemente incongruo, la ringrazia perché con la sua presenza gli ha finalmente dato la certezza che la sua vita non era stata sprecata: se il diavolo esiste, c’è il soprannaturale e anche quello in cui lui, il sacerdote, ha sempre cercato di credere. Quindi, se esiste il Male, è probabile che esista anche il Bene e questo è già qualcosa e l’horror, magari inconsciamente, ce lo rappresenta facendoci nel contempo riflettere sul mistero dell’esistenza. In questo senso è tipica anche la figura dei fantasmi – riflessi di noi stessi, solo più consapevoli – allegoria di qualcosa diverso da noi, ma vicino a noi. Oltre a ciò, che rappresenta il fascino del fantastico, c’è la grande attrattiva che, per me, l’horror ha quale genere metaforico per eccellenza, con la sua capacità di scandagliare la nostra società con una severità e una schiettezza altrove difficili da trovare. L’orrore fa parte della natura umana, l’abisso che ci guarda e che noi guardiamo, la morte che incombe, piacevolezze insomma su cui l’horror ci fa meditare e che a volte invece esorcizza trivializzandole. Alla fine, questo desiderio di spaventare e spaventarsi è sì come un viaggio nel tunnel dell’orrore di un luna park, ma è anche un viaggio dentro noi stessi. E questo mi ha sempre interessato.

L’horror è uno dei generi più fecondi e persistenti della storia del cinema. Qual è il suo linguaggio e come riesce a rispecchiare sempre la contemporaneità?

La forza dell’horror è quella di interpretare sentimenti e paure comuni a tutta l’umanità, sotto ogni latitudine: sa parlare un linguaggio universale compreso dovunque. In ogni parte del mondo c’è una tradizione horror: messicana, spagnola, persino brasiliana. Ci si è accorti solo negli ultimi vent’anni che esiste quella asiatica, ma esiste da un pezzo: capolavori come Jigoku ci ricordano che in Giappone gli horror ci sono da molto. Hong Kong, Indonesia, Filippine, ognuno con i suoi mostri e i suoi vampiri, quelli saltellanti di Hong Kong e i Pontianak, teste volanti con brandelli di intestini, in Malesia. Non esiste un altro genere che si sa coniugare così perfettamente con il comune sentire di ciascun popolo, proprio perché fa riferimento a un folclore radicato e persistente. L’horror non è mai particolarmente di moda perché sostanzialmente lo è sempre.

La storia del cinema dell’orrore di Teo Mora, alcuni volumi di Solfanelli,  Monster Show di David J. Skal; Danilo Arona su Craven, Fabrizio Liberti su Carpenter, Daniela Catelli su Friedkin o Gianni Canova su Cronenberg. Per quale ragione, a suo giudizio, la produzione di critica cinematografica del genere horror in Italia non è nemmeno in lontananza equiparabile a quella rinvenibile in altri paesi?

Oltre a quelli citati ci sono molti altri testi sul cinema dell’orrore in italiano – ne hanno scritti Fabio Zanello, Roberto Curti, Gordiano Lupi, Antonio Tentori, Mario Gerosa, Albiero e Cacciatore, per citare solo alcuni nomi tra i tanti – ma è vero che la produzione, in particolare, anglo-americana è decisamente superiore a livello quantitativo. Se ci pensiamo bene però è anche decisamente superiore la produzione di film horror e le due cose sono molto collegate. Negli USA, gli horror hanno una tradizione produttiva solidissima, continuativa ed enorme in quantità per cui esiste un pubblico maggiore anche per la pubblicistica. Da cosa, insomma, nasce cosa.

Quale criterio ha adottato per operare le sue scelte tassonomiche?

Siamo in un campo, quello della critica cinematografica e della conseguente suddivisione del cinema in generi, che solo in parte può dirsi scientifico, per cui le regole di classificazione si sono per forza di cose basate su criteri insieme oggettivi e personali. Ho cercato di darne conto in qualche misura nella Guida alla consultazione contenuta nel Dizionario, ma la questione è di certo complessa e impregnata di soggettività.

Cos’è mutato nei dieci anni intercorsi dall’ultima versione ad oggi?

Come sempre, il cinema horror ha mostrato vitalità invidiabile, rigenerandosi e reinventandosi. Tra le tendenze principali c’è stata senza dubbio quella del found footage – film apparentemente realizzati con filmati “veri” – che ha prodotto una notevole quantità di film spesso premiati dal successo. Ma, esattamente all’opposto, c’è stata la grande crescita dei film prodotti dalla Blumhouse, raffinate rivisitazioni dei capisaldi dell’horror con poco di nuovo, ma molto stile. E ci sono naturalmente state le singole perle provenienti da ogni parte del mondo come il coreano Train to Busan, il giapponese Zombie contro zombie o l’australiano Babadook. Insomma, la consueta vitalità di un genere che non muore mai, come i mostri che spesso lo popolano.

Giuseppina Capone

Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta

 Stefania Prandi, il femminicidio può essere attribuito al caso o è un fenomeno con radici culturali e sociali profonde, tenendo presente che, secondo il rapporto Eures, in Italia viene assassinata una donna ogni sessanta ore?

Come ha dichiarato l’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 1993, «La violenza contro le donne è la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne». Il femminicidio si inserisce in questa subalternità. In Italia viene assassinata, in media, una donna ogni sessanta ore e mentre il numero degli omicidi diminuisce, quello dei femminicidi, in proporzione, aumenta e rappresenta quasi il 40% del totale. Scrive il magistrato Fabio Roia in “Crimini contro le donne. Politiche, leggi, buone pratiche”: «Il fenomeno della violenza contro le donne è un atteggiamento diffuso, oscuro, antico, tollerato». Ci sono diverse statistiche a disposizione. Nei paesi dell’Unione europea una donna su tre ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita, e una su venti è stata stuprata. I dati sono in linea con l’Italia, stando ai rapporti annuali dell’Istat. Da noi, inoltre, manca una percezione reale del problema: appena un terzo di chi subisce violenza ritiene di essere vittima di reato.

Si reputa che la intimate partner violence si riveli una strategia per “fare il genere”, e per “fare le maschilità”. La polisemia di accezioni (genere linguistico, biologico e sociale) che la lingua sviluppa dimostra quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti. Reputa che modi di dire, proverbi e battute possano costituire l’anticamera di forme di violenza?

Come scrive giustamente la ricercatrice e studiosa Chiara Cretella nell’introduzione al mio libro, “i processi di nominazione creano il reale”. Certe espressioni o modi di dire sono parte integrante della violenza, sono espressioni della cultura della violenza maschile contro le donne e della violenza di genere che ancora definisce la nostra società.

Chi paga le conseguenze del femminicidio ed in quali forme?

Quando una donna muore per mano di un uomo, non viene distrutta soltanto una vita, si colpiscono intere famiglie. A pagare le conseguenze dei femminicidi – che pesano per generazioni, duecento anni o più – sono madri, padri, sorelle, fratelli, figli . A loro restano i giorni del dopo, i ricordi immobili appesi ai muri, trattenuti dalle cornici, impressi nei vestiti impolverati, le spese legali, i ricorsi, le maldicenze nei tribunali («se l’è cercata», «era una poco di buono»), le giustificazioni: «stavano litigando», «lui era fuori di sé per la gelosia», «era pazzo d’amore», «non accettava di essere lasciato».

I media offrono plurimi e molteplici voci di famiglie che rifiutano di ripiegarsi nella sofferenza ed avviano battaglie giornaliere. Qual è il loro fine?
Sempre più familiari (nella maggioranza dei casi madri), intraprendono battaglie quotidiane, piccole o grandi, a seconda dei casi. C’è chi scrive libri, organizza incontri nelle scuole, lancia petizioni, raccoglie fondi per iniziative di sensibilizzazione e fa attivismo online. Lo scopo è dimostrare che quanto si sono trovati a vivere non è dovuto né alla sfortuna né alla colpa di chi è stata uccisa, ma ha radici culturali ben precise.

Le norme religiose, a cui sono poi seguite le leggi civili, hanno acuito le disparità e le differenze tra maschi e femmine. Qual è ad oggi lo status delle discriminazioni di genere, soventemente preludio a forme di violenza?
Tutti gli indicatori internazionali e nazionali ci dicono che le discriminazioni di genere sono ancora presenti e hanno un peso enorme sulle vite individuali e sulla società.

Stefania Prandi, giornalista, scrittrice e fotografa, ha realizzato reportage e inchieste in Italia, Europa, Africa e Sudamerica. Si occupa di questioni di genere, lavoro, diritti umani, ambiente e cultura. Tra le sue collaborazioni: Il Sole 24 Ore, National Geographic, Azione, Radiotelevisione svizzera, El País, Al Jazeera, Correctiv, BuzzFeed. Nel 2018 ha pubblicato con la casa editrice Settenove Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo. Con l’inchiesta legata al libro ha vinto numerosi riconoscimenti internazionali e premi come Henri Nannen Preis, Otto Brenner Preis, Georg Von Holtzbrinck Preis, Volkart Stiftung Grant, The Pollination Project Grant. A ottobre 2020 ha ricevuto la menzione speciale alla XXIma edizione del Premio di scrittura femminile “Il Paese delle Donne et Donna e Poesia”. Nel 2020 (settembre), sempre con Settenove, ha pubblicato il libro Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta col quale, lo scorso ottobre, ha vinto il premio letterario Essere Donna.

Giuseppina Capone

Annalisa Corrado: Le ragazze salveranno il mondo

Annalisa Corrado, ingegnera meccanica, ha conseguito nel 2005 un Dottorato di Ricerca in Energetica presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Dopo le prime esperienze con le società Ambiente Italia ed Ecobilancio come consulente/analista Life Cycle Assessment, per la valutazione del ciclo di vita di prodotti e servizi, ha ricoperto per 2 anni ruoli di consulenza specializzata presso il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare. Attualmente è responsabile dello sviluppo dei progetti innovativi della società ESCO AzzeroCO2 e referente delle attività tecniche dell’associazione Kyoto Club con le quali collabora stabilmente dal 2007; si occupa principalmente di promuovere e costruire azioni per la mitigazione dei cambiamenti climatici, strategie per la sostenibilità in chiave “agenda 2030 dell’ONU”, percorsi di economia circolare. Ha co-ideato con Alessandro Gassmann la campagna #GreenHeroes, che attualmente coordina. E’ co-portavoce, dal 2014, dell’associazione ecologista Green Italia. Parliamo del suo libro “Le ragazze salveranno il mondo” edito da People.

Per quale ragione, oggidì, sono le donne a scandire la grande lotta del movimento ecologista?

Pur non essendo un’amante delle generalizzazioni, che sono un terreno molto scivoloso, credo che tanti dei talenti e delle attitudini delle donne, abbiano moltissimo a che vedere con l’approccio ecologista alla realtà. Le donne hanno con più facilità uno sguardo sistemico, che non lascia indietro pezzi o persone; sono più spesso attente alle conseguenze delle proprie azioni e non lasciano che un singolo obiettivo possa divenire un alibi per abbandonare ogni remora o sguardo critico. Probabilmente l’ancestrale abitudine a tenere sotto controllo più cose e più persone è diventata un’attitudine preziosissima alla cura, alla condivisione, all’empatia e alla protezione: uno sguardo che invece è stato sistematicamente cancellato e dimenticato dalla mentalità fossile e turbo-capitalistica, che ha sempre considerato la natura un castello pieno di ricchezze da espugnare e saccheggiare, piuttosto che la nostra casa.

Le donne sono riuscite ad abbattere con fiera determinazione le gabbie concettuali in cui abbiamo abitato per lungo tempo. Ebbene in cosa si diversifica il punto di vista muliebre?

Mah, il cammino da fare è lungo. Il patriarcato si è insinuato così profondamente nella nostra società, da risultare molto spesso mimetizzato per molte persone. Ci sono ancora moltissime gabbie in giro e moltissimi fabbri che cercano di costruirne di nuove quando alcune vengono forzate o distrutte. E’ una battaglia continua per molte di noi, anche per alcune delle protagoniste del mio libro.

Un po’ ho risposto a questa domanda nella prima… Posso però aggiungere una riflessione: donne cresciute in una società in cui ai bambini si insegna la determinazione e l’arroganza, mentre alle bambine la remissione e la docilità, seppur portatrici di talenti, competenze e passione, saranno molto probabilmente soggette ad uno scontro durissimo con un senso di inadeguatezza profondo, con una pressione sociale spaventosa, solo perché osano prendere spazio e parola.

Nella mia esperienza, però, il senso di inadeguatezza diviene spinta all’evoluzione, desiderio di continuo apprendimento e consolidamento. E diventa uno strumento prezioso.

Rachel Carson, la donna che sconfisse le multinazionali del DDT, il premio Nobel Wangari Maathai, l’instancabile Jane Fonda, Alexandria Ocasio-Cortez e Greta Thunberg unite in un’alleanza intergenerazionale. Qual è il filo rosso, la traccia che le accomuna, pur nelle ovvie specificità?

Sono donne che hanno mostrato una grandissima determinazione e una profonda dedizione alle cause che hanno identificato come davvero importanti. Sono state capaci di creare reti, comunità, mobilitazioni che sono divenute vere e proprie onde anomale, in grado di scuotere l’opinione pubblica e cambiare, seppur in misura diversa, il corso della storia. Donne che non hanno fatto mistero della propria fragilità, ma hanno saputo renderla una specie di “super potere”, che le ha rese più credibili, più umane, più vicine alle persone che hanno deciso di mettersi in cammino al loro fianco.

Ecologia e democrazia sono un connubio inscindibile?

Lo dimostra chiaramente la storia di Wangari Maathai, che ha rischiato più di una volta la vita per essersi resa invisa al regime keniota, e al suo sommo esponente Moi, proprio per aver difeso i territori del suo Paese dagli scempi, le devastazioni e i veri e propri saccheggi che lo stra-potere di multi-nazionali voraci esercitavano indisturbate a danno di patrimoni di biodiversità inestimabili, della salute delle persone e della loro stessa possibilità di vivere una vita degna. Lo dimostrano anche le storie più recenti, in cui pochissimi detentori di un enorme potere (come le compagnie petrolifere o come le multinazionali della chimica) cercano di condizionare le scelte dei Governi con ogni mezzo, anche montando e alimentando vere campagne anti-scientifiche o nascondendo informazioni preziose, pur di tutelare i propri interessi, a discapito di tutti.

Qual è il futuro prossimo del movimento ecologista?

Credo che di fronte a un sistema di potere fossile così consolidato e pervasivo, di fronte ai grandi sconvolgimenti che l’umanità ha attratto su se stessa con miope auto-lesionismo (dal collasso climatico al COVID19, pandemia annunciata), sia necessaria una mobilitazione mai vista fino ad ora. Globale, intergenerazionale, intersezionale. Una mobilitazione che deve farci sentire tutti convocati, perché abbiamo il dovere di non sprecare questa ennesima crisi e pretendere che non si torni più ad una “normalità” di devastazioni e diseguaglianze, ma ad un nuovo modo di pensare le relazioni sociali ed economiche. Arriveranno molti soldi per aiutare i Paesi a gestire la crisi economica scatenata dalla pandemia. Dobbiamo fare in modo che non un solo euro vada sprecato, perché sono, ancora una volta, risorse prese in prestito dal futuro e al futuro devono essere dedicate. Dobbiamo uscire dall’era delle fossili ed entrare in quella delle energie rinnovabili, dobbiamo pretendere che i Paesi siano coerenti con gli impegni presi a Parigi nel 2015 con la COP21, dove si è deciso di decarbonizzare economia e società entro il 2050 (E, anche da questo punto di vista, la vittoria di Biden/Harris è un’ottima notizia); dobbiamo ricordare che non c’è giustizia climatica o giustizia ambientale senza giustizia sociale, e viceversa. Dobbiamo cambiare tutto, insomma. A partire dall’osare immaginare che il mondo possa diventare davvero un posto diverso.

Giuseppina Capone

 

 

 

Digital Conference su Mario Borrelli e l’attualità del suo pensiero

Si terrà oggi martedì 24 novembre 2020 alle ore 17.30 la Digital Conference dal titolo “Mario Borrelli: attualità del pensiero e dell’azione in un pensiero socio-pedagogico per l’infanzia disagiata” organizzata dalla Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus con sede a Napoli e presieduta dal prof. Antonio Lanzaro, a cura del Centro Studi “Mario Borrelli”, diretto dalla giornalista Bianca Desideri.

Il convegno, che si terrà su piattaforma Zoom a seguito dell’attuale situazione generata dalla pandemia da Covid-19, si pone l’obiettivo di presentare e portare all’attenzione della comunità in particolare di quella educante l’attualità della figura e dell’opera di Mario Borrelli, sociologo e pedagogista, figura nota a livello internazionale per la sua attività svolta nell’immediato dopoguerra e proseguita fino alla sua morte in favore del disagio sociale e dell’infanzia e i giovani in situazione di difficoltà (ha scritto di lui anche Morris West).

Mario Borrelli, don Vesuvio come lo chiamavano fu in grado di realizzare negli Anni Cinquanta, una rete di sostegno umanitario internazionale, la Casa dello Scugnizzo, con la mission di recuperare e favorire l’avviamento professionale dei bambini di strada di Napoli (gli Scugnizzi). Tornato allo stato laicale, proseguì il suo impegno civile per il quale era noto a livello internazionale e gli studi di educazione alla Pace.

Ad aprire i lavori i saluti di:  Dott.ssa Isabella Bonfiglio, Consigliera di Parità Città Metropolitana di Napoli; Prof. Antonio Lanzaro, Presidente Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Dott. Alberto Bianco, Presidente Consiglio Generale Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Mons. Adolfo Russo, Ufficio Cultura Curia di Napoli;  Prof. Francesco Asti, Decano Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sez. S. Tommaso d’Aquino; Don Giuseppe Maglione, Direttore Archivio Storico; Mrs. Margaret Rush, Responsabile Comitato inglese Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus.

A parlare di Mario Borrelli, della sua figura ed esperienza socio-pedagogica interverranno: Prof. Sergio Minichini, Presidente Centro Studi ‘’Mario Borrelli’’ Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Dott. Giuseppe Desideri, Presidente nazionale  A.I.M.C.   Associazione Italiana Maestri Cattolici e Docente Università Pontificia Urbaniana; Dott. Giuseppe Errico, Psicologo e Presidente I.P.E.R.S.; Dott.ssa Laura Bourellis, Esperta di Beni artistici e culturali; Dott. Ermete Ferraro, già Presidente Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Dott.ssa Assunta Landri, Psicologa – Psicoterapeuta; Prof. Antonio Marra, Sociologo.

Seguiranno alcune testimonianze: Dott. Giuseppe Simonelli già Presidente Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Dott. Domenico Molino Consiglio Generale Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus;  Avv. Stefano Serao Consiglio di Amministrazione Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Dott. Eduardo Nappi Archivio Storico Fondazione Banco di Napoli; Sig.ra Ida D’Aniello segreteria Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Sig.ra Matilde Colombrino assistente sociale Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus.

A moderare l’incontro la Dott.ssa Bianca Desideri, Giornalista – Direttore Centro Studi “Mario Borrelli” Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus.

Il convegno è stato realizzato grazie al contributo concesso dalla Direzione generale Educazione, Ricerca e Istituti Culturali – Servizio II “Istituti culturali” del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo.

La Digital Conference si terrà sulla piattaforma Zoom e sarà possibile seguirla inviando una email a casadelloscugnizzo@libero.it.

Enti partner: A.I.M.C. Associazione Italiana Maestri Cattolici – Archivio Storico Diocesano – Ufficio Cultura Curia di Napoli – Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sez. S. Tommaso d’Aquino – Associazione Agenzia Arcipelago E.P.S. – I.P.E R.S. Istituto di Psicologia e ricerche socio sanitarie.

Media Partner: www.loscugnizzo.it – www.networknews24.it

Olga Campofreda: Dalla generazione all’individuo

Olga Campofreda è dottore di ricerca in letteratura italiana. Vive a Londra, dove insegna presso l’Istituto di Cultura Italiano e alla UCL. Nel 2019 ha pubblicato A San Francisco con Lawrence Ferlinghetti (Giulio Perrone Editore), con lei abbiamo parlato del suo libro “Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli” edito da Nimesis.

Olga Campofreda, chi è Pier Vittorio Tondelli e quali peculiarità riserva la sua produzione?

Pier Vittorio Tondelli (o PVT, come spesso viene riportato con un’operazione simile alla “brandizzazione”) è stato uno scrittore italiano omosessuale che ha esordito nel 1980 con l’opera-scandalo “Altri libertini”, un romanzo che portava dentro tutta l’esperienza del Settantasette bolognese, ma anche molto altro: oltre la superficie fatta di simboli, atteggiamenti e linguaggi legati a quel periodo storico, questo libro racconta la provincia italiana lontana dai grandi centri, vite marginali ed emarginate, questi “altri” libertini, appunto, che sono poi a mio avviso il tema centrale di tutta la riflessione letteraria di Tondelli fino alla morte per AIDS, avvenuta nel 1991.

Prima ho parlato di “brandizzazione”: come racconto nell’introduzione del mio saggio, la critica si è espressa in modo particolarmente problematico su questo autore nel corso degli anni. Tondelli è stato il primo dei giovani scrittori degli anni Ottanta, un gruppo di autori messi insieme per ragioni di marketing editoriale (tra questi anche Andrea De Carlo, Enrico Palandri, Claudio Piersanti, per un periodo anche Daniele Del Giudice). In questo contesto, Tondelli è ricordato più di tutti per aver parlato di giovani ai giovani, trascinando a lungo su di sé le etichette della ribellione e del giovanilismo. Questo ha contribuito a eclissare altri temi più profondi, come appunto il significato reale delle giovinezze ribelli narrate. Oltre alla “brandizzazione” di questo autore, altra problematica è rappresentata dall’interesse morboso per la sua vita privata, specialmente intorno alla questione dell’omosessualità: cercare risposte biografiche nei suoi romanzi, non ha aiutato certamente a valorizzarne il lavoro letterario in quanto creazione di simboli intorno a un discorso più universale.

Lei ha manifestato l’intento di “liberare l’opera tondelliana dal contesto generazionale e da una fruizione limitata a un interesse documentario.” A quale scenario storico sono riconducibili i personaggi tondelliani e qual è il valore simbolico del mondo di giovani emarginati di cui narra?

Prima ho parlato della Bologna del Settantasette, che esce fuori principalmente dai racconti di “Altri libertini” (1980). Molti critici hanno parlato di Tondelli come di un autore generazionale, ergendolo a rappresentante di una determinata generazione e incasellandolo in un contesto storico, che senza dubbio è fortemente presente nei suoi romanzi. Ma Tondelli è anche e soprattutto gli anni Ottanta italiani, nel corso dei quali ha prodotto l’intera sua opera letteraria. Anni che ha osservato e interpretato attraverso reportage, articoli di giornale, rubriche.

La scrittura tondelliana ha assorbito moltissimo la realtà italiana nella quale l’autore era immerso, ma se ci si limitasse solo a questo Tondelli non sarebbe né più né meno che un attento giornalista, e le sue opere un documento. Ricordo benissimo una domanda – fondamentale – che mi ha fatto lo scrittore Enrico Palandri all’inizio della mia ricerca: che cosa resterà tra tantissimi anni dei romanzi di Pier Vittorio Tondelli? Che cos’è letteratura, al di là degli elementi biografici o generazionali? Provando a rispondere a questi interrogativi, ho capito che la giovinezza, tema ossessivamente riproposto dalla pagina tondelliana, ha in verità una carica simbolica fortissima. Il giovane, in particolare il giovane emarginato, è l’individuo ancora in formazione, ancora libero dal punto di vista identitario e non assoggettato agli incasellamenti della società borghese conservatrice.

In che misura la narrativa di Tondelli diverge dal romanzo di formazione così come codificato dalla tradizione, considerando la presenza da protagonisti di emarginati che rifiutano l’integrazione come prospettiva?

Il romanzo di formazione, così come già fa notare Franco Moretti nei suoi studi sul tema (1999), è un genere letterario prodotto da una società borghese in un determinato periodo storico, fondato su determinati valori che oggi definiremmo conservatori e senza dubbio eteronormativi. Nel corso del novecento il genere è stato usato per descrivere storie di adolescenze e di giovinezze in generale, pur mantenendo la sua natura conservatrice di fondo. Si tratta di un percorso che accompagna il giovane verso l’età adulta, che verrà raggiunta una volta conquistate le sfere del lavoro, di una famiglia (eterosessuale, è chiaro), del riconoscimento in una patria. I personaggi tondelliani sono giovani per i quali non solo questo percorso non funziona, ma viene proprio rifiutato per i valori che rappresenta. La scelta di una giovinezza come status permanente ha un valore politico fondamentale. Raccontare personaggi di questo tipo, nel modo in cui fa Tondelli, è un punto di svolta importante per la letteratura italiana: significa mostrare strade alternative fondate su un sistema di valori nuovo, inclusivo, anti-normativo.

“La rappresentazione della giovinezza coincide nel romanzo d’esordio con quella di un mondo di emarginati che vivono volutamente oltre i confini della società borghese fondata principalmente sul concetto di omologazione e su valori eteronormativi”. Ha pensato ad una fusione dell’ideale romantico con quello della Beat Generation e della “controcultura”?

Esattamente. Parlo di questa fusione di ideali e immaginari nel primo capitolo del saggio, in particolare in relazione ai due inediti Jungen Werther/Esecuzioni e Appunti per un intervento teatrale sulla condizione giovanile. Questi inediti, databili alla fine degli anni Settanta e quindi precedenti all’esordio di Tondelli, già raccolgono in nuce i nuclei principali del discorso letterario tondelliano. Il primo inedito presenta cinque eroi che scelgono il suicidio come affermazione della propria diversità contro un mondo, quello borghese, che li vuole integrare solo a patto di sottostare a determinati parametri. Nel secondo inedito il rifiuto del “mondo degli integrati” è invece interpretato attraverso l’allontanamento, il viaggio come strumento di formazione alternativa a quella imposta dalla società conformata. I libertini dell’esordio nascono da questo innesto: il romanticismo abbandona il suicidio come unica opzione di resistenza possibile, sfumando nell’epica della Beat Generation.

“La giovinezza è l’immaginario della dissidenza, della difesa delle voci diverse, è l’anti-kitsch-piccolo-borghese, è il linguaggio dell’individuo che si allontana dalla massa. L’opera di Tondelli si sviluppa lungo un percorso che passa dall’impegno collettivo a quello del singolo, dalla generazione del Movimento del ’77 alle voci individuali degli anni Ottanta. Questa esperienza si sviluppa parallelamente a un sistema teorico ben ponderato che nasce dall’esigenza di offrire un’alternativa ai giovani Werther e ai giovani Ortis ai quali solo il suicidio si proponeva come valida azione sovversiva in difesa dell’identità”.

Come ci si salva dal conformismo, dal convenzionalismo, dall’asfissiante rispetto dei codici?

Il linguaggio è la forma che diamo alla realtà. Le parole che scegliamo e poi usiamo, più o meno consapevolmente, sono sempre portatrici del nostro punto di vista sul mondo. Si caricano di un certo sistema di valori. La consapevolezza nell’uso della lingua è certamente un passo importante verso la liberazione dal conformismo, quello che Tondelli chiamava “letterarietà” non certo pensando alla letteratura, ma all’insegnamento della lingua che avviene presso l’istituzione scolastica. Questo è un punto decisivo nell’impegno di Tondelli ed è anche l’aspetto che più lo avvicina a Pasolini: il linguaggio burocratizzato della politica, quello della pubblicità, quello della società di massa allontana le parole dal dettaglio e dall’autenticità. L’invito è quello a ricercare una lingua che sia quanto più possibile autentica, sia essa esuberante come il linguaggio dei libertini o minimale e scarna come in Camere separate.

Giuseppina Capone

 

 

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