Cristobàl Balenciaga: il designer della moda innovativa

Cristobàl Balenciaga fondò la “maison Balenciaga” nel 1917 a San Sebastiàn in Spagna. Viaggiava di continuo per arricchire il suo bagaglio artistico e culturale e per trovare continui stimoli e ispirazioni per  le nuove collezioni, ma dopo essere stato in America e aver appreso le tecniche di confezionamento che utilizzavano oltreoceano, ebbe la certezza che nel suo atelier avrebbe continuato a far produrre pezzi singoli per abiti lavorati a mano e che mai e poi mai avrebbe permesso l’utilizzo di macchinari per confezionarne.

Sebbene la notevole fama stava portando lo stilista dritto al successo, egli soffrì di grave depressione che lo stava spingendo verso una drastica decisione: chiudere per sempre la sua casa di moda.

“Il maestro di tutti noi” è così che lo considerava Christian Dior. Quest’ultimo, era per Balenciaga, non solo un ottimo collega, ma un vero e caro amico, infatti, fu proprio lui a sostenerlo e ad aiutarlo a superare quel momento di malessere, eliminando del tutto la possibilità di chiudere la maison anzi, da lì a poco, Cristobàl Balenciaga, scoprì una nuova tecnica all’avanguardia: l’invenzione delle camicie senza colletto, conquistando un gran numero di clientela, tanto da far ottenere maggior fiducia nelle sue capacità di designer e rimettersi in gareggiata.

Ormai ritenuto architetto degli stilisti, Balenciaga, era capace di creare abiti con stoffa rigida in modo tale che restassero perfettamente in piedi nella forma da lui progettata. L’accostamento di colori che preferiva il designer di moda, per le sue collezioni, era spesso il marrone con il nero e, per la maggior parte delle sue creazioni, egli si ispirava ai colori, ai tagli della stoffa e allo stile della danza flamenco.

Nel 1937, Balenciaga, aprì la sua casa di moda a Parigi e la strada verso il successo fu rapida e in ascesa: in breve tempo fu definito rivoluzionario della moda, soprattutto per l’invenzione del cappotto a spalla quadrata che in quel periodo fu una vera e propria innovazione, particolarmente per le maniche tagliate in un unico pezzo con il carrè e per i suoi disegni con pizzo nero. A quanto pare, le sue linee stavano diventando sempre più coerenti, delicate e raffinate. Nel 1951, Cristobàl, modificò la silhouette con la rimozione della vita e allargando le spalle, inoltre, inventò l’abito a tunica che, nel 1958, diventò l’abito chemise. Ancora, nel 1963 realizzò la giacca a palloncino sferica, l’abito baby doll a vita alta, il cappotto cocoon, la gonna a palloncino, e l’abito a sacco nel 1957.

Negli Anni ‘60, lo stilista iniziò ad utilizzare tessuti completamente diversi; stoffe pesanti, rigide, allo stesso tempo con ricami armoniosi, insoliti, ma ugualmente rivoluzionari. Di fatti, le sue meravigliose creazioni come l’abito di raso rigido, furono valutati come abiti di alta moda. Per la regina Fabiola del Belgio, Balenciaga nel 1960, disegnò l’abito da sposa fatto di raso ducale avorio bordato di visone bianco al collo e ai fianchi. La maison Balenciaga chiuse nel 1968 e il suo fondatore morì nel 1972. Nel 1986, fu acquistata da Jacques Bogart aprendo una nuova linea di prêt-à-porter. Ad oggi, il designer della casa di moda Balenciaga è Demna Gvasalia.

Alessandra Federico

La storia di Dragon Ball

Dragon Ball è una delle serie manga/anime più famose al mondo. La storia nasce nel 1984 da un’idea di Akira Toriyama e da lì a poco appare sulla rivista Weekly Shonen Jump, trovando, in seguito, la sua continuazione nell’adattamento televisivo dal 1986 al 1996 in Giappone, per poi riscuotere un successo a livello mondiale.

Akira Toriyama è nato il 5 aprile nel 1955 in Giappone, città di Kiyosu, ha frequentato la Prefectural High school di Tokyo e ha lavorato per la Shueisha e Bird Studio.

Ispirato dalla cultura cinese (Il viaggio in occidente classico della cultura cinese), dal cinema, in particolare dal kung-fu del noto attore Jackie Chan, dai classici del cinema western e di fantascienza (evidenti le influenze di film come Terminator, Alien, Frankestein, Dracula) e dall’animazione Disney, l’artista, ha creato una delle opere di animazione più famose e riconosciute, che ha accompagnato e avvicinato una moltitudine di generazioni per oltre un trentennio.

Il mondo di Dragon Ball presenta una visione futuristica e fantastica della terra, affiancata da elementi che richiamano all’era della Preistoria e, contemporaneamente, ad elementi tipici della magia.

Il mondo di Dragon Ball presenta specie antropomorfizzate, esseri umani, esseri artificiali, alieni e interpretazioni di figure divine.

Inizialmente, l’idea di Akira, era quella di realizzare un manga con protagonista femminile (Bulma), ma in seguito il ruolo principale venne affidato al piccolo Son Goku, giovane, forte ed esperto di arti marziali. Rimasto orfano del suo unico genitore, il giovane, vive sulle montagne e non ha mai avuto contatti con altri esseri umani, ad esclusione del suo nonno defunto.

Ed è proprio l’incontro con la giovane Bulma a determinare l’inizio del grande viaggio del protagonista alla ricerca delle fantomatiche sfere del drago.

Il percorso di Goku è un vero e proprio viaggio alla scoperta del nuovo, dell’inverosimile, dell’incredibile. La ricerca delle sfere del drago è il pretesto narrativo che porta il personaggio a crescere, a compiere delle scelte, a migliorarsi sia dal punto di vista fisico che da quello spirituale.

Il protagonista è un ragazzo dal cuore puro e lindo, libero da ambizioni materiali o di potere; e, la ricerca delle sfere capaci di esaudire i desideri, è dettata unicamente dalla volontà di abbattere una delle paure ancestrali dell’essere umano: la morte.

Goku, affronta una serie di antagonisti nel corso della storia e molti di essi sono rappresentazioni metaforiche di vari aspetti del male e delle inquietudini dell’essere umano; creature demoniache che si ispirano all’immaginario collettivo e a credenze religiose tipiche del mondo orientale. Ancora, l’esercito del Red Ribbon, nella prima serie Dragon ball, è una chiara denuncia ai sistemi totalitari che mirano alla conquista mediante la tecnologia militare e strategia del terrore. Mentre i personaggi provenienti dallo spazio rappresentano la paura dell’ignoto ma anche la consapevolezza dell’esistenza di altre forme di vita, ponendo interrogativi e riflessioni su differenze e similitudini tra umani e non.

I personaggi nati dalla mano dell’uomo, hanno un ruolo importante nella serie: essi mirano sull’evidente influenza che le macchine hanno nella vita dell’uomo, rappresentando il male che egli crea al fine di conquistare e, allo stesso tempo, sono creature che sviluppano un’intelligenza autonoma e una sorte di anima simile a quella umana. Infatti, nella serie, spesso i robot manifestano sensibilità, empatia, gentilezza e compiono scelte non dettate dai propri creatori.

L’arco narrativo di Dragon Ball Z è un metaforico viaggio che avanza una profonda critica all’uomo attraverso la sua trama lineare e apparentemente semplice. Quest’opera è riuscita ad unire, nel suo piccolo, il mondo orientale con quello occidentale, lasciando un segno indelebile nelle generazioni e nei cuori delle persone.

Alessandra Federico

Antonio Lanzaro: Interviste e lettere “fantastiche”

Un nuovo lavoro letterario dal titolo Interviste e lettere “fantastiche” ha visto impegnato in questi mesi Antonio Lanzaro, presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus e già docente universitario. Brillante “penna”, dopo le sue numerose pubblicazioni di carattere scientifico, si è dedicato negli ultimi anni ad una ricca produzione letteraria con la quale affronta fatti della realtà quotidiana di ieri e di oggi e dà libero sfogo alla sua fervida fantasia con racconti di fantascienza.

L’ultimo volume in ordine temporale è, invece, dedicato a uomini illustri che hanno fatto la storia in vari campi. Si tratta di letterati, filosofi, martiri, religiosi, statisti, artisti, poeti, che hanno segnato le loro epoche.

Per parlare di loro e con loro l’Autore utilizza una modalità brillante, quella dell’intervista-colloquio con il personaggio prescelto. Veste i panni del direttore de “Il Gazzettino del Regno” per parlare con Carlo III e ricordare il ruolo di Napoli durante il suo regno e la realizzazione degli splendidi siti ancor oggi vanto della Campania in tutto il mondo. Intervista Dante Alighieri e gli scrive una lettera, così come fa anche con l’illuminista Voltaire. Dedica una bella intervista ad Eleonora Pimentel Fonseca martire della rivoluzione partenopea del 1799. Spazia con i suoi incontri fantastici parlando con Napoleone Bonaparte, Achille Lauro, Salvatore Fergola, Salvator Rosa e corrispondendo epistolarmente con Caravaggio, Totò, S. Giovanni Battista de la Salle, Ottaviano Augusto, Jacopo Sannazaro, Salvatore Di Giacomo, Camillo Benso conte di Cavour, con il suo docente Nadir Chiucchi, Benedetto Gareth, Eduardo Nicolardi, Charlton Heston.

Il volume è arricchito da alcune sue poesie sapientemente scelte fra una vasta produzione e da una lettera al nonno con il quale parla della parità di genere e della necessità di eliminare ogni forma di discriminazione per le donne e le ragazze in ogni parte del mondo.

Alessandra Desideri

 

Il Noi solidale: filantropia greca ed humanitas romana

Homo sum, humani nihil a me alienum puto, “Sono uomo, niente di ciò ch’è umano ritengo estraneo a me”: parole pronunciate nell’Heautontimorumenos di Terenzio da Cremete, a scusante della sua curiosità e diventate celebri per riferirsi all’essenziale fragilità della natura umana, alla difficoltà nel sottrarsi all’errore o alla colpa, alla disponibilità a non schivare alcuna esperienza umana. Il frammentario originale menandreo è privo del suo corrispettivo.

Quindi, bisogna interpretare l’esito autentico della considerazione propriamente romana dell’idea universale di humanitas oppure il riflesso dell’idea di filantropia greca?

Gli antichi si supportano, spalleggiano, affiancano oppure si schierano l’un contro l’altro armati, ignorando il sostegno reciproco, il mutuo soccorso, il tenersi per mano? Certo, si è lontani dalla disposizione a prodigarsi, ad intendersi, a tollerare, a smorzare le ire ed i contrasti in uno sforzo attivo e gratuito.

Di sicuro, si è distanti dalla solidarietà intesa come fratellanza, aiuto materiale e morale per migliorare le condizioni di vita dei poveri, dei derelitti, di chi chiede asilo, di chi è senza lavoro e senza casa, degli anziani senza mezzi per vivere, dei malati. L’assetto politico ed ideologico greco era imperniato sull’orgogliosa rivendicazione dell’appartenenza alla grecità in contrapposizione a tutto ciò che greco non era.

E’ necessario attendere la morte della polis ed immergersi nella realtà cosmopolita ellenistica, laddove il cittadino è un uomo ed è solo.

Allora, ecco emergere i sentimenti di panico, inquietudine, crisi, isolamento interiore. In tale temperie culturale appare la filantropia, la solidarietà tra gli uomini, soprattutto nel dolore ma è impensabile un’unità concreta dell’umanità, un dispiego di energie e tempo al servizio degli altri.

Si configura come amore per l’uomo nato dalla compassione, come solidarietà di uomini travolti dal Fato, che nella crisi e nella decadenza del mondo cui appartengono si osservano con sguardo benevolo: unica forma di salvezza.

A Roma grande assente è la dimensione fattivamente concreta, profondamente etica e radicalmente sociale.

L’altro da sé?

Meglio non dare fiducia ad uno sconosciuto più di quanto non se ne darebbe ad un animale feroce!

Sì, si scorgono cenni di rispetto della dignità umana ma si tratta di un dovere che, del resto, distingue l’uomo proprio dall’animale.

Non c’è afflato di vicinanza disinteressata: mano tesa al naufrago.

Principio morale contrapposto all’utile personale? Semplicemente, il dovere di mostrarsi  gentile, dolce, mite.

Convivialità raffinata ed, al contempo, intima e familiare. Condivisione totale d’idee, di gusti, di aspirazioni tra gente elegante.

Riconoscimento di ciò che di umano vi è in ogni uomo? Riconoscimento della comune natura umana? No, mera complicità tra chi vive secondo uno stile di vita elitario.

La solidarietà nasce dal rispetto di ciò che rende l’uomo un uomo, al di là delle distinzioni di sesso, ceto, rango o condizione sociale.

Occorrerà la lezione senecana per ritenere tutti compagni di schiavitù nei confronti della fortuna, dei capricci del destino; per capire che si respira la stessa aria, che si vive ed infine muore. Ma si è nell’alveo rassicurante dell’astrazione teorica: la classicità non accende la fiaccola della solidarietà inclusiva ed altruistica.

Giusy Capone

Psycho di Alfred Hitchcok

Il film Psycho di Alfred Hitchcok è tratto dal romanzo di Robert Bloch, basato sulle vicende reali del serial killer Ed Gein.

La trama: Marion Crane è una giovane e avvenente segretaria che lavora in un’agenzia immobiliare. Il dirigente della filiale affida a Marion una cospicua somma di denaro da versare in banca ma la donna non sarà in grado di resistere alla tentazione: ruberà il denaro per poi scappare in auto verso un destino ignoto. Nella prima parte del film, il maestro del brivido presenta il primo e basilare concetto: la rottura della normale routine quotidiana dovuta ad un evento accidentale e l’emergere della cupidigia. Per l’autore è stato essenziale sottolineare, sin dalle prime battute, il ruolo fondamentale che la psiche ha nell’influenzare le scelte e, di conseguenza, il proprio destino.

Quello di Marion è un viaggio tormentato dall’inquietudine e dal senso di colpa; per sottolineare il ruolo della psiche nei comportamenti umani, Hitchcok, dà voce ai pensieri e alle emozioni di Marion, proiettando lo spettatore nella realtà interiore della donna, nelle sue paure e fragilità. Travolta da un temporale (elemento ‘naturale’ che rinforza la tensione narrativa) l’attenzione della giovane donna viene attirata dall’insegna di un Motel dove decide di fermarsi per la notte. Norman Bates, è il giovane proprietario e gestore del Motel, si presenta come un uomo mesto e sottomesso all’anziana madre.

I suoi tratti di dipendenza emotiva dalla madre sono stati enfatizzati dal regista per definire immediatamente il personaggio maschile come instabile e fragile, per conferirgli un aspetto poco rassicurante e per condurre lo spettatore sempre più addentro nelle dinamiche della psiche umana.

Pare proprio che, sin dall’inizio del film, Hitchcock abbia voluto far intendere che l’incontro tra Marion e Norman avrebbe segnato per sempre il destino di entrambi. Mentre Marion vorrebbe redimersi, tornare indietro, restituire il maltolto, recuperare la propria dignità, riprendere il filo della sua esistenza interrotto dall’irrompere della follia di un attimo, Norman è dilaniato dalla sua doppia personalità, anche se quel lato di sé ancora stabile ed equilibrato cerca un contatto con Marion, un disperato anelito ad una vita serena, una vita come quella delle altre persone, prevale, inevitabilmente, la parte più deviata dell’uomo, ed è proprio qui che il messaggio del regista arriva chiaro e diretto: non c’è posto per l’amore e per la serenità nella vita di chi ha subito un forte shock psichico.

Arriviamo dunque al climax dell’opera, alla celeberrima sequenza in cui Marion viene accoltellata sotto la doccia da una figura apparentemente femminile; Norman sembra sconvolto e non perde tempo per ripulire la scena del delitto e caricare il cadavere e la valigia nella macchina di Marion, (aggiungendo, infine, il giornale in cui la donna aveva nascosto il denaro rubato) per lasciarla sprofondare nelle sabbie mobili dello stagno più vicino al Motel. Tante tematiche in una sola sequenza; la beffa del destino, il tempo delle scelte che non perdona, il trionfo della morte sull’Amore. Pare proprio che qui, l’autore, abbia voluto insegnare allo spettatore una grande lezione sul senso del destino nelle storie umane; una combinazione di fatalità e di libero arbitrio in cui l’irruzione della follia può determinare esiti devastanti e definitivi. Solo alla fine si scoprirà la vera identità e la vera storia di Norman: ben dieci anni prima, egli, aveva ucciso la madre e il suo compagno. Anche se era riuscito a farla franca, diffondendo la notizia che la madre era morta suicida dopo aver assassinato il proprio compagno, il senso di colpa, per il giovane, era diventato oramai una persecuzione che aveva, col tempo, scisso in due la sua personalità: Norman aveva mummificato il corpo della madre (per illudersi di averla ancora in vita), vivendo una sorta di delirio quotidiano in cui era lui stesso ad interpretare il ruolo della madre indossando i suoi abiti e non solo, imitandone perfino la voce in modo impeccabile. La cattura del giovane da parte della polizia rivela altri particolari della sua vita di omicida, ma ciò che di questo film ha suscitato completamente curiosità, interesse, e un pizzico di incredulità è stata l’ultima scena in cui Norman, ormai completamente perduto nei meandri delle sue personalità, si rivolge al poliziotto impersonando sua madre attraverso la sua voce. La scena finale, in cui l’auto con il cadavere ed i soldi riemergono dal fango, conclude, tra l’amaro e il beffardo, le tristi storie di Norman e Marion, lasciando lo spettatore sospeso in un turbinio di emozioni e sentimenti contrastanti che spaziano dalla pietà empatica al rifiuto. Di certo, Hitchcok ha cambiato per sempre i canoni della narrazione cinematografica, ha imposto nuovi orizzonti esplorativi ed interpretativi della realtà ma, sopratutto, una concezione della normalità complessa, stratificata e suscettibile di imprevedibili, travolgenti cambiamenti.

Alessandra Federico

Le Imperfette. Storie di donne nell’Inghilterra vittoriana e post vittoriana

Emanuela Chiaricò Le Imperfette è una raccolta di dieci racconti inglesi, nove dei quali mai tradotti prima in italiano, pubblicati tra il 1880 e il 1922. Cosa accade nel già citato quarantennio rispetto all’affermazione della New Woman?

Oggi è quasi impossibile immaginare quanti pochi diritti avessero le donne nell’Inghilterra vittoriana. In un mondo totalmente maschilista, per via del loro sistema riproduttivo erano considerate emotive e instabili, per estensione quindi incapaci di prendere decisioni razionali; e una volta sposate erano trattate poco meglio degli schiavi.  Agli occhi della legge, come spiego nella mia introduzione al libro, una donna dopo il matrimonio cessava di esistere; nel sistema patriarcale subiva il passaggio da figlia a moglie con un’unica prospettiva di completamento del paradigma vittoriano: diventare madre. Il controllo da parte del marito non era solo relativo ai suoi possedimenti ma anche al corpo. Per una donna sposata rifiutare il sesso era preludio di annullamento del matrimonio; il marito poteva picchiarla, anche violentarla senza conseguenza alcuna. Solo nel 1891 queste pratiche aberranti cessarono di essere diritti di cui poter godere da parte di un uomo.

Questo ci dice quanto uomini e donne vivessero due sfere molto diverse; i primi quella pubblica e le seconde quella privata. Le donne contenute nel libro ci raccontano esattamente questa evoluzione che porta alla nascita della New Woman, non alla sua affermazione.

In quadro sociale e legislativo così penalizzante, nella costruzione del progetto ho voluto far notare come da Alice Sheperd, protagonista de Il cuore fedele alla donna che sedeva con le mani in mano dell’ultimo e omonimo racconto, si sia trasformata la coscienza femminile. La prima, Alice, era una vera donna vittoriana, devota alla rassegnazione di un marito egoista e prevaricatore che addirittura la tiene nascosta alla famiglia per le sue origini umili e il dubbio passato; Esther Stables che dimora nel secondo racconto Inguaribile, è una sarta, una figlia del popolo che vede nel matrimonio la sua unica possibilità di riscatto da una vita di stenti, e con i poteri del suo pianto riesce a far capitolare Willoghby un giovane di 26 anni la cui una storia familiare e sociale le possono garantire una progressione. Kathleen in Il desiderio più profondo ha una storia simile ad Esther ma a differenza di quest’ultima non ama suo marito John; rimasta vedova decide di non sposare l’uomo di cui si è innamorata per punirsi dell’ingiustizia a cui ha sottoposto il pover’uomo che l’aveva sposata salvandola da una famiglia di origine anaffettiva. Queste tre donne sono ancora calate nel patriarcato vittoriano ma se pensiamo alla giovane Flo nel racconto Terra Incognita, siamo davanti ad un cambiamento, in lei c’è già l’embrione della New Woman. George Egerton che è in realtà lo pseudonimo di Mary Chavelita Dunnes Bright mette a confronto una madre vittoriana e una figlia che si ribella al matrimonio, per toccare il tema del matrimonio forzato contratto in totale inconsapevolezza (Flo ha solo 17 anni) e della violenza sessuale del marito, e osa anche di più alludendo all’aborto. Terra incognita fornisce alla costruzione narrativa del mio progetto quell’elemento deflagrante che evidenzia la nascita del movimento suffragista. In L’inquilino perfetto di George Gissing, la protagonista è una donna risoluta che non cede davanti alle piccole abitudini fastidiose del marito, un ex scapolo impenitente, e rivendica i suoi diritti quando lui con fare minaccioso sembra volerla aggredire fisicamente. I tre racconti che consacrano la nascita della New Woman e dello stream of consciousness che era il secondo obiettivo che mi era prefissa costruendo la raccolta antologica, sono L’Associazione di Virginia Woolf, Lena Wrace di May Sinclair e La donna con le mani in mano di L.Parry Truscott. Nel racconto corale di Woolf, le due protagoniste sono consapevoli che la donna nuova possa affermarsi grazie alla futura generazione di donne; le altre due sono emancipate da un punto di vista economico ma non emotivo perché ancora dipendenti dallo sguardo maschile per sentirsi legittimate, accettate.

Oltre al superamento dello stereotipo vittoriano femminile, si assiste alla nascita del modernismo. Di quali peculiarità si connota siffatto movimento che coinvolge la cultura tutta?

Sì, il progetto accompagna anche il passaggio dalla tradizione vittoriana alla nascita del modernismo; io ho approcciato i bagliori della nascita del modernismo che ha una spinta consolidante dopo la fine della prima guerra mondiale, i cui orrori  cambiano le priorità valoriali, e gli scrittori, dal canto loro, non possono ignorare i progressi tecnologici e i cambiamenti sociali del XX secolo, cimentandosi con la ricerca di nuove tecniche narrative e poetiche, e un approccio distaccato dall’opera, a cui si uniscono la mancata interferenza dell’autore o dell’autrice, la narrazione della coscienza, e la frammentazione modernista. Contrariamente a quanto si possa pensare, la prima ad utilizzare la locuzione flusso di coscienza in ambito letterario è May Sinclair e non Virginia Woolf; l’espressione compare infatti in una sua recensione ai romanzi della collega Dorothy Richardson, e in particolare in riferimento a Pointed roofs, contenuto in Pilgrimage (all’epoca erano solo tre in tutti, in seguito diventeranno tredici) sulla rivista The Egoist (aprile 1918, Vol. 5, No. 4).

The woman is perfected” è l’incipit di “Edge” di Sylvia Plath. Può definire la “perfezione” muliebre?

Il verso che lei cita ha ispirato la scelta del titolo della raccolta Le Imperfette, e per rispondere alla sua domanda riprendo le parole della coordinatrice del progetto Antonia Santopietro (Zest Letteratura Sostenibile/Literaria Consulenza Editoriale), che nella sua nota a margine dice: “Al culmine della vita, nella compiutezza raggiunta sull’orlo, si definisce la donna, la sua perfezione; e imperfette sono le donne confinate in ruoli o ambiti di irrilevanza, ritenute folli o moderatamente atte alla vita, inette o ripudiate, invisibili nei secoli, nei molti luoghi e nelle diverse culture”. La scelta del titolo voleva dunque rafforzare l’indefinibilità della perfezione muliebre, che non è un ideale a cui tendere, ma un recinto culturale in cui tenere addomesticato un’ideale femminile che configura la perfezione come il contraltare all’ossessione della virilità.

Quanto ha contribuito la narrazione nella comprensione delle questioni di genere?

Il suo contributo è stato assoluto, e con la costruzione cronologica progressiva dei racconti ho immaginato le autrici in particolare, ma anche alcuni autori passarsi il testimone letterario per approfondire e comprendere le questioni di genere.

Molte delle autrici contenute nel progetto sono state rivalutate da studiose dell’argomento, ad esempio Ann Ardis, Elaine Showalter ed Emma Burris-Janssen hanno lavorato su George Egerton; Rebecca Bowler e Claire Drewery su May Sinclair, e ovviamente tutti gli studi approfonditi sulla più conosciuta Virginia Woolf.

L’articolazione dell’identità femminista costruita da queste autrici è il frutto di una collusione, non di un’opposizione alle nozioni gerarchiche di differenza etnica e culturale. Una capacità assoluta di lettura dei tempi in cui vivevano, e al contempo letteraria per aver saputo trasferire quelle stesse nozioni e permettere loro di veicolare il più possibile. Alle volte non potevano essere esplicite, erano costrette ad alludere per via di temi tabù, il già citato aborto in Egerton ad esempio, ma ad una lettura più attenta non era impossibile cogliere a cosa si riferissero realmente.

I racconti proposti sono di George Moore, Ella D’Arcy, George Egerton, Netta Syrett, Arthur George Morrison, George Gissing, Virginia Woolf, May Sinclair, Elinor Mordaunt, L. Parry Truscott. Si può seguire un file rouge dal punto di vista formale, guardando squisitamente agli aspetti stilistici?

Nella costruzione del progetto ho tenuto conto del fil rouge di cui parla; anche qui c’è una sorta di staffetta linguistica e stilistica che si manifesta di racconto in racconto tracciandone l’evoluzione. In George Moore, ad esempio, si percepisce il germe della ribellione alla tradizione letteraria vittoriana soprattutto per i temi che predilige trattare: sesso, prostituzione, adulterio e omosessualità; Egerton restituisce il mondo interiore dei personaggi attraverso l’uso di momenti psicologici o passaggi quasi onirici; Morrison con il racconto dello slum, del periferico, pone scorci di modernità tematica e linguistica con sconfinamenti dialettali e l’ambiente povero del sobborgo sembra confluire nel paesaggio interiore del protagonista; Gissing pur con il suo lavoro consono al mercato letterario tardo vittoriano, rimane fedele a quello stile ma lo arricchisce con un’analisi psicologica e dialoghi accesi intrisi di intenso sarcasmo saturnino. Truscott che con il tentativo di catturare la natura simultanea e sfaccettata del pensiero e dell’esperienza, va oltre il desiderio di mostrare qualcosa di lineare e semplicistico e offre un esempio di flusso di coscienza potente regalando una dimensione quasi visionaria al racconto.

Emanuela Chiriacò è traduttrice. Collabora alla redazione del portale Zest Letteratura Sostenibile, per il quale scrive recensioni e traduce articoli. Ha pubblicato i racconti Fame da Bue nell’antologia Non ti resisto edito da Emma Books (Concorso Donna nel Quotidiano – Literaria Consulenza editoriale, 2017), Il nero assottiglia anche la notte, Uastasignu, Uno, Fish e Affetti feroci, amati rancori sulla rivista Fili d’aquilone dal 2017 al 2020, e Mièrum nell’antologia Racconti divini (Giacovelli editore, 2018). Ha tradotto e pubblicato i racconti A respectable woman (Una donna rispettabile) di Kate Chopin (Emmazine il magazine di Emma Books, aprile 2018), e The kiss (Il bacio) di Kate Chopin (Zest Letteratura Sostenibile, giugno 2018).

Giusy Capone

Fortezza Europa: a Napoli la mostra di Ferruccio Orioli

Ferruccio Orioli, architetto veneziano che vive e lavora a Napoli, ha studiato a Venezia e poco dopo aver conseguito la laurea in architettura si trasferì a Matera e successivamente a Roma. Dal 1994, Ferruccio Orioli ha scelto Napoli come luogo in cui stabilirsi definitivamente, reputando la città partenopea la sua più grande musa ispiratrice; ha da sempre amato l’arte e la pittura e, pur essendo autodidatta, ha iniziato ad usare l’acquerello nel 1978 ottenendo ottimi risultati. Le sue prime mostre sono state esposte a Napoli, Capri, Roma, Benevento, Bisaccia, Venezia e Matera.

“Fortezza Europa” è una sua mostra realizzata su idea di Marta Ragozzino e a cura di Claudia Borrelli e Anna Maria Romano. Le straordinarie opere di Ferruccio Orioli, realizzate pochi anni prima per diverse mostre tra il 2018 e 2021,  sono state ripresentare e messe in esposizione nella chiesa e sagrestia di Sant’Erasmo a Castel Sant’Elmo di Napoli fino al 22 settembre 2022.

L’artista, questa volta, ha deciso di raccontare, attraverso i suoi dipinti, questo arduo tempo storico: migrazioni e le conseguenze dannose o anche letali che patiscono tutti coloro che vivono queste situazioni, conflitti tra gli stati, ancora, una società lesionata da grandi diversità economiche e sociali e degli effetti negativi che questo può comportare soprattutto sulle nuove generazioni.

“Noi di qua, voi di là” è la mostra di Orioli che si è tenuta a Napoli, presso Fiorillo arte, dal 15 dicembre del 2018 fino al 18 gennaio 2019, a cura di Brunella Velardi. Sono state le ricerche sulla costruzione di separazione tra Stato e Stato a suggerire a Ferruccio Orioli il tema di questa mostra; settantanove le nazioni che partecipano economicamente alla costruzione dei muri per dividere Paesi e non solo, per fermare centinaia e migliaia di persone che scappano dalla miseria e dalla guerra.

“Sulle sponde del nostro mare” è la seconda mostra di Orioli, tenuta a Matera presso la scaletta, dal 12 luglio 2019 all’11 settembre 2019, a cura di Giancarlo Ferulano. Il tema principale di questa esposizione, invece, si concentra in particolare su coloro che perdono la vita durante i viaggi per fuggire dalle carestie, dalla fame, per salvare i propri bambini dalle guerre e dai disastri ambientali. “Abbandonati tra mare e cielo” è la terza mostra tenuta in esposizione a Napoli presso la Casa di Vetro, a cura di Claudia Borrelli, dal 12 dicembre 2021 all’8 gennaio 2022. Attraverso le opere di questa mostra, Orioli, racconta la storia di una donna migrante di nome Malaika e del suo viaggio a bordo di un gommone con altre 72 persone. Per la realizzazione di questi dipinti ad acquerello, l’artista, si è completamente immedesimato nella vita della donna, cercando di vivere, anche solo per poco la sua sofferenza. Difatti, questi quadri, riescono a trasmettere tutti i sentimenti che Malaika provava durante il viaggio: la paura di non farcela, la rabbia per chi ti costringeva a scappare, la voglia di ricominciare una vita nuova lontano da ogni strazio che per anni ha dovuto vivere.

Un viaggio immensamente lungo quello della giovane donna e delle altre settantadue persone che navigavano con lei, di trecentosessanta ore in cui anche Malaika, purtroppo, non riuscì a raggiungere la terra ferma. I dipinti di Ferruccio Orioli sono storie di vita vera raccontante con sensibilità, empatia e tanto coraggio.

Alessandra Federico

 

Non sei il tuo senso di colpa. Riflessioni contro il mito della “supermamma”

Una madre perfetta è: sorridente, organizzata, ben vestita, in carriera, attenta all’ecologia e alla cucina sana. Quanto i social media hanno contribuito all’edificazione di quest’immagine?

La costruzione dell’immaginario femminile viene da lontano, si pensi alle pubblicità degli anni ‘50 e alle rappresentazioni cinematografiche con protagoniste donne sorridenti e figli sorridenti, con il grembiulino e i capelli all’ultima moda intente a preparare la cena per il marito e i figli.

Negli ultimi decenni si sono aggiunti i social media, che hanno cambiato il linguaggio e che hanno permesso alla quotidianità di divenire modello. Da iniziale spazio di evasione stanno rischiando di trasformarsi in spazio di frustrazione. È difficile confrontarsi con i modelli che si trovano scorrendo i propri feed, spesso si incappa in modelli materni che appaiono perfetti: corpi perfetti a poche settimane dal parto, madri aggiornate su tutte le più recenti linee guide (alimentazione, sicurezza, ecologia, etc.) e pronte a metterle in pratica nella vita di tutti i giorni, tavoli ricchi di proposte educative stimolanti per i figli, famiglie sempre in viaggio o impegnate in gite fuoriporta super accattivanti, etc. Tale confronto sicuramente rischia di condurre tante madri, alle prese con le difficoltà della vita di tutti i giorni, verso un profondo senso di frustrazione, di colpa e di inadeguatezza. Ma credo che sia importante riportare l’attenzione sul verbo “apparire”: ciò che viene proposto è un montaggio di momenti felici della giornata, si ha la percezione che le stories caricate siano tutto il vissuto, ma non è così! Tutte le famiglie attraversano momenti di difficoltà, momenti di frustrazione e devono fare i conti con i litigi con i propri figli… solo che si sceglie di non mostrare questo pezzo di realtà e ciò è dannoso, perché sembra non esistere.

Preoccupazione, tristezza, frustrazione, senso di colpa, paura e rabbia: per quali ragioni l’immaginario collettivo non riesce a contemplare che la nascita di un bambino e la nascita come madre non portano solo emozioni di felicità? 

A parer mio ci sono molteplici risposte a questa domanda: da una parte, si tema che l’associare la maternità a sentimenti contrastanti (come paure, delusioni, incertezze e molto spesso anche rabbia) possa spaventare e porterebbe così le donne a non scegliere questo percorso tanto difficile sia fisicamente che emotivamente. Dall’altra, una madre arrabbiata o triste spaventa in quanto sembra arrabbiata o triste verso il proprio figlio, verso quella creaturina per cui dovrebbe provare solo amore incondizionato. Ma dar spazio a questa differente narrazione permetterebbe di capire quanto il problema non sia nel rapporto madri-figli, quanto in quello madri-società. E ammettere che esse si trovino in difficoltà nel condurre il proprio ruolo a causa di una società che non le sostiene, ma che le mette costantemente sotto pressione, ci farebbe capire quanto il modello di vita proposto sia sbagliato e nocivo.

Elisabetta Franchi ha recentemente asserito che non assume in ruoli dirigenziali donne prima degli “anta”, “perché se poi rimangono incinte è un casino”.

Non trova che abbia dato voce ad un pensiero che è di molti, donne comprese? Come si scardina un’opinione così vetusta?

Purtroppo, ancora oggi, nel 2022, una donna che si assenta dal luogo di lavoro per maternità viene vista come una lavoratrice che porta un danno all’azienda di cui è parte.

Storicamente ci è stato insegnato che la donna è più utile all’interno delle mura domestiche e che essere madri sia una condizione che va a discapito della carriera, perché bisogna sacrificare un pezzettino di noi stesse e scegliere se avere figli felici o soddisfazioni lavorative.

Il cambio di mentalità potrà avvenire quando si riconoscerà che avere madri felici e appagate porti ad avere anche nuove generazioni più serene. Nel momento in cui un bambino riconosce i traguardi raggiunti dai propri genitori e ne condivide i successi sarà parte di una famiglia felice e potrà così essere un adulto propositivo. Infatti, il pensiero che la propria madre abbia dovuto dedicarsi alla prole in toto rinunciando a soddisfare le proprie aspirazioni non è sano nemmeno per i figli, conduce a nuovi sentimenti di colpa irrisolti.

Inoltre, una donna quando diventa madre sviluppa e affina molte capacità che saranno una risorsa preziosa anche sul luogo di lavoro, quali: il problem solving, l’essere multitasking, la capacità di rimanere lucida anche in un momento di crisi e di forte stress, l’apertura al dialogo e all’ascolto, il miglior utilizzo del tempo e così via.

Martina Borsato lo ha mostra nel suo contributo “Un’altra storia”: essere più “cose”, rivestire più ruoli nella vita non è un handicap, ma una risorsa che ci permette di migliorarci in molteplici direzioni, anche in quella lavorativa.

Molti reputano che la maternità comporti una diminuzione delle facoltà intellettive e lavorative della donna. Qual è la sua idea in merito?

Nonostante ci siano ricerche scientifiche che dimostrano quanto il cervello di una neomamma “perda pezzi” per potersi allineare ed empatizzare con più facilità con quello del proprio bambino, sono estremamente convinta, come spiegavo nella risposta precedente, che di rimando ci siano capacità che nascono e che si sviluppano e che sono risorse estremamente preziose per la famiglia, per il lavoro e per la società in generale.

Inoltre, credo che troppo spesso le donne vengano catalogate come inferiori quando poi spetta a loro l’arduo compito di accudire e crescere le nuove generazioni, ovvero gli adulti di domani.

Il libro raccoglie i contributi di diverse professioniste (alcune madri, altre no) su diversi aspetti della maternità, dalla sociologia alla sostenibilità, dal baby wearing alla pedagogia. C’è un filo rosso che le inanella?

Il filo rosso che collega i diversi saggi presenti nel volume è la volontà condivisa di far spazio a un’altra narrazione materna, diversa da quella mainstream con cui ognuna di noi ha dovuto fare i conti nel proprio privato e nella quale abbiamo fatto fatica a riconoscerci. L’esperienza della maternità è talmente personale che non dovrebbe essere racchiusa in stereotipi, ma dovrebbe tener conto delle diversità di ciascun individuo (madre o padre che sia) che la affronta.

Il senso di colpa di cui parliamo è quello causato dal non riuscire o dal non volere o ancora dal non potere soddisfare gli standard che ci sono stati proposti e che ci hanno fatto sentire sbagliate, mancanti, frustrate.

Il nostro è un racconto corale al femminile, che parte dalla nostra esperienza in quanto donne, madri e professioniste, che vuole proporre una differente visione e una narrazione autentica lontana da falsi miti. Speriamo, così, di creare momenti di condivisione e confronto per permettere a tante altre di riuscire a nominare le proprie emozioni negative, di fare i conti con la propria situazione, di chiedere aiuto quando serve e di smettere di sentirsi sbagliate solo perché è la società a farcelo credere.

 

Alice Brioschi è laureata in Cultura e storia del sistema editoriale, ha lavorato per anni come organizzatrice di eventi culturali per poi approdare in una casa editrice indipendente.

Oggi gestisce una libreria a Milano. È specializzata nel settore degli albi illustrati e alla letteratura per l’infanzia.

Giuseppina Capone

 

Grecia e Cina: culture a confronto

Diritti umani,  scienza, giustizia, istituzioni:  Grecia e Cina attraversate da analogie e differenze, affinità e diversità.

Interroghiamoci circa l’universalità della natura umana, facendo sì che la storia comparata divenga esercizio di rabdomanzia come da evocazione di Marc Bloch.

Quali sono le peculiarità della civiltà cinese antica?

Lo sviluppo senza arresto; la compresenza quasi sempre pacata di tradizioni religiose differenti; la fede ottimistica nella dolcezza della natura umana, individuale e collettiva; la poderosa importanza conferita all’istruzione e la cieca fiducia nella facoltà di educare tutti; la certezza della caducità delle istituzioni umane; i poderosi ideali d’unità politica e di eufonia sociale; l’intenso rispetto per la natura esternato in tanta arte e filosofia; la rilevanza attribuita alla moralità quale principale fonte di significato dell’esistenza umana.

Quali sono le caratteristiche della civiltà greca antica?

L’eterogenea vita politica di Atene con la convivenza di democrazia, populismo e nazionalismo; la consuetudine sportiva e la cura del corpo con la rivelazione del “corpo per scoprire l’uomo”; gli innumerevoli miti e le loro discordanti versioni per risalire alle origini del mondo; la religione con i bizzarri abitanti dell’Olimpo. E, poi, ancora, il soprannaturale, il credito attribuito al sogno nonché all’influenza delle stelle, i fenomeni psichici prossimi alla trance ed all’allucinazione, come l’ossessione dionisiaca ed il furore profetico, la divinazione, l’orfismo e le pratiche magiche.

Parrebbero distanti sideralmente.

Eppure, porgendo uno sguardo dialogico ed uno spirito critico coevo, le due lezioni paiono convergere nell’esortarci a reagire alle sventure con inclinazione alla tolleranza ed alla acquiescenza di fronte alle tempeste degli sconforti, delle affezioni, dei drammi misteriosi.

La Cina, fino al recente passato produttore di mercanzia a basso costo, oggi padrona del mercato high-tech mondiale; la Grecia da culla della civiltà occidentale a culla della povertà più nera, tradita dalle potenze occidentali.

L’individualismo dell’antico e nuovo milionario cinese e la polis, recente terra di necessaria solidarietà.

Confucio e Socrate in serrato confronto oltre i limiti territoriali e temporali, oltrepassando altresì quelli linguistici e culturali, così da farsi capitale comune di conoscenza per  noi gente del Terzo Millennio dopo Cristo.

Un networking che si attua mediante l’interrelazione di popoli che s’indagano scambievolmente, talora da un’angolazione estetico-formale, talora da un’ottica politico-dialogica.

A Pechino nel 2022 i “Greci: da Agamennone ad Alessandro Magno” e “Il mare nell’arte greca dall’antichità a oggi”, poiché il mare è da sempre, per i greci, la fonte cardinale delle imprese economiche, giacché gli armatori greci da decenni fabbricano i mercantili nei cantieri navali cinesi, perché il porto del Pireo è stato acquistato dalla Cosco sino al 2052.

A Creta, nel museo archeologico di Iraklio, accanto ai resti della civiltà minoica,  “Tesori melodiosi: riti e liturgie della dinastia Qing”, in sincronia con una mostra su Dedalo, il mitico architetto del labirinto.

Già, Geoffrey E. R. Lloyd, professore emerito di Filosofia e scienza antiche all’Università di Cambridge, mediante lo studio sistematico delle orme archeologiche del pensiero antico nelle testimonianze storico-letterarie pervenute, fu predittivo di relazioni ieratiche ed amichevoli.

Le relazioni sociali e culturali tra i due popoli  assumono la forma di un incontro di “sguardi” reciproci nell’ottica della promozione di un confronto “interumano” e “interdiscorsivo”.

La prospettiva delle scienze sociali e la prospettiva estetico-ermeneutica, di natura etica, si intrecciano con le percezioni emotive e sensoriali che emergono dal tessuto comunicativo fra le due civiltà antiche nel nuovo corso della storia.

Giuseppina Capone

Nina Ricci, la casa di moda italiana a Parigi

Nina Ricci, nome d’arte di Maria Nielli, è stata una stilista italiana. Nina nacque a Torino nel 1883 ma all’età di dodici anni si trasferì in Francia dove, solo un anno dopo, iniziò a lavorare come stilista apprendista e nel 1908 entrò a far parte dello staff della casa di moda parigina di Raffin con cui collaborò per ben 20 anni. Pochi anni prima di cooperare con la Ruffin, nel 1904, Maria si unì in matrimonio con Luigi Ricci, con il quale, nel 1905, diede alla luce il primo ed unico figlio Robert. L’affinità e la complicità tra madre e figlio era molto forte sin da quando Robert era bambino e, nel 1932, nella capitale francese, fondarono insieme la maison Nina Ricci. Nella maison, il ruolo di Robert era quello di amministratore degli affari e delle finanze, mentre Nina si occupava della parte creativa; disegnava e aveva una grande dimestichezza nel gestire i tessuti tanto da riuscire a sviluppare i modelli direttamente sul manichino o sul corpo dell’indossatrice.

In poco tempo, gli abiti realizzati dalla Nina furono apprezzati da molte donne parigine soprattutto per la scelta della qualità della stoffa, per la raffinatezza del taglio e dello stile e per la femminilità, grazia e originalità che la designer di moda donava ad ogni abito che creava.

Nel 1945, dopo la guerra, l’obiettivo di Robert Ricci per sostenere il ripristino post-bellico, fu quello di mettere in mostra al Louvre 150 manichini vestiti da 40 maison parigine (tra cui Balenciaga e Madame Grès). La mostra ebbe un successo inaspettato tanto da essere mandata in tour per l’Europa e negli Stati Uniti. L’idea della mostra al Louvre e del tour fu approvata e messa in atto da Lucien Lelong, Presidente della Camera francese.

La maison Ricci continuava la sua attività con la realizzazione di strepitosi abiti soprattutto dal design floreale; ricamato, dipinto, applicato o stampato su tessuto; Nina amava molto i colori delicati e le clienti iniziavano a fidarsi completamente di lei fino a lasciarle decidere addirittura il colore del tessuto o il design. Robert diede vita alla sua prima fragranza nel 1946 e la seconda nel 1948 con L’Air du temps diventata, da lì a poco, una delle profumazione più amate e vendute ancora oggi. Nel 1954 Nina decise di cedere il suo incarico lasciando scegliere il nuovo direttore artistico a suo figlio Robert che, in breve tempo, riuscì a trovare il designer all’altezza delle loro aspettative: Jules-Francois Crahay (belga). Jules lavorò per la maison per 9 anni per poi passare a Lanvin. Diversi sono stati i designer che, dalla morte di Nina ad oggi, hanno lavorato per la Maison Ricci; Gerard Pipart fu il nuovo designer della casa di moda Ricci dopo Jules, continuando la realizzazione di meravigliosi ed eleganti abiti proprio come quelli che realizzava Nina.

Quando Maria morì nel 1970, Robert continuò con la creazione dei profumi e nel campo della contabilità fino al suo ultimo giorno di vita (1988). Ma, poco dopo la morte della madre, nel 1970, a dirigere la maison fu Crahay e, nel 1988, appunto dopo la morte di Robert, la famiglia Massimo Guissan acquistò la casa di moda dove Massimo lavorò per diversi anni come stilista, fino a quando, nel maggio 2002, fu lo stilista statunitense James Aguiar ad acquisire il ruolo di designer disegnando le collezioni per due intere stagioni. Prese poi il posto di Aguair, nel 2003, Lars Nilsson che rivisitò in parte lo stile classico sostituendo alcune stoffe a quelle più moderne, ma mantenendo ugualmente la stessa classe della fondatrice della maison. Nel 2006, Lars, fu sostituito da Olivier Theyskens. Ad oggi, dal 2010, il direttore creativo della casa di moda Nina Ricci è Peter Copping.

Alessandra Federico

 

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