Lunga è la notte

Marinette Pendola fa parte del gruppo di lavoro “Progetto della memoria”, istituito dall’ambasciata italiana a Tunisi negli anni Novanta, cui sono legate numerose pubblicazioni, tra cui “L’alimentazione degli italiani di Tunisia” (Tunisi, Finzi, 2005), “Gli Italiani di Tunisia. Storia di una comunità” (Editoriale Umbra, 2007). I suoi studi hanno ispirato anche “La riva lontana” (Sellerio, 2000), romanzo autobiografico che ripercorre un’infanzia tunisina nel periodo coloniale. Per Arkadia Editore ha pubblicato “La traversata del deserto” (2014), che rievoca il ritorno degli emigrati dalla Tunisia all’Italia, e “L’erba di vento” (2016), storia potente di una donna che non si sottomette alla convenzioni del suo tempo.

La Tunisia rimane elemento focale delle sue ricerche e della sua narrazione, un punto di vista interessante, giacché lei è nata da genitori siciliani. Quali caratteristiche assume questa sorta di migrazione alla rovescia dal punto di vista della “mescolanza” e dell’integrazione?

Sono nata da genitori di origine siciliana a loro volta nati in Tunisia. Appartengo alla terza generazione nata in Tunisia. Perciò il paese nordafricano non è solo il mio paese di nascita ma quello in cui la mia famiglia si è profondamente radicata. E dover lasciare quella che consideravamo la nostra terra ha rappresentato un trauma notevole, uno sradicamento da cui molti non si sono mai ripresi. Poiché la mia infanzia e parte dell’adolescenza sono trascorse là, sono impregnata dalla cultura locale, in primis la capacità di convivere con culture diverse, l’accettazione dell’altro, la tolleranza. Difficile è stato inserirsi, per l’ignoranza della lingua, dei costumi locali, per la diffidenza nei nostri confronti. Tuttavia, negli italiani degli anni Sessanta del Novecento, periodo del nostro arrivo, la curiosità ha sempre prevalso sul rifiuto. Il che non mi pare che avvenga adesso. Ecco perché l’Italia di oggi, in cui emergono razzismi e sguaiatezze, non mi appartiene: non la riconosco, non la so capire.

Lei affonda la penna in una comunità stigmatizzata, portatrice di stereotipi e clichè. Le granitiche convinzioni possono scricchiolare?

L’ambiente che ho conosciuto nella prima infanzia era coloniale, socialmente ben strutturato. In alto stavano i colonizzatori, in altre parole i francesi, in basso i colonizzati, cioè i tunisini. In mezzo c’erano gli italiani, né colonizzatori né colonizzati, semplicemente emigrati in un momento storico in cui i francesi avevano bisogno di molta manodopera per costruire tutte quelle infrastrutture di cui il paese aveva necessità, e l’Italia aveva un eccesso di manodopera a cui non era in grado di dare lavoro. E gli italiani erano trattati da migranti, erano oggetto di stereotipi e cliché esattamente come lo sono oggi coloro che arrivano nel nostro paese. Nel mio romanzo “Lunga è la notte”, appare un piccolo campionario di questi stereotipi. Con il tempo e la conoscenza dell’altro, questi cliché possono essere scalfiti. Io faccio la mia parte. So perfettamente che è solo una goccia d’acqua in un oceano. Ma sono ottimista, gutta cavat lapidem.

Il suo romanzo narra di un femminicidio. Quanto ha attinto dalla cosiddetta cronaca nera?

Non ho attinto dalla cronaca nera. Questa storia, realmente accaduta, mi è stata raccontata da un testimone oculare. La vicenda risale agli inizi degli anni Trenta. Ho volutamente creato tutti i personaggi (nessuno di loro, ad eccezione del prete, è realmente esistito) poiché la vicenda è ancora viva nella memoria dei discendenti. Del resto l’ho chiarito nella Premessa.

Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del noir. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?

È vero, il mio romanzo è farcito degli ingredienti tipici del noir. Ma non lo è. L’obiettivo di tutto il romanzo non è trovare il colpevole, ma ritrovare la memoria, mettere il protagonista di fronte al trauma rimosso e permettergli (forse) di uscire dalla gabbia in cui volutamente si è chiuso. La domanda che mi sono posta sin dall’inizio della stesura è stata: cosa succede alle vittime, a coloro che sopravvivono a una tragedia simile? L’obiettivo del romanzo è stato cercare di dare una risposta.

Il percorso del protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

La memoria di Mimmo, il protagonista, è “involontaria”, come direbbe Proust. Sono attimi del suo passato che riemergono all’improvviso sconvolgendo il presente, ma non portano mai a una epifania. La sua è una vita senza memoria, dunque senza qualità. Il passato nutre il presente, esattamente come l’albero che ha bisogno di radici profonde per nutrire la chioma. Più profonde sono le sue radici, più avrà la possibilità di trovare acqua e nutrienti, tanto più folta e vitale sarà la sua chioma. La memoria è fondamentale nella mia produzione. Lavorare ancorata a questo tema mi ha permesso innanzitutto di rivelarmi a me stessa, di prendere coscienza della mia identità e comporne armoniosamente i tasselli in modo da formare un mosaico unico. Il mio obiettivo però non è quello di lasciare una testimonianza di me (che forse potrebbe interessare i miei nipoti e nessun altro), quanto di fare emergere un’intera comunità dimenticata dalla storia, e dare voce a chi non l’ha, non l’ha mai avuta poiché appartiene alla fascia più umile di quella collettività. In fin dei conti mi piacerebbe che questa mia testimonianza contribuisse alla costruzione di una storia alternativa, che includesse tutte quelle Italie fuori dall’Italia. Non so, di fatto, se il mio lavoro sarà utile in questo senso. So per certo che lo è per tutti coloro che hanno vissuto la mia stessa esperienza poiché ha permesso loro di prendere coscienza della propria identità individuale, ma anche e soprattutto di sentirsi in qualche modo riconosciuti sul piano sociale e culturale.

Giuseppina Capone

Gucci ha rotto il vecchio canone della bellezza

“Penso che il mio aspetto abbia un impatto su molte persone, non capisco perché scateno una reazione così grande da parte di tutti, stanno solo cercando una faccia interessante”.

Sembra che Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, sia riuscito a distruggere lo stereotipo di bellezza che per secoli ha condizionato generazioni di donne nel credere che la vera bellezza sia quella di essere perfette esteticamente.  “L’originale” volto della nuova modella, però, pur essendo stato un distruttore di luoghi comuni, è diventato argomento di dibattito facendo scaturire diverse critiche sui social: parole crudeli, insulti, ingiurie, veri e propri atti di bullismo nei confronti di Armine Harutyunyan. Armine viene da Erevan, la capitale dell’Armenia, ha 23 anni ed è un illustratrice e graphic designer.

“Le persone sono spaventate da quello che è diverso. Non posso impedire loro di sparlare ma io posso ignorarle. Ci sono molti modi diversi di essere belli: consiglio di concentrarsi su di sé, su chi si è e su cosa si ama davvero. Credo inoltre che molte donne pensino spesso al loro aspetto e a dirla tutta ho pensato più volte di ricorrere a qualche chirurgia ma col tempo ho imparato ad accettarmi così come sono. Crescendo impari a capire te stesso e ad amarti”.

Parla così Armine durante un’intervista. Il suo tono di voce è sereno e le sue parole non fanno altro che dimostrare la sua sicurezza non solo per il suo aspetto estetico, pur ammettendo di aver faticato per arrivare ad accettare e ad apprezzare ad oggi il suo volto e il suo corpo, dopo aver pensato anche di ricorrere alla chirurgia, ma anche e soprattutto per la forte autostima che possiede in quanto consapevole di ciò che vale al di là del suo volto. La sua serenità d’animo e la sua mente intelligente vale molto di più di qualsiasi corpo o viso “perfetto” perché è questo che fa di sé una persona attraente.

Reagisce, dunque, con diplomazia e serenità Armine alle numerose critiche sui social da parte di chi ancora non accetta  un canone di bellezza differente da quello che impone la società, da chi vede la bellezza ancora solo nella perfezione estetica e non riesce a valutarla  personalmente se non attraverso gli occhi di tutti.

La vera bellezza sta soprattutto nel fascino di una persona, non solo nella forma o nel colore degli occhi, quanto nella profondità di uno sguardo. La vera bellezza in una donna non sta nella forma delle sue labbra ma nell’espressione intelligente che assume il suo volto. Non sta nel corpo perfetto ma nel portamento, nell’eleganza che assume quando lo muove. La vera bellezza è dentro di noi e nel come siamo capaci di esternarla.

Anche se una modella non ha lo stesso volto di tutte le altre, il suo garbo e lo sguardo intelligente fa diventare il capo che indossa più interessante. Perché una mente interessante rende tutto più affascinante e attraente.

Alessandra Federico

Kenzo Takada: il primo stilista orientale in Occidente

Lo stilista giapponese che ha unito la moda Orientale  con quella Occidentale.

“Non aveva senso che facessi anche io quello che facevano gli stilisti francesi, non sapevo neanche farlo. Così mi misi a disegnare vestiti in modo diverso, usando i tessuti dei kimono e fonti di ispirazioni diverse”.

Kenzo Takada è morto domenica 4 ottobre all’età di ottantuno anni, in un ospedale di Parigi dove era ricoverato a causa del Coronavirus. Kenzo, è stato il primo stilista giapponese a recarsi a Parigi nel 1964 , conquistando  immediatamente, con le sue creazioni folcloristiche e vivaci, una vasta clientela di giovani: la moda di quel momento stava subendo un grande cambiamento e Kenzo era entusiasta di voler far parte di quella grande rivoluzione della moda.

Il talentuoso stilista contribuì alla liberazione dalla rigida forma dell’haute couture inserendo il prêt-à-porter: abiti pratici dai colori vivaci e floreali. Kenzo presentava, durante le sue sfilate di moda, le sue meravigliose creazioni indossate da graziose modelle in groppa a un elefante. Lo stilista adottò il semplice taglio del kimono della sua patria combinandolo anche con elementi sudamericani, orientali e scandinavi. Ancora oggi mostra questa caratteristica nelle sue griffe. Kenzo era uno degli stilisti con maggiore inventiva, fantasia e soprattutto dotato di una grande volontà, nel 2012, presentò le sue collezioni un mese prima rispetto a tutti gli altri stilisti di moda. Oltre al prêt-à-porter femminile, creò anche una nuova linea per uomo e per bambino.

Kenzo Takada nacque a Himeji, vicino Osaka, il ventisette febbraio 1939 ed è stato uno dei primi studenti uomo a frequentare l’accademia di moda di Bunka, a Tokyo. La sua carriera fu rapida e in ascesa: vinse nel 1960 il premio Soen per nuovi stilisti emergenti. Nei grandi magazzini Sanai, Kenzo iniziò a lavorare disegnando abiti per ragazze fino a quando i lavori per le Olimpiadi nel 1964 cambiarono la sua vita:  la sua casa venne distrutta per costruire nuovi progetti e grazie al risarcimento donatogli, approfittò per fare un viaggio in barca da Hong Kong, Singapore, Mumbai fino alla Francia dove affittò una casa  Parigi, e dove iniziò a vendere bozzetti di abiti agli stilisti di alta moda.  Nel 1970 aprì una piccola boutique, “Jungle Jap”, con pareti floreali dipinte da lui perché il suo desiderio era fondere le sue due passioni : la giungla e il Giappone.

Verso il successo

Nel 1971 la rivista di moda Elle pubblicò in prima pagina uno dei suoi lavori e alla sfilata organizzata nella sua boutique andarono giornalisti da tutto il mondo. Kenzo non possedeva abbastanza danaro, era quindi  costretto a cucire insieme le stoffe comprate a Parigi e quelle portate da lui dal Giappone creando così una linea al quanto originale. Introdusse, nel 1983, anche l’abbigliamento maschile, nel 1986 una linea di jeans e nel 1988 profumi e l’arredamento. Nel 1990 morì il suo compagno e socio in affari Xavier.  Per questo triste motivo, Kenzo, nel 1993 vendette la sua azienda per 80 milioni di dollari a LVMH, il più grande gruppo del lusso francese di proprietà di Bernard Arnault, che comprende anche Christian Dior, Louis Vuitton, Fendi e Celine. Nel 1999 si ritirò dal mondo della moda. Continuò a disegnare costumi per l’opera e le uniformi della squadra olimpica giapponese del 2004 anche dopo aver lasciato l’azienda. Si dedicò  completamente all’arredamento e fondò il marchio K3 nel 2020.  Con il suo lavoro, Kenzo ha aperto la strada per Parigi ad altri stilisti giapponesi, come Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto.

Lo ricorderemo per i suoi originali abiti colorati, che trasmettevano un senso di libertà per il corpo della donna. Kenzo rimarrà per sempre il creatore di abiti “felici”.

Alessandra Federico

Sorelle Fontana:  le prime donne che hanno cambiato la moda italiana

 Il lusso è una delle chiavi interpretative più rilevanti per comprendere la moda occidentale. Il modo di vestire è da sempre stato utilizzato per comunicare anche altri significati che sono cambiati a seconda delle culture, delle situazioni e delle scelte individuali. La moda è stata, a partire dal medioevo, prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato le trasformazioni dell’abito per manifestare la preminenza del proprio ruolo gerarchico all’interno di una determinata comunità.  Negli smodati anni 80’, ad  esempio, il Made in Italy fu uno stile innovativo e stravagante. Al termine degli anni 70’ il pret-a-porter italiano debuttò e Milano che in breve tempo assunse un ruolo catalizzatore di tendenza e di stili moderni.  Ma torniamo per un attimo alle origini, le prime stiliste della moda italiana risalgono agli anni 30’: le sorelle Fontana hanno fondato il primo atelier di moda in Italia.

Le sorelle Fontana

“Da grande realizzerò davvero un abito per una principessa”. Presto le parole di Micol Fontana (seconda delle tre sorelle stiliste) si realizzarono. La casa di moda della famiglia Fontana fu fondata a Parma nel 1907. Una volta diventate adulte, le tre sorelle romagnole,  Zoe, Micol e Giovanna, si trasferirono a Roma dove inizialmente furono costrette a lavorare in una sartoria guadagnando il minimo indispensabile per sopravvivere, fino a quando il loro  datore di lavoro si accorse della straordinaria dote di Micol e le affidò il compito di confezionare gli abiti da sera per la cliente più prestigiosa della boutique. Durante la Seconda Guerra Mondiale, con tanta audacia e determinazione riuscirono a realizzare il loro sogno: un atelier tutto loro dove poter creare abiti e organizzare sfilate di moda.

Nel 1958 l’atelier si trasferì a piazza di Spagna dove realizzarono la prima sfilata di moda sulle scale della maestosa piazza. Riuscirono, inoltre, a conquistare la aristocrazia italiana e le celebrità del cinema internazionale. Nel 1949 realizzarono l’abito di nozze per Linda Christian e la stampa internazionale non parlava d’altro. Da allora il Jet- Set di Hollywood si rivolgeva solo alla casa di moda italiana Fontana. Anche Liz Taylor, Ingrid Bergman e Ursula Andress vestivano abiti Fontana. La loro cliente fedele era Ava Garden, che, oltre al guardaroba, chiese loro di realizzare per lei anche abiti di scena tra cui uno  per il film “La contessa scalza”.  Tra le tre sorelle Micol era quella più determinata, aveva grandi sogni, progetti e ambizioni.

Il sogno di Micol

Oltre alle star di Hollywood, le creazioni delle sorelle Fontana erano molto apprezzate anche dalle nobiltà. La principessa Maria Pia di Savoia commissionò loro il suo abito nuziale poiché entusiasta della modifica al suo prezioso abito di cui se ne occupò proprio Micol. Non solo,  nel 48’ la celebre attrice di Hollywood, Myrna Loy acquista dalle Fontana il completo guardaroba per il film “ Il caso di lady Brook”.  Le Fontana iniziarono così a puntare sul mercato americano: Micol Fontana cominciò una serie di viaggi oltre oceano in seguito alle tante richieste per conto di grandi celebrità americane. L’audace Micol, si sposò due volte, il primo marito si rivelò fannullone interessato solo al denaro e ad avere molte donne. Insieme a lui, Micol generò la prima e unica figlia, Maria Paola, deceduta prematuramente per aver contratto il tifo in Calabria. Dopo il tragico avvenimento Micol decise di non voler lavorare più, ma grazie all’aiuto del suo nuovo amore, intraprese un nuovo percorso rinnovando la bottega e confezionando abiti con marchio Sorelle Fontana.  Micol morì il dodici giugno 2015 all’età di centouno anni.

Sorelle Fontana, un marchio che la moda italiana non dimenticherà mai.

Alessandra Federico

La figlia di Shakespeare

Paola Musa, lei costruisce una storia superlativa intorno alla superbia. Può fornircene una definizione contemporanea?

La superbia fa parte dei sette vizi capitali della dottrina morale cattolica, ed è considerato dalla stessa uno dei massimi peccati, giacché espressione della disobbedienza di Lucifero a Dio. Come sostiene sant’Agostino, «il diavolo non è lussurioso né ubriacone: è invece superbo e invidioso». Volendo dare una definizione contemporanea, direi che il superbo è un individuo che idealizza l’immagine di sé che vuole offrire agli altri, è alla continua ricerca di riconoscimento, si rifiuta di di accettare se stesso per come è realmente e quindi di elaborare una trasformazione interiore.

Quali altri peccati e i vizi individua nella società moderna?

Credo si possano trovare tutti, anche se in misura e frequenza differenti. Nel mio lavoro di indagine dei sette vizi capitali, sono partita dall’accidia. Sebbene sia un termine oggi poco usato, conosciamo tutti abbastanza bene l’inerzia, l’indolenza, la depressione. Nell’era tecnologica ci illudiamo spesso di essere protagonisti ma siamo in realtà meri fruitori di strumenti che spesso annichiliscono la nostra autentica volontà. Senz’altro anche la Superbia è molto diffusa. E l’invidia.

Un vecchio attore ed un collega della sua compagnia teatrale giovanile che ne pone in dubbio merito artistico e morale. Il gap generazionale attuale possiede caratteristiche peculiari?

Nel mio romanzo “La figlia di Shakespeare” (Arkadia editore) il protagonista (Alfredo Destrè) incarna la superbia nel contesto dell’ambiente teatrale. Trovavo interessante descrivere una persona che nel profondo teme la mediocrità e respinge con forza il suo passato e per tutta la vita altro non desidera che essere riconosciuto come grande attore Shakespeariano. Eppure , dalle sue opere sembra che Alfredo non abbia appreso niente, o quasi. Il suo vecchio collega, non a caso da sempre interprete del fool, ha la funzione di ribaltare tutto, di smascherarlo. Il romanzo comunque affronta anche altre tematiche, come ad esempio il conflitto generazionale. E’ mia opinione che spesso gli anziani che hanno già ottenuto riconoscimenti e successo, non lascino spazio ai più giovani. Tendono ad essere conservatori, nel senso letterale e ed egoistico di voler conservare tutto il loro potere.

Il protagonista del suo romanzo accetta di risollevare le sorti del più importante teatro della città, riscuotendo successo di critica e di pubblico. La sua è una riflessione relativa alla dilagante e spavalda decadenza culturale?

Nel romanzo affronto anche il problema di un’epoca incapace spesso di produrre arte di alto livello. Perché il settore della cultura è costretta troppo spesso a fare compromessi al ribasso, è alla continua e ossessiva di ricerca di consenso, di gradimento da parte dei media. Svilisce così il proprio potenziale, rinuncia al lungo e tortuoso percorso della grandezza per un risultato immediato, oppure sfrutta e strumentalizza ciò che è già conosciuto e facilmente riconoscibile, fagocitandolo.

Lei non fa sconti ai suoi personaggi: li penetra con una lama tagliente. Intende veicolare messaggi etici o morali?

Sì, è vero: cerco di scandagliare ogni aspetto della loro psicologia, ma in questo caso si tratta anche una necessità narrativa, perché prendendo come spunto un vizio capitale, il racconto ha la dimensione di una metafora delle varie debolezze umane. Tuttavia non mi pongo mai in una posizione di giudizio. In parte il messaggio etico è invece intrinseco all’argomento che tratto.

 

Paola Musa è una scrittrice, traduttrice, poetessa, vive a Roma. Ha ottenuto diversi riconoscimenti in ambito poetico. Collabora da anni con numerosi musicisti come paroliere. Ha firmato diverse canzoni per Nicky Nicolai insieme a Stefano Di Battista e Dario Rosciglione. Per il teatro ha composto le liriche per la commedia musicale Datemi tre caravelle (interpretata da Alessandro Preziosi, con musiche di Stefano Di Battista) e La dodicesima notte di William Shakespeare (per la regia di Armando Pugliese, sulla musica di Ludovico Einaudi). Ha scritto con Tiziana Sensi la versione teatrale del suo romanzo Condominio occidentale, portato in scena da attori vedenti e ipovedenti in importanti teatri romani, e al Festival internazionale Babel Fast di Targoviste (Romania). Lo spettacolo ha ottenuto la medaglia dal Presidente della Repubblica e la menzione speciale per il teatro al “Premio Anima”. Nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo, Condominio occidentale (Salerno Editrice), selezionato al Festival du Premier Roman de Chambéry e al “Premio Primo Romanzo Città di Cuneo”. Condominio occidentale è diventato un tv movie per Rai 1 con il titolo Una casa nel cuore e con protagonista Cristiana Capotondi (2015). Nel giugno 2009 è uscito il romanzo Il terzo corpo dell’amore (Salerno Editrice) e nel marzo 2012 la sua prima raccolta di poesie Ore venti e trenta (Albeggi edizioni). Con Arkadia ha pubblicato nel 2014 il romanzo Quelli che restano e nel 2016 Go Max Go, biografia romanzata del sassofonista Massimo Urbani. Del febbraio 2019 è il suo romanzo, L’ora meridiana.

 

Giuseppina Capone

Anaffettività: paura di provare emozioni

“Non riuscivo a provare emozioni.  Vivevo la mia vita in modo del tutto razionale e chiunque voleva darmi affetto io lo allontanavo. Quando nasci e cresci in un contesto familiare in cui la felicità è a piccoli sprazzi ti porterai dietro per tutta la vita la convinzione di non poter essere felice perché credi che prima o poi qualcuno te la porterà via.”

Non riuscire a manifestare sentimenti e a provare emozioni è tipicamente un atteggiamento di chi è anaffettivo. L’anaffettività può colpire sia uomini che donne e deriva maggiormente da traumi infantili o adolescenziali. Quando per anni si ha vissuto in situazioni traumatiche la mente tende ad avere, di conseguenza, una percezione distorta delle cose: credere di non riuscire a meritare affetto e di non essere in grado di darne. Pur di non soffrire, le persone anaffettive, si privano degli affetti perché baci, carezze, abbracci  provocano in loro  grande sofferenza perché credono che la felicità sia solo uno stato momentaneo che presto o tardi finirà. Difatti, l’anaffettivo ha bisogno di tante certezze per poter acquisire fiducia ed essere felice perché è terrorizzato dal fatto che prima o poi qualcosa tornerà a farlo soffrire. Per questo motivo sono poco fiduciosi nel prossimo e sono convinti che nessuno farà parte per sempre della loro vita.

Questo accade solitamente quando al soggetto in questione viene di continuo  donato e strappato amore sin dall’età infantile.  L’anaffettività è più comune di quanto si possa pensare.  Le persone che ne soffrono non sono solo quelle evidentemente prive d’amore da dare o che evitano ogni tipo di contatto fisico ma sono soprattutto coloro che sembrano avere apparentemente una relazione d’amore stabile,  ma che in realtà credono di non poter ricevere nè dare  affetto anche se tutto questo avviene “dietro le quinte”. Questo è uno dei motivi per cui alcune persone tendono ad avere più di una relazione contemporaneamente: il terrore di legarsi ad una sola persona implica il fatto di abbandonarsi completamente a essa e questo, per le persone anaffettive, è motivo di sofferenza.  Vivendo invece più di una relazione nello stesso momento evitano ogni tipo di legame e di conseguenza ogni tipo di sofferenza.

Frequentavo diverse donne contemporaneamente perché in questo modo mi convincevo che non ci avrei rimesso il cuore, che non avrei sofferto perché per me concentrarsi solo su una persona significava dare tutto me stesso e quindi vivere di emozioni, e per me vivere di emozioni avrebbe significato dover soffrire ancora”.

Nicola, conosci i motivi per cui sei diventato anaffettivo?

Quando ero bambino i miei genitori mi lasciavano spesso con i miei nonni a causa dei  loro continui viaggi di lavoro e soprattutto di piacere. Ero un bambino molto vivace ma questo causava dei problemi a chi non avrebbe mai voluto avermi. I miei nonni erano presenti  e attenti con me ma io avevo bisogno dei miei genitori.  Il fatto che loro mi abbandonassero di continuo era per me una sofferenza perché credevo di non essere voluto e questo ha causato in me diversi problemi: anaffettività e allo stesso tempo paura dell’abbandono.

Te la senti di raccontare un po’ le tue esperienze a riguardo?

Nell’età adolescenziale vivevo con la paura che ogni persona che conoscevo sia amici che relazioni amorose, potessero un giorno abbandonarmi. Questo ha provocato molte complicazioni nei miei rapporti con le persone perché iniziavo a diventare morboso e naturalmente mi allontanavano. Crescendo, diventando più maturo ho attraversato la fase dell’anaffettività. Mi spiego: dall’essere esageratamente ossessivo, soprattutto nella relazione d’amore, sono passato ad essere completamente freddo e insensibile. Conoscevo ragazze ma non provavo affetto. Poi ho attraversato una terza fase e cioè quella di avere la ragazza fissa ma vivere anche altre relazioni occasionali e questo ha portato maggiore sofferenza per me anche non me ne rendevo conto.

C’è qualcuno che ti ha aiutato a superare tutto questo?

Una delle mie amanti. Lei diceva che ero anaffettivo ma in realtà non mi ero mai veramente soffermato a riflettere sulle sue parole, fino a quando lei decise di lasciarmi perdere. È stato più semplice di quanto si possa pensare perché mi resi conto che le volevo bene  più di qualsiasi altra persona o della mia fidanzata e decisi quindi di risolvere andando da uno psicoterapeuta. Da li a poco venni a conoscenza di tutti i miei problemi e decisi di risolverli.  Capii che avevo paura di essere felice perché da bambino ogni volta che lo ero, quando i miei genitori tornavano e mi portavano anche un regalo, poco dopo ripartivano lasciandomi di nuovo solo. Quindi per me la felicità era solo un avviso alla prossima delusione.

Adesso come vivi le tue relazioni?

Ho scoperto molte cose di me ho buttato fuori tante cose del mio passato che tanto mi facevano soffrire ed elaborarle ha risolto questi problemi che mi sono da sempre portato dietro. Adesso credo che la felicità sia nelle piccole cose ma che vale sempre la pena di vivere ogni emozione che la vita ti regala. Per essere felici ci vuole coraggio.  Per me i miei nonni sono i miei genitori, ho quindi imparato che non bisogna considerarli tali quelli biologici,  perché spesso chi ti mette al mondo poi ti distrugge.

Alessandra Federico

Violenza tra giovani

Una vera  e propria tragedia che ha stravolto l’intera Italia quella della morte del giovane ventunenne trovatosi  coinvolto  in una rissa per voler difendere il suo amico. 

Nella notte tra il 5 e 6 settembre, Willy e gli amici erano di ritorno dalla solita serata al pub di Colleferro, vicino Roma, ma qualcosa avrebbe per sempre cambiato il loro destino. La causa della morte deve essere confermata dall’autopsia poiché non è ancora ben chiaro cosa sia successo, ma secondo quanto riportano i giornali l’omicidio è avvenuto sul retro di un edificio poco distante da una caserma dei carabinieri. Accusati di omicidio preterintenzionale in concorso, aggravato da futili motivi, i 4 ragazzi tra i ventidue e ventisei anni, residenti ad Artena, sono stati arrestati dai carabinieri e sembra che tutti abbiano già dei precedenti penali.

Willy Monteiro Duarte è morto durante il tragitto per arrivare in ospedale. Schiaffi e pugni e sembra che un calcio alla testa sia stato per lui letale. Una lotta durata poco più di 20 minuti per distruggere la vita di Willy e      quella della sua famiglia. “Era come un figlio per me, l’ho cresciuto. Siamo sconvolti.” Le parole della  zia di Willy trasmettono tutta la sofferenza e il dolore che sono costretti a sopportare. Un vuoto che nessuno potrà mai colmare nella sua famiglia.

I genitori non dovrebbero mai sopravvivere ai propri figli, si dice. Eppure si continuano a sentire vicende catastrofiche di teenager in cui la morte avviene per motivi solitamente futili.

Com’è possibile che le persone vogliano, ancora oggi, risolvere le cose usando la violenza? Ma perché tutta questa rabbia? E che ci sia ancora tanta chiusura mentale da non riuscire a usare la ragione? Queste sono le domande che molti di loro oggi giorno pongono con la speranza di porre fine a tutta questa violenza.

La violenza non si combatte con altra violenza. Si dovrebbe, al contrario, reagire in modo intelligente iniziando dalla base cambiando forma mentis: partire dall’educazione nelle scuole primarie, insegnare ai bambini il rispetto verso il prossimo, prima di ogni cosa. Ancora, la pace e la convivenza con il prossimo, l serenità interiore e come raggiungere i propri obiettivi senza scavalcare nessuno ma riuscendoci soltanto con le proprie forze. Iniziare a cambiare la visione della vita in modo da dare ai giovani una formazione corretta ed una consuetudine di pensiero differente da quella che fino ad oggi si ha avuto, sviluppando in loro maggiore intelligenza emotiva, ovvero, la capacità di razionalizzare le proprie emozioni, potrebbe essere il metodo per ottenere la pace tra le persone e forse un mondo migliore senza violenza. Insegnare a riconoscere le proprie emozioni è di conseguenza un modo per poterle gestire, e quindi auto-controllarsi in determinate situazioni. Ogni anno aumentano i casi di violenza tra giovani e spesso senza un concreto motivo, creando risse per il semplice gusto di sopraffare e prendersela con i più deboli. La maggior parte delle volte, però, questi scatti di ira sono dovuti a conseguenze di atti di violenza subiti a loro volta nell’età infantile: violenza fisica o psicologica, educazione sbagliata dei genitori, esempi sbagliati da parte dei genitori, una probabile situazione disagiata in cui è costretto a vivere nel proprio nucleo familiare. Altre volte, invece, nonostante il ragazzo vivesse in una serena situazione familiare, arriva ugualmente a intraprendere strade sbagliate e pericolose perché ha difficoltà ad inserirsi nella società e a farsi accettare dai compagni, o, ancora, a causa dell’accesso troppo precoce o l’uso frequente dei social media.

Le cause della violenza tra giovani

Ipnotizzarsi avanti ad uno schermo già dall’età infantile può divenire un vero e proprio problema una volta divenuti adulti, perché tutto ciò non fa altro che bloccare lo sviluppo della mente, nello studio, nella conoscenza, nella vita sociale, e nella realizzazione personale. E, faccenda ancora più grave, può far divenire violenti e irascibili. Il motivo per cui un ragazzo intraprende strade sbagliate e ricorre facilmente alla violenza fisica potrebbe essere anche causato dalla frequente visione di video o videogiochi che alimentano odio, rancore, rabbia e di conseguenza  il ragazzo si fa facilmente suggestionare e influenzare in modo negativo perché undici, tredici o sedici  anni, sono troppo pochi per saper distinguere il bene dal male e per assorbire solo il lato positivo o educativo di un videogioco, qualora dovesse esserci. Altri motivi per cui un ragazzo si fa facilmente condizionare da video del genere potrebbe essere dovuto a conseguenze di traumi infantili causati dalla famiglia apparentemente perfetta, e che quindi, raggiunta l’età adolescenziale, può diventare facilmente condizionabile e trascinabile. Ragion per cui diventa facile che possa cercare via d’uscita a questa inconscia sofferenza  e voler sfogare in qualche modo  la rabbia repressa. Sta di fatto che permettere a ragazzi troppo giovani di navigare su internet e utilizzare i social network, video giochi e video violenti, potrebbe trasformare la loro vita in una tragedia.

Alessandra Federico

Gioco dunque sono. Filosofia di un videogamer

Massimo Villa ci porta nel mondo dei videogames.

Videogiocare attrae milioni di persone in tutto il mondo, di ogni età, ceto sociale, background culturale. Videogiocare è un’attività da valutarsi seriamente?

Come tutti i fenomeni che investono milioni di persone da generazioni, è indubbiamente un’attività da valutarsi seriamente. Ricordiamoci che da un punto di vista economico alle spalle c’è un’industria che fattura annualmente più di quella del cinema. Per quanto riguarda invece i videogiocatori, che ormai sono di tutte le età e di entrambi i sessi, la risposta è scontata. I videogame fanno parte del nostro bagaglio culturale, possono svagare, impegnare la mente, divertire, insegnare ed educare. Ricordiamoci che sono una forma d’arte esposta in musei famosissimi in diverse parti del mondo e l’art design è a scapito di artisti internazionali le cui qualità sono universalmente riconosciute. Come se non bastasse, i videogame hanno tenuto uniti i nostri figli durante l’emergenza Covid più della didattica a distanza. Si sono infatti potuti vedere, sentire, condividere, parlare in altre lingue, frequentare e divertirsi. Cosa non da poco.

Chi videogioca non si limita ad afferrare un joypad e mettere in funzione la PlayStation. La propria passione è seguita su uno smartphone, sul treno, in strada, in vacanza o al lavoro. Quanto siffatta pratica isola o può aprire anche al consesso umano?

In realtà è un falso problema. Anche leggere, guardare un film, dipingere o scrivere può isolare oppure unire, far trovare persone con gli stessi interessi, stringere rapporti umani. A mio avviso i social, in questo caso, sono più pericolosi dei videogame. Sui social molti si sentono liberi di invadere la vita altrui anche se non ne hanno una loro.

Videogiocare consente di spalancare porte su mondi alternativi in cui foggiare il proprio alter ego, così da poter vivere un’esistenza difforme dalla reale. Il gamer fugge, scappa, intende evitare lo scontro con il banale quotidiano?

No, anzi, spesso lo replica. Prendiamo un gioco simulativo come The Sims, conosciuto da tutti, anche dai non videogiocatori. In quel caso è proprio la routine umana delle nostre vite a essere replicata. In genere avere un alter ego in un videogame di ruolo invece, è un po’ come prendere le parti dell’eroe di turno nel nostro libro fantasy preferito o nella serie tv. E’ un modo di confrontarsi più visivo e immersivo che altre forme, questo sì. Poi è chiaro che dipende dai gusti. Giocare a un prodotto sci-fi diviene spesso forzatamente disancorato dalla realtà, ma è come vedere Inception al cinema, difficilmente si dirà che chi ha visto un film intenda evitare lo scontro col quotidiano.PORT THIS AD

Sulla scorta di fenomeni sociali innescati dai videogiochi, reputa che un gamer compia scelte etiche?

Spesso sì, per la qualità che hanno raggiunto i videogame oggi. Prendiamo un The Last of Us 2, di questi giorni, davanti al quale anche i sociologi sono rimasti senza parole. Spesso i protagonisti da noi guidati devono scegliere come comportarsi, prendere decisioni che molte volte implicano scelte morali complicate. Aiutare o tradire, vivere o morire, mantenere un atteggiamento invece di un altro, stare al gioco o esporsi alla verità, sposarsi o rimanere single. Purtroppo, spesso chi è estraneo al mondo videoludico tende erroneamente a identificare i videogiochi con un prodotto solo ed esclusivamente alla Super Mario (che rimane comunque un capolavoro) o Bubble Bobble. A queste persone dico “Ci sono stati quarant’anni suonati di innovazioni tecnologiche nei videogame. Provatene magari qualcuna, prima di giudicare”

Per chi non è hardcore nerd inside può esemplificare tendenze, mode, passioni e rivoluzioni tecnologiche veicolate dai videogiochi?

L’evoluzione tecnologica è evidente. Siamo passati dall’Intellivision e da Pong fino alla prossima PlayStation 5 o al PC con le schede video in SLI e a giochi come The Witcher 3 o il succitato The Last of Us. Le mode e le tendenze che hanno attraversato la storia del genere sono state molteplici passando per i cabinati arcade che in Giappone facevano file lunghissime fuori dalle sale giochi, alla Nintendo che ha creato un genere, fino a prodotti che hanno influenzati molte altre industrie, specialmente quella cinematografica, basti ricordare le infinite citazioni di Space Invaders presenti nei film hollywoodiani e non solo, a Ready Player One (che poi è tratto da un libro), fino alla serie TV acclamatissima come Stranger Things, dove in pieni anni ’80 i protagonisti giocano agli arcade dei cabinati che dicevamo prima. E poi vestiti, gadget, cosplayer, riviste, letteratura. Difficile trovare un settore dell’arte che non abbia avuto contatti con i videogiochi dagli anni ’70 a oggi.

 

Massimo Villa lavora per un’importante catena libraria italiana come responsabile eventi. Dagli anni’90 scrive di videogame su riviste e siti del settore. Ha pubblicato diverse opere di fantascienza, tra romanzi e racconti, nonché un paio di raccolte di poesie. Tra i vari scritti ricordiamo “Il rock uccide la vostra anima” (Mondadori) e Frigo Leader (Erga).

 

Giuseppina Capone

Polvere e cashmere

Vincenzo Orefice è un poeta che pensa che la poesia sia un dono.

Lei ha solo vent’anni, è un giovanissimo poeta. Si racconti; ci spieghi la ragione per cui ha scelto proprio la Poesia come codice comunicativo.

La scelta della Poesia mi piace pensarla come una scelta inevitabile. La trovo un mezzo ottimo per poter comunicare sia l’essenzialità delle cose che la propria sostanzialità, senza essere prolissi e soprattutto, per quello che concerne la mia persona, centrando il messaggio. Trovo che l’espressione metaforica, la ritmica, siano per me più espliciti di molti discorsi che ho costruito, ad esempio, con l’utilizzo della Prosa.

Lei sembra accogliere l’idea della Poesia come un dono da ricevere inaspettatamente, già presente nel Poeta. Ritiene che la Poesia non sia ricerca?

Credo assolutamente che la Poesia sia soprattutto ricerca, io stesso senza l’analisi linguistica, o anche semplicemente l’assimilazione dei vari input che mi vengono forniti dai miei studi e dalle mie letture personali, forse non scriverei niente perché non avrei le parole per esporre quello che sento e vedo. Allo stesso tempo però penso che la Poesia abbia un suo fondamento nella predisposizione. Non si nasce poeti ma si può avere un’inclinazione verso la Poesia, come chi ha una vocazione per la Musica, la Danza o l’Arte figurativa: come queste hanno bisogno di una proclività verso di esse, affinché anche il loro studio e perfezionamento possa essere sostenuto, lo stesso vale per la Scrittura.

I suoi versi, soventemente, suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, se non si sceglie d’amare né d’essere amati, in che misura si sceglie di comporre versi?

REPORT Tengo a precisare che all’interno della raccolta ho voluto parlare di una specifica storia d’amore, quella che per me è stata la più feroce e che ha creato un grande solco nella mia crescita soprattutto nei suoi termini negativi oltre che positivi, consequenzialmente gli scritti hanno di base un forte sentimento di terrore, misto ad un senso d’inadeguatezza nei confronti del sentimento. Parlando invece della mia idea d’amore in generale, la quale mi spinge a comporre, posso assolutamente affermare che non rifuggo dall’amare o dall’essere amato. Allo stesso tempo però vivo l’amore come una sorta di “malattia”, per intenderla come Saffo o Cavalcanti, e tutto questo è dato da un retroscena educativo molto religioso che ha instillato in me l’idea che “amare” abbia a che fare con la devozione e la celebrazione, anche del dolore, e quindi con tutto ciò che permette di comunicarlo.

Lei pare affrancare il linguaggio dalla necessità di riprodurre il reale e dall’obbligo di evocare, ritenuti vessilli di virtù poetica. Esemplifichi il suo rapporto con il verso e le maglie della texture che lo tessono.

Credo che ciò che può essere definito “reale” sia costituito dall’insieme di tutte le soggettività esistenti, le quali raccontano, ognuna di loro, una parte di esso, anche a rischio di contraddizioni. Il mio scopo è quello di comunicare ciò che della realtà io percepisco, utilizzando ovviamente le mie visioni, spesso surrealiste, altre simboliste, mescolando la quotidianità con la dimensione fantastica, proprio perché questo è il modo in cui personalmente elaboro quello che mi circonda.

Leggendo, ad esempio “Dimanche, après-midi”, pare che il suo proposito sia dare un calcio al tedio delle convenzioni, saltellando tra denotativo e connotativo. Lei parodizza il nesso linguaggio-verità a quale intento?

Questo è assolutamente vero, mi piace molto giocare con i vari significati che le parole possono assumere e con le numerose immagini che poi si vengono a formare. Vivo di molti simboli che nella forma lirica mescolo fra loro, spaziando fra diversi ordini di possibili verità e realtà sovrapposte. Infatti questo è molto evidente nel testo da lei menzionato in cui mi sono molto destreggiato fra i simboli offerti della mia realtà onirica.

 

Vincenzo Orefice è uno studente di Filosofia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Parallelamente alla scrittura, si dedica all’attività di modello, partecipando a diversi progetti fotografici indipendenti e posando per mostre di artisti emergenti. Molti dei suoi scritti appaiono nelle riviste napoletane Libero Pensiero e Kairos, nuove arrivate all’interno dei circoli culturali della città partenopea.

 

Giuseppina Capone

Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina

Con Alessandro Aresu parliamo di politica ed economia.

l capitalismo politico rappresenta la chiave di lettura principale da lei proposta per accedere al presente. Può definire siffatta categoria?

Il capitalismo politico è l’accoppiamento tra economia e politica all’interno delle potenze, attraverso diversi strumenti. Questi strumenti sono l’uso politico del commercio, della finanza e della tecnologia, la partecipazione statale nelle imprese e più in generale i rapporti tra apparati burocratici e aziende, le sanzioni, le barriere agli investimenti esteri.

Nel mio lavoro, sostengo che questo sistema governi il mondo, perché praticato da Stati Uniti e Cina, seppur in varietà diverse.

Lei descrive minuziosamente l’antagonismo tra diritto ed economia in atto fra Stati Uniti e Cina. Quali sono i termini filosofici di questo scontro?

Le due potenze vedono diversamente il mondo, si pensano diversamente rispetto al mondo, nelle alleanze, nell’influenza internazionale, nell’idea di conquista, nel rapporto tra l’individuo e la comunità. La comune adesione a un sistema capitalistico non cambia queste differenze molto profonde, che pertanto è importante studiare. Ed è sempre cruciale il ruolo dei “traduttori” tra le culture, anche durante i conflitti.

Pechino e Washington vivono un infiammato conflitto di geodiritto: quanto sanzioni, istituzioni internazionali, blocchi agli investimenti esteri influiscono su una guerra ormai tecnologica e giuridica?

Influiscono molto e l’influenza avviene a più livelli. Anzitutto perché le sanzioni degli Stati Uniti non riguardano solo loro stessi, per via della centralità globale di Washington, in particolare nel sistema finanziario. Come cerco di mostrare nel libro, per esempio, l’esclusione di alcune aziende cinesi da parte degli Stati Uniti in alcuni mercati – pensiamo oggi alla discussione sulle telecomunicazioni, un tema presente sulla scena da più tempo riguarda lo spazio, per esempio i satelliti – non coinvolge solo gli Stati Uniti, ma anche gli altri Paesi che hanno rapporti con quelle aziende. Diventa quindi una questione globale.

Nelle grandi operazioni di fusioni internazionali, possono intervenire inoltre le decisioni delle autorità competenti dei vari Paesi. Non solo e non tanto il merito delle loro decisioni, ma anche le loro tempistiche possono essere influenzate da considerazioni geopolitiche. Anche questo rientra nei casi del geodiritto.

L’economia politica al suo primo vagito è stata delineata nei suoi confini da un’affermazione di Adam Smith: “La difesa è molto più importante della ricchezza”. Anche oggi il mercato ha il suo unico limite nella sicurezza nazionale?

Il limite che la sicurezza nazionale impone al mercato è importante perché il concetto di sicurezza nazionale è centrale per la comprensione e per l’articolazione della sovranità. Leggere le trasformazioni della sicurezza nazionale, a mio avviso, è più utile di parlare semplicemente del ruolo dello Stato nell’economia. La sicurezza nazionale ha un forte rilievo per mettere in luce il rapporto tra sicurezza e tecnologia, che orienta e limita il mercato.

La sua ricerca segue tre filoni: la storia dello Stato moderno e dei suoi apparati burocratici; gli ordinamenti giuridici con cui i mercati interagiscono; la storia dello spazio in cui, in passato, è germogliato il capitalismo. Tali direttrici possono convergere?

Sì, è importante evidenziare i rapporti tra queste direttrici e tra questi aspetti, per esempio nella storia e nella continuità dei vari apparati burocratici e nella considerazione storica della progressiva marginalizzazione dello spazio europeo. Chiaramente la ricostruzione che propongo sugli Stati Uniti e la Cina potrebbe essere ampliata anche facendo riferimento ad altre realtà, come per esempio il Giappone, la Russia, la Turchia, e approfondendo meglio i rapporti tra i Paesi europei.

 

Alessandro Aresu è consigliere scientifico di Limes, direttore scientifico della Scuola di Politiche e consigliere del Ministro per il Sud e la Coesione Territoriale. Si è laureato in filosofia del diritto con Guido Rossi all’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, dove è stato anche allievo di Enzo Bianchi e Massimo Cacciari. È stato consulente e consigliere di diverse Istituzioni, tra cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Economia e delle Finanze, il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, l’Agenzia Spaziale Italiana. Collabora, tra gli altri, con Treccani e L’Espresso. Tra le sue ultime pubblicazioni, L’interesse nazionale. La bussola dell’Italia (con Luca Gori, il Mulino, 2018).

 

Giuseppina Capone

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