Delinquenza e povertà in Venezuela: “Si sopravvive ogni giorno”

“Ogni giorno ringraziavo il cielo per essere ancora vivo”.

Caracas, Maracay, Valencia: tre su ventidue città in Venezuela sono vere e proprie capitali della delinquenza, dove la criminalità arriva a impossessarsi del 30% della popolazione per ogni città. Dal 2001 al 2016 ci sono stati quasi 300mila omicidi. Nel 2018 è stato il Paese più violento del mondo, con una percentuale di 98 omicidi per 100mila abitanti. Oggi tre milioni di venezuelani vivono all’estero, di cui almeno due milioni sono partiti dopo il 2015. Lo stato sudamericano è devastato da una profonda crisi economica e la popolazione vive una situazione disastrosa, costretta a combattere ogni giorno contro la criminalità per sopravvivere. Senza tener conto della povertà, difficoltà a trovare cibo, mancanza di acqua corrente, di luce e gas. Il Venezuela è uno dei Paesi con le più ingenti riserve petrolifere al mondo e questa risorsa è stata fonte di grande guadagno per l’economia venezuelana fino alla diminuzione del prezzo del petrolio. La povertà in Venezuela costringe la popolazione a derubare anche i vicini di casa per un pezzo di pane, perché lavorare per uno stipendio di cinque euro al mese porta alla disperazione. La crisi sociale ed economica del paese sudamericano spinge la maggior parte delle persone ad emigrare, ma non è facile per chi non riesce a racimolare i soldi necessari per potersi permettere una vita migliore.

 

“Ho vissuto davvero anni d’inferno. Quando mettevo piede fuori casa, non sapevo se sarei ritornato. Una delle poche cose che ricordo con nostalgia è la pioggia. Perché lì la pioggia è calda e quando mancava il riscaldamento in casa, molte persone scendevano in strada muniti di bagnoschiuma e shampoo per farsi la doccia sotto il cielo. Si creava un’atmosfera calda e festosa, soprattutto per i più piccoli”.

 

Nathan ha 25 anni ed è solo uno dei tanti emigrati dal Venezuela. Da due anni vive in Italia con i suoi genitori, con sua sorella e sua figlia di soli sette anni. Nathan racconta la sua storia e di come è sopravvissuto alla silenziosa guerra che ogni giorno era costretto ad affrontare.

Quanto sono frequenti gli atti criminali nel tuo paese?

In Venezuela per ogni dieci metri che percorri, hai già incontrato almeno cinque malviventi che, armati di pistola o fucili, ti chiedono soldi, telefono o qualsiasi cosa tu possieda che per loro possa aver un qualche valore. Arrivano addirittura a rubarti le scarpe così sei costretto a camminare scalzo e se ti rifiuti o se non hai niente da dargli ti bastonano, nel migliore dei casi. Ma quando hanno voglia di sparare, ti tolgono la vita. Per loro è un gioco. Ed è questo che mi fa più rabbia: vedere queste persone aggirarsi per le strade di Maracay con un fucile tra le mani e un sorriso smagliante, perché per loro è divertimento guadagnare uccidendo le persone. Ma ciò che mi faceva più paura era dover proteggere mia nipote. Non è giusto far vivere un animo così delicato in una realtà così crudele: sguardi minacciosi e volti sanguinanti, era davvero una sofferenza per me dover dire a Laia che andava tutto bene, che saremmo arrivati a casa sani e salvi quando la verità era che nemmeno io sapevo se ce l’avremmo fatta. E questo accadeva tutti i giorni. Quasi sempre, quando andavo a lavoro, lasciavo a casa soldi e cellulare. A volte mi veniva in mente di camminare anche scalzo, tanto qualcuno mi avrebbe obbligato a dargli le scarpe. La sera, invece, andavo a bere una birra a casa della ragazza di cui mi ero innamorato: Mary, e ogni sera dovevo prima guardare dalla finestra per assicurarmi che non ci fosse nessun malvivente nei dintorni, poi fare una corsa per entrare nel palazzo dove abitava lei. Tutto questo per la paura di essere derubato o aggredito. E abitava di fronte casa mia. Ora per fortuna anche lei è andata a vivere all’estero con la sua famiglia.

Hai perso persone a te care, vittime della criminalità?

Mio fratello maggiore Marcos ha perso la vita per colpa di quei delinquenti. Aveva 16 anni. Me l’hanno portato via perché ha avuto il coraggio di affrontarli, rifiutando loro di dargli lo stipendio che aveva appena ricevuto. Due colpi dritti alla testa. Questo è tutto quello che ricordo perché avevo solo 9 anni. La figlia della mia vicina di casa è stata presa in ostaggio per sette mesi, chiedendo in cambio soldi, cibo e automobile. La polizia interviene ma solo se ne ha voglia. A volte arriva dopo due o tre giorni. Ho perso anche alcuni amici. Per questo motivo ho deciso di portare mia sorella, mia nipote e i miei genitori lontano da lì. Soprattutto per dare un futuro migliore a Laia, per salvare almeno la sua infanzia.

Hai qualche ricordo particolare della tua infanzia in Venezuela?

Il rosso. Il colore rosso del sangue che ricopriva il volto o l’intero corpo delle vittime era ormai una scena che vedevo quotidianamente. Questo non lo dimentico. È un colore che tuttora mi disturba un po’, non lo nego. Poi ricordo gli spari, soprattutto quelli oltre le sette di sera, perché dopo quell’ora c’è il coprifuoco. Ci rinchiudevamo tutti nelle nostre case e accendevamo la televisione, così per i più piccoli i rumori erano coperti dal volume alto di un film, almeno per un po’. A tarda notte, per fortuna, si sentiva solo qualche macchina passare. Questa è una cosa che ricorderò per sempre. E le urla. Urla e pianti di chi era vittima di quei delinquenti. Perché mio padre lo diceva sempre: ‘arriverà anche il turno nostro se non andiamo via da questo paese infame’. Parlava con mia madre, io lo sentivo, aveva ragione. Aveva ragione perché quei bastardi ci hanno portato via Marcos. Era un incubo, la paura di dover uscire da casa anche solo per andare a scuola non ci faceva dormire la notte. Ho anche dei ricordi piacevoli, anche perché preferisco ricordare i momenti belli anziché quelli brutti. Le giornate calde al mare o la doccia in strada sotto la pioggia. Il ricordo più bello che ho è legato a mio fratello: mio padre ci portava tutte le domeniche a pescare e una sera, al ritorno, lui mi regalò un soldatino di plastica della sua collezione. Lo porto tuttora con me, mi aiuta a sentirlo più vicino.

Che lavoro facevi in Venezuela?

Facevo il magazziniere e guadagnavo l’equivalente di 5 euro al mese. Praticamente quei soldi non erano sufficienti nemmeno per sfamare mia nipote e quindi ero costretto a fare due lavori. Era difficile anche procurarsi del cibo perché nei supermercati andava tutto a ruba. Molte volte non riuscivo ad arrivare in tempo a lavoro perché i treni non funzionavano a causa della mancanza di corrente e gli autobus spesso saltavano le corse. Avevo un motorino che hanno ovviamente cercato più volte di rubare. Mi trovavo sotto casa: ‘dammi le chiavi del tuo motorino’, disse un uomo dalla voce inquietante. ‘Io faccio parte della delinquenza quanto te. Che facciamo, io rubo a te e tu rubi a me?’, gli dissi. Ero costretto a dire così per non vedermi portare via l’unico mezzo che avevo a disposizione per portare soldi a casa.

In quale altro modo procuravi del cibo per te e la per la tua famiglia?

In Venezuela il cibo si procura ogni giorno, perché devi trovare soldi ogni giorno. Io mi inventavo lavori diversi, dal vendere oggetti vecchi che avevo a casa, all’accettare qualsiasi tipo di lavoro che mi proponevano, purché fosse onesto. Ci vogliono almeno 20 euro per fare la spesa lì, perché lo stipendio è basso ma la vita è abbastanza cara. Ad esempio, noi utilizziamo spesso la farina di mais per i cibi che prepariamo, ma arrivava una volta alla settimana per ogni supermercato di ogni provincia e quindi spesso non la riuscivo a trovare o se la trovavo dovevo rispettare una fila di 150 o 200 persone per acquistare un solo pacchetto. Inoltre,  parecchi commercianti, per paura della delinquenza, sono costretti a rimanere all’interno del magazzino e a passare la merce attraverso lo sportello. Un po’ come le farmacie notturne. Ci sono anche negozi come i supermercati dove puoi tranquillamente acquistare merce come in Italia, ma sono pochi.

Come ti trovi adesso in Italia?

Posso dire di essere nato di nuovo. La mia vita in Venezuela fa parte ormai del mio passato e ne farò sicuramente tesoro perché qualsiasi esperienza ci aiuta a crescere e ci insegna delle cose importanti. A volte ci lascia segni positivi, altre volte negativi, ma ad oggi so dire che tutto quello che ho vissuto mi ha fatto capire quanto è importante godersi ogni giorno la vita e apprezzare le piccole cose. In Italia mi trovo molto bene, vivo a Napoli da due anni e i Napoletani sono molto calorosi. Mi trovo bene qui soprattutto perché il mio lavoro mi  permette di vivere e non più di sopravvivere, facendomi togliere anche qualche sfizio come acquistare un paio di scarpe in più senza la paura di doverle dare a qualcuno. Passeggio tranquillamente per le strade della città e posso mangiare quello che voglio a qualsiasi ora del giorno,  senza preoccuparmi di trovare il market vuoto. La cosa che più mi dà gioia è che finalmente la mia famiglia può vivere serena e che mia nipote potrà avere un futuro migliore rispetto a quello che le sarebbe toccato in Venezuela.

Alessandra Federico

Fuggire dalla miseria, non solo nel Mediterraneo

Ancora racconti di disperazione dal Venezuela. Questa volta sono i Paesi confinanti con Caracas a fare notizia. Su invito dell’Ecuador, infatti, lo scorso settembre si sono riuniti i ministri degli Esteri di 14 Paesi latinoamericani, assieme ai rappresentanti dell’Unhcr, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati e  dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, in un vertice di emergenza per mettere a punto delle soluzioni politiche condivise nel coordinare un fenomeno che non ha precedenti nella storia del continente sudamericano: la fuga in massa della popolazione venezuelana.

Fuggono con borsoni, abiti indossati uno sull’altro, a volte qualche trolley, in fretta e a piedi, lasciandosi tutto il resto in Venezuela. L’Onu ha stimato che sono circa 2,3 milioni i venezuelani fuggiti dal Paese e dalla miseria imperante; e l’esodo è sempre più impetuoso, basti pensare che egli ultimi 15 mesi in Colombia sono entrati oltre 1 milione di migranti; ogni giorno ne arrivano più di 4mila al confine con l’Equador e poi, dopo un viaggio di settimane a piedi o in autostop (perché i soldi per gli autobus non ci sono) fino in Perù, dove si è arrivati ad un numero complessivo di presenze che supera il mezzo milione.

Il Venezuela, che un tempo attirava con le sue ricchezze minerarie è diventata la terra da cui fuggire, tanto che Joel Millman, rappresentante dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni, ha equiparato questa crisi migratoria a quella del Mediterraneo. Entrambe di difficile soluzione.

Tuttavia solo con la cooperazione dei Paesi limitrofi, in Venezuela come nel Mediterraneo, si può sperare di giungere ad una risoluzione della situazione.

Eppure, anche i valichi del Sudamerica si chiudono. Il Brasile schiera l’esercito nello stato di Roraima, l’Equador vuole respingere chi si presenta alle sue frontiere con la sola carta di identità, così anche il Perù. Ma per i venezuelani il passaporto è diventato una chimera, per ottenerlo ci vogliono mesi e circa 200 dollari, cifra ormai insostenibile per larga parte degli esuli che arrivano a piedi, dopo aver marciato per migliaia di kilometri.

Sul ponte Simòn Bolìvar , porta d’ingresso alla Colombia, si registrano oltre 100mila passaggi al giorno, quasi tutti in uscita dallo Stato-caserma di Maduro. La maggioranza si ferma, altri proseguono il viaggio verso gli altipiani andini; le mete più ambite sono il Perù, con la sua economia in piena espansione, l’Argentina e il Cile.

Nei paesini di frontiera tra Colombia e Venezuela, ormai assediati dai migranti, si vedono incollate ai muri le banconote bolivares, che ormai non valgono più nulla, accompagnate a scritte offensive contro Maduro, principale responsabile dell’agonia in cui versa il Paese da ormai 5 anni.

Rossella Marchese

 

La crisi che non ha fine

I soldi non valgono più nulla. L’inflazione sfiora il 1mln% in un anno. La gente muore di fame e anche l’acqua deve essere razionata. Questa è la situazione attuale del Venezuela nell’anno del Signore 2018.

Con una crisi finanziaria spaventosa, che si protrae ormai da quttro anni, il quarto produttore mondiale di petrolio non può più neppure vendere le sue preziose risorse.

In tutta questa situazione, il Presidente Nicolas Maduro ha annunciato che a partire dal 20 agosto in Venezuela circolerà una nuova moneta, il bolívar soberano (bolívar sovrano), che avrà cinque zeri in meno rispetto al bolívar fuerte (bolívar forte), la valuta usata oggi e rimasta praticamente senza valore. La decisione è stata presa per provare a tenere il passo con l’iperinflazione che secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale raggiungerà il milione per cento su base annua entro dicembre.

Il governo di Maduro aveva già previsto una riforma della sua moneta nel giugno scorso, allora l’idea era quella di togliere solo tre zeri, ma l’applicazione del piano fu rimandata due volte.

Il bolívar soberano sarà legato al petro, la criptovaluta controllata dallo stato e introdotta dal governo lo scorso febbraio per aggirare le sanzioni finanziarie imposte al Venezuela. In teoria il valore del petro è basato sulle riserve petrolifere nazionali, quindi su un petrolio di fatto non ancora estratto. A tale proposito alcune dichiarazioni di esperti del settore, tra cui Francisco Rodríguez, economista presso la banca di investimenti Torino Capital a New York, ha detto al Financial Times: “Visto che non c’è mercato [per il petro], non c’è nemmeno un prezzo di mercato, quindi è difficile capire cosa significhi ancorarlo a qualcosa. Il governo venezuelano mantiene la capacità di stampare petro. Questo rende il fatto di legare il bolívar al petro non tanto diverso dal legare il bolívar a sé stesso”.

A giugno l’Assemblea nazionale, ovvero il Parlamento venezuelano controllato dalle opposizioni e rimasto praticamente senza poteri, ha stimato il tasso di inflazione al 46.305 per cento annuo. Ha sostenuto che la banconota più grande, quella da 500 bolívar (50.000.000 di bolívar attuali), varrà solo 6 dollari alla fine di agosto, e 20 centesimi alla fine dell’anno. La banconota da 500 bolívar sarà di colore marrone e avrà stampata l’immagine di Simón Bolívar introdotta dal chavismo nel 2012 e criticata dalle opposizioni per la sua leggera somiglianza all’ex presidente venezuelano Hugo Chávez, il predecessore di Maduro.

Con l’iperinflazione attuale, non funziona praticamente più nulla e sono necessari molti giorni di lavoro al salario minimo anche solo per comprare una dozzina di uova, inoltre, negli ultimi due anni centinaia di migliaia di venezuelani sono scappati dal loro paese e dalla miseria per una crisi che ha le dimensioni di quella dei profughi siriani in Europa.

Rossella Marchese

La democrazia nel XXI secolo

Il calo della democrazia degli stati nel mondo attuale  inducono a ricercare le ragioni, che sembrano essere sia economiche sia geo-politiche.

In questo ultimo decennio i diritti politici e le libertà civili garantiti dagli stati democratici sembrano essere sotto attacco e recentemente la situazione si molto acuita in tutte le regioni del mondo.

Non molto tempo addietro, dopo la seconda guerra mondiale e, soprattutto dopo la caduta dell’impero sovietico, i regimi democratici sembravano avere vinto la loro secolare battaglia.

Questo lo riporta uno studio che ogni anno Freedom House, un’organizzazione americana indipendente, pubblica attraverso un rapporto, “Freedom in the World”, che riporta le valutazioni sul grado di libertà di oltre 200 paesi. La metodologia adottata assegna ad ogni paese  un indicatore sintetico che può oscillare da 0 a 100. Questo a sua volta è composto da 25 indicatori, che oscillano tra 1 e 4 e misurano il grado di libertà in base a diversi parametri che traggono origine dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.

Secondo Freedom House, la percentuale di Paesi che possono considerarsi democratici (in termini di diritti politici, civili, economici, di opinione e altro), dopo essere cresciuta dal 35 al 48 per cento fra il 1987 e il 2007, si è ridotta al 45 per cento negli ultimi dieci anni e Paesi come Turchia, Venezuela, Ungheria e Polonia, che parevano essersi avviati a diventare solide democrazie, hanno riportato un duro peggioramento negli ultimi anni. Anche se esistono Paesi in cui il sistema politico e civile è migliorato, si è invece ampliata la forbice fra il numero degli stati in peggioramento e in miglioramento. I segnali più preoccupanti provengono dagli Stati Uniti, per molti decenni considerato paese leader dei valori democratici e sia Freedom House che The Economist Intelligence Unit, da qualche tempo, non assegnano più un punteggio pieno agli Usa, anche se i meccanismi presenti nel sistema statunitense risultano ancora saldi, nonostante la leadership americana nel mondo sia in calo.

Alla caduta dell’egemonia americana non ha corrisposto un maggiore intervento dell’Europa e del Giappone, cioè delle economie liberali storiche, ma si è assistito ad un aumento dell’attivismo dei due paesi tradizionalmente autocratici, Russia e Cina.

La prima ha cercato di interferire nelle ultime elezioni americane, francesi e tedesche e, forse, italiane, supportando i partiti xenofobi, e sostenendo militarmente i regimi autoritari nel Medio Oriente.

La seconda, presenta ambizioni egemoniche più globali e il potere economico è stata la migliore arma. La recente decisione di abolire il limite di eleggibilità del presidente in Cina, il rigido controllo dei social network e la forte repressione dei dissidenti residenti all’estero, sembra rendere più improbabile il passaggio del sistema verso la democrazia.

Oggi il mondo è diventato multipolare e il modello occidentale si è rivelato meno seguito da numerosi paesi emergenti sul piano economico, che considerano la democrazia un sistema non efficiente. La Cina è un esempio. Si tratta di una sfida da dover affrontare con determinazione, perché è evidente come i paesi meno democratici siano più inclini a seguire i conflitti militari.

Danilo Turco

Venezuela: vacilla Maduro

La colpa dei disordini sociali, della crisi politica, nonché della grave carenza idrica ed energetica che sta affliggendo il Venezuela ormai da febbraio, sarebbe del Niño.

Il fenomeno meteorologico che periodicamente interessa l’area dell’Oceano Pacifico, provocando inondazioni, siccità ed altre svariate perturbazioni, quest’anno si è abbattuto con il suo picco più devastante tra dicembre e gennaio portando con sé un considerevole aumento delle temperature delle acqua di superficie del Pacifico, un calo considerevole delle piogge e, dunque, anche la crisi idrica nel Venezuela che ha quasi esaurito la capacità di produzione di energia idroelettrica.

In realtà la situazione del Paese è ben più complessa e trova molta spiegazione anche nel drastico calo del prezzo del petrolio, che ha provato enormemente l’economia venezuelana, la quale fonda sulla produzione e l’esportazione mondiale del greggio larga parte del suo PIL; tuttavia il governo ha scelto il capro espiatorio perfetto, muto e incapace di difendersi, per poter giustificare gli interventi severi e poco tempestivi che ha dovuto varare per correre ai ripari.

Per risparmiare energia è stata ordinata la riduzione dell’orario di lavoro degli impiegati pubblici, che da aprile hanno visto tagliata la settimana lavorativa a soli due giorni, sono stati imposti ai centri commerciali orari ridotti nel caso non possano autoprodurre elettricità nelle ore di maggior consumo, anche gli orologi sono stati spostati in avanti di mezz’ora per ridurre la domanda di energia elettrica in prima serata.

Intanto, mentre il Paese è sull’orlo di una rivolta, spinto dalla fame e dalla difficoltà di reperire beni di primaria necessità come farmaci e d’acqua, l’opposizione chavista, forte nel Parlamento ed ostile al Presidente Nicolas Maduro, ha raccolto le firme necessarie per richiedere un referendum contro l’attuale Governo, il quale sta rispondendo agli attacchi politici ed alle manifestazioni di piazza con la repressione ed il pugno duro.

Maduro ha, inoltre, deciso di prorogare ad oltranza lo stato di emergenza economica nel Paese, dichiarando tale misura: “fondamentale per sconfiggere il colpo di stato e la guerra economica in atto, in modo da stabilizzare il Paese e affrontare le minacce esterne contro la patria”.

Tutto questo mentre continuano a circolare in tutto il mondo le inquietanti immagini dei black out elettrici quotidiani programmati in tutto il Venezuela.

 

Rossella Marchese

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