Tommaso Urselli: Oggi ti sono passato vicino

C’è solo l’andare senza fermarsi:/ se i piedi il sonno volesse mangiarseli/
è permesso cadere, non addormentarsi.
Lei scrive versi che narrano una quotidianità quasi atemporale, in cui si stenta a riconoscere il contesto storico in cui la vita si svolge. La vita umana vive una costante condizione di anonimato?
Non ne farei una questione di anonimato, se con questo si intende una condizione in cui sia dominante una passività di fondo o l’inutilità di ogni ricerca di senso.
L’assenza di coordinate storiche e una certa atemporalità possono suggerire a mio avviso un’altra possibilità: quella di rendersi conto che ogni essere vivente, non solo umano, indipendentemente dal contesto in cui vive e dalla sua specifica identità, è parte di un “tutto” di cui, questo sì, spesso ci sfugge l’enorme complessità. Ma non mi sembra un dato sminuente o avvilente, anzi… dovrebbe contribuire ad accendere curiosità, senso di reciprocità…
Per venire al nostro ambito, credo nella possibilità della poesia come fotografia di un processo in continuo divenire, più che come affermazione dell’io che la produce. Del resto, per dirla con Rimbaud, “Io è un altro. Se l’ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua…”
Lei sta spendendo il suo tempo quale autore di teatro. In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dalla Poesia?
Qualche mese fa, lo scorso maggio, una compagnia teatrale con cui avevo precedentemente collaborato come drammaturgo mi ha proposto di tenere una giornata di laboratorio di scrittura poetica rivolto agli allievi di un corso di formazione teatrale.
Si trattava per me della prima volta dopo tempo, di un incontro di lavoro in presenza, e non ho saputo fare di meglio che pensare di dare lo stesso titolo del libro che avevo composto durante il lockdown, “Oggi ti sono passato vicino”; non per mania di autoreferenzialità (durante il lavoro non sono stati utilizzati testi dal libro) ma perché nelle mie intenzioni esso contiene e racconta di un desiderio, una necessità che tutti abbiamo avvertito in questo periodo, sia pure in maniere e declinazioni differenti: quello di stringersi, di fare fronte comune dinanzi a qualcosa di sconosciuto, in una situazione in cui proprio la possibilità di essere uniti veniva per forza di cose a mancare. Come tradurre allora questa necessità in una pratica realizzabile?
Da circa venti anni mi occupo di drammaturgia. Scrivere per il teatro significa scrivere per degli attori che porteranno sulla scena il tuo lavoro… niente di più impensabile durante il lockdown, in cui come autore teatrale sono stato decisamente in lutto… mi era del tutto impossibile pensare di scrivere qualcosa che sarebbe andato in scena “dopo”, in un momento in cui i teatri erano chiusi, morti… il teatro non è fatto di “dopo”, è fatto di “adesso”, un adesso da condividere corpo a corpo: corpo del drammaturgo, corpo del regista, i corpi degli attori, i corpi degli spettatori… Così la mia scrittura ha cercato altre strade, già frequentate in passato anche se non in maniera sistematica: dalla rivisitazione di quegli sporadici tentativi in versi e dalla composizione di testi ex-novo, ha così pian piano preso forma questo libro, che porta in sé le tracce di una necessità evidente fin dal titolo (anche se quasi mai nei testi c’è esplicito riferimento al tema del virus e della pandemia, tranne che in una composizione).
Dunque, tornando al laboratorio, la cosa che ho sentito più sensata e organica, è stata quella di trasformare in oggetto di lavoro di gruppo la pratica di scrittura in versi che mi aveva accompagnato durante il lockdown – badando di non cedere alla tentazione di farne una ricetta o un manifesto, ma di restare sempre nell’ambito dell’interrogativo, a sé e al gruppo – da cui il sottotitolo:
“Nella distanza dei corpi, può la poesia avvicinare? Un laboratorio di incontro attraverso la scrittura.”
Quale “lenimento” migliore della condivisione?
Ti sento, è la tua voce, il tuo/ articolare lento e cadenzato. /Oggi ti sono passato vicino.
La sua versificazione è lucida, nitida, disincantata, priva di edulcorazioni, scevra da vergogne. C’è un limite a ciò che si può narrare?
È una domanda a cui credo sia possibile dare risposte anche molto differenti, e tutte legittime. Quello che conta, a mio parere, è che questa risposta scaturisca da un percorso, una pratica di lavoro che l’autore avverte come necessaria. È questa necessità, forse, a disegnare il limite tra ciò cui è importante dare forma e ciò che può essere tenuto per sé.
I morti, onde del mare/bianca spuma che a lungo ha viaggiato/ e a casa ritorna,/alla madre infinita.
Le parole che inanella in versi appaiono sensibilmente refrattarie al rispetto ovvio ed ossequioso delle norme grammaticali, compromettendo irrimediabilmente la logica connessione lettura-comprensione.
Qual è la chiave d’accesso per discriminare i suoi intenti comunicativi?
Non credo che un autore debba fornire chiavi d’accesso… caso mai, forse, fabbricare porte… Sta poi al lettore la scelta di aprirle o meno, per visitare i luoghi su cui si affacciano; questo a prescindere dalla comprensibilità o meno dei suoi testi e da quelli che potrebbero essere i suoi intenti comunicativi. Ma a proposito di comunicazione, vorrei qui citare la poesia e le parole di Antonio Neiwiller, uomo di teatro che ci ha lasciato nel secolo scorso; in particolare queste righe da un frammento del 1993 (stesso anno della sua scomparsa) dedicato a un altro grande uomo di teatro, Tadeusz Kantor:
“…È tempo che l’arte
trovi altre forme
per comunicare in un universo
in cui tutto è comunicazione…”
(da “l’altro sguardo: per un teatro clandestino, dedicato a t. kantor”)
Ad ogni modo, tornando ai testi della raccolta e ad eventuali strumenti di comprensione, mi riconosco nello sguardo di Franca Alaimo, di cui riporto qui un estratto da una sua nota di lettura:
“… l’autore fa uso di altre esperienze artistiche a lungo praticate, essendosi cimentato con il teatro (si ritrovano, infatti, in molti testi l’estro drammatico, l’impianto dialogico, ma anche l’asciuttezza di un autore grandissimo quale Beckett), e con la musica, specialmente il jazz (da cui provengono il ritmo sincopato di certi testi) … Né escluderei la meditazione buddhista e per l’epigrammatica sapienza di certi versi e per la concezione dell’Uno come inizio e ritorno di ogni cosa in una perenne ciclicità…”
La sua silloge potrebbe scomporsi in quattro momenti: memoria, contemporaneità, teatro, dolore. C’è un filo rosso che le congiunge?
Giocando un po’ a parafrasare Artaud: la vita, e il suo doppio.
Tommaso Urselli è autore di teatro. In passato alcuni suoi componimenti poetici sono stati pubblicati e positivamente recensiti da Maurizio Cucchi su Lo Specchio de La Stampa. Oggi ti sono passato vicino, da poco pubblicata per Ensemble, è la sua prima silloge poetica; la sezione “Parole alle formiche”, particolarmente apprezzata dal poeta Giuseppe Conte (sue le parole in quarta di copertina), è giunta finalista al Premio InediTO – Colline di Torino 2019. Tra i suoi testi teatrali rappresentati e pubblicati: Un vecchio gioco (La Mongolfiera Editrice; premio Fersen, Piccolo Teatro di Milano); Boccaperta (La Mongolfiera Ed.) commissionato da Teatro Periferico; Ipazia. La nota più alta (pubblicato da Sedizioni, e in e-book da Ledizioni nella versione inglese) su commissione di PactaDeiTeatri; Il Tiglio. Foto di famiglia senza madre, prodotto dall’autore in collaborazione con l’attore-regista Massimiliano Speziani (il testo, tra i vincitori del premio Borrello per la drammaturgia – e premio Fersen alla regia – è pubblicato sul n. 727 della rivista Sipario, in volume per La Mongolfiera Editrice, in e-book per Morellini Editore); su commissione del Festival Connections – Teatro Litta, Milano, scrive In-equilibrio; viene prodotto dal Teatro Litta il suo testo Esercizi di distruzione. L’importanza di chiamarsi Erostrato (pubblicato in volume per Edizioni Corsare e sul n. 758 della rivista Sipario; vincitore del premio Lago Gerundo); Ma che ci faccio io qua (Edizioni Corsare); cura con Renata Molinari e Renato Gabrielli la pubblicazione di A proposito di menzogne – testi per Città in condominio, L’Alfabeto urbano, Napoli; scrive inoltre Canto errante di un uomo flessibile, tra i vincitori del Premio Fersen per la drammaturgia e pubblicato da Editoria&Spettacolo; vince la prima edizione del premio Parole in scena per il teatro-ragazzi con il testo La città racconta (Edizioni Corsare); Piccole danze quotidiane (messo in scena al PimOff e presso la Triennale di Milano per il Festival Tramedautore, Outis); La porta (Festival Tramedautore, Outis; pubblicato da La Mongolfiera Editrice). Blog: https://tommasourselli.wordpress.com/
Giuseppina Capone

Caravaggio a Napoli 

Caravaggio si recò a Napoli alla fine del 1606. Visse nei quartieri spagnoli per circa un anno. Durante il suo soggiorno a Napoli l’artista dipinse molti affreschi come la Giuditta che decapita Oloferne (scomparsa). Una prima versione della Flagellazione di Cristo (1607- Musée des Beaux di Rouen), la Salomè con la testa di Golia (1607 – Kunsthistorisches Museum di Vienna), la Crocifissione di sant’Andrea (1607 – Cleveland Museum of Art).
La sua opera più importante eseguita a Napoli fu la Madonna del Rosario (1606-1607 – Kunsthistorisches Museum di Vienna). Quest’opera gli fu commissionata dai Carafa Colonna (ramo della famiglia dei Colonna) per la cappella di famiglia nella basilica di San Domenico di sant’Andrea.
Senza dubbio questo periodo per Caravaggio fu molto entusiasmante, felice e proficuo. Solo due opere del pittore sono rimaste a Napoli: Sette opere di Misericordia corporali (lo stile di Merisi usato per questo affresco fu di grande incoraggiamento per la pittura barocca partenopea, dando così vita a molti esponenti caravaggeschi tra i pittori della città. E inoltre stile di questo affresco  presentava una scena drammatica rispetto alla pittura romana). La Flagellazione di Cristo è l’altro dipinto rimasto a Napoli. (1607-1608 basilica di San Domenico Maggiore) spostato in seguito al museo di Capodimonte.
Caravaggio a Malta e in Sicilia
Nel 1607 Caravaggio lasciò Napoli e si recò a Malta grazie all’appoggio dei Colonna. Il pittore, a Malta, conobbe il maestro dell’ordine dei cavalieri di San Giovanni, Alof de Wignacourt (al quale eseguì un ritratto). L’intento di Merisi era quello di diventare cavaliere per avere l’immunità per evitare la condanna di decapitazione. Firmò, dunque, un documento nuovo che attestava che la sua città natale fosse Caravaggio (provincia di Bergamo).
Nel 1608 realizzò la decollazione di San Giovanni Battista (Concattedrale di san Giovanni di La Valletta.) Il 14 luglio del 1608 gli fu data la carica di cavaliere di grazia. Poco dopo fu arrestato in seguito ad un litigio con un cavaliere del rango superiore. (soprattutto perché si venne a sapere della sua condanna a morte). Il 6 ottobre fu rinchiuso nel carcere di Sant’Angelo a La Valletta ma grazie all’aiuto dei Colonna riuscì a scappare  e a rifugiarsi in Sicilia (Siracusa) dove fu ospitato da Mario Minniti (suo caro amico romano). Durante il soggiorno in Sicilia, l’artista studiò i reperti ellenistici e romani; l’archeologia l’aveva particolarmente affascinato. Dipinse una pala d’altare raffigurante il seppellimenti di Santa Lucia per la chiesa di Santa Lucia al sepolcro. Mentre la Resurrezione di Lazzaro e l’Adozione dei pastori li eseguì a Messina.
Il ritorno di Caravaggio a Napoli
Caravaggio tornò a Napoli alla fine dell’estate del 1609. Poco tempo dopo, sempre a Napoli, alcuni uomini (mandati dal suo rivale maltese) lo aggredirono con violenza lasciando il suo volto sfigurato.
Durante il suo secondo soggiorno napoletano dipinse il San Giovanni Battista disteso (1610), la Negazione di San Pietro, il San Giovanni Battista, il Davide con la testa di Golia.  La Salomè con la testa del Battista (per i cavalieri dell’ordine) e La Salomè con la testa del Battista destinato a Madrid. Tre tele per la chiesa di Sant’Anna dei lombardi di Napoli: il San Francesco che riceve le Stimmate, il San Francesco in meditazione e una resurrezione (perdute tutte e tre le tele durante il terremoto del 1805). L’ultimo dipinto di Caravaggio fu il Martirio di sant’Orsola (1610).
A Napoli Caravaggio viveva nel palazzo Castellammare presso la marchesa Costanza Colonna, ma dopo la notizia ricevuta della sua condanna a morte che papa paolo V stava preparando, partì subito verso Roma sul traghetto diretto a porto Ercole che sarebbe passato (segretamente) per lo scalo portuale di Palo di Ladispoli (circa 40 km da Roma). Il pittore sarebbe dovuto scendere  a Porto Ercole ma a Ladispoli fu fermato per degli accertamenti, mentre il traghetto continuò il viaggio portando via il bagaglio del pittore dove all’interno si trovavano le tre tele (Maria Maddalena in estasi, San Giovanni Battista, San Giovanni Battista disteso) e, soprattutto, all’interno della valigia c’era il prezzo concordato dal Merisi col cardinale Scipione Borghese per la sua definitiva libertà.
Merisi raggiunse Porto Ercole via mare ma era ormai troppo stanco, affaticato, e malato di febbre alta a causa di un’infiammazione intestinale trascurata. L’artista rimase a Porto Ercole e fu curato nel sanatorio Santa Maria Ausiliatrice della allora Confraternita locale di Santa Croce, (presso il retro della chiesetta di Sant’Erasmo situata nel borgo alto). Caravaggio morì proprio lì, nella chiesetta di Sant’Erasmo, il 18 luglio del 1610 a solo trentotto anni
Alessandra Federico

Caravaggio: l’artista rivoluzionario del 1600

Caravaggio, ovvero Michelangelo Merisi, è uno dei più conosciuti pittori  del nostro Paese. Nasce il 29 settembre del 1571 a Milano. Considerato tutt’oggi il più grande artista dell’arte occidentale, Merisi,  si forma artisticamente nella sua città natale ma al contempo, tra il 1593 e il 1610, è operativo anche tra Roma, Napoli, Sicilia e Malta. Sin da subito molto  è stata molto apprezzata l’arte del Merisi,  anche se raggiunse grandissima fama dopo la sua morte. Una caratteristica della sua arte è il chiaroscuro; riusciva ad ottenere un eccezionale effetto grazie al suo modo di evidenziare diversi elementi alla luce e allo sfondo scuro.

I suoi dipinti raccontano il suo animo sensibile e attento soprattutto nell’osservare e percepire ogni stato d’animo e fisico di coloro che ritraeva. Paradossalmente, però, il suo spirito empatico era continuamente tormentato e irrequieto, e, infatti, da giovane venne condannato a morte accusato di omicidio durante una rissa il 28 maggio 1606.

L’artista scappò per il resto della sua vita. I genitori dell’artista, Lucia Aratori e Fermo Merisi, erano nativi di Caravaggio, ma si erano trasferiti a Milano poco dopo essersi sposati (14 gennaio 1571), ebbero anche altri due figli di cui una femmina di nome Caterina. L’intero nucleo familiare, però, fu costretto a scappare da Milano per tornare al loro paese a causa della peste. Ciò nonostante, malauguratamente, Fermo non riuscì a scampare e poco tempo dopo morì. Una volta terminato il periodo della pandemia Michelangelo, a soli 13 anni, iniziò a lavorare a Milano presso il laboratorio di Simone Peterzano (pittore del manierismo lombardo nonché allievo di Tiziano). Si trattava di un contratto di apprendistato (firmato dalla madre per poco più di quaranta scudi d’oro) col Peterzano, del 6 aprile 1584, che si prolungò per 4 anni, e dove soprattutto Merisi apprese la tecnica dei maestri della scuola pittorica lombarda e veneta.

Il giovane pittore, oramai non più alle prime armi, lasciò la Lombardia nel 1592 per raggiungere la capitale italiana. Secondo quanto riportano i documenti dall’Archivio di Stato di Roma, Caravaggio lasciò la città nel 1596 per recarsi presso la bottega del pittore siciliano Lorenzo Carli. Merisi a Roma, nel 1594, fu ospite di Monsignor Pandolfo Pucci da Recanati e per lui realizzava “copie di devozione” di cui, però, per il pittore non erano affatto soddisfacenti e decise quindi di andare via e procurarsi da vivere dipingendo ritratti.

Nel 1596 conobbe il pittore messinese Lorenzo Carli che gli offrì lavoro e soggiorno presso la sua bottega in via della scrofa. Qui l’artista, grazie a Carli, conobbe Mario Minniti che ben prestò diventò il suo più caro amico nonché suo modello. Poco dopo, Merisi, frequentò la bottega di Giuseppe Cesari. Ragazzo che monda un frutto, Bacchino malato (suo autoritratto) e Fanciullo con canestro di frutta sono i primi tre dipinti di un certo rilievo che Caravaggio realizzò in quel periodo.

Merisi Nel 1597 conobbe il cardinal Francesco Maria del Monte, che, rimasto affascinato dall’arte del pittore, volle acquistare alcuni dei suoi affreschi. Da quel momento il cardinale chiamò il giovane artista al suo servizio dove rimase per 3 anni.

Caravaggio conquistò l’ambiente della nobiltà romana con la sua pittura rivoluzionaria. In brevissimo tempo lo stile dell’artista mutò, abbandonò i singoli ritratti e le piccole tele e iniziò a dedicarsi ad opere più elaborate inserendo diversi personaggi all’interno dell’affresco e raccontando episodi specifici. Il riposo durante la fuga in Egitto è uno dei primi capolavori di quel periodo. Grazie al cardinal Francesco Maria del Monte, nel 1599, Caravaggio ottenne la prima commissione pubblica per due tele da collocare all’interno della Cappella Contarelli nella chiesa di san Luigi dei francesi a Roma (dipinti riguardavano tratti della vita di San Matteo: la vocazione e il martirio).

Non passò molto tempo e al giovane pittore furono commissionati altri importanti incarichi: dal commerciante Fabio Nuti la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Palermo. Poi, per ordine del monsignor Tiberio Cerasi, la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. Nello stesso periodo da parte del figlio del cardinale Matteo Contarelli gli fu commissionato il dipinto di San Matteo e l’Angelo.  Questa tela diede l’opportunità al pittore di dimostrare le sue grandi capacità e di ottenere la commissione delle tele del ciclo di San Matteo.

Il marchese Giustiniani era un ricco banchiere genovese nel giro della corte pontificia, che riuscì a salvare Merisi dalle questioni legali in cui spesso si trovava a causa del suo essere impulsivo e aggressivo. Inoltre, il marchese, collezionò diverse opere di Caravaggio (compreso quello di San Matteo tolto via perché considerato senza decoro) contribuendo, per di più, alla sua formazione culturale.

In quel periodo l’artista viveva un periodo di sconforto per via delle sue opere rifiutate come quella della prima versione della Conversione di San Paolo (cappella Cerasi in Santa Maria del popolo), anche se, secondo la dimostrazione di Luigi Spazzaferro, l’opera non fu rifiutata ma sostituita con quella attuale in seguito ad un accordo con l’artista. Ancora, nel caso del dipinto La morte della Vergine, ritenuta indecente dai Carmelitani Scalzi che decisero di rifiutare il dipinto perché la figura della Vergine era rappresentata con il ventre gonfio e i piedi in vista, Merisi subì un vero e proprio momento di scoraggiamento. Pieter Paul Ruben era un celebre pittore fiammingo (pittore di corte al servizio di Vincenzo I Gonzaga) che ammirava molto l’opera di Merisi, tanto da convincere Vincenzo I ad acquistarla. Nell’aprile del 1607 il dipinto La morte della Vergine entrò a far parte della ricchissima quadreria dei Gonzaga. Da lì a poco il Duca Vincenzo I svendette la collezione di famiglia. Carlo I d’Inghilterra acquistò gran parte delle opere tra cui la Morte della vergine di Caravaggio ma, dopo la decapitazione di Carlo I, i dipinti furono acquistati dal collezionista e finanziere Everhard Jabach e poi in seguito da Luigi XIV. Ad oggi il dipinto di Caravaggio si trova a Parigi  al museo del Louvre. In quel periodo gli atti di violenza diventavano sempre più frequenti da parte del pittore che veniva, di conseguenza, spesso arrestato e portato nelle carceri. Girolamo Stampa da Montepulciano era un nobile ospite, come Caravaggio, presso la dimora del cardinal Del Monte (palazzo madama). Girolamo, dopo essere stato malmenato e rincorso con un bastone da Merisi, decise immediatamente di denunciarlo. Uscì dal carcere nel 1601 e tornò a dipingere; la Cattura di Cristo e Amor vincit omnia. Ma nel 1603, il pittore Giovanni Baglione denunciò Merisi per diffamazione (per aver scritto rime offensive nei confronti di Baglioni). Caravaggio fu liberato poco dopo e condannato agli arresti domiciliari. Era il 1604 quando, tra maggio e ottobre, il pittore fu trovato in possesso d’armi e non solo, fu spesso beccato a svolgere varie ingiurie alle guardie cittadine e per questo arrestato diverse volte.

L’animo del pittore era in continuo tormento; costretto a scappare a Genova (1605) per aver ferito un notaio. Quando tornò a Roma scoprì che aveva una querela da parte della padrona di casa dove lui soggiornava, a causa del mancato pagamento dell’affitto. Non solo,  Merisi venne doppiamente querelato perché, travolto dalla rabbia, lanciò sassi contro la finestra.

La sera del 28 maggio del 1606, a campo Marzio, il pittore fu ferito in seguito ad un fallo durante il gioco della pallacorda. Senza alcun scrupolo, Caravaggio ferì mortalmente il suo rivale Ranuccio Tommasoni da Terni.  Caravaggio fu condannato alla decapitazione in seguito all’omicidio di Tommasoni. Da quel momento l’artista dipingeva ossessivamente teste mozzate. Filippo I Colonna offrì al pittore asilo all’interno di uno dei suoi feudi laziali di Marino, Palestrina, Zagarolo, e Paliano. Merisi realizzò, per i Colonna, diversi dipinti tra cui la Cena in Emmaus, (Pinacoteca di Brera).

Alessandra Federico

La fotografia sociale di Jacob Riis

La fotografia sociale si impone come obiettivo quello di documentare, di raccontare, di portare alla luce tante verità omesse o dimenticate. Jacob Riis è ritenuto uno dei più grandi creatori della fotografia sociale, famoso soprattutto per aver documentato le condizioni di vita degli immigrati negli USA alla fine dell’ottocento.

Riis Nacque a Ribe, in Danimarca nel 1849. Era il terzo di quindici fratelli, lavorava come falegname e, nel 1870, all’età di  ventuno anni, emigrò negli Stati Uniti  con la speranza di vivere una vita migliore. Purtroppo, la vita che lo attendeva non era proprio quella che si aspettava: la guerra civile aveva provocato una forte crisi e questo spinse molte persone a partire verso New York. Riis, negli Stati Uniti, lavorava come minatore, venditore ambulante e carpentiere. Diventò giornalista di cronaca nera per il New York Tribune nel 1877 dimostrando, sin da subito, un particolare coinvolgimento per la situazione di miseria in cui vivevano le persone a Lower East side. Il giornalista si rese conto che scrivere delle vicende non era sufficiente per trasmettere ai lettori la sensazione di sofferenza che quelle persone erano costrette a vivere e decise, quindi, di aggiungere ai suoi racconti le immagini fotografiche. Solo in questo modo avrebbe catturato l’attenzione di chiunque. New York Sun e Scribner’s Magazine erano le due riviste all’interno delle quali riportavano gli articoli e le foto dei bassifondi newyorkesi scattate da Riis. Non solo, gli stessi articoli e fotografie, si trovano nel libro How the other Lives (Come vive l’altra metà, pubblicato nel 1890, dalla casa editrice Charles Scribner’s Sons). In soli 5 anni, vennero pubblicate undici edizioni del libro e la fama del giornalista cresceva ogni giorno di più, anche se, le tecniche di riproduzione tipografica delle fotografie erano ancora di bassissima qualità: solo sedici su trentacinque fotografie furono stampate a mezza tinta e le altre nove fotografie furono illustrate sotto forma di disegno. Da lì a poco, il Commissario della polizia di New York  Heodore Roosevelt, chiuse gli ospizi per poveri gestiti dalle forze di polizia.

I racconti di Riis non riguardavano solo gli avvenimenti tragici di coloro che vivevano nella povertà, nella disgrazia, lui eseguiva indagini anche sulla struttura architettonica ed urbana.  Grazie ai suoi racconti e alle sue fotografie, Jacob, ottenne ciò che si era prefissato: sottolineare le differenze di stili e condizioni di vita tra le classi più povere e quella borghese, in modo da ricevere assistenza e sostegno per poter finalmente cambiare la qualità di vita degli immigrati. Era, infatti, la prima volta che, grazie alla fotografia, le condizioni di vita degli immigrati avevano l’opportunità di emergere. Children of the Poor è il secondo libro scritto da Riis ed ebbe ugualmente un immenso successo.

Riis è stato anche il primo in America ad utilizzare un flash a polvere di magnesio; per renderla meno pericolosa aveva modificato, assieme al suo amico Henry G. Piffard, la formula inventata in Germania nel 1887. Così, le foto che scattava sia di notte che di giorno, potevano rendere bene l’idea di una situazione alquanto critica dei bisognosi. Le fotografie e gli articoli di Riis hanno aiutato  molte persone disagiate; con il suo operato è stato in grado di sensibilizzare il pubblico nei confronti di realtà che spesso non vengono contemplate.

Alessandra Federico

Non tutto il male. Cronache della terra inabitabile 

Non tutto il male. Cronache della terra inabitabile cita in esergo Amore e morte di Giacomo Leopardi. Ciclo di Aspasia e sguardi stranianti, allucinati e visionari.
Qual è il fil rouge che lega i due scritti in un’inusuale contaminatio fabulae?
È un filo che parte da molto lontano. Il titolo con cui Non tutto il male era nato, il suo working title per così dire, era proprio quella terra inabitabile che è confluita nel sottotitolo e che veniva da Amore e morte. E fa tutto parte di un percorso a più tappe, che comunicano fra loro. Mentre scrivevo il romanzo lavoravo anche a un saggio, insieme a Claudio Kulesko, che s’intitola Blackened – Frontiere del pessimismo nel XXI secolo e che è uscito anch’esso nel 2021, per Aguaplano. Per certi versi li vedo come testi gemelli, due lati di una stessa domanda. Il pessimismo è certamente il responsabile del linguaggio allucinato e visionario che lei nota, e che secondo me è proprio il linguaggio del dubbio, della sofferenza; ma del pessimismo non mi attrae l’aspetto alienante e caustico di un certo nichilismo, che in assenza di valori vorrebbe svuotare i significati, quanto appunto la visione dolente ma intensa di Leopardi, un’indagine piena e responsabile verso le ragioni del male. Amore e morte per me significa questo: sono i punti cardinali del nostro fato, le uniche due cose, in fondo, di cui vale la pena parlare – e di cui forse finiamo sempre per scrivere.
Leggere le sue pagine produce un effetto straniante tale per cui pare di essere uno spettatore della vicenda. Linguaggio e descrizioni deviano, soventemente, dal canone del romanzo di fantascienza e da aspirazioni di divulgazione scientifica. In che misura, invece, il suo romanzo recupera il sense of wonder della fantascienza classica?
Sono certamente un amante della fantascienza classica, ma ho avuto la fortuna (o almeno, io la reputo tale) di crescere, come lettore, senza porre particolare attenzione ai canoni. Mi sono sempre trovato in maggiore sintonia con un’idea di fantastico ampia e inclusiva, aperta alle contaminazioni, a tutto ciò che è strano e bizzarro. Mi pare che dialoghi molto bene con il presente, e del resto ho sempre pensato agli autori “fantastici” come a “realisti di una realtà diversa”, come diceva Ursula LeGuin. Il sense of wonder che lei nota in Non tutto il male risulta probabilmente da una confluenza che, nelle mie abitudini di fruitore, è la più naturale possibile fra fonti apparentemente anche molto diverse fra loro, dai poemi medievali ai videogiochi, passando per romanzi fantasy e manga giapponesi.
Chi è stato immaginato ha questo privilegio rispetto a chi è stato partorito, che può tornare a casa, nel territorio informe dell’increato, del mai esistito.” Il suo sguardo ha implicazioni morali?
Credo che ogni nostro sguardo o gesto ne abbia. Questo non significa che un romanzo debba essere una professione di fede o un’affermazione univoca. Mi pare che i protagonisti della storia siano anzi estremamente dubbiosi, confusi, e che l’intera vicenda sia un annaspare intorno a questo dubbio. Ma la radice di tale dubbio, certo, è basilare, e la domanda, il viaggio che compiamo insieme a essa, mi pare spesso più importante della risposta – specialmente in casi dove la risposta è per sua natura inconoscibile, perché in effetti anch’io penso spesso, con Albert Camus, che il suicidio sia l’unico problema filosofico davvero degno di riflessione, e questo è incarnato dal Cartografo alla ricerca del suicidio perfetto.
Quello che mi preme sottolineare, però, e che risuona anche con le precedenti riflessioni sul fantastico, è che una buona storia (parlo in senso generale perché non sono io a dover giudicare se Non tutto il male lo sia, ovviamente) non deve esclusivamente reggersi su simboli o allegorie, su significati nascosti. Vera o immaginata che sia, la storia parla con la propria voce e dialoga con chi la legge – senza per questo essere meno “morale”. Mi piace pensare ai concetti di “credenza secondaria” e “applicabilità” di J. R. R. Tolkien, in questo senso.
Zero, il Cartografo, la “ragazza in bianco” che diventa la “ragazza in nero”. Lei strotola un freakshow davvero virtuosistico: a quale personaggio è più legato?
Non è facile rispondere in modo netto perché gli elementi di questa triade sono strettamente legati fra loro, si compenetrano, sotto molti aspetti. Alcuni lettori li hanno interpretati come tre facce della medesima persona, ed è una lettura che trovo affascinante e del tutto legittima. Mi sbilancerei forse sul Cartografo, perché come suggerisce il nome è il vero “architetto” di Tula, la città dov’è ambientato il libro, è il primo nucleo a cui ho pensato e da cui sono nati gli altri personaggi. In questo senso agisce quasi da ambasciatore dell’autore all’interno della storia, è quello che mi ha aperto una finestra per poter guardare da dentro questo mondo fumoso, e districare gli eventi.
La sua formazione è classica. Ebbene, è così arduo convivere con la Natura in assenza di un Mito che ci accompagni nelle scelte?
Temo di sì. Ho pensato più volte a quello che accade a Tula come a un gigantesco rito funebre collettivo, un funerale in assenza di cadaveri, persone che hanno visto crollare la metafisica e cercano di costruirsi un mito con le proprie mani, perché in assenza di miti non riescono a interpretare la realtà. Da qui le fratture, la depressione, i fantasmi. È un bisogno di spiritualità, ma anche semplicemente di immaginazione, che trovo molto attuale. Quello che mi preme sottolineare, e che spero emerga anche dal libro, è che la questione della convivenza con la natura è asimmetrica. Sembrerà tautologico, ma per la natura è tutto naturale, anche gli incendi, le devastazioni, tutto ciò che accade in risposta ai nostri artifici. Ho recentemente visto il film The Green Knight, che nel linguaggio profondamente immerso nel mito del poema originale riflette in modo secondo me brillante proprio su questo tema: il verde è il colore della terra, della morte che ci digerisce e ci restituisce in vita, dei rampicanti che prima o poi avvolgeranno persino il castello più alto, di un’ascia che prima o poi taglierà il collo di ogni re. E se la fine del mondo è inevitabile, citando il titolo di un bel libro, io penso che “un’altra fine del mondo è possibile”, così come esistono altri miti per raccontarla e per convivere con la natura.
Andrea Cassini di formazione filologo medievale, è giornalista, traduttore e consulente editoriale. Scrive di sport per FiBa, «L’ultimo uomo» e altre testate. Scrive articoli per «L’Indiscreto» e ha pubblicato racconti su riviste letterarie e nelle antologie Prisma – Vol. 1 (Moscabianca, 2019) e Déjà vu – altre storie, altro presente (Alessandro Polidoro, 2020). Ha partecipato come autore a Tina. Storie della grande estinzione (Aguaplano, 2020).
Giuseppina Capone

Salvatore Conaci: Cosa accadde davvero a Evie Benson

Il percorso della protagonista, Evie, si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale analisi adopera flashback che compongono un puzzle psicologico di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?
Amo raccontare la memoria. Siamo quello che siamo perché ricordiamo gli anni, i passi, le sensazioni. Ricordiamo le persone, e ciò che è stato tra noi e loro. E da questo flusso delle cose umane impariamo lezioni nella gioia e nella disperazione. La memoria è una maestra che non si può ignorare, e quanto più ci sforziamo di non darle retta, tanto più sta vincendo le correnti del tempo, in una battaglia che non finirà mai con una chiusura totale dei conti. Il passato trova sempre la strada per raggiungerci, in un modo o nell’altro.
Uno dei temi del romanzo è il dolore muliebre. Perché ha deciso d’illuminare un aspetto troppo spesso taciuto?
Veneravamo un Dio femmina qualcosa come 20 mila anni fa. Oggi, invece, la nostra società è fallocentrica. Al livello microsociologico resiste una misoginia che diventa ginecofobia al livello ‘macro’. Così, le donne portano sulle spalle il doppio del fardello: quello umano, e quello di una società per loro in salita. Questo mi fa orrore. La mia Evie – ma non solo lei – è stata un’occasione di confronto col mio lato femminile, con la mia empatia verso l’universo femmina. Un esercizio di ascolto, oltreché una denuncia. Se ci esercitassimo tutti all’ascolto, elimineremmo gli ostacoli, anziché fare mansplaining su come le donne dovrebbero schivarli.
Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?
È proprio col mistero che ho provato a conferire originalità al romanzo. Col suo galoppo spesso estremo, il thriller è abbastanza esaltante da non aver bisogno di incognite e punti interrogativi per accattivare. Spesso, nel thriller si conosce ogni elemento, e a tenerci incollati è una sola domanda: riusciranno, i protagonisti, a cavarsela? Io ho preso un thriller e ho tentato di dargli un taglio da giallo, con misteri che ottengono risposte poco a poco. Chi è stato? Perché? Cosa accadde davvero a Evie Benson?
Le sue righe suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, se non si sceglie d’amare né d’essere amati, in che misura si sceglie di scrivere?
L’amore costringe ad amare, per parafrasare e sintetizzare Dante. È un tiranno: non possiamo scegliere chi, né come. Per come la vedo, esiste una sola regola, che avvicina amore e scrittura a distanza minima, la distanza di una vocale: si ama quando si ha qualcosa da dare, e si scrive quando si ha qualcosa da dire. E sono due condizioni su cui non abbiamo alcun controllo.
La sua scrittura, scorrevole ed incisiva, diretta e frizzante, pare rinviare al linguaggio delle serie TV. Quanto risponde ad una sua precisa volontà la contaminazione dei linguaggi?
Sono un appassionato sostenitore del concetto di lingua come mezzo, mai come fine. Cosa accadde davvero a Evie Benson narra fatti di fantasia, ma dal potenziale di verosimiglianza elevato. Volevo che il romanzo potesse essere diretto, immediato come una serie TV, proprio perché là fuori le strade pullulano di Evie Benson. Volevo che il messaggio arrivasse. Finora, la scelta sembra darmi ragione.
Salvatore Conaci nasce a Catanzaro, nel ‘90. Tra il 2016 e il 2017, collabora con le riviste Luoghi Misteriosi e ‘900 Letterario. Nel 2015, pubblica Perle nere (Montedit), raccolta di novelle dell’orrore. Il suo primo romanzo è Ordo Mortis (Writers Editor, 2018), che ottiene la menzione di merito al III Premio Internazionale Cumani Quasimodo. Col racconto Odio i treni, a ottobre 2020 è finalista del Premio Letterario Internazionale Nautilus, e vincitore del Premio Speciale Litweb. Di maggio 2021 è il suo thriller psicologico Cosa accadde davvero a Evie Benson (bookabook), per mesi nella Top 100 di Amazon. A ottobre 2021, è tra i vincitori del Concorso Letterario Halloween all’italiana, col racconto Grazie a Dio!
Giuseppina Capone

Dopo” I Promessi sposi” tanti altri classici per “la mia prima biblioteca”

Una collana dedicata a far appassionare i piccoli ai grandi classici della letteratura quella che EMSE ha portato in edicola.

Libri riccamente illustrati che raccontano ai giovanissimi lettori le tante storie che hanno visto protagonisti personaggi diventati famosi grazie alla capacità creativa e letteraria dei loro autori, veri giganti della letteratura italiana e internazionale.

Dai Promessi Sposi che apre la collana ai Viaggi di Gulliver, a Moby Dick, all’Odissea, per proseguire con Alice nel paese delle meraviglie, Ventimila leghe sotto i mari, Zanna Bianca, L’isola del tesoro, Don Chisciotte della Mancia, I tre moschettieri, Le avventure di Pinocchio, Robinson Crusoe, Peter Pan, Le avventure di Tom Sawyer e ancora tante altre avventure e tanti altri personaggi.

La collana si compone di 50 volumi ed è destinata a dare un forte contributo a far avvicinare alla lettura i più piccini.

Antonio Desideri

 

Intervista a Laura Pezzino: A New York con Patti Smith. La sciamana del Chelsea Hotel 

Patti Smith è globalmente nota per l’immenso carisma interpretativo e la suggestiva intensità delle parole delle sue canzoni. Ciò le ha fatto guadagnare l’epiteto di “sacerdotessa maudite del rock”. Ebbene, perché  “La sciamana del Chelsea Hotel”?
Il termine “sciamana” indica colei che media tra due mondi, squello della cosiddetta “realtà” e quello “altro”, popolato dai morti, dagli spiriti, dalle anime. Ha una tradizione antichissima, e ha anche un suono bellissimo che richiama il vento, un vento che porta cambiamenti. Applicato a Patti Smith assume un significato laico e metaforico: i mondi altri con i quali è entrata in contatto sono quelli della poesia, della scrittura, della musica, luoghi in cui si è soggetti all’ispirazione e verso i quali si riceve una chiamata. E il Chelsea Hotel, che durante il secolo scorso ha ospitato almeno due generazione di personalità geniali, per lei ha funzionato come un vero e proprio stargate magico, attraversando il quale è potuta diventare ciò che sognava fin da bambina: un’artista che potesse esprimere se stessa.
La stazione di Port Authority,  il Greenwich Village, Washington Square, Brooklyn, il cbgb e gli Electric Lady Studios, la St. Mark’s Church: lei ripercorre le tappe dell’iter newyorkese di Patti Smith.
In che modo ha operato una selezione; a quale istanza ha risposto? La sua è una “geobiografia”?
È una geobiografia perché, fin da subito, mi è sembrato più “semplice” provare a ripercorrere la vita di un’altra persona, di per sé imperscrutabile, ripercorrendo i luoghi che aveva attraversato piuttosto che procedere senza dei veri e propri appigli. Dopo essermi a lungo documentata ho scelto i posti che, a mio parere, hanno lasciato un’impronta visibile ancora oggi sul suo percorso artistico. Ne avrei potuti scegliere molti altri, Patti non è certo una a cui piace restare ferma. Però alla fine, nell’economia di questo libro, mi è sembrato di avere operato delle scelte almeno secondo il mio giudizio coerenti.
La New York di  Patti Smith è ancora pulsante o ne è la pallida ombra?
Moltissimi dei luoghi che hanno segnato delle tappe fondamentali per la sua formazione non esistono più: il Chelsea Hotel, per esempio, e poi il CBGB, il Max’s, la libreria Scribner e la Brentano’s, l’ino Café. Neppure quel clima lì, il fermento degli anni Sessanta e Settanta, esiste più. Ma molto è rimasto, oppure si è trasformato. Non potrei mai definire pallida una città come New York: potrà essere brutta, sotto certi aspetti, crudele, respingente, oppure esaltante, scintillante, chiassosa, ma la tiepidezza non credo le si addica molto.
Il suo homo viaticor ha uno sguardo delicatamente carezzevole, accoratamente umile, soavemente poetico, fortemente empatico e mai profanatore dei luoghi newyorchési.
In quale accezione possiamo declinare il suo uso del termine “viaggio”?
Il mio viaggio nella New York di Patti Smith è un insieme di viaggi: la somma di quelli che, negli anni, ho fatto in quella città in momenti per me molto diversi, e quelli che ho intrapreso dentro la mia, di vita. Siamo tutti in viaggio, e con questo non dico nulla di nuovo. Anche scrivere un libro lo è, un viaggio faticosissimo ma che, come spesso accade, lascia anche molti spazi aperti alla gioia, alla scoperta. Fare di questo testo una recerche mi è sembrato il modo migliore per fissare una meta e, quindi, individuare le strade migliori per raggiungerla. Alcune si sono rivelate dei vicoli ciechi e sono state abbandonate. Altre mi si sono materializzate davanti ed erano giuste. E come in un vero viaggio la strada si è “fatta” durante il cammino.
Lei compie una ricerca in absentia. Oltre a Patti Smith, immensa protagonista del rock, del proto-punk e della New-wave, cosa la lega a New York?
Un senso di libertà che non ha nulla di romantico o di ideale. In quella città mi sono sentita più libera – che per me significa “me stessa” – che in qualsiasi altro luogo. I motivi possono essere tantissimi, ma anche nessuno. I luoghi hanno un loro spirito e credo che ciascuno di noi assorba molto dei posti in cui si trova se riesce a porsi dentro di essi in maniera aperta.
Laura Pezzino è una giornalista. Appassionata di letteratura e poesia da sempre, è stata a lungo book editor del settimanale Vanity Fair. Oggi collabora con varie testate e case editrici.
Giuseppina Capone

Procida ’22. Capitale italiana della Cultura

Una pubblicazione per presentare al pubblico la bella e suggestiva Procida che è stata designata capitale della Cultura per il 2022, quella realizzata in collaborazione con Guida editori,  che Repubblica ha voluto regalare ai suoi lettori. Il volume in 240 pagine ricche anche di immagini presenta l’sola con racconti di grandi scrittori e una guida agli eventi che si terranno nel corso del 2022 nell’isola di Arturo.

Procida ’22 si inserisce nella collana Novanta/ Venti, fondata nell’aprile di due anni fa, quando la redazione di Napoli di Repubblica, inaugurata il 18 aprile del 1990, festeggiò il trentesimo compleanno, in pieno lockdown. Il  volume è curato da Ottavio Ragone e Conchita Sannino. Le parole di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, racchiudono il presente e il futuro della suggestiva isola “Procida può diventare il paradigma di una condizione contemporanea: stare dentro la globalizzazione ma con una propria essenza, riconoscibile e certa, che renda un luogo diverso da ogni altro, lo ponga al centro di relazioni forti e capillari ma al tempo stesso lo preservi con la propria  millenaria storia, bella tutela e valorizzazione dell’ambiente”.

Bianca Desideri

Studiare il latino, ponte tra passato e presente

Un’iniziativa editoriale che sicuramente non è passata e non può passare inosservata quella presa del Corriere della Sera che, oltre ad altre collane, ha lanciato nei mesi scorsi in edicola un’opera importante per la cultura del nostro Paese e dedicata ad una lingua che qualcuno potrebbe annoverare tra quelle morte: il latino.

Il latino è la lingua ma anche la cultura “alle radici dell’Occidente” e come tale la ritroviamo ogni giorno anche percorrendo le strade delle nostre città dove vediamo iscrizioni in una lingua, appunto il latino, che è stata la base di una civiltà che ha espanso i suoi confini, fisici e culturali, oltre quelli in cui il nostro Paese è oggi racchiusa. Molte delle nostre città si basano anche sulla struttura urbanistica che da quella civiltà hanno preso consistenza; comprendere la vita e la cultura romana di cui il latino era la lingua non significa solo studiare una fase della storia umana di una popolazione ma anche comprendere la cultura del nostro presente che prende l’avvio da quella.

Per meglio comprendere i diversi aspetti i  venti volumi prevedono una parte più strettamente storico-letteraria ed una dedicata invece alla lingua e alla sua grammatica. Il tutto corredato da esercizi e giochi per rendere più vicina una lingua bella da imparare o da riscoprire.

Bianca Desideri

1 2
seers cmp badge