Nel suo libro, la crepa si fa cifra e metafora. Pensa alla nozione giapponese di kintsugi, in cui la frattura viene nobilitata con l’oro. Lei però sembra spingersi oltre: non è solo una riparazione estetica, ma ontologica. Che cosa resta, secondo lei, del concetto stesso di “interezza” nella vita umana?
Sì, nel mio libro la crepa è una metafora centrale. Il kintsugi giapponese ci insegna che la frattura non va nascosta ma evidenziata, persino nobilitata. Tuttavia, a me interessa soprattutto quel che cambia nell’identità di ciò che è stato rotto. La riparazione non restituisce un “prima”, non è un restauro mimetico: è un altro stato dell’essere, spesso più autentico. Per questo, nel libro sottintendo una“riparazione ontologica”: ciò che siamo dopo una crepa non è meno intero, ma è un’interezza diversa. Meno compatta, forse, ma più vera.
Lei parla di “riparazione della vita quotidiana”. In un’epoca segnata dall’effimero, dal consumo e dalla sostituibilità, la riparazione sembra un atto controcorrente. È possibile pensare alla cura del quotidiano come forma di resistenza simbolica?
Certamente! In un tempo che tende a scartare ciò che è rotto – oggetti, relazioni, anche emozioni – scegliere di riparare è un gesto di resistenza, persino di disobbedienza creativa. È come dire: “Questo vale ancora, anche se non è perfetto”. Ma proprio qui vale la pena fermarsi: che cosa intendiamo oggi per “perfetto”? Spesso, il perfetto coincide con l’efficiente, il nuovo, il performante, ciò che non ci fa perdere del tempo. È una perfezione di superficie, senza storia. Una perfezione che non conosce l’attesa, né l’errore. Ma è davvero questo ciò che ci fa stare bene? La cura del quotidiano, al contrario, riconosce valore a ciò che è segnato dal tempo. Riparare non significa riportare all’origine, ma accompagnare una trasformazione, anche visibile, anche imperfetta. È un modo per sottrarsi alla logica della velocità, della prestazione, dell’indifferenza. È un atto controcorrente che restituisce profondità e pienezza al vivere.
E, soprattutto, è un atto che restituisce dignità anche all’incompiuto, al provvisorio, a ciò che non corrisponde ai canoni del “tutto e subito”. Una piccola forma di resistenza simbolica e concreta, insieme.
Nel testo si coglie una sensibilità quasi bachelardiana per gli oggetti, le stanze, i luoghi abitati. Crede che la riparazione interiore possa iniziare da una diversa relazione con le cose, secondo la logica dell’”intimità abitata” e non del possesso?
Credo fermamente che la riparazione interiore inizi anche dal nostro modo di abitare gli spazi. La filosofia dell’”intimità abitata” ci insegna che le cose non sono solo strumenti: possono diventare compagne di senso. Quando aggiustiamo una sedia o scegliamo di non buttare una tazza sbreccata, stiamo anche educando lo sguardo. Stiamo dicendo a noi stessi: “Nulla è solo da usare”. E questa è una forma di riconoscimento che può trasfigurare anche l’interno.
Spesso i manuali si rivolgono alla mente operativa, al “fare”. Ma il suo sembra un “anti-manuale”, un breviario esistenziale. Si sente più vicina alla tradizione dei moralisti francesi, dei pensatori dell’esperienza?
Sì, il mio libro è volutamente un “anti-manuale”. Non offre soluzioni pronte, ma inviti alla riflessione. In questo senso mi sento vicina a quei pensatori -Montaigne, Pascal, Joubert – che interrogavano la vita da dentro, senza schemi rigidi. Non esiste una tecnica precisa per riparare l’anima, ma esistono gesti, parole, silenzi che ci avvicinano a qualcosa di più umano.
C’è una componente quasi liturgica nei suoi gesti descritti: rifare il letto, aggiustare una sedia, preparare una tavola. È possibile leggere questi atti minimi come una forma di sacramento laico, alla maniera di Simone Weil?
Quei gesti quotidiani sono troppo spesso relegati sul fondo della coscienza, come “doveri minori”. Eppure, proprio lì, nel ripetuto e nel trascurato, si nasconde qualcosa di profondo: una forma di presenza. Non presenza spettacolare, ma silenziosa. Un atto che riconnette corpo, spazio, tempo e intenzione. Simone Weil ci ha insegnato che anche il gesto più umile, se compiuto con attenzione, può diventare offerta. E non solo offerta verso qualcosa o qualcuno, ma anche da parte nostra: un modo per dire “ci sono”, “mi prendo cura”,“questo conta”. In questo senso, quei gesti possono diventare senz’altro sacramenti laici, piccole liturgie incarnate nella materia, in cui ogni piega, ogni ordine dato alle cose, diventa linguaggio.
In Il bello tra le crepe si percepisce una tensione tra fragilità e forza, vulnerabilità e splendore. Le sue pagine sembrano dialogare con pensatori come Adriana Cavarero o Judith Butler, dove la cura dell’altro nasce dall’esposizione, non dal dominio. Qual è, per lei, il volto della forza oggi?
Per me, oggi, la forza ha il volto della vulnerabilità consapevole, non della durezza. Non si tratta di debolezza passiva, né di cedere alla fragilità come resa, ma di scegliere diesporsi senza corazze, senza cinismi di difesa, senza il bisogno costante di apparire invulnerabili. Le pensatrici come Adriana Cavarero o Judith Butler ci hanno insegnato qualcosa di rivoluzionario: che la cura dell’altro non nasce dalla superiorità, ma dall’incontro tra debolezze che si riconoscono. Non si cura da una posizione di forza, ma da una postura di apertura. La relazione autentica non ha bisogno di gerarchie: ha bisogno di presenza, ascolto, reciprocità.
Il titolo evoca la categoria del “bello”, ma di un bello ferito, incrinato. Le chiedo: è ancora possibile oggi pensare il bello senza cadere nell’edonismo, o nel suo opposto, l’estetica della rottura sterile?
Il bellonon è un ideale astratto, né un piacere narcisistico. È ciò che ci fa sostare, anche solo un attimo, di fronte a qualcosa che risuona. La crepa, l’imperfezione, ci costringono a uno sguardo diverso, più attento. Evito l’estetica della rottura fine a se stessa, ma credo nel bello ferito: quello che contiene in sé la memoria del dolore e insieme la possibilità di luce.
Lei sembra proporre una nuova etica dell’attenzione. Non quella spasmodica e iperconnessa del nostro tempo, ma un’attenzione silenziosa, lenta, selettiva. È d’accordo con Iris Murdoch quando diceva che “la moralità comincia con l’attenzione”?
Concordo profondamente con Iris Murdoch. La sua frase “la moralità comincia con l’attenzione” andrebbe incisa su ogni agenda, su ogni schermo. Nel nostro tempo, in cui tutto ci invita alla distrazione, all’accumulo di stimoli e informazioni, l’attenzione èdiventata un atto etico, non solo cognitivo. Non si tratta più di “guardare”, bensì di scegliere di vedere. Di fermarci. Di fare spazio. Ma non ogni tipo di attenzione ci “salva”. Non parlo dell’attenzione ansiosa, spasmodica, iperproduttiva, quella che tutto registra e nulla custodisce. Piuttosto di un’attenzione lenta, selettiva, affettuosa. Un’attenzione che accoglie, non che scannerizza.
La sua scrittura ricorda certi toni della saggistica poetica: non illustra, evoca. Si sente più artigiana della parola o seminatrice di immagini interiori? E come si è posta, nella stesura, rispetto al rischio del didascalico?
Mi sento artigiana, perché scrivere, per me, è un lavoro di mani pazienti e di orecchio attento. Ogni parola va scelta, limata, ascoltata nel suo peso e nella sua risonanza. Ma mi sento anche seminatrice, se penso alle immagini interiori che desidererei lasciare al lettore: non concetti da trattenere, ma visioni che germogliano altrove, nel tempo di chi legge. Non pretendo, né cerco, di spiegare tutto. Non cerco l’esaustività, ma l’apertura. Preferisco evocare anziché illustrare, suggerire piuttosto che definire. Credo che il pensiero non debba imporsi, ma invitare. Ho cercato di evitare con cura il tono didascalico. Se il libro parla di lentezza, di attenzione, di fragilità, anche lo stile deve respirare quel ritmo. Nella speranza di esserci riuscita!
Nel mondo che si frantuma – tra guerre, alienazione, solitudini – lei propone la riparazione come via concreta, non utopica. Ma anche discreta. Quanto conta, oggi, l’umiltà come gesto culturale e come pratica di trasformazione?
L’umiltà, oggi più che mai, è un gesto necessario, culturale e insieme profondamente umano. In un mondo in cui tutto sembra competere per visibilità, dove il valore si misura spesso a suon di esposizione, numeri, clamore, scegliere di non occupare tutto lo spazio è un atto radicale.
L’umiltà permette di fare silenzio per ascoltare, di mettersi da parte per far emergere l’altro, di rinunciare a “dire la propria” per comprendere davvero ciò che accade.
E ascoltare è già una forma di riparazione.
Simonetta Tassinari ha insegnato storia e filosofia nei licei e nel Laboratorio di didattica della filosofia dell’Università del Molise. Da anni coltiva la psicologia relazionale, la psicologia dell’età evolutiva, il counseling filosofico e divulga la filosofia tra bambini e ragazzi. Anima partecipati caffè filosofici e tiene conferenze in tutta Italia e all’estero. Collabora con la fondazione Quid+ e con Treccani Futura.
Molto apprezzata dai lettori per la sua capacità di rendere la filosofia alla portata di tutti, è autrice per Feltrinelli del fortunatissimo Il filosofo che c’è in te (2019), cui ha fatto seguito Il filosofo influencer (2020), Contro-filosofia dell’amicizia (2022) e Il bello tra le crepe. Manuale di riparazione della vita quotidiana (2025). Per Gribaudo ha pubblicato diversi manuali, tra cui Instant filosofia (2021) e Il libro rosa della filosofia (2024). È stata candidata al premio Strega 2023 con il romanzo storico Donna Fortuna e i suoi amori (Corbaccio).
Giuseppina Capone