‘O bene ‘e Mamma 

A tutte le mamme e lla mia che non c’è più , con amore:

‘O bene ‘e Mamma

E’ ‘na strata sicura
addò cammine
e ’o bbene t’accumpagna.
Te siente ricco
e po’.. .te siente figlio.
Abbasta ‘na carezza
e vaje luntano.
’O bene ‘e mamma
è comme a ll’acqua fresca
e chiara ’e ‘na surgente:
cchiù te ne vive .. .
e cchiù te muore ’e sete
e  sulamente quanno ll’hé perduta
t’accuorge cu’ dulore
ca ’o bbene ‘e ll’ate .. .è sulo acqua tignuta.

Renato Cammarota

Ivana Margarese: Tra amiche

Nel canone dei trattati sull’amicizia, da Aristotele a Bataille, i legami femminili non trovano accoglienza. Quali ragioni ravvede all’interpretazione della solidarietà di genere come un privilegio maschile?

Aristotele nel IV secolo a. C considerava la donna per natura inferiore all’uomo. Nella Politica scrive «il maschio è per natura migliore, la femmina peggiore, l’uno atto al comando, l’altra all’obbedienza».

Con rare eccezioni, le donne sono state escluse a lungo dalla politica e dal canone. Semplicemente non venivano considerate argomento di discussione se non in relazione all’uomo, per sottolinearne la diversità e l’inferiorità, soprattutto nell’azione del pensiero. È noto che a fino al Settecento discipline come la filosofia o la matematica fossero considerate dannose per l’educazione femminile perché lontane dal sollecitare l’amabilità della donna che risiedeva soprattutto nell’umiltà e nell’obbedienza.

Ecco che i legami femminili rimangono non riconosciuti o imprigionati in una rappresentazione che vede le donne rivali tra loro e incoraggia il sospetto e l’ostilità piuttosto che la condivisione. Pensiamo ai miti greci o alle fiabe e a come raccontano le figure femminili. Invece a pensatrici come Hannah Arendt, Simone Weil, Maria Zambrano si devono pagine fondamentali sul valore del sentimento di amicizia. Pagine che sono a mio parere preziose e meritano di essere riscoperte.

“Tra amiche” non discute l’amicizia da un punto teorico o concettuale.

Perché questo cambio di paradigma dall’astratto al vissuto?

Il progetto di questo libro nasce dai miei studi su Arendt, Weil, Cavarero. Arendt promuove un modello teorico che concepisce l’esistenza quale sé incarnato, esposto fin dalla nascita alle relazioni con gli altri, e riconosce nel rapporto tra amici più che nell’astratta fratellanza il fondamento della comunità. Anche il pensiero di Simone Weil dà grande valore all’esercizio dell’amicizia. Nell’amico, scrive la filosofa francese, si ama un particolare essere umano come si vorrebbe poter amare ciascun componente dell’umanità. Cavarero riporta l’attenzione della filosofia alla specifiche differenze dei corpi piuttosto che all’uomo astratto e universale.

Ecco che mi interessava non teorizzare ma mostrare attraverso un progetto corale alcune tra le tante storie di donne che hanno tratto alimento e sostegno dalla loro relazione. Abbiamo raccontato storie di relazioni privilegiate tra donne che hanno incoraggiato la loro capacità di vedere, pensare e creare.

Un arcipelago di punti di enunciazione attraverso cui vedere più cose diversamente e fare di questi molteplici punti di vista avvio per molteplici punti di azione. Basarsi sui vissuti comporta un cambiamento di paradigma: non si tratta di trattare l’amicizia come teoria o come concetto, ma di guardare invece al fatto concreto di un legame che, nel suo esercizio, si rende politica e stimolo creativo, oltre che emotivo, considerando la creazione un’azione comunitaria.

La ricostruzione dei percorsi di diverse amicizie esemplari al femminile trae origine dal mito e giunge alla contemporaneità.

Qual è stato il criterio selettivo e discriminante?

La scelta fatta è stata inevitabilmente parziale ma le esperienze di molte donne qua non raccontate sono comunque presenti e attive.

Ho coinvolto nel progetto scrittrici che conosco e stimo e che hanno esperienza in un particolare ambito di ricerca, dalla filosofia del tragico al teatro, alla letteratura russa, alla cultura visuale e così via. Ho chiesto loro di scegliere e di raccontare una storia di amicizia reale o immaginaria che avesse a che fare con il pensare come azione e cambiamento.

Avremmo potuto continuare… mi piace pensare sia stato un avvio.

Ginevra Amadio, Valentina Di Cesare, Alessandra Filannino Indelicato, Dafne Leda Franceschetti, Francesca Grispello, Margherita Ingoglia, Ivana Margarese, Antonina Nocera, Maria Oliveri, Chiara Pasanisi, Daniela Sessa.

Contributi dalla saggistica alla narrativa ed un terreno d’indagine: esiste l’interazione fra idee e relazioni affettive?

La risposta alla domanda è senza dubbio sì. Abbiamo voluto mostrare con i contributi di questo libro a metà tra la saggistica e la narrativa che pensare non può essere considerato un atto isolato ma si nutre di sinergie e scambi: solo nell’incontro con l’altro il pensiero diventa fecondo.

Sgombrato il campo dall’idea che spesso serpeggia dei rapporti tra donne viziati dalla rivalità, quale legame tra quelli ricordati le è più caro?

All’interno del testo ho scritto due saggi dedicandomi all’amicizia tra Cristina Campo e Margherita Pieracci, la celebre Mita delle lettere di Campo, e al legame tra Hannah Arendt e Mary McCarthy.

Hannah Arendt e Cristina Campo avevano certamente entrambe il talento dell’amicizia, come dimostrano chiaramente le loro biografie e i loro scritti. Tuttavia tutte le figure femminili trattate nel libro mi sono care dal momento che ho seguito la nascita e lo sviluppo dei diversi saggi  con interesse e gioia. In un tempo – qual era ancora il Novecento, secolo a cui appartengono la maggior parte delle figure femminili che abbiamo raccontato – in cui spesso le donne che scrivevano trovavano più credibile dirsi scrittore o evitare la questione di genere, trovo importante sottolineare la forza delle relazioni tra donne nelle azioni creative e nelle visioni del pensiero.

 

Curatrice:

Ivana Margarese, fondatrice e direttrice editoriale della rivista “Morel, voci dall’isola”, insegna filosofia presso il liceo delle scienze umane Ugo Mursia di Capaci. Ha conseguito un dottorato e un postdoc in Studi culturali ed è stata docente a contratto di Teoria della letteratura all’Università degli Studi di Palermo. Ha curato Ti racconto una cosa di me (2012) e ha pubblicato racconti nelle antologie Non ti resisto (2017), Anatomè (2018) e L’ultimo sesso al tempo della peste, a cura di Filippo Tuena (2020).

 

Interventi delle autrici:

Cassandra e Ifigenia. Un carteggio inedito in punta di philia di Alessandra Filannino Indelicato

“… ché persa non vada la trama” Penelope di Itaca e Oriana Fallaci di Daniela Sessa

L’erotica dello spirito: la sorellanza eretica tra Emily Dickinson e Susan Gilbert di Margherita Ingoglia

L’insofferenza all’altrui dominio”: Giacinta Pezzana ed Eleonora Duse breve storia di due attrici anticonformiste di Chiara Pasanisi

Di tragica intimità: Marina Cvetaeva e Sof’ja Gollidej: la costruzione di un’amicizia di Antonina Nocera

Le ragazze del secolo scorso”: Carla Vasio e Rossana Rossanda dalle acque della Laguna alle redazioni romane di Dafne Leda Franceschetti

Mi mandi se può una parola”. Anna Cavalletti, Cristina Campo e Margherita Pieracci Harwell di Ivana Margarese

“La tenerezza del corpo. Hannah Arendt e Mary Mc Carthy” di Ivana Margarese

“Sogni alchemici. Leonora Carrington e Remedios Varo alla prova dell’amicizia” di Ginevra Amadio

“Susan Sontag e Annie Leibovitz: o della visione” di Francesca Grispello

“Intermezzo. Lettere dal lago. Fausta Cilente e Sibilla Aleramo” di Valentina Di Cesare

“La sorellanza di Monica e Antonella: una storia contemporanea. Riconoscimento tra donne e cura” di Maria Oliveri

Giuseppina Capone

Spazi di parità

Un interessante volume per parlare di parità attraverso la toponomastica è quello realizzato nel 2021 dalla Commissione pari opportunità del Consiglio regionale della Campania dal titolo “Toponomastica femminile. Luoghi di parità e impronte del femminile nello spazio urbano”.

Il perché di questo libro curato da Maria Lippiello e Melania Picariello lo spiegano proprio le due curatrici: “Toponomastica femminile. Luoghi di parità e impronte del femminile nello spazio urbano nasce dall’idea di promuovere un viaggio tra le città, i borghi, le strade, i luoghi e vicoli della nostra Regione attraverso una inedita prospettiva femminile di genere”.

Si tratta di un “viaggio inedito nei luoghi e per le strade delle città percorso con una visione al femminile e finalizzato a riscoprire e valorizzare il contributo delle donne alla costruzione della storia delle città e dei borghi della nostra amata regione”.

L’impostazione scelta è quella storico-biografica e raccoglie appunto una serie di biografie di donne che hanno segnato la storia della regione Campania. Scienziate, donne di cultura, artiste, regine, principesse, politiche, donne impegnate nel sociale e nel lavoro, vittime innocenti, ecc. tutte donne che hanno dato un importante contributo allo sviluppo dei loro territori. Donne che nel corso dei secoli hanno vissuto o svolto la loro attività, azione o pensiero in Campania.

Un libro da leggere con attenzione e proporre ai giovanissimi e non solo.

Antonio Desideri

Addio a Mary Quant, la creatrice della minigonna

Il mondo della moda sta vivendo un grave lutto: la stilista britannica Mary Quant è morta lo scorso 13 aprile all’età di 93 anni nel suo appartamento nel Surrey (Sud Inghilterra).

Mary Quant nasce a Londra (Blackheath) l’11 febbraio del 1930. Figlia di professori gallesi della London University, Mary, come volere dei genitori, avrebbe dovuto intraprendere lo stesso percorso di studi per diventare insegnante. Ma la giovane Quant aveva ben altri progetti e, infatti, all’età di soli 16 anni decise di andare via di casa per conseguire gli studi al Goldsmiths College ma soprattutto per vivere la sua vita in totale autonomia e indipendenza senza seguire a tutti i costi le regole imposte dalla società.

Alexander Plunket Greene, figlio di una nobile famiglia inglese e nipote di Bertrand Russell, era un giovane ragazzo anch’egli desideroso di vivere una vita fuori dagli schemi e in totale libertà e, avendo la stessa visione della vita che aveva Mary, ne diventò molto amico e insieme intrapresero uno stile di vita che a quei tempi era considerato anomalo; indossavano abiti mai visti prima di quel momento inventando outfit stravaganti, (Mary amava indossare gonne e stivali) viaggiavano anche senza bagagli, non avevano sempre soldi e quindi mangiavano solo quando potevano.

Archie Mc Nair era un fotografo (ex avvocato) con il quale i due giovani libertini instaurarono un forte legame di amicizia, tanto da decidere di diventare soci in affari; quando Alexander compì ventuno anni ereditò una cospicua somma di denaro che scelse di investire in un’attività: acquistò una casa in cui al primo piano realizzarono la boutique Bazaar e nello scantinato aprirono un ristorante.

Le attività, che si trovavano sulla Kings Road a Londra, erano frequentate da sole persone affini a loro, che avevano la loro stessa mentalità, la loro stessa voglia di vivere la vita in modo diverso, personale, una vita felice perché i giovani stavano oramai opponendosi alle imposizioni della società e, da lì a poco, le prime forme di ribellione furono rappresentate dalle nuove pettinature per i ragazzi (capelli lunghi) dalla gonne corte per le ragazze e dalle canzoni dei Beatles. Intanto, tra un successo e l’altro, stava nascendo l’amore tra Mary e Alexander e, in brevissimo tempo, i due decisero di unirsi in matrimonio. Nello stesso periodo la boutique stava attirando l’attenzione di personaggi del cinema e di teatro e dunque un momento di grande successo per la Quant che, entusiasta della popolarità che stava riscontrando grazie alla sua attività, decise di aprire un altro negozio nella nobile Brompton Road a Knightsbridge.

Mary stava oramai realizzando il suo sogno di diventare stilista ed era, infatti, l’icona della Swinging London ( un nome che indicava le nuove tendenze degli Anni ‘60 in Gran Bretagna. L’obiettivo delle Swinging era quello portare cambiamenti che fossero all’insegna della positività e ottimismo, questo portò mutazioni nel campo della moda, della musica e dell’arte). Mary Quant era diventata un’importante imprenditrice e, nel 1963, fondò il Ginger Group per diffondere i suoi capi all’estero. Ancora, nel 1966 inventò una linea di cosmetici, e nel 67 lanciò una nuova collezione di calzature. Era un momento di grande successo per la giovane stilista di moda; “High Priestess of Sixties fashion” (l’alta sacerdotessa della moda degli Anni ‘60) venne soprannominata dallo scrittore Bernard Levin. Il picco dell’emozione per Mary arrivò quando, la regina Elisabetta, le donò l’onorificenza di Cavaliere della Corona Britannica. Ma ciò che ha reso celebre la Quant è stata la sua invenzione della minigonna. Indossata dalla modella Twiggy, la minigonna di Mary, divenne immediatamente popolare e amata da tutte le giovani donne.

Alessandra Federico

Mariangela Miceli: Il ragionevole dubbio sugli algoritmi in tribunale

Ottenuta la piena transitività, grazie al digitale ed all’Intelligenza Artificiale, del mondo reale nel mondo virtuale, quali effettivi rischi corre l’umano?

La libertà di volere, la libertà di affermarsi che fonda e legittima il riconoscimento dell’essere umano quale essere senziente e che risponde ad impulsi emozionali. Non dimentichiamo che finché si resta nel campo delle prestazioni, forse, dico forse, l’IA potrà essere più efficiente dell’uomo.

Ma la commistione mondo reale nel mondo virtuale sta eliminando ciò che di fatto caratterizza l’uomo, ovvero: le prestazioni che mettono in gioco la persona e, segnatamente, il suo corpo, la sua libertà.

Visori, sensori, avatar. Molto viene offerto come un gioco divertente e coinvolgente. Perché mai i più non comprendono che quella che reputano la propria esperienza sensoriale, in realtà, non è più la “propria”?

Perché ciò che vivono è comunque reale, rientra in ciò che appaga i loro sensi e la loro mente. Probabilmente ricreando quella comfort zone nella quale si sentono al sicuro. Mettersi in gioco è difficile, non vi è alcun dubbio che rimanere dietro uno schermo o un avatar ammette l’esistenza di uno scudo virtuale che protegge dal mondo fuori che appare sempre più lontano da istanze sociali e immune dinnanzi alle emozioni. E’ il mondo delle performance, nel quale non è permesso arrivare terzi o quarti, figuriamoci ultimi. Se dietro ad un gioco divertente arriviamo per primi, avrò sconfitto il mondo lì fuori. Certo, il rischio, ormai concreto è di ritrovarsi con un’umanità che ha ormai ridotto l’uomo oggetto tra gli oggetti.

Lei ha dedicato un saggio alle connessioni pratiche ed etiche che le nuove tecnologie, innanzitutto l’intelligenza artificiale, cagionano in ambito processuale e giuridico. Quali sono i mutamenti più eclatanti in atto?

La giustizia penale rappresenta l’ultimo grande terreno di conquista dell’intelligenza artificiale. Non vi è dubbio che ormai, la stessa intelligenza artificiale sia diventata strumento di uso comune all’interno dei mezzi di ricerca di prova. Si può immaginare l’uso di intelligenza artificiale che possa coadiuvare i periti nominati dal giudice nella ricerca di prove e nell’assistere lo stesso nella decisione da assumere nel caso dell’accertamento della imputabilità di un imputato. L’accertamento in ordine all’imputabilità, per esempio,  è stato oggetto di approfondite analisi da parte di esperti in psichiatria e psicologia che hanno condotto a risultati interessanti.

Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte è, pertanto, onere del decidente individuare l’elaborato peritale che sia contraddistinto dai caratteri di maggior completezza, accuratezza e conformità alla migliore e più recente letteratura scientifica nelle comunità di riferimento.

Le tecnologie riproducono in modo sempre più preciso le facoltà umane. Ebbene, pensa che sia possibile che in Tribunale a giudicare gli imputati vi sia un algoritmo e che si celebri “Il processo artificiale”?

In merito richiamo lo storico Caso Loomis nel quale una discussa sentenza del 2016 la Corte Suprema del Wisconsin si è pronunciata sull’appello del sig. Eric L. Loomis, la cui pena a sei anni di reclusione era stata comminata dal Tribunale circondariale di La Crosse. Nel determinare la pena, i giudici avevano tenuto conto dei risultati elaborati dal programma COMPAS (Correctional offender management profiling for alternative sanctions) di proprietà della società Northpointe (ora Equivant), secondo cui Loomis era da identificarsi quale soggetto ad alto rischio di recidiva. Ebbene lì ci si è trovati in un vero e proprio processo artificiale, nel quale è un algoritmo che ha deciso se vi fosse recidiva o meno. Vi è da precisare che il quel caso la Corte però ha individuato i limiti dell’uso del software: “1) la comminazione di misure alternative alla detenzione per gli individui a basso rischio di recidiva; 2) la valutazione della possibilità di controllare un criminale in modo sicuro all’interno della società, anche con l’affidamento in prova; 3) l’imposizione di termini e condizioni per la libertà vigilata, la supervisione e per le eventuali sanzioni alle violazioni delle regole previste dai regimi alternativi alla detenzione”.[ Supreme Court of Wisconsin, State of Wisconsin v. Eric L. Loomis, Case no. 2015AP157-CR, 5 April – 13 July 2016, in Giurisprudenza Penale]

All’IA manca il pensiero astratto e creativo (IA “forte”). Tenendo salda questa asserzione, può definire la “libertà”?

La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la Convenzione sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale (adottata a Strasburgo il 28 gennaio 1981 e resa esecutiva in Italia con l. 21 febbraio 1989 n. 98), affermano che il rispetto dei diritti fondamentali si realizza assicurando che l’elaborazione e l’attuazione di strumenti e servizi di intelligenza artificiale siano compatibili con i diritti fondamentali, menzionando esplicitamente quelli concernenti l’accesso al giudice ed all’ equo processo. Pertanto, la Libertà non può mai sfociare nel sacrificio dei diritti inviolabili e fondamentali.

Le “intelligenze artificiali forti”, in  grado di pensare in modo astratto, creativo, complesso e sentire, provare emozioni, sono traguardi (o fantasmi) non ancora effettivi.

Pur non dimeno, i continui progressi tecnologici, non possono rendere la vita degli individui solo come mezzo per raggiungere un fine o uno scopo. La corrente di pensiero contemporanea definita Postumano ha come obiettivo l’abolizione del confine tra l’essere biologico – dotato di coscienza e ragione – e la macchina.

Ma se da un lato sta riscuotendo molto successo, dall’altro ci rivela quanto pericoloso sia teorizzare l’evoluzione dell’uomo solo come un cyborg.

 

 

Mariangela Miceli

Avvocato, cultrice della materia in diritto processuale penale presso l’Università degli studi di Palermo. Membro dei Giuristi per le libertà dell’associazione Luca Coscioni e contributor per il blog Econopoly24 del Sole24ore.

Giuseppina Capone

 

 

 

 

 

 

 

Marzo Donna alla FoCS: Donne insieme in un impegno comune per una società più inclusiva

Nell’ambito delle iniziative di “Marzo Donna 2023 – Specchiarsi e Ri-specchiarsi…Conoscere e Ri-conoscere l’immagine di sé” dell’Assessorato alle Pari Opportunità del Comune di Napoli, si terrà martedì 21 marzo 2023 alle ore 10.00 presso la Sala “Mario Borrelli” della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus in piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3, Napoli, la tavola rotonda  “Una nuova stagione dei diritti: Donne insieme in un impegno comune per una società più inclusiva”.

L’iniziativa, organizzata dalla Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus – Centro Studi e Ricerche “Mario Borrelli”  in collaborazione con l’Associazione Culturale “Napoli è”, inoltre, è inserita nel programma di celebrazioni del centenario della nascita del fondatore Mario Borrelli.

Saluti: Dott. Isabella Bonfiglio, Consigliera di Parità Città Metropolitana di Napoli; Arch. Giovanna Farina, Presidente Consulta Associazioni e Organizzazioni di volontariato ed ETS Municipalità 2; Dott. Enrico Platone, Consigliere delegato Consulta Associazioni e Organizzazioni di volontariato ed ETS Municipalità 2; Prof. Antonio Lanzaro, Presidente Fondazione Casa dello Scugnizzo Onlus.

Interventi: Dott.ssa Bianca Desideri, Giornalista – Giurista, Direttore Centro Studi e Ricerche “Mario Borrelli” Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Avv. Argia Di Donato, Presidente Associazione NomoΣ Movimento Forense; Dott.ssa Claudia Napolitano, Comitato Regionale Campania Susan G. Komen Italia; Dott. Giuseppe Palmieri, Presidente Associazione Voce di… Vento; Renato Cammarota, Poeta – Cenacolo poetico Associazione Culturale “Napoli è”; Aldo Spina, attore.

“Con questa iniziativa – evidenzia Antonio Lanzaro, presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus – prosegue il nostro impegno per la tutela dei diritti delle Persone in situazione di disagio e difficoltà che, sin dalla nascita della nostra Istituzione, è elemento fondamentale dell’azione sociale, educativa e culturale. Il titolo che abbiamo scelto è significativo. E’ e vuole essere un percorso di lavoro per il futuro e un invito rivolto anche alle Istituzioni e alle Reti con le quali la Fondazione collabora fattivamente e concretamente. Da qui la presenza in questa occasione dell’Associazione Culturale “Napoli è” e dell’Associazione Voci di… Vento oltre ad altre realtà associative con le quali stiamo realizzando iniziative per il centenario della nascita di Mario Borrelli.”

“Quest’anno abbiamo voluto premettere ai titoli delle iniziative formative e alle tavole rotonde lo slogan “Una nuova stagione dei diritti” – aggiunge Bianca Desideri, direttore del Centro Studi e Ricerche “Mario Borrelli” della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus – perché riteniamo fondamentale che oltre alla tutela dei diritti esistenti sia necessario andare verso una maggiore attenzione ad ampliare i diritti e le tutele soprattutto per le fasce più deboli della popolazione, delle persone disabili, delle donne, dei minori, degli anziani. Una nuova stagione che porti ad una società più inclusiva e a una piena attuazione, tra gli altri, dell’articolo 3 della nostra Costituzione”.

Nel corso dell’iniziativa sarà sottoscritto un accordo di collaborazione tra la Fondazione e l’Associazione Voce di… Vento che prevede l’attivazione di un laboratorio di Musicoterapia a supporto del territorio non solo di Materdei e sarà presentato un laboratorio di lettura e poesia a cura dell’Associazione Culturale “Napoli è”.

Per info e contatti: Tel 081 564 1419  e-mail fondazionecasascugnizzo@gmail.com.

Elena di Euripide a cura di Barbara Castiglioni

“E’ divino riconoscere quelli che amiamo”:  Elena riconosce  Menelao e pronuncia queste parole sublimi. Lei suggerisce l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga. Perché questo tema è tanto accarezzato dal patrimonio letterario occidentale?

Nel fr. 16 Voigt, Saffo presenta un’Elena piegata alle leggi dell’amore, che diventa exemplum della forza devastante del sentimento: quella di Saffo non è una vera e propria difesa di Elena, ma la rappresentazione dell’impossibilità – e della vanità – di opporre resistenza a un impulso inviato dalla divinità. Effettivamente, il mito di Elena, in tutte le sue riprese, è la rappresentazione di un sentimento fortissimo, quasi feroce, di un amore che piega ogni ragione. L’amore «tutto muove – e Omero e il suo mare», come scriverà Osip Mandel’štam, oppure l’«amore ebbro e disperato» di Margaret Atwood sono espressi in maniera diversa, ma descrivono lo stesso, identico sentimento che ha portato via Elena da Sparta: perché l’amore, come scriveva Keats in una meravigliosa lettera a Fanny, è una religione, ed è forse l’unica speranza di fede rimasta ad una società completamente priva di dèi come quella occidentale.

Elena, tesoro d’arte ed umanità, probabilmente la donna più celebre dell’antichità, innumerevoli volte tradotta e, talvolta, tradita negli intenti. Per quali ragioni da sempre emerge quale pioniera nell’indagare i sentimenti dell’essere umano ed antesignana nella ricerca individuale di un posto nell’esistenza?

Elena è in una posizione molto complicata, tra le donne della letteratura antica, perché la bellezza, che è la sua dote involontaria, determina il suo destino e la rende, contemporaneamente, vittima e carnefice: Elena è vittima, perché non ha scelto il suo dono e non può non essere bella, come dimostra molto bene l’Elena di Euripide, ma è anche carnefice, perché la sua rovinosa bellezza ha provocato la guerra di Troia. L’ambiguità di questa condizione impedisce una vera comprensione del personaggio: greca per i Troiani, troiana per i Greci, Elena è indecifrabile tanto per gli uomini, che la vogliono e la temono, quanto per le donne, che la odiano e la condannano, ed è, il più delle volte, considerata un mero oggetto di cui non sono quasi indagati i sentimenti. Ed è notevole osservare che, anche se in maniera obliqua, uno dei pochi testi che considera la sofferenza di Elena è proprio il primo e più antico in cui compare come personaggio, cioè l’Iliade. Per quel che riguarda l’essere antesignana di una ricerca individuale di un posto nell’esistenza, possiamo dire che Elena – figlia di Zeus, dea,vittima di rapimenti, seduttrice involontaria, moglie di Menelao, amante di Paride, sposa di molti mariti, madre di Ermione, ombra, fantasma, ma sempre causa di infedeltà – è contemporaneamente, moltissime donne e una «figura unica», immutabile, sempre identica a sé stessa, come la definiva meravigliosamente il Faust di Goethe, e rappresenta l’indipendenza – che è sempre temuta ma in una donna ancora di più – e continua ad essere, soprattutto, l’immagine dell’arma femminile con cui una donna può sconvolgere il mondo: la sovrana bellezza.

Elena, donna intelligente, scaltra, coraggiosa. Perché mai il teatro, il cinema, le innumerevoli riscritture la presentano come l’antesignana della vamp o della donna senza scrupoli?

Elena rappresenta l’inevitabilità della bellezza, che non concede scelta, né a chi la ammira, né, soprattutto, a chi la vive e ne subisce le conseguenze. Prima di essere una donna, prima di essere una persona, Elena è bella, e questo determina ogni aspetto della sua esistenza. La bellezza, soprattutto quella femminile, è spesso una colpa. La civiltà greca, non a caso, aveva elaborato il concetto di kalokagathìa. Questo ideale di identità tra bellezza e virtù, però, è prevalentemente maschile: non ne esiste – e non è casuale – una versione femminile della kalokagathìa. Non è impossibile, per una donna bella, essere anche virtuosa, ma si presuppone che non lo sia: l’universale positivo, implicito nell’ideale maschile, è capovolto nel caso della donna, per cui la bellezza, come esemplifica il mito di Elena, si rivela soprattutto una colpa. Questa paura della bellezza femminile, però, non è solo greca né solo antica, ma ritorna insistentemente nella letteratura e nella civiltà – non solo – occidentali: pensiamo ad autori molto diversi come Huysmans, che definiva la bellezza di Elena maledetta e irresponsabile, «che avvelena tutto quello che l’avvicina, tutto quello che tocca», o a Marina Cvetaeva, che deprecava Elena, la «bigama, predatrice, spiffero di morte».

Il primo scontro tra Occidente e Oriente, la guerra di Troia, fu combattuto soltanto per un’illusione. E’ illuminare Achille quale il più forte degli eroi il vero obiettivo della contesa?

Non è difficile immaginare come Euripide, mediante l’εἴδωλον di Elena, volesse rappresentare anche l’illusione delle guerre del Peloponneso che stavano devastando la città e la società in cui era vissuto: il fantasma di Elena è il simbolo di tutto quel che ha condotto i Greci a Troia, ma è anche, con ogni probabilità, la rappresentazione della vita umana. Per quel che riguarda l’Iliade, sicuramente Achille emerge come uno dei centri del poema, che segue, con molte, meravigliose digressioni, il suo eroe: l’Iliade inizia con l’ira di Achille, e finisce con i funerali di Ettore, ucciso proprio da Achille. Senza dubbio Achille è il più forte degli eroi, ma l’Iliade è, forse, più di ogni cosa, il ritratto dei valori della società eroica, rappresentata dall’epos omerico.

Le opere greche si confermano quali testi archetipici del pensiero occidentale, contemporanee ad ogni epoca. Quali ragioni ravvede nella specifica proprietà della classicità di porsi sempre in maniera speculare alle fratture epocali?

Penso sia difficile immaginare la letteratura europea senza la conoscenza dei classici greci e latini. Ora abbondano le riscritture e i rimaneggiamenti, che si allontanano spesso sin troppo dall’originale, deformandone il messaggio; oppure, dall’altra parte, c’è la Cancel Culture, che pretende di rimuovere quello che ora non ci piace, senza considerare il tempo, che è il motore immobile di ogni letteratura, che è, a sua volta, lo specchio di una società. Penso si debba tornare a leggere i testi; in pochi lo fanno davvero. Spesso soprattutto l’accademia si concentra su pochi versi, o poche righe o pochi capitoli, e perde il centro. In questo modo, però, si rischia di notare la pagliuzza, e perdere il messaggio a cui si deve ritornare.

 

Barbara Castiglioni, laureata in Lettere Classiche, Dottorata in Studi Umanistici presso l’Università di Torino con una tesi sull’Elena di Euripide, si occupa di tragedia antica e di ricezione del classico. Ha pubblicato vari saggi sulla tragedia greca e sul rapporto tra dramma antico e moderno.

 

Giuseppina Capone

Filosofare è da donne

Le donne sono capaci di filosofare?

Musonio Rufo, notabile del neostoicismo romano, consigliere di molteplici antineroniani,  si pose siffatto quesito nel I secolo d.C. Per tale ragione condannato alla pena dell’esilio, rientrò a Roma subito dopo il decesso di Nerone. Delle sue lezioni permane la memoria nelle Diatribe; in una si legge: “Poiché uno gli chiese se anche le donne devono filosofare, così cominciò a dimostrare che anch’esse devono farlo:

le donne, disse, ricevono dagli dei lo stesso logos degli uomini, che noi usiamo l’uno con l’altro, e per mezzo del quale intendiamo se una cosa è buona o cattiva, bella o brutta. Allo stesso modo, la donna ha sensazioni uguali all’uomo, la vista, l’udito, l’olfatto e le altre. Inoltre, il desiderio e l’inclinazione naturale per la virtù non esistono solo nei maschi, ma anche nelle femmine. Stando così le cose, perché mai gli uomini dovrebbero cercare e studiare come vivere bene, nel che consista la filosofia e le donne no?”

Nell’estesa enumerazione delle espressioni pericolosamente tangenti la misoginia degli antichi, ecco una gradevole eccezione, valevole di menzione.

Effettivamente, la storia della filosofia non ha reso giustizia alle donne.

Eppure, si possono citare Ipazia, Hannah Arendt, Simone de Beauvoir, Angela Davis, George Eliot, Edith Stein, Anita L. Allen, Ban Zhao, Mary Wollstonecraft.

Scorrazzando tra i secoli tra le donne-filosofo dell’antichità si segnala la nota Aspasia di Mileto che appare in alcuni degli scritti filosofici di Platone, Senofonte, Eschine Socratico, Antistene. Taluni ricercatori sostengono che Platone stesso fosse rimasto parecchio colpito dalla sua esuberante intelligenza e sottigliezza; il personaggio di Diotima di Mantinea presente nel dialogo Simposio è fondato sulla sua figura. Socrate attribuisce alla irreale, probabilmente, Diotima il suo sapere nell’arte di Eros e parrebbe che proprio lei gli avesse offerto lezioni, contribuendo all’evoluzione della sua ricerca filosofica. Le tarde opinioni platoniche verso le donne rimangono viceversa molto contraddette ma La Repubblica suggerisce che le donne sono analogamente in grado di conquistare istruzione, immaginario intellettuale e competenza organizzativa all’interno dello Stato.

La filosofia medievale è dominata dalla figura di Ipazia, esponente del Neoplatonismo, così descritta nell’Antologia palatina:

Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole,/ vedendo la casa astrale della Vergine,/
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto/ Ipazia sacra, bellezza delle parole,/
astro incontaminato della sapiente cultura”.

Secondo Socrate Scolastico unica erede del platonismo interpretato da Plotino: “Era giunta a tanta cultura da superare di molto tutti i filosofi del suo tempo, a succedere nella scuola platonica riportata in vita da Plotino e a spiegare a chi lo desiderava tutte le scienze filosofiche. Per questo motivo accorrevano da lei da ogni parte tutti coloro che desideravano pensare in modo filosofico”.

La filosofia moderna vede l’interesse delle filosofe su temi quali l’istruzione femminile con Harriet Martineau; i diritti delle donne con Charlotte Perkins Gilman, la quale sostenne che le donne fossero oppresse da una cultura pregna di “androcentrismo”; la teoria politica con Rosa Luxemburg, teorica del marxismo consiliarista.

La contemporaneità coincide con la professionalizzazione della disciplina. Tra i nomi rilevante è quello di  Simone Weil: innamorata del pensiero greco; combattente per la giustizia ed il rispetto della dignità umana, appassionata all’idea di Dio, cui corrispondere senza limiti confessionali.

A lei non dobbiamo solo la vasta mole di scritti ma i singhiozzi, scoppiati alla notizia di una catastrofe quale la guerra, tutte le guerre, l’interesse concreto per l’istruzione ed i problemi di operai, contadini e disoccupati,  la condanna dei totalitarismi di destra e di sinistra e la difesa  del pacifismo tra gli stati nazionali.

Nel mese delle donne non possiamo immaginare una filosofia ideata, scritta e creata da filosofe.

Maura Gancitano asserisce “Siamo sempre state filosofe. Lo eravamo anche prima di poter seguire un corso universitario, di poter pubblicare libri, di poter tenere conferenze pubbliche. Lo eravamo prima che iniziasse a collassare l’idea granitica secondo cui una donna che studiava fosse un abominio. Lo eravamo già, ma non potevamo dare spazio al nostro desiderio di riflessione, di studio, di dialogo, di speculazione, e per questo il mondo ha perso migliaia di filosofe che forse nei millenni avrebbero potuto imprimere un altro corso alla storia umana.”

Giuseppina Capone

Sofia: dopo l’adozione sono anche riuscita a diventare mamma

“Per ogni donna che desidera diventare mamma, non esiste notizia peggiore di scoprire che non potrà mai crescere dentro di sé una vita. Io l’ho passato questo brutto momento e posso dire con fermezza che mi è crollato il mondo addosso. Ho deciso di adottare un bambino e, dopo una lunga attesa durata anni, io e mio marito l’abbiamo ottenuto. Ma non potevo crederci che, trascorso un mese dall’adozione, sono rimasta incinta. In quel momento ho capito quanto fosse affascinante la psiche umana; la mente può davvero decidere ogni cosa senza nemmeno che tu te ne accorga”.

La sofferenza per una donna che non riesce ad avere figli è immensa e spesso anche sottovalutata. La scienza e la psicologia hanno fatto passi da giganti verso una più rapida quanto efficace cura per l’infertilità sia maschile che femminile, ma pare proprio che, secondo dichiarazioni di un vasto numero di donne, il metodo più efficace per quest’ultima, per riuscire a mettere al mondo un bambino, sia proprio quello di adottarne uno. Deve essere proprio quello il momento in cui le paure si fanno da parte, quando la donna scopre che l’amore verso il proprio figlio può superare qualsiasi timore e ogni freno dettato dalla propria mente. Si tratta della paura della donna di non riuscire ad essere all’altezza della situazione; di non poter essere una brava mamma. Una paura talmente forte in grado di manipolare la mente e il corpo.

Sofia è una donna di 34 anni, vive a Napoli e racconta la sua storia di come è riuscita a diventare madre solo dopo aver ottenuto in adozione un bambino.

Sofia, per quanto tempo hai tentato di avere un figlio?

Preferisco raccontare partendo dalla relazione con mia madre; ho avuto una madre poco amorevole anzi, incapace di donare affetto, ma io, d’altro canto, ho da sempre desiderato avere un figlio, magari due o anche tre. Quattro, perché no. Io e Vittorio ci siamo sposati quando entrambi avevamo 23 anni e, solo un anno dopo, abbiamo iniziato a provare a diventare genitori. La mia testa e il mio cuore mi dicevano che volevo un bambino per dargli tutto l’amore che mia madre non era riuscita a darmi. Mia madre pensava solo a sé, era una di quelle madri che non trovava mai tempo per giocare con sua figlia perché per lei, la sua carriera, venivano prima di ogni altra cosa. Questa mancanza d’amore ha creato in me dei forti blocchi psicologici anche se irrazionali, naturalmente. Perché io un figlio l’ho sempre voluto, ma la paura di poter essere come lei mi bloccava, la mia mente decideva per me. Finalmente, dopo una lunghissima ed esasperante attesa tra documenti e visite costanti a casa di assistenti sociali, io e Vittorio abbiamo ottenuto Levi in adozione e dopo un mese ho scoperto di essere in dolce attesa. Tutto ciò mi rendeva felice ma suscitava in me una forte perplessità.

Quale perplessità?

Volevo capirmi. Volevo a tutti i costi comprendere la mia mente e perché il mio corpo stesse reagendo così. Anche se ne ero già sicura che fossi finalmente rimasta incinta solo di conseguenza dell’adozione e quindi ad un mio personale sblocco mentale. E questo mi ha portata a voler andare dallo psicologo il quale, dopo diversi mesi di terapia, mi ha confermato quasi tutto ciò che io sono riuscita a capire nel momento in cui ero in dolce attesa, ovviamente con una più complessa e lunga spiegazione. Penso che a volte crediamo di volere un bambino, ma la verità è che non siamo pronte, e quindi siamo noi a non volerlo per questo motivo non arriva. L’ho provato sulla mia pelle. Non è una cosa razionale ma nel nostro inconscio crediamo di non essere in grado di crescere un’altra vita. Alle volte può accadere perché abbiamo avuto genitori poco amorevoli, (come nel mio caso), e crediamo dunque di non riuscire a dare altrettanto amore. In altri casi, al contrario, può accadere quando si ha avuto genitori opprimenti e si crede, dunque, di non essere mai adulti e di non poter crescere un bambino. (Accaduto a molte donne). E ce ne sono tante altre di motivazioni.

C’è qualcosa che vorresti dire a chi come te ha vissuto o vive questo momento?
Non perdete mai la speranza. La nostra mente è capace di tutto anche se noi razionalmente non ce ne rendiamo conto, non lo vediamo, non lo focalizziamo. E’ quindi importante che impariamo a riconoscere le nostre emozioni per far sì che siamo noi a gestire la nostra vita con sentimenti, razionalità e con consapevolezza e non le nostre paure perché spesso, senza che ce ne rendiamo conto, le paure e i timori prendono decisioni al posto nostro. Gestiscono la vita nostra al posto nostro. Dunque, non abbiate paura di conoscervi, perché non c’è cosa più bella di scoprire sé stessi e imparare a vivere la vita che desideriamo.

Alessandra Federico

Maura Chiulli: Ho amato anche la terra

Dagli anni ’60 del Novecento il corpo delle donne diviene l’attore della discussione politica. I movimenti femministi ispezionano i paradigmi nonché i ruoli convenzionale delle donne. E’ stata sua intenzione gettare luce, mediante il corpo di Livia, 130 kg, sullo sguardo coevo al corpo muliebre?

Il corpo è lo spazio dell’esistenza e siamo al mondo, occupiamo il tempo e la latitudine del mondo attraverso il nostro corpo. Mi pare brutale che a parlare del corpo delle donne molto spesso non siano le donne, quindi, sì, certamente ho voluto che fosse il corpo di una donna a parlare di sé stesso, a disegnare il suo perimetro e a cercare la sua posizione, il suo spazio luminoso nella contemporaneità, che spesso esclude, mistifica, rigetta soprattutto i corpi ritenuti “difformi” o “difettosi”, imperfetti.

Come si pone, tratteggiando la storia di Livia, rispetto al dualismo, concezione teorica che vede un qualche tipo di separazione tra anima e corpo, tali da collocarli in due ambiti separati?

La storia di Livia e di Corpo vuole ricucire la frattura ontologica: anima e corpo coesistono e non sono separati. Il corpo è anima che si incarna. Il corpo racconta l’anima. Non c’è corpo senza anima e viceversa.

Lei ha dichiarato di esser stata ispirata da Ana Mendieta. la quale conferisce primaria importanza alla visione del proprio corpo umano immerso in una natura primordiale. Ebbene, qual è il legame tra Mendieta ed il corpo di Livia?

Entrambi i corpi, quello di Ana Mendieta e quello di Livia cercano un posto nel mondo, nello spazio e vogliono le radici, le foglie, la terra e le nuvole. Vogliono sentirsi parte di tutto, vogliono uno spazio e cercano un legame. Nell’arte come nella vita, i loro corpi cercano di confondersi, di farsi mondo, ma non per nascondersi. Solo per rivelarsi.

Il suo pare profilarsi come un resoconto d’insieme sulla vita, un’immersione nella contemporaneità talvolta spietata e disillusa.

Esistono balsami per lenire l’amara ruvidezza della realtà?

Esistiamo noi, con la nostra storia e le nostre infinite e diverse sensibilità, noi che siamo fatti di pensiero. Pensiero che talvolta per quanto è forte e radicato si fa carne e ossa, materia vivente. Il balsamo è la carezza, la presenza, l’avvicinamento, lo sfioro dei nostri mondi coi mondi degli altri. La cura al dolore non è nella solitudine, ma solo nella condivisione.

Le sue pagine illuminano le piccole increspature dell’anima.

Le crepe possono essere foriere di benefici interiori, quantunque le ferite?

Si parla molto, per esempio lo fanno tanto bene alcuni poeti, di ferite come feritoie, come segni insanguinati, ma anche aperture attraverso le quali guardare il mondo, magari con sguardo diverso. Non lo so se è davvero così: le ferite fanno male fin quando sono aperte. Questo lo so sulla mia pelle. Alle ferite, preferisco le cicatrici: segni chiusi, mappe dei nostri giardini segreti.

 

Maura Chiulli

Scrittrice, mangiafuoco. Si interessa di body art e arte performativa. Esordisce con il romanzo Piacere Maria (Editrice Socialmente, Bologna, 2010), cui sono seguiti i saggi Maledetti Froci & Maledette Lesbiche (Ed. Aliberti Castelvecchi, Roma, 2011) e Out. La discriminazione degli omosessuali (Ed. Internazionali Riuniti, Roma, 2012), e il romanzo Dieci giorni (Hacca, 2013). A novembre 2018 torna in libreria con il romanzo “Nel nostro fuoco” (Hacca). Selezionato al Premio Campiello, ottiene una menzione speciale al premio Grotte della Gurfa e finisce nella cinquina finalista del Premio Segafredo-Zanetti Città di Asolo “Un libro un film”.

Giuseppina Capone

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