Oriente ed Occidente, Nord e Sud: il “Noi” dove si colloca esattamente?

L’umanità è divisa in blocchi culturali: questa è la percezione dell’uomo antico e questa è l’idea che circola ancora oggi.

Erodoto, ad esempio, individuava usi, costumi e consuetudini asiatici opposti a quelli greci: hellenikón vs βάρβαρος.

Le disparità economiche e culturali fra paesi ad alto grado di industrializzazione e quelli dove lo sviluppo è pressoché assente inducono a discorrere di Nord e Sud del mondo.

Qual è stata l’evoluzione storica di questi concetti  e qual è stata la loro funzione nell’immaginario collettivo?

Il “Noi” dove si colloca esattamente?

I confini sono stati sovente instabili; anzi, alcune regioni si sono ritrovate talora da una parte, talvolta dall’altra.

La Grecia del V sec. a.C. si avvertiva come l’Occidente in antitesi all’impero persiano asiatico; però, tre secoli dopo, per i romani la Grecia era parte integrante dell’Oriente ellenistico.

Il Giappone è senz’altro un paese industrializzato, all’avanguardia; appena due secoli fa era la più sperduta ed enigmatica terra d’Oriente.

Una suddivisione effettiva tra Oriente ed Occidente, decretata per scopi politici ed, al contempo, amministrativi, avviene alla morte di Teodosio ed alla successiva suddivisione tra Arcadio, a cui spetta l’Oriente ed Onorio, a cui va l’Occidente.

Da Est si teme l’arrivo di filosofie, religioni, life style impostati sulla lussuria, sull’eccesso, sullo stravizio, sulla dedizione al piacere. Tutti piacevolissimi elementi che avrebbero potuto allontanare l’uomo dalla sua essenziale attività di guerriero.

A Roma tremano i polsi: i Senatori emanano il senatus consultus de Bacchanalis. Stop ai Baccanali.

Chiuse le frontiere culturali con l’Oriente.

Orazio festeggia la vittoria di Azio, che ha stornato da Roma il pericolo di essere asservita ad una regina d’Oriente con queste parole: “…mentre la regina [Cleopatra], incapace di moderare le sue speranze e inebriata dalla prospera fortuna, col gregge svergognato dei suoi ributtanti custodi, apparecchiava nella sua follia rovine al Campidoglio e morte all’impero”.

Virgilio condanna ancor più esplicitamente l’uomo orientale. Iarba, re di Numidia, portatore malsano dei pregiudizi degli occidentali, così sparla del troiano Enea a Giove, lagnandosi dell’ospitalità di Didone innamorata: “Adesso quel Paride, col suo corteggio d’Eunuchi, / di mitra meonia fasciato la barba e i capelli / stillanti, il suo furto si gode”.

Qui c’è tutta la circospezione e la diffidenza verso la cultura orientale.

Qualche secolo dopo, si capì che la divisione creata da Teodosio non fosse tanto completamente artificiale: l’impero non era uniforme, era costituito da due zone differenti richiedenti diversi organismi amministrativi.

Attenzione: è l’Occidente ad essere tagliato fuori dal resto dell’impero.

Brown ci racconta, a proposito dell’“uomo qualunque”, che, quando la Gallia era terrorizzata dalle rivolte contadine provocate  dalle tasse e dagli affitti esorbitanti, gli agricoltori della Siria settentrionale potevano costruirsi solide case di pietra ed i contadini dell’Egitto esprimevano la loro tenace indipendenza.

L’Occidente inizia ad identificarsi con le terre dominate da franchi, sassoni e longobardi, all’indomani della conquista araba di alcune zone occidentali, come la Sicilia, la Sardegna e l’intera penisola iberica. E’ la conservazione di una fisionomia orientale agli occhi dell’Occidente ad acuire le differenze.

Lo sviluppo di potenti flotte di navi da guerra dotate di cannoni decreta il mutamento di prospettiva nei rapporti tra Oriente ed Occidente.

Vele e cannoni: navigazione su grandi distanze e forza distruttiva della polvere da sparo sono una micidiale combinazione, avverte Canfora, che permette al “piccolo” Occidente, condannato ad essere sopraffatto dai Tartari, di aggirare l’avversario, raggiungendo via mare e conquistando, con le bocche di fuoco issate sulle navi, la supremazia nelle estreme retrovie degli imperi terrestri dell’Asia.

Ecco: comincia il predominio planetario dei “barbari”, in Cina proprio così venivano definiti gli occidentali, con tono di commiserazione e la rincorsa tra l’Occidente ed il resto del mondo.

Voltaire cambia le carte in tavola: abbandona un’ottica centrata esclusivamente sull’Europa, considerando la cultura occidentale solo come una delle culture possibili e si riferisce a coloro che si scandalizzano dell’antichità del popolo cinese come “Certi letteratini

La larghezza di vedute degli illuministi cozza con l’ideologia dell’Europa liberale: razionalità scientifica, potere tecnologico e conquiste sociali radicano negli europei l’idea della propria superiorità culturale. E gli altri? Sono dei selvaggi; probabilmente, dotati di fascino se si valuta l’influenza della cultura africana e tahitiana su Picasso o Gaugain.

L’orientale è inaffidabile, perfido, crudele, corrotto. Non erano i temi propagandistici osservabili ad Atene nel V sec. a. C.?

Del resto, Muir sosteneva che fosse compito degli europei diffondere la civiltà tra “questa specie di popoli” che non avevano sviluppato la concezione della “libertà basata sul diritto”.

I rapporti tra Occidente e resto del mondo, inclusi Oriente ed Africa, sono ridisegnati dal declino delle potenze coloniali.

Barraclough è entusiasta nel contare le scarse vestigia della dominazione europea in Asia ed Africa.

Mentre io scrivo e lei legge, l’Occidente si trova al cospetto di “controspinte” molteplici, gravide di conflitti e di tensioni.

Toynbee parla di un Occidente che sfida il mondo, il quale, a sua volta risponde aspramente ed intrecciando “Orienti” ed “Occidenti”.

Ma la discriminante è davvero tra Oriente ed Occidente?

L’atlante è a chiazze o a pelle di leopardo ovunque e, forse, il macigno da spostare non è quello dei rapporti tra Oriente ed Occidente, di cui già scriveva Erodoto, quanto quello di riequilibrare l’ingiusta divisione della ricchezza, di restituire ciò che lo “scambio ineguale” ha tolto.

Giuseppina Capone

Giulia Caminito: Mitiche. Storie di donne della mitologia greca

«Antigone guardò lo zio e pensò al padre, alla madre, ai fratelli che aveva perduto, alle lacrime, ai viaggi, alle armi, ai tradimenti e seppe che lei non avrebbe fatto ancora torto alla sua famiglia, ignorando il corpo di Polinice. Lei non si sarebbe arresa.» Antigone come Medea, Penelope, Arianna, Circe. Perché ha dato loro voce?

L’idea del libro è quella di raccontare alcune donne dei poemi, delle tragedie del mito attraverso le loro vicende, le loro personalità, le gioie, gli errori. Ho quindi cercato notizie sulla loro infanzia, ho immaginato i sentimenti e i pensieri, le scelte, per scrivere le stesse storie, a noi molto care e familiari, da altri punti di vista. Così ho provato a narrare le case grandi come labirinti, i tuffi nel mare, l’amore per le stoffe, il desiderio di riconoscimento, la voglia di rottura e di sangue.

Tra le “mitiche” campeggia Pandora, donna malvagia, perché sarà lei per la sua incontrollabile curiosità a diffondere livore, conflitto, malanno, decesso, aprendo il celebre vaso sigillato da Giove. Il mito ha contribuito alla misoginia?

In realtà la Pandora che racconto io non è affatto malvagia ma curiosa, sveglia, interessata al mondo che la circonda, ed è proprio per questi motivi che decide di aprire il vaso, di capire cosa contiene. Credo che sia evidente come nel racconto di Adamo ed Eva che storicamente e simbolicamente la colpa è stata attribuita alle donne per aver rovinato l’idillio attraverso i loro gesti e le loro scelte. Penso quindi che ci sia della misoginia già implicita in molti miti e in molte parabole bibliche, queste di certo hanno anche contribuito a rinforzarla.

Penelope è nota per la devozione verso il marito e lo spirito di sopportazione nella lunga attesa di Odisseo. Durante il giorno filava la sua tela e, durante la notte, la sfilava per arrestare la prepotenza dei Proci occupanti la reggia di Itaca e pressanti affinchè scegliesse fra loro un nuovo sposo. Le domando se, in realtà, il suo inganno non fosse volto a proteggere il regno, il cui legittimo erede era il figlio Telemaco.

Nel racconto io ho dato questa interpretazione, certo Penelope resta simbolo di fedeltà, di pazienza e di devozione, ma non soltanto nei confronti di Ulisse, suo marito, ma anche rispetto a Itaca, al suo regno e al futuro di suo figlio. Penso che questi vari aspetti possano far rileggere la sua figura in modo diverso e provare a mettere in luce la sua forza autonoma, il suo ruolo chiave insieme ma anche a prescindere dal suo celebre compagno di vita.

La visione delle donne della mitologia greca è sistematicamente monodimensionale, sovente intrisa di cliché e venata di maschilismo. Omero, ad esempio, rende le figure funzionali al percorso umano, emotivo, emozionale maschile. Lei, invece, dà loro voce; le rende protagoniste, mutando la prospettiva circa il genere. Perché?

Stiamo assistendo a un movimento di riscoperta del ruolo delle donne nella storia, nella letteratura, nella mitologia, nella scienza eccetera, ognuna di noi prova a raccontare qualcosa in più, aggiungere un tassello da far leggere anche a bambine e bambini. Speriamo possa servire a farsi sempre più domande sulle donne e come sono state raccontate in passato, per continuare a tessere le fila dei miti, non lasciarli cementificarsi ma insistere nell’interpretazione, nella ricerca di nuovi significati, adatti ai nuovi tempi, alle nuove storie che vogliamo raccontare.

Euripide rende Medea una feroce ed impetuosa assassina ma anche una protagonista da palcoscenico. Eppure la realtà muliebre era davvero differente. Quali sono le possibili ragioni della discrepanza tra finzione letteraria e concretezza del reale vissuto?

La letteratura crea per forza una discrepanza, un altrove, una imitazione, un superamento o una diminuzione rispetto al reale, le ragioni stanno nella forma letteraria stessa, che può essere simbolica, allegorica, rispondere allo spirito del suo tempo, anticipare la storia, plasmarla. Sulle donne hanno pesato per molto tempo le parole maschili, la loro rappresentazione considerata più autorevole, il protagonismo storico e letterario degli uomini, quindi nel caso delle donne la discrepanza è per forza maggiore, le donne raccontate difficilmente, fino ai tempi contemporanei almeno, sono state molto in contatto con le donne viventi.

“Dobbiamo insegnare alle donne a farsi valere, ad apprezzare se stesse, a divertirsi e ad ingannarci”. Il messaggio di Montaigne è rimasto inascoltato?

Io ho amato molto Montaigne, resta per me un maestro senza pari. Credo che nulla è inascoltato, stiamo ancora costruendo, siamo in cammino, molte cose cambiano, molte cose ancora devono cambiare, le esigenze si fanno nuove, bisogna conservare le conquiste passate, bisogna continuare a divertirsi e a ingannare.

 

Giulia Caminito si è laureata in Filosofia politica. Ha esordito con il romanzo “La Grande A” (Giunti 2016) e nel 2019 è uscito il suo secondo romanzo “Un giorno verrà” (Bompiani). Nel 2020 ha pubblicato per La Nuova Frontiera Junior il libro “Mitiche, storie di donne della mitologia greca” con i disegni di Daniela Tieni.

Giuseppina Capone

Pierre Balmain, lo stilista di moda francese

Pierre Alexandre Claudius Balmain è stato uno stilista francese e fondatore della casa di moda Balmain, nato  in Francia a San Giovanni di Moriana il 18 maggio del 1914.

La passione per la moda e per il designer, per Pierre Balmain, nacque quando era molto giovane e, infatti, non portò a termine gli studi all’accademia di belle arti per dedicarsi completamente alla moda. Cosicché, il giovane apprendista stilista di moda, poco dopo aver abbandonato l’università, nel 1934, iniziò a lavorare per lo stilista britannico Edward Molyneux fino al 1939. Con la fine della prima guerra mondiale Pierre ebbe una grande opportunità; lavorò come stilista presso una delle case di moda più prestigiose di quel tempo, la Maison Lelong di Lucien Lelong. Pierre Balmain, però, non sentiva di esprimere a pieno la sua creatività poiché la casa di moda Lelong era poco concentrata sul lato artistico, quanto più sull’aspetto commerciale e quindi dopo pochi mesi si licenziò, nonostante la popolarità che stava acquisendo grazie all’eccellente lavoro svolto come designer all’interno della maison. Da lì a poco riuscì finalmente ad aprire una sua piccola boutique a Aix-Les Bains.

Nel 1945, dopo la seconda guerra mondiale, lo stilista riuscì a dare vita al suo brand e aprì il primo negozio in rue Francois a Parigi. L’intera Parigi, da quel momento in poi parlava dei meravigliosi abiti di Balmain. Il suo stile era caratterizzato da linee sottili, eleganti e raffinate e riusciva a dare ai suoi abiti un tocco di classe indipendentemente dalla stoffa che utilizzava, riuscendo a renderli tutti ugualmente originali.

La fama e la popolarità per lo stilista francese arrivarono fino ad Hollywood dove disegnò e realizzò abiti per film cult, dopo aver conquistato la duchessa di Kent, l’attrice Helena Rubinstein e Simone Simon, progettando e realizzando per loro meravigliosi abiti accontentando a pieno le loro richieste ed aspettative. Anche dive internazionali come Grace Kelly oramai vestivano Balmain. In quel periodo, Pierre, fu anche il designer delle uniformi delle hostess della Singapore Airlines.

Nel 1947, Balmain, iniziò a produrre i suoi primi profumi; Vent Vert, che fu una delle fragranze più amate e vendute negli anni quaranta e cinquanta. Ancora, nel 1953 produsse un altro profumo che chiamò Jolie Madame, nel 1979 Ivoire e nel 2006 Eau d’Amazonie. Balmain, vinse il Drama Desk Award e fu nominato ai Tony Award come miglior costumista per i migliori costumi di scena realizzati per il musical Happy New Year nel 1980. Ma, prima ancora, nel 1960, progettò l’abito per Sophia Loren per il film La miliardaria. Tra gli anni cinquanta e sessanta, il brand Balmain era riconosciuto in tutto il mondo e lo stilista continuava a collaborare nel settore del cinema, vestendo attrici come Vivien Leigh, Mae West e Brigitte Bardot e Dalida. Dal 1948 fino al 1991 Erik Mortensen (designer danese) fu lo stilista della maison Balmain e compagno di vita di Pierre. Pierre Balmain morì per un tumore al fegato il 29 giugno del 1982, a 68 anni.

Alessandra Federico

La mostra sull’Impressionismo a Sorrento

La mostra dedicata al movimento impressionista è in esposizione dal primo giugno fino al due ottobre 2022 a Villa Fiorentino, a Sorrento. La mostra presenta 130 opere di collezioni private tra cui ceramiche, disegni, lavori grafici, incisioni, dipinti, citazioni di grandi artisti dell’impressionismo e  libri, insomma, tutto ciò che serve per descrivere con precisione un periodo che ha contribuito alla formazione della storia dell’arte. Anche la pittura napoletana ha subito una forte influenza dell’impressionismo e, proprio per questo, durante la mostra, si potranno ammirare anche diverse opere di celebri maestri campani e non solo, verrà trasmesso un video con immagini di artisti come Renoir, Monet e Degas mentre realizzano i loro affreschi.

“L’estate di Villa Fiorentino si apre con un tema di respiro internazionale coerente con il livello di proposta della città di Sorrento. La mostra sul Movimento dell’Impressionismo inaugura anche l’amministrazione del nuovo di CdA ponendosi in continuità con l’operato del precedente di cui desidero ringraziare particolarmente l’avv.to Gaetano Milano. L’abbinamento di turismo balneare, ambientale, enogastronomico, culturale orientato alla sostenibilità è la chiave di volta per una strategia di promozione vincente. L’aver previsto anche una sezione legata al territorio regionale esprime infine uno dei nostri punti di attenzione verso Napoli, la Regione Campania e la Costiera Sorrentino Amalfitana, uno dei grandi luoghi pittorici d’Europa (Paolo Ricci), ovvero di territori vocati per la open air painting.” Dichiara l’Amministratore Delegato Alfonso Iaccarino. “E’ importante comprendere che l’Impressionismo non annovera solo nomi come Monet, Degas, Renoir o Manet ma esistono almeno una sessantina di artisti che parteciparono alle Grandi Mostre del movimento, e che sono in parte mai apparsi in Italia.

La mostra, come dice il titolo, intende accompagnare i visitatori in un viaggio attraverso colori, luci, paesaggi, ritratti ma anche tutte le tecniche utilizzate e sperimentate dai maestri dell’Impressionismo.”. Aggiunge il curatore Vincenzo Sanfo. Difatti, l’intento di questa esposizione è dare la possibilità allo spettatore di venire a conoscenza di tanti altri artisti impressionisti: Vignon, Levert, Laurent, Dorè, Somm, Astruc, Forain, Braquemond, Leopold, Lepic, Morisot, Groenuette, Biva, Troyon, Chappel, Vidal, Lecomte Jonkind, La Touche, Permeke, Cahours, Hauchecorne, Verheiden, Godfrinon, Northcote, Verheyden. Ma non solo, perché lo scopo di questa mostra è, anche, quello di far vivere intensamente e totalmente il periodo impressionista all’osservatore; una effettiva lezione per trasmettere e far apprendere in modo rapido ed efficace tutto il momento dell’impressionismo, dal preimpressionismo fino al postimpressionismo.

Basato su una nuova concezione del colore e della luce, l’Impressionismo, è soprattutto una riproduzione del vero: il disegno dal vero, infatti, è una delle principali  tecniche utilizzate il quel periodo per raffigurare panorami, paesaggi, ritratti di persone, spettacoli, territori, ambienti e tutto ciò che si poteva rappresentare attraverso un dipinto.

Louis Leroy era un critico d’arte e, l’espressione impressionismo, nacque proprio dal giudizio di quest’ultimo nei confronti di un quadro di Monet: “Impression. Soleil Levant”. Secondo il critico, il dipinto di Monet dava un senso di incompiutezza, motivo per cui lo definì, appunto, solo un’impressione. Da lì a poco, nacque il gruppo degli impressionisti formato da giovani artisti che, spinti dalla grande voglia di emergere, organizzarono mostre indipendenti per esporre le loro prime opere, (1874) presso lo studio fotografico Nadar a Parigi. Durante questa mostra a Parigi vennero esposte opere di diversi 30 artisti come Claude Monet, Camille Pissaro, Alfred Sisley, Edgar Degas, Paul Cézanne, Berthe Morisot, Auguste Renoir  e tanti altri.  Ma, per un periodo, i critici, il pubblico e la stampa non fecero altro che criticare gli impressionisti, fino a quando Gustavo Caillebotte (collezionista) offrì loro il suo sostegno dandogli la possibilità di realizzare le loro prime mostre.

Alessandra Federico

Addio a Olivia Newton – John la protagonista di Grease

Grave lutto nel mondo del cinema per la morte dell’attrice Olivia Newton – John. Da molto tempo, l’attrice stava lottando contro un cancro al seno e purtroppo lo scorso 8 agosto Olivia ha perso questa battaglia. Ricordata da tutto il mondo per la strepitosa interpretazione di Sandy nel film Grease del 1978, la Newton, recitava a fianco del celebre John Travolta che, nel corso degli anni, ha più volte incontrato sul palcoscenico di diversi show e, perfino nella vita privata, i due attori hanno mantenuto saldo il loro rapporto di amicizia.

Il film Grease è stato un vero cult che ha fatto la storia del cinema americano e, infatti, sin dalla prima uscita nel lontano 1978, è riuscito ad appassionare il mondo intero grazie soprattutto alle spassose canzoni e alle meravigliose e dinamiche coreografie eseguite dagli attori all’interno dello spettacolo ed è stato, inoltre, trasmesso ogni anno attraverso diversi canali televisivi, riuscendo così a conquistare il pubblico di tutte le età, anche delle nuove generazioni e non solo, Grease continua a vivere mediante i musical rappresentati in tutti i teatri del mondo.

Nonostante le varie reinterpretazioni di Sandy, da parte di diverse attrici nel corso degli anni, quella della Newton – John  resterà unica e inimitabile, indelebile nel cuore di tutte le persone del mondo. Olivia Newton – John nacque a Cambridge il 26 settembre il 1948 da padre britannico Brinley Newton – John e mamma tedesca Irene Helene Born. Ma quando Olivia aveva da poco compiuto 5 anni, l’intero nucleo familiare si trasferì in Australia. Sin dai tempi della scuola, Olivia, dimostrò di essere dotata di una voce strepitosa e di avere una forte passione per la musica e per il canto, e, difatti, la piccola aspirante cantante non perse tempo per impegnarsi al massimo e iniziare a costruire la sua strada: Soul Four, si chiamava la band che Olivia fondò e di cui ne faceva parte assieme ad alcuni suoi compagni di scuola. Ma non passò molto tempo quando il vero successo bussò alla sua porta; vinse un concorso come solista il cui premio prometteva un viaggio in Inghilterra.

Nel 1966 incise, per la Decca Records, il suo primo singolo Till You Say Be Mine. Veloce come il vento, da quel momento in poi, la carriera da cantante per la Newton – John: nel 1970 fece parte di una band di nome Tomorrow, poco dopo iniziò la collaborazione con Bruce Welch e John Farrar. Ancora, la conoscenza con Cliff Richard fu di grande aiuto per la visibilità della Newton – John e di grande contributo per crescere e  maturare nel campo sia come cantante che come attrice. Have You Never Been Mellow è il singolo che arrivò in prima posizione nella Billboard Hot 100 e in Canada e in decima in Australia (1975).

La popolarità per Olivia arrivò alle stelle, fino ad ottenere la parte principale nel film di Grease nel 1978, riscuotendo il massimo del successo in tutto il mondo. Ed è proprio grazie al ruolo di Sandy che la star non smise mai di brillare, continuando nel mondo del cinema e del canto, incidendo tanti altri brani e recitando in tanti altri celebri film fino a qualche anno prima della sua morte.

Olivia Newton – John non ha mai abbandonato la sua vera passione bensì, il canto e la recitazione, sono stati per lei, inevitabilmente, l’unica ragione per continuare a combattere contro la malattia. L’unica fonte da cui estrarre ancora energia.

Alessandra Federico

Giovanna Cristina Vivinetto: Dolore minimo

 Quando nacqui mia madre / mi fece un dono antichissimo. / Il dono dell’indovino Tiresia: /mutare sesso una volta nella vita.

Dolore minimo” è un diario in versi, una dolcissima raccolta in cui la poesia si fa dispositivo d’esistenza e ci pone in grado di renderci gioiosi, allegri, sofferenti, mutando i mali più intimi in astri scintillanti ed in luminosi pensieri appaganti. La poesia come volano di profondi contenuti sociali, esistenziali ed umani. 

Qual è la ragione che l’ha indotta a scegliere il versificare per dar voce al suo vissuto?

Sin dall’adolescenza sono sempre stata affascinata dal mezzo poetico per la sua capacità di condensare significati profondissimi, spesso dirompenti e necessari, in uno spazio limitato, fatto anche di pochi versi. Per questo motivo, per la sua intrinseca essenzialità, nella stesura di Dolore minimo mi è venuto naturale utilizzare la poesia, perché con essa mi è stato più semplice arrivare al cuore della “questione”, centrare con efficacia l’obiettivo che mi ero prefissata. La transizione mi ha dato la possibilità di riflettere molto e a lungo sulla scrittura poetica, e lo stesso vale per il contrario: la poesia è stata per molti versi quasi una forma di “psicoterapia della parola scritta”, permettendomi di capire e dare un valore aggiunto all’esperienza di vita che mi son trovata ad affrontare. Oggi si parla della poesia come “bene inutile”, “non necessario”; e invece, anche con la testimonianza racchiusa in Dolore minimo, voglio ribadire esattamente il contrario: l’assoluta necessità della poesia come mezzo che, oggi più che mai, si fa interprete (e, talvolta, risolutore) in sommo grado dei conflitti del reale.

La raccolta è divisa in tre sezioni, Cespugli d’infanziaLa traccia del passaggio e Dolore minimo. Nella prima sezione si leggono liriche su una fanciullezza spesa a Siracusa tra una forma di religiosità cupa, zeppa di tabù e la tenerezza d’una madre sempre tesa a profundere dolcezza e compassione.

Può fornirci la chiave di lettura di parole come “Nella quiete di quelle strade la malattia giunse d’agosto. Travolse le madonne e gli occhielli…” ma anche di “La prima scoperta furono le mani”?

Le poesie a cui fai riferimento fanno parte della prima sezione, in cui la consapevolezza di “essere in un certo modo” viene reinterpretata alla luce dei ricordi e delle movenze dell’infanzia. La prima citazione è collegata a due elementi caratterizzanti il “dramma” della transizione e di per sé antitetici (eppure poi conciliati nella chiusa della poesia a cui ti riferisci): quello della “malattia”, cioè della “scoperta” della disforia di genere, quindi di una diversità assoluta e spaventosa, e quello di una fede ancestrale tipica di molti piccoli paesi del Sud e di per sé indiscutibile, quasi cieca a manifestazioni “altre” che avvengono nella stessa immobile circoscritta realtà. La seconda citazione fa riferimento a un ciclo di tre poesie in cui centrale è il processo di perdita e di scoperta: come se la raggiunta contezza della transessualità avesse fatto perdere qualcosa ma, al tempo stesso, scoprir qualcos’altro di nuovo (ma che in realtà già c’era) e di profondamente unico e prezioso. La transizione, insomma, come processo intimo e fondamentale di “messa a fuoco” dell’esistenza in tutta la sua complessità.

Lei ci insegna come il corpo “Transessuale”(il cui simbolo è la pillola “Quella che serve a riempire i fianchi, abbozzare i seni…”) sia un corpo di singolare incanto; un corpo che riproduce la compiuta evoluzione e realizzazione del corpo femminile e che decreterà la “fine” di Giovanni.

La transizione, si deduce dai versi, ha lasciato delle ferite. Lei quale balsamo ha adoperato per curarle?

Sicuramente d’aiuto mi è stata in generale la mia famiglia, essenziale nel supporto a questo nuovo percorso di vita che mi sono trovata a intraprendere. È grazie all’amore dei miei parenti, alla loro intelligenza e alla loro sensibilità che oggi io sono una donna serena. Avere alle spalle una famiglia che accetta e ama senza riserve è importantissimo, fondamentale. E questo vale indubbiamente per tutti, ma soprattutto per le persone transessuali, socialmente più fragili ed esposte. All’affetto di chi ti sta vicino va poi ad aggiungersi il potere “terapeutico” della letteratura e della scrittura. Esse, infatti, hanno costituito per me quel mezzo che permette di ricucire gli strappi, conciliare le contraddizioni, interpretare in sommo grado, sublimandole, le ambiguità del reale. La poesia è stata l’occasione per scendere a patti con una me che non riuscivo a capire in pieno  o meglio che credevo di capire ma, in verità, non conoscevo affatto. Nel momento in cui ho nominato quel “male” in poesia, esso ha cessato di essere “male”: nella chiusa dell’ultima poesia della prima sezione scrivo che “…quel mostro che in tanti anni / avevo allontanato, fu assai più / docile quando, abolite le catene, / lo presi in fine per mano”. La poesia concede questo miracolo.

Una parte considerevole dell’ultima sezione è occupata dai ricordi, tra cui si stagliano anche quelli di una sessualità schiavizzata ed oltraggiata. Il sesso sembra profilarsi come un’ombra scura.

Come ha valicato il filo spinato di un ricordo che appare come motivo di turbamento?

Attraverso il distanziamento che solo il tempo può dare. La distanza dagli eventi inevitabilmente comporta una loro sublimazione e, di conseguenza, una focalizzazione maggiore e certamente più oggettiva nel momento in cui si decide di parlarne o scriverne. Per questo motivo, ad esempio, la storia narrata in Dolore minimo non è stata scritta “a caldo” bensì a distanza di diversi anni proprio perché, come dicevo, solamente la durata del tempo consente di “raffreddare” (e accettare consapevolmente) tutte quelle cose che magari sul momento ci sconvolgevano a tal punto da non riuscire ad esternarle in alcun modo.

Ovidio, Tiresia, Kafka, Ermafrodito, Ifi, Ceni narrano o sono essi stessi casi di “metamorfosi” che minano e demoliscono ciò che è la certezza, l’edificio stabile su cui si accomodano gli esseri umani.

La precarietà e lo spaesamento su cui c’invita a riflettere le hanno procurato critiche asperrime. Lei è giovanissima. Come ha reagito?

Immediatamente dopo la pubblicazione di Dolore minimo, ho iniziato a ricevere alcuni attacchi personali. A rivolgermeli, gli esponenti della pagina Facebook “Pro Vita Onlus”, i quali, considerando la transessualità il “vuoto assoluto”, hanno a più riprese sostenuto che l’autrice di questo libro avrebbe fatto meglio a curarsi invece di diffondere un simile male spacciandolo come una cosa “normale”. I social, purtroppo, sono un’arma a doppio taglio. Se, infatti, da un lato consentono il confronto e la diffusione di idee positive, dall’altro lato – e il più delle volte, purtroppo – al confronto subentra lo scontro, fatto di ignoranza, pregiudizio e analfabetismo funzionale. Una delle soluzioni, allora, potrebbe essere proprio questa: far sì che la letteratura inizi a permeare anche il mondo virtuale dei social, facendo propria una missione civile e culturale finalizzata in primis ad abbattere questi muri invisibili costruiti sull’odio, sull’intolleranza e sulla mancanza di rispetto per tutto ciò che è percepito come “diverso” e “minaccioso”. Personalmente sono molto attiva sui social anche per questo: dimostrare che la transessualità può essere una cosa “normale” come tante altre e verso cui è totalmente illogico provare “paura”. Infatti, poco dopo l’attacco dei “Pro Vita”, le conseguenze delle loro azioni non sono tardate ad arrivare: nel giro di qualche ora il libro è andato esaurito su tutti gli e-commerce, arrivando ad una seconda edizione in pochissimi giorni. La mia risposta all’odio, dunque? L’amore per la vita.

 

Giovanna Cristina Vivinetto è nata a Siracusa il 6 febbraio 1994. Laureata in Lettere moderne, vive attualmente a Roma, dove si è specializzata in Filologia moderna all’Università “La Sapienza”. Sue poesie sono state pubblicate sulla rivista Atelier (n°86) e in rete, su Poetarum Silva, Atelier online, Pioggia Obliqua, Patria Letteratura, Carteggi Letterari, Poesia di Luigia Sorrentino, La Tigre di Carta, Nuovi Argomenti, Le Parole e Le Cose, Nazione Indiana, e diversi altri siti e blog. Dolore minimo è la sua opera prima, pubblicata nel maggio 2018 per l’editore Interlinea. Con prefazione di Dacia Maraini e postfazione di Alessandro Fo, il libro è apparso ed è stato recensito sulle maggiori testate giornalistiche nazionali, tra cui «Il Fatto Quotidiano», «La Repubblica», «La Stampa», «Il Messaggero», «Il manifesto», «Il Sole 24 ORE», «Panorama», «Il Corriere della Sera», «La Sicilia», «Cosmopolitan», «Confidenze» e altri; in televisione su Rai Uno all’interno del programma “Il Caffè di Rai Uno”, a cura di Yari Selvetella. Una selezione di testi inediti, introdotti da una nota di Alberto Bertoni, è inclusa nel Quattordicesimo Quaderno di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos, marzo 2019).

Giuseppina Capone

 

Uomo greco e commensalità

L’uomo greco è un animale sociale perché piegato ad una gerarchia morale che pone sotto silenzio la sfera emotiva in ragione dell’ossequio a forme aggregative fortemente normate. La commensalità stessa è istituzionalizzata secondo regole e protocolli lontani dal piacere della tavola.

L’uomo greco è un animale sociale? E’ partorito con dolore dalla polis?

Aristotele nella Politica sostiene che sia naturalmente politico. Tale nota ed abusata definizione percepisce l’uomo piegato ad una gerarchia morale privilegiante il pensiero sulle emozioni, subordinante le urgenze spirituali, i bisogni familiari, le scosse emotive ad un maggiore ordine politico.

Che si provi ad inseguire un’altra idea: la relazione uomo-società è dinamica.

Non esiste l’uomo greco bensì un uomo che durante le ideali età eroica, agonale, politica e cosmopolita si è espresso in forme di socialità come, tra le altre, la commensalità.

Che si provi a gettare lo sguardo oltre gli schermi della lingua e delle istituzioni. Sediamoci a tavola!

In Grecia i prodotti intensamente pregni di significato sono il vino e la carne; prodotti il cui consumo è deputato ad occasioni speciali  e, soventemente, rituali. Marx, probabilmente, avrebbe riflettuto su una forma di redistribuzione del surplus attuata con la manifestazione della ricchezza, del lusso, del potere, esibite al cospetto degli uomini e finanche degli dei! La carne è mangiata durante le cerimonie religiose in stretto rapporto con il sacrificio in cui l’offerta viene bruciata: l’animale è ucciso, bollito, affinché le carni risultino tenere, quindi mangiato; gli dei vengono omaggiati del profumo delle interiora.

E’ una festa, una circostanza di gioia, di sgravio dalle fatiche del quotidiano. E’ l’atteso straordinario. La comunità può addirittura spalancare le porte agli stranieri! Si beve persino: l’alcool è catartico di irrequietezze sociali e rafforza i legami dei gruppi ristretti. L’alcool come carnevale del tutto lecito, tutto permesso, tutto consentito. L’alcool come potere: mezzo di rigido controllo sociale. Il barbaro ama bere eccessivamente e disordinatamente; il greco diluisce il vino con acqua in un delineato ambiente sociale. Le donne bevono segretamente, smembrano la vittima sacrificale, la dilaniano, la ingoiano ancora cruda.

E’ lampante l’importanza della commensalità ed i Deipnosofisti di Ateneo lo denunciano.

Nei poemi omerici il mondo stesso è strutturato intorno a riti di commensalità: le caratteristiche dell’abitazione di un basilèus eroico sono il mègaron, sala dei banchetti, ed il magazzino, funzionale alla conservazione dell’eccedenza della produzione. Lo status stesso è definito dal cibo, tanto che nell’Iliade si canta “I nostri nobili…/sono grandi uomini, mangiano grasse pecore/e bevono il migliore dei vini…” Achille si rifiuta di partecipare ai riti della commensalità. I Proci li trasgrediscono, violando le norme di reciprocità e competizione. La realtà sociale arcaica è, dunque, connessa alla funzione sociale della guerra ed alla euphrosyne, al piacere.

Gli anni vedranno, poi, la trasformazione del mègaron in andròn e del deipnon in sympòsion: il cibo è separato dalle bevande, si elaborano rituali specializzati destinati a piccoli gruppi, la poesia con accompagnamento musicale diventa centrale. La casa luccica d’armature bronzee ma vino, donne e canto rivelano un differente intendimento d’euphosyne: comodità, raffinatezza, intrattenimento, liberazione della sessualità.

Nel cosiddetto periodo classico il contesto sociale muta e con esso la texture socialità-polis, spesso rintracciata nel “focolare comune” conservato nel prytaneion, luogo precipuo della commensalità pubblica, pasto onorifico di un’élite, onore a cui un membro comune del demos non può aspirare. Per i pasti pubblici lo Stato ateniese aveva un altro centro, questo sì concretamente democratico: 50 pritani al lavoro, contemporaneamente; una cucina ed una sala da pranzo nella Tholos. Dovrebbe essere ragione di attenta meditazione che, oggi, non si disponga d’informazioni dettagliate a proposito di una tal pratica non onorifica di commensalità. Istituzioni locali ufficiali, demi e fratrie acquisiscono progressivamente i propri riti di commensalità. La liturgia dell’hestìasis, i banchetti nuziali e quelli legati alle Apaturie dichiarano un processo di politicizzazione dei costumi sociali basati sul cibo ed un mancante concetto d’individuo che, tuttavia, non è privo di libertà: una libertà d’espressione del sé nella socialità, nella possibilità di scegliere fra una molteplicità di legami sociali. Una “libertà interstiziale”.

Il mondo ellenistico, infine, congiunge l’organizzazione sociale, peculiare della vita di corte delle monarchie ellenistiche, e quella coloniale diffusa dall’Afghanistan all’India, dall’Egitto al Nord Africa. Si mangia insieme, sdraiati, in abbondanza; si beve smodatamente: libertà di parola, liti, zuffe, omicidi, sfacciata ostentazione del tryphè, ovvero del lusso, sfoggio prodigioso di bestie sacrificali, evergetismo a beneficio della comunità. La polis si scopre appartenente ad una più vasta comunità culturale.

Ebbene, l’uomo greco non riuscirà a liberarsi mai dai lacci della socialità, dai vincoli del Noi.

Giuseppina Capone

 

Giordano Bruno protagonista di un incontro a Campagna in occasione della festa de ‘A Chiena 2022

L’Istituto Superiore “Teresa Confalonieri” di Campagna in provincia di Salerno è stato protagonista di un’intensa giornata di formazione dedicata alla figura di Giordano Bruno.

Campagna è nota per la manifestazione dedicata all’acqua che si tiene ogni anno. La festa de ‘A Chiena, di origine antica, si basa sulla “piena”, lo straripamento (voluto) del fiume Tenza che lascia il suo letto naturale e “passa” per le strade della graziosa cittadina, inondandola.

Si svolge dal 10 luglio al 17 agosto ogni sabato e domenica ed alterna eventi con freschi e divertenti appuntamenti. Si svolge tra strade allagate, secchiate, passeggiate e due notti dedicate a ‘A Chiena di Mezzanotte (16 e  17 agosto a mezzanotte). Il programma dei weekend prevede passeggiate o lanci di acqua (secchiate) tra le strade invase dall’acqua, visite guidate al paese e alle valli vicine ed altro.

Perché dedicare una giornata formativa a Giordano Bruno proprio a Campagna? Fu a Campagna che nel 1572 il filosofo celebrò la sua prima messa nella chiesa di San Bartolomeo ed è proprio a Campagna che l’I.I.S. “Teresa Confalonieri” lo ha omaggiato più volte ricordando i punti cardine della sua filosofia, da ultimo il 17 luglio scorso con la giornata, tenutasi nel complesso monumentale S. Bartolomeo – Museo della Memoria e della Pace, dedicata ai docenti dal titolo “Recenti orientamenti della storiografia su Giordano Bruno”.

Dopo i saluti introduttivi del professor Gianpiero Cerone, dirigente scolastico dell’Istituto, e del professor Massimiliano Biscuso per l’Istituto Italiano per gli Sudi Filosofici si è entrati nel pieno della giornata bruniana. A parlare del filosofo arso sul rogo è stato Giulio Gisondi (Università degli Studi di Udine – Università degli Studi di Napoli “Federico II”) con una articolata e coinvolgente relazione sui recenti orientamenti della storiografia bruniana.

Alessandra Desideri

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