Tagliare l’irpef può realmente incentivare le nascite?

Appare essere una buona idea contrastare la bassa natalità in Italia attraverso  la riduzione della tassa IRPEF e rappresenta una misura che potrebbe favorire la maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Un intervento sull’Irpef a favore del secondo figlio è un modo di ridurre la tassazione sul reddito da lavoro delle donne, incoraggiando così la loro partecipazione al mercato e quindi di favorire la scelta delle madri di continuare a lavorare dopo la nascita dei figli. Questo rappresenterebbe una condizione concreta e fattibile e consentirebbe alle coppie di decidere di avere  anche un secondo, se non un terzo figlio. Solo l’occupazione di entrambi i coniugi può infatti assicurare quelle risorse necessarie per poter crescere i bambini. Questo intervento  non ha vizi di incostituzionalità, come la tassazione differenziata per genere o la tassazione familiare, implicita nel quoziente familiare.

La relazione tra natalità e tassazione è un fatto non analizzato perché per sua natura non appare immediato, ma di certo nella società contemporanea merita una riflessione. Le politiche a sostengo della natalità richiedono oggi una corretta rappresentazione della relazione che esiste non solo tra tassazione del reddito e occupazione femminile, ma anche tra quest’ultima e la fecondità.

Infatti, se nel 1980 la relazione era negativa, oggi appare positiva e inversa rispetto ad allora. Cioè, nel 1980 il numero medio di figli per donna era più alto nei paesi dove si registravano bassi tassi di occupazione femminile, mentre negli anni Duemila la relazione risulta opposta, il numero medio di figli per donna è più alto laddove  il tasso di occupazione femminile è più alto.  A riguardo confermano gli ultimi dati Oecd (2014) mostrano che in Europa i paesi con tasso di occupazione delle madri tra il 72 e l’83 per cento, registrano tassi di fecondità tra l’1,7 e il 2 e sono  Svezia, Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio, Finlandia, Francia. All’estremo opposto si trovano paesi come Polonia, Italia, Grecia, Spagna, Malta, Cipro e Ungheria con tassi di occupazione femminile delle madri tra il 50 e il 70 per cento, che sono associati a tassi di fecondità tra l’1,3 e l’1,4.

Nel nostro Paese,  si ottiene lo stesso risultato se si osservano i dati regionali su partecipazione femminile al mercato del lavoro e fecondità: sono le regioni del Sud che registrano i valori più bassi di ambedue gli indicatori.

E’ quindi necessario oggi saper ben definire le politiche da intraprendere, con obiettivi precisi e fondati su una corretta conoscenza dei fenomeni sociali sottostanti e che fanno tutti riferimento al generale contrasto alla povertà.

Danilo Turco

Mercato del lavoro e quarta rivoluzione industriale

La quarta rivoluzione industriale rischia di dividere il mercato del lavoro tra privilegiati con un lavoro adeguato e stipendio commisurato e  precari in percorsi di carriera discontinui e mansioni dequalificate con bassi salari.

Sono per questo giunte da più parti proposte per attenuare gli effetti negativi di questa rivoluzione tecnologica. Tassare l’innovazione o i robot (come proposto da Bill Gates) o trasformare il mondo fatto da persone che vivono di sussidi (reddito di cittadinanza), sarebbe meglio aiutare i lavoratori a rimanere tali (proposta di Obama). Da qui l’importanza di misure attive per la prevenzione o la compensazione del reddito come programmi di formazione permanente, prestiti a lungo termine a fini di riqualificazione professionale con programmi di assicurazione sui salari.

La U.S. Bureau of the Census Displaced Workers Survey mostra che nel 2013-15 i lavoratori Usa spiazzati da globalizzazione e tecnologia sono stati 3,2 milioni, più del 2 per cento degli occupati americani. Due terzi di questi hanno ritrovato un lavoro nel gennaio 2016  (53%) e guadagna più o meno lo stesso reddito di una volta, mentre il 47% si è trovato a guadagnare di meno. Se la disoccupazione è causata dalla tecnologia e riguarda lavoratori esperti, occorrono strumenti di compensazione di reddito che durino nel tempo, più dell’indennità di disoccupazione, operando come strumento di assicurazione/rassicurazione sociale.

Il governo italiano sembra prendere sul serio queste idee. Nella legge di bilancio 2018 ci sono due articoli che destinano risorse a piani di integrazione salariale per accompagnare ristrutturazioni aziendali e la ricollocazione di lavoratori presso altre aziende. Nell’articolo 19 si stanziano fino a 100 milioni di euro annui per prorogare l’intervento straordinario di integrazione salariale nel caso di processi di riorganizzazione aziendale particolarmente complessi per gli investimenti richiesti e per le scelte di reintegro occupazionale. Nell’articolo 20 (comma 4) il lavoratore che accetta l’offerta di un contratto di lavoro con un’altra impresa viene esentato dal pagamento dell’Irpef sul Tfr, oltre al diritto a ricevere un contributo mensile pari a metà del trattamento straordinario di integrazione salariale che gli sarebbe stato altrimenti corrisposto con l’articolo 19. Per il datore di lavoro è previsto il dimezzamento dei contributi previdenziali (fino a 4.030 euro su base annua). Sono i primi passi nella direzione giusta ed equa.

Danilo Turco

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