I cannibali di Mao. La nuova Cina alla conquista del mondo

Marco Lupis Macedonio Palermo, giornalista e scrittore, è autore de I cannibali di Mao.

Quali sono le ragioni per le quali la Cina, fino al recente passato produttore di mercanzia a basso costo, oggi padroneggia il mercato high-tech mondiale? Quali sono le sue radici?

Come spiego in un capitolo del mio libro, tutto è iniziato un giorno di dicembre del 2001, quando la Cina entrò nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il “Tempio del commercio internazionale”. Quella, più di altre, è la data fatidica per la nascita della nuova Cina, la Cina che oggi tutti siamo stati costretti ad imparare a conoscere. Non a caso l’ingresso della Cina avvenne dopo quasi 15 anni di estenuanti trattative. Essere ammessi nel “salotto buono” del commercio globale, infatti, non era – e non sarebbe neanche oggi – affare da poco. I governanti cinesi di allora lo sapevamo bene e per questo diedero alla cosa una rilevanza mediatica straordinaria. A quel tempo, in Cina, c’erano “solo” 400 milioni di televisori (oggi è difficile trovare qualcuno, sul quasi miliardo e mezzo di cinesi, che non ne abbia uno in casa, e, spesso, più d’uno) ed erano tutti sintonizzati sulla cerimonia che si svolgeva a Doha, per seguire minuto per minuto, l’ingresso dei cinesi nella grande famiglia del commercio mondiale. Da quel momento la potenza economica cinese iniziò a trasformarsi, da produttore di robaccia cheap – appunto – fino a diventare leader in tutti i settori della produzione hi-tech. Non a caso, dopo soltanto un anno, nel 2002 la Cina ci “sorpassò”: il suo PIL sorpassò il nostro, quello dell’Italia. E a pensarci oggi, se guardiamo al colosso odierno, ci pare persino incredibile che, soltanto una quindicina di anni fa, l’Italia facesse più PIL della Cina!

Il cannibalismo economico a cui si riferisce il titolo del libro potrebbe stimolare un’altrettanta vorace crescita economica europea in chiave democratica?

Purtroppo la mia risposta è no. Valori come la democrazia, il rispetto dei diritti dell’individuo – umani, civili e giuridici – sono un portato che si è innestato ormai in modo inseparabile nella nostra civiltà occidentale, ma lo stesso non è accaduto per quella cinese. La Cina è una grande, magnifica e millenaria civiltà, che però si è evoluta – appunto – per migliaia di anni su binari totalmente differenti dai nostri. Binari che non si sono mai intersecati per lunghissimo tempo. E ancora oggi, le nostre civiltà vivono basandosi su valori differenti. In Cina conta di più la massa, il gruppo, la comunità – che poi si esprime nella patria e nella nazione – rispetto all’individuo. Per i cinesi, il più grande “peccato” di noi occidentali è il nostro individualismo. Ma del resto, la nostra civiltà, da migliaia di anni, è basata proprio sul primato del singolo, dell’individuo. Il mito dell’eroe solitario che sconfigge ogni avversità, da Ulisse in poi. Credo che ci vorrà ancora molto, molto tempo prima che i cinesi si facciano ammaliare dal fascino della democrazia. Se mai accadrà, poi…

In qual maniera dialogano l’individualismo del milionario cinese con la comunità comunista cinese?

Proprio qui sta una delle difficoltà nel capire la Cina e i cinesi e la loro peculiarità. Non c’è individualismo nella ricchezza del miliardario cinese. Secondo la visione che io chiamo “neo-comunista” o del “Comunismo 2.0” dei governanti cinesi, tutto è funzionale alla vittoria del Partito e alla conquista del benessere, della nuova prosperità, della Cina. Il miliardario svolge il suo ruolo, è capace di accumulare denaro e glielo si lascia fare, perché crea lavoro, industria, economia e alla fine benessere diffuso. Ma anche lui sa di essere solo una piccola pedina nella mani dell’onnipotente PCC, il Partito Comunista cinese che governa con mano di ferro a Pechino. Ogni miliardario cinese sa bene che tutte le sue fortune, i suoi miliardi di dollari americani, sono appesi a un filo. Quel filo che i vertici del PCC manovrano a loro piacimento. E possono decidere di spezzare in ogni momento. Allora la sua caduta sarà tremenda: dalle più alte stelle, fino a ritrovarsi in ginocchio sul patibolo, in attesa di un colpo di pistola alla nuca… E’ già successo tante volte, di aver visto miliardari finiti in disgrazia, contro i quali sono state mosse accuse di corruzione (vere o fabbricate che fossero…) fare una triste fine. Perché, se si viene riconosciuti colpevoli di corruzione, in Cina, la punizione prevista è la pena capitale.

Quale differenza ravvede tra la concezione del denaro cinese e quella di Wall Street dal punto di vista anche etico?

Una radicale differenza. A noi hanno insegnato per duemila anni che “il ricco non andrà nel Regno dei Cieli”. Ai cinesi hanno sempre detto, invece, che “arricchirsi è glorioso”. In Cina, quando si fa un regalo, è considerata cattiva educazione togliere il cartellino del prezzo….

Lei ha asserito in merito all’area d’interesse dei suoi studi: “Una vera storia d’amore, vissuta non con un’altra persona, ma con un continente, l’Asia, e con un popolo in particolare: i cinesi.” Può indicare le opportunità ed i pericoli rappresentati dalla Cina contemporanea?

Vivere e lavorare – e scrivere – in Cina e della Cina, come ho fatto io per quasi 25 anni, è una cosa che può essere difficile e snervante. A volte la Cina sembra un pianeta alieno, una sorta di pianeta Marte dominato dal Dio denaro. Ma quando poi si riesce ad entrare nel cuore della loro civiltà, a capirla, allora la soddisfazione è immensa. E inizia una storia d’amore, che non ha più fine. I francesi lo chiamano ”Le mal jaune”, Il mal giallo, parafrasando il famoso “mal d’Africa”.

 

Marco Lupis Macedonio Palermo di Santa Margherita (Roma, 1960), é un giornalista e scrittore italiano. Ha lavorato come corrispondente dall’Estremo Oriente con base ad Hong Kong per diverse testate italiane. Nel corso di un’attività più che ventennale, negli oltre 700 tra suoi reportage e articoli, ha descritto i mutamenti dello società di Fine Novecento, con particolare riferimento allo scacchiere asiatico e all’America latina. Dopo il successo de “Il Male Inutile”, Marco Lupis torna in libreria con un nuovo saggio dal Titolo “I Cannibali di Mao”, in cui spiega l’origine e le radici del nuovo potere globale cinese.

 

Giuseppina Capone

 

Addio a 71 anni al critico che portò l’arte nelle case degli italiani, Philippe Daverio

Philippe Daverio è morto. Il critico e storico d’arte è deceduto all’Istituto dei Tumori di Milano. A rendere pubblica la notizia, la regista e direttrice del Teatro Franco Parenti, Andree Ruth Shammah. Daverio, docente e saggista, ex assessore alla Cultura del Comune di Milano, aveva 71 anni. “Mi ha scritto suo fratello stamattina per dirmi che Philippe è mancato stanotte” ha scritto Shammah.

Volto noto del piccolo schermo, grazie al programma Passepartout, nato su Rai 3 quasi vent’anni fa, riusciva incredibilmente a raccogliere attorno a una tavola ospiti in grado di confrontarsi su un percorso storico-artistico definito in ogni puntata, tra un vino e una portata. Nel mezzo, Daverio raccontava e descriveva un’Italia delle meraviglie non scontata, mai banale. Percorreva vie desuete e non solo, lasciava che si spalancassero alle telecamere le porte di chiese montane e affreschi bizantini. La macchina da presa lo mostrava poi seduto dietro una scrivania con l’immancabile papillon, le espressioni da antologia e le pagine cancellate dall’artista Emilio Isgrò sullo sfondo. Ammiccava allo spettatore, riuscendo persino a fargli apprezzare il più sperduto dipinto della storia dell’arte.

Diverse le reazioni alla notizia della morte di Daverio. “Amico mio… il tuo silenzio per sempre è un urlo lancinante stamattina” ha scritto Shammah su Instagram. Anche Emanuele Fiano, parlamentare del Partito Democratico, si è espresso su Facebook: “Andree Ruth Shammah ci dà purtroppo notizia della scomparsa di Philippe Daverio uomo di grande cultura, simpatia e umanità. Una grande perdita per Milano e per tutti. Sono molto addolorato per la sua scomparsa. Sia lieve a lui la terra”. Il presidente dell’Anpi provinciale di Milano, Roberto Cenati, ha invece parlato di “una gravissima perdita per il Paese, per Milano, per la cultura, per tutti noi”. Anche il ministro per i Beni e le Attività culturali, Dario Franceschini, ha espresso tramite il profilo social del MiBact, grande cordoglio per la perdita di Daverio: “Con Philippe Daverio scompare un intellettuale di grande umanità, storico dell’arte sensibile e raffinato, un uomo di cui ho sempre apprezzato la grande intelligenza e lo spirito critico e che già manca a tutti noi.”

Nicola Massaro

Come una barca sul cemento

Con Roberto Saporito parliamo del suo romanzo e della sua attività.

Lei osserva: “Il passato, complice la bugia della propria memoria, spesso è mitico, grandioso, al limite del mitologico, ma è anche solo consolatorio, specialmente nel caso che fosse veramente bugiardo: spesso ci si ricorda di quel che si vuole, scartando, magari, chirurgicamente tutte quelle parti, non piacevoli, non interessanti, magari perfino sgradevoli. In base a questi canoni il passato non è mai molesto, o amaro, o increscioso, ma al contrario è sempre gradevole, spesso incantevole.” E’ il potere contorto della mente e come lo usa il protagonista del suo romanzo?

Il protagonista del romanzo parte da qualcosa che dovrebbe per definizione essere finito, cioè il passato, qualcosa di remoto, lontano nel tempo, e con un’operazione, se vogliamo anche ambigua e nostalgica e inquieta della mente, tenta di attualizzarlo, tenta di trasformarlo in un malato tempo presente e attua tutto questo per poter sopravvivere in un oggi che lo opprime, che lo schiaccia in una vita che non sta andando da nessuna parte, cementata a terra, come la barca del titolo.

Lei pare voler indagare l’insieme d’inevitabili eventi che accadono secondo una linea temporale soggetta alla necessità e che portano ad una conseguenza finale prestabilita. Vuol definire il destino?

Il destino è il frutto contorto del fato, della sorte, della decisione di fare una certa cosa invece che un’altra, nel caso del mio libro di non aver avuto il coraggio, il protagonista, di chiedere ad alcune delle donne del suo passato di avere una storia con lui, e, in alcuni casi, di fare le scelte più facili, quelle che comportano meno complicazioni ma che magari danno meno soddisfazioni, meno piacere. Nell’economia del romanzo darsi l’opportunità di tentare di cambiarlo il proprio destino provando a fare quelle cose che non si è avuta la forza di fare quando se ne è avuta la possibilità.

Certo si può non seguire la sua indicazione, tuttavia lei designa una playlist in cui prevalgono gli Smiths da affiancare alla lettura. La colonna sonora d’una produzione letteraria evoca una sceneggiatura. E’ anche questa una possibilità che ha contemplato?

Spesso chi recensisce i miei romanzi sottolinea che sarebbero degli ottimi film, anzi che sembrano scritti e pensati quasi per questo scopo, e in effetti il mio modo di raccontare è, anche, uno scrivere per immagini, chi legge è portato a farsi il proprio “film”, aiutato in questo dal mio modo di descrivere i fatti, e in verità chi ha curato il mio romanzo ci sta ragionando sulla possibilità di trarne per davvero un film. E poi comunque al di là di questo mi piace abbinare dei brani musicali alla storia, l’ho sempre fatto, dal mio primo romanzo, mi piace quando un lettore mi dice “ho ascoltato la musica che suggerivi tu mentre leggevo il libro ed è stata una bella esperienza”.

Le barche non navigano sul cemento; il titolo del suo romanzo denuncia un disagio esistenziale specifico o esteso all’uomo contemporaneo?

Entrambe le cose, il personaggio principale del romanzo è come bloccato in una vita che non riconosce quasi più come propria, ha perso tutto, e in primis il suo lavoro di docente universitario, cosa che lo rendeva esistenzialmente stabile, che lo teneva in una bolla di realtà che lo faceva sentire adeguato nella sua nicchia di vita, mentre adesso si sente in un arco vitale di inadeguatezza, e allargando il campo visivo ci sta anche l’inadeguatezza esistenziale di una bella fetta di popolazione mondiale, dove la gente, molta gente, vive facendo quello che non vorrebbe fare come per esempio nel lavoro, svolgendo mansioni che odiano e che logorano la loro vita ma che per sussistenza si è costretti a fare, tutti i giorni per buona parte della vita come una sorta di condanna, ma anche negli affetti costruendosi famiglie che poi col tempo non si sopportano più ma che per opportunismo sociale si tengono comunque in piedi, o tenendosi amici solo perché convenienti per il tipo di lavoro che si fa, e così via in un devastante festival di disagi esistenziali, di vite sbagliate.

Il professore che tratteggia è un predatore sessuale, apre la caccia alle passioncelle giovanili adoperando i social. Il sesso compulsivo come balsamo ad una devastante solitudine?

Il sesso è un potentissimo motore esistenziale, in questo caso quando tutto il resto della vita sta andando a rotoli il sesso diventa davvero un lenitivo e salvifico rimedio, e non solo nei confronti della solitudine che il protagonista del romanzo sembra però maneggiare con sapienza, ma nei confronti di una struttura esistenziale che appare senza un vero futuro, dove sopravvivere è il leitmotiv delle giornate e in particolare delle notti da riempire, quasi uno sfuggire alla morte, un continuare a restare in vita nonostante tutto.

 

Roberto Saporito, nato ad Alba nel 962, ha diretto una galleria d’arte contemporanea. Autore prolifico, ha scritto racconti e romanzi: Harley Davidson (Stampa Alternativa, 1996), che ha venduto quasi trentamila copie, Il rumore della terra che gira (Perdisa Pop, 2010), Il caso editoriale dell’anno (Edizioni Anordest, 2013), Come un film francese (Del Vecchio Editore, 2015), Respira (Miraggi Edizioni) e Jazz, Rock, Venezia (Castelvecchi Editore, 2018). Suoi racconti sono stati pubblicati su antologie e su innumerevoli riviste letterarie. Ha collaborato con “Satisfiction” e, attualmente, scrive per il blog letterario “Zona di Disagio”.

 

Giuseppina Capone

La felicità altrui turba, agita, inquieta

Nadia Terranova, lei è reputata una delle voci più esemplificative del panorama letterario italiano contemporaneo. I suoi scritti paiono avocare a sé la fragilità come imbattibile e temibile milizia espressiva. Perché?

Fragilità è una strana parola, come se comprendesse anche la forza. Per essere fragile,  qualcosa deve aver dato di sé l’impressione di essere forte, prima.

La sua narrazione è lucida, nitida, disincantata, priva di edulcorazioni, scevra da vergogne, a tratti spudorata. C’è un limite a ciò che si può narrare?

Il solo limite è il dovere di essere interessante.

Le protagoniste de “Come una storia d’amore” si fiondano al collo altrui come vampiri per succhiarne la felicità. Cosa inquieta, turba, agita dell’altrui felicità?

Fa tantissimo rumore, e può essere un rumore sgradevole, sgraziato.

Avvincente in “Il primo giorno di scuola” l’apprendere una lingua morta e resuscitata quale l’ebraico. Dove risiede il fascino del lessico?

Ogni tanto sento il bisogno di imparare una lingua nuova, è come rinnovarsi profondamente.

Qual è lo status della narrativa femminile? Occorrono “quote rosa”?

Ci sono libri bellissimi scritti da donne ma sono ancora troppo poco riconosciuti a parità di quelli dei colleghi.

 

Nadia Terranova ha scritto Gli anni al contrario, Torino, Einaudi, 2015; Addio fantasmi, Torino, Einaudi, 2018; Come una storia d’amore, Roma, Perrone, 2020; 2Caro diario ti scrivo… con Patrizia Rinaldi, Casale Monferrato, Sonda, 2011; Bruno. Il bambino che imparò a volare, Roma, Orecchio acerbo, 2012; Storia d’agosto, di Agata e d’inchiostro, Casale Monferrato, Sonda, 2012; Le Mille e una Notte raccontate da Nadia Terranova, Roma, La Nuova Frontiera junior, 2013; Le nuvole per terra, San Dorligo della Valle, Einaudi Ragazzi, 2015; Casca il mondo, Milano, Mondadori, 2016; Omero è stato qui, Milano, Bompiani, 2019; Un’idea di infanzia. Libri, bambini e altra letteratura, Trieste-Roma, Italo Svevo Editore, 2019. Riconoscimenti: Premio Napoli nella categoria Libri per bambini e per ragazzi e  Premio Laura Orvieto per Bruno: il bambino che imparò a volare; Premio Speciale Nisida-Roberto Dinacci (all’interno del “Morante Ragazzi” 2011e Premio Nazionale di Letteratura per Ragazzi Mariele Ventre (2012, Sezione narrativa 12-16 anni) per Caro diario ti scrivo…; Premio Fiesole Narrativa Under 40, Premio Bergamo, Premio Bagutta (Sezione Opera Prima 2016), The Bridge Book Award, Premio Grotte della Gurfa (2015), Premio Viadana (ex aequo con Una storia quasi perfetta, di Mariapia Veladiano), Premio Viadana Giovani (2016), e Premio Brancati per Gli anni al contrario; Finalista alla 73ª edizione del Premio Strega, vincitrice del Premio Letterario Nazionale “Subiaco Città del Libro” 2019, del Premio Alassio Centolibri, del Premio Martoglio, del Premio Penne e del Premio “Mario La Cava” per Addio Fantasmi; Finalista alla 5ª edizione del Premio Strega Ragazze e Ragazzi per Omero è stato qui.

 

Giuseppina Capone

Senza: la libertà di non ‘esserci’

“Se le mie gambe non potessero più portarmi in giro potrei rimanere per sempre fermo a guardare il mondo dal mio giardino, non diventerei nemmeno grande, per qualche motivo il mio metabolismo si bloccherebbe, sarei una prova dell’inutilità della specie.”

Massimo Greco, quali sono le aspirazioni e le vocazioni del suo aberrante, distopico, crudele e depotenziato eroe? Quali le motivazioni che adduce al suo progetto atroce ed efferato per il comune sentire?

Senza significa privazione di qualcosa, nella fattispecie di una parte del corpo e Paolo aspira alla perdita della gambe. Del tema amputazione ne ho fatto un’allegoria, ho cercato un’interpretazione simbolica alla storia vera di Chloe Jennings, di cui lessi anni fa, della sua aspirazione a farsi recidere il midollo spinale; mi parve osceno che un essere umano sano di mente intendesse privarsi volontariamente di una parte del corpo, il mio libro è il tentativo di provare a razionalizzare questo assurdo desiderio. Paolo, il mio personaggio, mutua questa idea oscena perché gli sembra collimi alla sua aspirazione di rinuncia al mondo, di isolamento dalla realtà che non riesce a comprendere, dunque il taglio delle gambe sono la metafora di un distacco dalla contemporaneità, ma anche, in accezione più ampia, dalla Storia. Ed è intuitivo pensare alle gambe come l’elemento di adesione al mondo, le gambe ci mettono in contatto con la terra, ci portano in mezzo agli altri, la psicologia analitica lo indica, sognare di volare, di camminare senza contatto, significa estraneità, mentre camminare scalzi significa adesione, presenza, progressione. E senza gambe si resta fermi, è una regressione,  rifiuto della vita, rifiuto del programma di competizione assegnatoci alla nascita, la competizione è, metaforicamente, una corsa e senza gambe non si può correre. Paolo è di certo ‘aberrante, distopico, e depotenziato’ ma non crudele, al contrario è fortemente disgustato dalla violenza, e la sua finale adesione a essa indica soltanto la sua definitiva iscrizione alla razza umana: nel compiere violenza Paolo diventa finalmente uomo, uguale agli altri. “L’uomo è violenza pulsante e in cammino” dice Paolo, ed è innegabile, la Storia lo insegna. La sua trasformazione in violento rappresenta semplicemente e simbolicamente l’iscrizione alla razza umana. “Là fuori non ci sono i mostri, là fuori ci sono gli uomini” Paolo dice a Francesca quando la incontra in carcere.

Lei ha inteso iniziare al sadismo i suoi lettori? Quale intento persegue un romanzo brulicante di morbosità accecante?

Ho scritto Senza come per un esorcismo: la violenza sugli altri mi atterrisce, a maggior ragione quella su sé stessi, il sadismo non mi interessa, il masochismo tanto meno, dunque no, non ho scritto Senza per iniziare al sadismo i miei lettori, al contrario, ho puntato l’indice provocatorio su un tema scabroso per sezionarlo, venirne a patti e spegnerne l’incandescenza; dunque l’intento principale è stato cercare di depotenziare dialetticamente una cosa così mostruosa come la violenza consapevole sul proprio corpo e su quello altrui, sono partito da qui, ne è nato Paolo e la sua rinuncia al mondo, l’intento reale del romanzo, alla fine, è puntare l’indice sulla realtà e la sua incongruenza, il sangue versato nei secoli, quello che sarà versato, gli orrori perpetrati dagli uomini sugli uomini e sulla natura, Paolo sente il disgusto e cerca di autoescludersi, vuole tirarsi fuori dagli orrori della Storia.

Lei ha affermato che il suo romanzo è “Solo per casi patologici”. Per quale ragione non per tutti?

In realtà l’affermazione è nata per scherzo, un commento ironico fatto sui social poi uscito in una recensione. Tutt’altro, il libro è per tutti, è per chi coltiva l’interesse di interrogarsi sulla vita e sul suo senso complessivo, è un invito al ‘religere’ a guardare due volte le umane azioni, un invito a uno sguardo il più possibile oggettivo, paradossalmente questa storia ‘folle’ invita a una riflessione disincantata. E poi il tema è universale: il disadattamento di Paolo è l’esasperazione di quello silenzioso e strisciante di ogni essere umano, non parlo delle singole storie private, gli uomini sono disadattati semplicemente perché ‘sono’; ci amputiamo nelle relazioni, rinunciando a parti di noi per farle sopravvivere, e amputiamo possibilità in genere perché scegliere è sempre un’esclusione. Ognuno di noi pianifica più o meno consapevolmente le proprie strategie di adattamento, lo facciamo tutti i giorni, alcune sono manifeste altre una specie di automatismo, l’adattamento di Paolo sta nella rinuncia, uscire dal mondo (con l’atto tangibile e simbolico dell’amputazione) è la sua soluzione. Certamente è uno scandalo ma il tema è anche e soprattutto questo: la rinuncia alle gambe è la risposta adattativa del mio protagonista al disagio dell’esistenza.

Il protagonista non intende omologarsi, si sente sideralmente distante dalla massa, rifiuta categoricamente il mondo. Qual è l’idea di libertà che veicola?

La libertà di non ‘esserci’ (con Heidegger). E’ la libertà che affranca dagli obblighi imposti per consuetudine, è la libertà di farsi monade irrelata, singolo spettatore non partecipante, è la libertà di non fare, di fuggire la competizione, l’omologazione al sentire collettivo. E Paolo non pensa al suicidio, non gli interessa, la morte non risolve, non permette un godimento, la libertà di Paolo somiglia a quella dell’asceta, è la libertà di cui parlava Emil Cioran e che in qualche modo cercava nella sua stessa vita, la libertà di non appartenere, di ‘inesistere’ come dice Paolo, verbo che ho mutuato da Dissipatio HG di Guido Morselli. Libertà come contemplazione fine a sé stessa.

Fantasie erotiche intrise di mutilazioni e brandelli di carne. Ciò scombussola la rappresentazione di una sessualità poco avvezza alla sfrontatezza della sincerità dell’assecondare le proprie pulsioni. Non trova?

La sessualità attiene al privato, due soggetti accondiscendenti e consapevoli sono autorizzati a fare del proprio corpo ciò che desiderano, è un tema su cui si potrebbe scrivere all’infinito, la storia ‘dell’uso dei piaceri’ è costellata di censure e moralismi, duemila anni di storia cristiana hanno trasferito la colpa nel corpo. In Europa e altrove sono nati centri dove volontari si offrono sessualmente a persone disabili, e ci sono ancora detrattori scandalizzati come se a un corpo menomato non si possa più chiedere l’erogazione di un piacere, come se la menomazione in sé rimanesse la sola qualifica connotante. Detesto la violenza, in tutte le sue forme e in tutti i ‘set’ in cui si pratica, ma quanto può valere il mio punto di vista? Può la mia riprovazione essere arbitro nelle altrui scelte? Se un soggetto ama farsi picchiare, torturare da un altro soggetto, può la mia personale visione del mondo intrudere un microcosmo che non mi appartiene? Ai corpi altrui non si comanda, non si comanda al corpo degli omosessuali, non si comanda a quello di Chloe Jennings. La violenza non è solo brandelli di carne e lame sanguinolente, è anche quella istituzionalizzata e solo apparentemente asettica: costringere una donna a partorire contro voglia è violenza tanto quanto quella agita da un sadico su un corpo che subisce nella costrizione, sono violenze di pari semantica, così come recludere corpi nelle prigioni, al di là del tema annoso sul cosa dovrebbe significare arginare chi commette soprusi. Al limite avere fantasie erotiche ‘intrise di mutilazioni’ dovrebbe entrare in una tassonomia di pensieri amorali e non di pensieri immorali; siamo gettati in un mondo già dato, precostituito di regole che accettiamo acriticamente e questo, con Heidegger, ci rende di fatto inautentici. Non si sfugge a questa inautenticità, è impossibile, però ci si può sforzare di consumare la superficie, ‘religere’ l’idea di moralità, ci si può sforzare di giudicare tentando di sottrarsi all’inconscio collettivo: ‘cultura’ è il tentativo di uscire da un tracciato, non saprei cos’altro intendere per cultura, anche scrivere un romanzo dovrebbe sempre andare in questa direzione, smuovere le acque, offrire un diverso punto di vista, prendere a mazzate le certezze e il pensiero preordinato, già ‘dato’ e tramandato. Mi diverte che tradizione e tradimento siano etimologicamente riconducibili: in fondo accettare passivamente una ‘tradizione’ etica, religiosa, politica, morale è ‘tradimento’ di tutti gli altri punti di vista che finiamo per escludere a priori.

 

Massimo Cracco, matematico e ingegnere, editore dal 2009 al 2011 (BrillostoEd.), ha pubblicato un romanzo breve per Scriptaed. (2015) ‘Restare senza un lavoro non è per sempre’e il romanzo Mimma, per Perrone Editore (marchio l’Erudita, 2017).

 

Giuseppina Capone

Il 24 agosto parte il progetto “Marinella e gli Aquiloni 2020”

Inizierà lunedì 24 agosto presso la sede dell’Associazione “Obiettivo Napoli” onlus, a Napoli in via Cosenz n. 55, l’edizione 2020 del progetto “Marinella e gli Aquiloni”, ispirato dai temi della “giustizia di comunità” che vede impegnati il Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità – Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) per la Campania, Enti Pubblici, Enti Morali, Enti del Terzo Settore, Scuole, Municipalità 2 del Comune di Napoli e la Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2, che insieme collaborano in modo informale come “Rete di Marinella”.

Un progetto che, ispirato da una comune idea di reinserimento in un’ottica riparativa, proponendosi la riqualificazione di luoghi della comunità, intende favorire, con acquisizione di competenze o rafforzamento di quelle possedute da ciascuno, il reinserimento lavorativo e in generale la risocializzazione dei soggetti in esecuzione penale esterna e promuovere l’attivazione di opportunità rieducative e risocializzanti attraverso la realizzazione di concrete pratiche di comunità.

Un’esperienza di grande valore formativo quella che è stata vissuta dagli affidati durante la prima edizione del progetto nel 2019 che quest’anno vedrà il coinvolgimento di 12 persone in esecuzione penale esterna in un percorso di formazione tradizionale e on the job che durerà fino al mese di novembre sia in aula sia in cantieri esterni nella zona Mercato – Pendino grazie all’adesione anche per l’edizione 2020 della Municipalità 2 al progetto.

“Marinella e gli Aquiloni” è un’idea progettuale promossa dall’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna della Campania nell’ambito del progetto formativo “La comunità da fare” proposto dalla scuola superiore di esecuzione penale “Piersanti Mattarella” nel 2018.

L’edizione 2020 si svolgerà con particolare attenzione ai protocolli di sicurezza previsti per la pandemia da Covid-19.

“Siamo una rete informale composta da amministratori del territorio, educatori, insegnanti, assistenti sociali, mediatori culturali e linguistici, psicologi, sacerdoti, associazioni, enti, Istituzioni – evidenziano gli organizzatori -.  Tutti noi abbiamo un comune vivo interesse perché il territorio in cui viviamo o viviamo lavorando sia un ambiente positivo, accogliente, nutriente. Un territorio sul quale ci siamo a lungo confrontati nel corso della precedente edizione, facendo tesoro di quanto già costruito e apportando al ragionamento la sua specifica valenza, la sua prospettiva, il suo sguardo. L’esperienza che abbiamo vissuto nel 2019 ci ha resi consapevoli di essere fortemente radicati ad un territorio che ha trascorsi storici, artistici ed economici di gran rilievo e della valenza della scelta per lo sviluppo delle persone che partecipano al progetto”.

La zona di riferimento delle attività teorico – pratiche è quella di Mercato-Pendino che insiste sul territorio della Municipalità 2, ricca di scambi economici, facilitati dalla rete delle comunicazioni e che gode della presenza del mare e su cui insistono le attenzioni di molteplici Istituzioni (Min.Interno, Economia, Istruzione, Salute, Giustizia), ecc.

Zona dalla grande tradizione storico-culturale, densamente popolata, nel corso del tempo, purtroppo, è andata soggetta a progressivo degrado ambientale e sociale, aggravato dalla situazione generatasi dall’emergenza Covid-19, evidenziato a più voci dai cittadini che, però, non sono riusciti ancora a diventare “attori di cambiamento”.

Il progetto si avvale della Rete di istituzioni, scuole, enti ed associazioni che hanno siglato protocolli di collaborazione o che comunque collaborano all’iniziativa: Associazione Obiettivo Napoli onlus, Associazione Volontariato Carcerario Liberi di Volare onlus, Associazione Cidis onlus, Associazione Gioventù Cattolica “Asso.Gio.Ca”, Associazione “Le Viole di Partenope”, Associazione Donne Architetto – Napoli, Associazione di Promozione Sociale “La Livella”, Associazione Centro Antiviolenza “Teresa Buonocore”, Associazione “NomoƩ Movimento Forense, Associazione Culturale “Napoli è”, Associazione “Psicologi in contatto” onlus, Associazione “Padre Elia Alleva O. Carm.” onlus, Associazione “Figli di Barabba, Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Associazione “Goccia di Rugiada”, Associazione “Arcipicchia”, Associazione “Voce di Vento, Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) per la Campania, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP) della Campania, Municipalità 2 del Comune di Napoli; Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2, Garante dei detenuti della Regione Campania, Garante dei detenuti del Comune di Napoli, CPIA di Napoli, Istituto Comprensivo Borsellino, Centro Servizi Volontariato (CSV), Suore del Complesso della Chiesa di Sant’Eligio Maggiore.

Un progetto al tempo stesso ambizioso e entusiasmante che mira a “contrastare lo scollegamento degli enti e delle associazioni che operano sul territorio promuovendo la reciproca conoscenza (una mappatura attiva) e l’interazione su comuni interessi (l’ambiente, il lavoro ecc.), che possa favorire una fitta rete di interconnessioni, positive e nutrienti, che possa sviluppare azioni positive a favore dei cittadini integrando i cittadini stessi anche avvalendosi di quelle persone in “area penale” che possono dare un forte senso di riscatto e di risarcimento al loro operato”.

“Una rete informale, la “Rete di Marinella”, che riunisce enti pubblici, enti morali, scuole e organismi del terzo settore che dallo scorso anno vede volare in alto i suoi aquiloni e che deve avere una sua dimensione “fisica” nel territorio, un suo luogo di cittadinanza attiva, un “luogo di comunità” dove il cittadino può essere orientato nella risoluzione delle proprie diverse istanze, ma anche dove può incontrarsi e confrontarsi, un “punto di comunità” – concludono i partecipanti al progetto.

Odisseo e Achille, furbizia o impetuosità?

Nessuno ignorava la vita di Odisseo e la morte di Achille, l’astuzia del primo e la schiettezza del secondo, la riflessività dell’uomo maturo e l’impulsività del giovane. Il loro desiderio di uccidere la morte. L’uno schivandola. L’altro disprezzandola. Ne parliamo con Matteo Nucci.

«Nessuno fra gli antichi Greci ignorava la profonda distanza caratteriale che divideva i due eroi. Nessuno ignorava la vita di Odisseo e la morte di Achille, l’astuzia del primo e la schiettezza del secondo, la riflessività dell’uomo maturo e l’impulsività del giovane. Il loro desiderio di uccidere la morte. L’uno schivandola. L’altro disprezzandola». Achille e Odisseo vanno intesi come paradigmatici di due maniere di affrontare la vita?

Certamente. Gli eroi omerici sono archetipi che superano le epoche in cui vennero immaginati. Odisseo e Achille rappresentavano i due caratteri opposti fra gli Achei mostrando ai greci del tempo come vivere le proprie scelte. Lo mostrano a tutti ancora oggi.

Achille è franco, impulsivo, iracondo; Ulisse oculato, astuto e menzognero. Entrambi deboli, impegnati nella contesa con la loro limitatezza. Eppure sono unanimamente reputati eroi. E’la loro umanità foriera d’eroismo?

Come ho sempre cercato di spiegare, eroe non significa oltreumano ma pienamente umano. L’umanità è fatta di fragilità, emotività, sensibilità. L’eroe realizza questa fragilità senza tirarsi indietro. Del resto, non esistono eroi invincibili ma solo uomini vinti.

Cos’hanno ancora da sussurrarci i poemi omerici nel caso di specie ed il “passato” più in generale?

Gli eroi non sussurrano ma gridano. Sono pieni di ira e di emozioni che tracimano dal petto. Non si tirano indietro. Non evitano di fare i conti con se stessi.

Lei presta spesso attenzione agli eroi. E le donne? Potrebbero anch’elle assurgere al ruolo di eroine, magari guardando a modelli desunti dalla contemporaneità?

Certo. Mi sono occupato di donne. Eroi e eroine sono sullo stesso piano. Si parla più spesso di eroi al maschile perché sono loro a fare la guerra di cui si parla di più. Fra Achille e Odisseo dico fin dall’inizio che si deve guardare a una donna: Elena. Del resto quando parlo di realizzazione dell’umanità parlo di uomini e donne. Non amo le questioni di genere.

Odisseo o Achille? Furbizia o impetuosità? Com’è opportuno agire?

Non esistono regole né certezze. Ognuno sceglie il suo modo. Ognuno ha il suo carattere. L’importante è la chiarezza con se stessi e con gli altri, nonché la consapevolezza. Ossia ciò che sia Achille che Odisseo hanno, come ogni altro essere umano realizzato.

 

Matteo Nucci ha pubblicato saggi su Empedocle e Platone e ha curato una nuova edizione del “Simposio di Platone” (Einaudi, 2009). Collabora con ‘Il Venerdì’, con ‘La Repubblica XL’ e “Il Messaggero’. Suoi racconti sono apparsi sul Caffè illustrato e su Nuovi Argomenti. “Sono comuni le cose degli amici” è il suo primo romanzo, pubblicato da Ponte alle Grazie nel 2009, selezionato nella cinquina dei finalisti al Premio Strega 2010. Inoltre: Il toro non sbaglia mai, Ponte alle Grazie, 2011. Vincitore Premio Letterario Francesco Alziator 2012. Finalista Premio Domenico Rea 2012; Le lacrime degli eroi, Giulio Einaudi Editore, 2013. Premio Letterario Giuseppe Giusti 2014; È giusto obbedire alla notte, Ponte alle Grazie, 2017. Premio Roma. Finalista Premio Procida. Finalista Premio Asti d’Appello; L’abisso di Eros, Ponte alle Grazie, 2018.

 

Giuseppina Capone

Yves Saint Laurent: lo sguardo verso il futuro

“Yves Saint Laurent è giovane, ma ha un immenso talento. Penso sia venuto il momento di rivelarlo alla stampa. Il mio prestigio non ne soffrirà affatto”. Diceva Dior terminata la sua ultima sfilata.

Yves Saint Laurent è stato il successore di Christian Dior. Il 30 gennaio 1958, tre mesi dopo la morte di Dior, Yves ricominciò, a soli ventuno anni, carico di speranze pure avendo timore di non riuscire a mantenere lo splendore e la fama del salone di moda più famoso del secondo, ma riuscì a riscuotere ancora più ammirazione di Dior, non soltanto per la sua linea trapezoidale ma soprattutto per essere riuscito a portare leggerezza giovanile alla opulente raffinatezza della tecnica del taglio del re della moda. Ancora, per essere stato un innovatore dell’immagine femminile, grazie alla sua sensibilità spiccata che gli permetteva di guardare al passato e proiettarsi verso il futuro, creando così abiti innovativi per una donna moderna. La stampa parigina dichiarò entusiasta: “la grande tradizione di Dior continua”. Saint Laurent è tuttora considerato uno degli stilisti più stimati al mondo.

Dior avrebbe voluto portare avanti le tradizioni illustri di epoche passate nell’alta moda, creando abiti molto eleganti e raffinati per  una dama di quell’epoca, che aveva spalle arrotondate, gonna lunga e vita a vespa sostenuta da un leggero bustino. Allo stesso tempo, però, sarebbe stato un abbigliamento poco pratico per la donna moderna che Saint Laurent voleva, perché la sua intenzione era quella di metterla al centro di quegli anni ’60, anarchici e turbolenti. “Abbasso il Rizzo, viva la strada” questo era il suo motto. Così, grazie a lui, le donne si distaccarono dalla classica figura femminile di quegli anni il cui fascino consisteva in un’eleganza imposta.

La vita privata

Nacque il 1° agosto 1936 a Orano (Algeria francese). Amava, sin da piccolo, creare bambole di carta, e, infatti, ben presto, iniziò a disegnare abiti per le sue sorelle e per sua madre. Si trasferì a Parigi all’età di diciotto anni dove i suoi figurini di moda ebbero molto successo nella Chambre Syndicale de la haute couture (camera sindacale dell’alta moda).

L’editore di French Vogue presentò il giovane stilista a Christian Dior e, grazie a lui, il talento di Yves crebbe notevolmente. Dior e Saint Laurent erano accomunati da una certa affinità spirituale e venivano entrambi da famiglie borghesi. Tendevano all’intellettualismo, avevano una profonda conoscenza dell’arte. Entrambi, molto giovani, avevano mostrato un talento straordinario per la moda.

La più grande fobia per Yves Saint Laurent era quella per i volatili. Quando presentava una nuova collezione portava con sé un talismano, una corona del rosario e un piccolo peluche a forma di Bugs Bunny.

Entrambi, i due talentuosi stilisti di moda, erano omosessuali ma Yves fu fortunato in amore  a differenza di Dior. Successivamente Saint Laurent, in numerose interviste, parlava apertamente della sua dipendenza all’alcool e dagli stupefacenti. Fu ricoverato per la prima volta all’ospedale americano di Parigi per una cura per la disintossicazione.

Verso il successo

Pochi giorni dopo il trionfo della sua linea trapezoidale, conobbe Pierre Bergè, un uomo abile negli affari. Da lì a poco aprirono un atelier che superò ampiamente il successo della casa di Dior. Nel gennaio 1962 ci fu l’inaugurazione e la folla lo accolse piangendo per l’emozione.

“Ho coscienza di aver fatto progredire la moda del mio tempo e di aver permesso alle donne di entrare in un universo a loro vietato”. Affermava il creatore di moda.

E pare che, con la creazione della linea trapezoidale, abbia ottenuto ciò che desiderava: una visone della donna emancipata, nuova e libera. Alla pari di Chanel, Saint Laurent ha così creato uno stile unico, diventando il simbolo dell’eleganza raffinata e innovativa: il blazer, lo smoking, il trench, il giubbotto di pelle, il tailleur-pantalone hanno cambiato la visione della donna. Era riuscito ad estendere i confini della moda negli Anni ‘60 introducendo nuovi elementi senza i quali ormai la moda femminile sarebbe stata inconcepibile.

Anche “La sahariana”, capo cult dello stilista francese, è stato uno dei capi considerati il simbolo di innovazione per la donna in quegli anni: giacca di origine militare contraddistinta da comode tasche a soffietto. È stato il capo singolo della collezione ”Safari” presentata da Saint Laurent nel 1968. Una vera e propria rivoluzione nel mondo della moda femminile, ancora oggi considerata una delle realizzazioni che ha fatto la storia della moda.

Il grande creatore Saint Laurent morì a Parigi il 1° giugno del 2008 all’età di settantuno anni.

“Coco Chanel e Christian Dior sono dei giganti. Yves Saint Laurent è un genio!” Diana Vreeland, indimenticabile direttrice di Vogue America, aveva fatto questo pronostico.

Alessandra Federico

Il giallo ed il suo potenziale comunicativo

La polisemia di accezioni a dimostrazione di quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti. Ne parliamo con Oriana Ramunno.

Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller. Le sue produzioni in che misura divergono dal genere codificato?

Il giallo e il thriller seguono delle regole precise che il lettore si aspetta di ritrovare nella lettura. È una sorta di patto di fiducia tra quest’ultimo e lo scrittore. Se l’impostazione è codificata, non lo sono i contenuti. Il genere, spesso, non è altro che una scatola per presentare tematiche sociali importanti, poco conosciute o su cui sensibilizzare. Un mezzo potentissimo per raggiungere le persone. In Amori malati, per esempio, affronto il problema del femminicidio e della discriminazione di genere; ne Gli alberi alti, vincitore del premio WMI, ho raccontato il genocidio in Ruanda e in Sassi, vincitore del Giallo in Provincia, la difficile situazione del Sud nel dopoguerra e lo sgombero dei Sassi di Matera, allora considerati la vergogna d’Italia. Anche il romanzo in uscita per Rizzoli a gennaio 2021 tratterà un tema delicato e di cui è importante mantenere la memoria. I romanzi di genere, nonostante si muovano entro binari codificati, hanno un potenziale comunicativo enorme.

La sua scrittura, scorrevole ed incisiva, diretta e frizzante, pare rinviare al linguaggio delle serie TV. Quanto risponde ad una sua precisa volontà la contaminazione dei linguaggi?

Credo che ci siano molti modi di raccontare una storia: con la parola, con le immagini, con i suoni. Le contaminazioni tra le varie arti arricchiscono, sono benefiche, e riguardano non solo lo stile, ma anche i contenuti. Io sono stata influenzata dal cinema d’autore, a cui mi sono appassionata durante il periodo universitario, e dal teatro. Quando scrivo non posso fare a meno di lasciarmi suggestionare anche dalla pittura, dalla fotografia o dalla musica. Sassi, per esempio, nasce dalle evocative fotografie antropologiche di Franco Pinna, che ha immortalato la gente contadina di Lucania; gente forte, dalla pelle ruvida e cotta dal sole dei campi; gente della mia terra. Tornando alla domanda, il linguaggio delle serie televisive mi ha sicuramente influenzato per quanto riguarda l’incisività e il ritmo. Peraltro, alcune serie mi hanno lasciato un segno indelebile, una su tutte Breaking Bad.

I protagonisti delle sue pagine sono genuini, talvolta strampalati, eccentrici ed originali, di certo fortemente caratterizzati; i luoghi riconoscibili e concreti: pensa ad una trasposizione televisiva dei sui scritti?

Perché no? Come dicevo prima, una storia può essere raccontata attraverso diversi linguaggi. Emma Acciaio, l’investigatrice di Amori malati, nasce proprio dalle emozioni che mi ha lasciato un’altra forma d’arte: la fotografia. Sigga Ella ha immortalato e raccontato la storia di sette donne affette da alopecia universale nel suo progetto Baldvin, che in finlandese significa “forza”. Per me è stata come una rivelazione. Cercavo un personaggio che raccontasse e sgretolasse gli stereotipi legati al genere, e chi poteva farlo meglio di una donna calva con un lavoro “da uomo”? La forza di Emma Acciaio è tutta nel suo lottare costantemente contro lo stereotipo che la società ha imposto alle donne, cercando di emergere come individuo e non come aspettativa di qualcun altro. Se un giorno dovesse diventare la protagonista di una serie, non potrei che esserne fiera.

La polisemia di accezioni dimostra quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti. Reputa che modi di dire, proverbi e battute possano costituire l’anticamera di forme di violenza o pacificazione?

I proverbi rimandano a un’antica sapienza, ma laddove i modi di dire diventano uno stereotipo, allora possono trasformarsi nell’anticamera di una violenza psicologica.

Lei applica differenti prospettive ad altrettante corrispettive esperienze che l’uomo con le sue attitudini, peculiarità e tessuti relazionali, che gli sono caratteristici, si trova ad affrontare. Ritiene che la parola possegga la potenza per scarnificare l’uomo nella sua complessità e totalità?

Il thriller e il giallo, per loro natura, si propongono di scandagliare la psiche umana, i lati oscuri della mente e i suoi baratri, ma non riusciranno mai a restituire la vasta complessità dell’essere umano. La parola può provare a spiegare e comprendere solo in parte l’essere complesso che è l’uomo, nel bene e nel male.

 

Oriana Ramunno è originaria di Rionero in Vulture, ma vive a Berlino. Nel 2016 vince il Premio WMI con il racconto Gli alberi alti. Il racconto giallo Teriaca è stato pubblicato in appendice a I Gialli Mondadori dopo aver vinto il concorso GialloLuna NeroNotte. Nel 2017 è finalista al Premio Alberto Tedeschi col romanzo Moloch. Nel 2018 vince il primo premio de Il Giallo in Provincia con il racconto Sassi ed esce con il romanzo L’amore malato nello speciale Mondadori sul femminicidio Amori malati. Nel 2018 si classifica seconda al Premio Il Battello a Vapore con il romanzo I draghi di Aleppo. Per Delos Digital ha pubblicato i racconti Gli dei di AkihabaraLe Ombre di AvernoLa vendetta dell’angeloBriganti si muoreVirus HBaba Jaga, La bambina di cristallo, Sassi. A gennaio 2021 esordirà per Rizzoli con un thriller.

 

Giuseppina Capone

Psicologia della moda: l’abito che indossi racconta di te

La psicologia della moda collega corpo e psiche. Perché nella moda c’è dell’altro nel profondo, qualcosa che va oltre la superficie: il tuo vissuto racconta chi sei attraverso il tuo look.

Il tuo stile esprime la tua personalità, le tue ispirazioni, i tuoi sogni.  L’abito che indossi racconta di te non solo in base alla scelta del modello e del colore, ma anche dal make-up o dagli accessori che indossi. È necessario sentirsi bene nella propria “pelle”, è dunque fondamentale indossare abiti che facciano sentire a proprio agio. Secondo ogni situazione che si vive, si tende a sviluppare una parte diversa di sé: nei differenti ruoli sociali che ricopriamo e nelle relazioni interpersonali. Per questo motivo (inconscio) acquisiamo uno stile differente non solo per ogni occasione, ma un look che riesca a esprimere chiaramente ciò che abbiamo vissuto. L’abbigliamento può davvero essere una valvola di sfogo per tirar fuori tutto ciò che si ha dentro, per nascondere degli aspetti e per comunicarne altri.

“La moda passa, lo stile resta”

 Le parole di Coco Chanel ci insegnano che la moda non è solo nuove tendenze da seguire, ma riuscire a trarre da quest’ultime uno stile individuale.  D’altro canto, acquisire un look personale vuol dire avere una profonda conoscenza di sé, ed è interessante e affascinante scoprirne il significato. Partiamo dalle radici: rapporti sociali e modelli familiari sono esempi che sin da bambini abbiamo avanti ai nostri occhi, possono quindi aiutare a formare la personalità poiché l’indole è influenzata dall’ambiente in cui cresciamo. Andare più a fondo attraverso un’intervista ci aiuterà a capire da cosa può dipendere la scelta di un determinato look.

Lucia, diciannove anni, napoletana, racconta il suo vissuto e il motivo per cui ha scelto un tipo di abbigliamento.

Lucia, quali colori di un abito preferisci indossare?

Amo il nero, rispecchia esattamente il mio animo. I colori chiari, invece, mi ricordano la donna che mi ha reso la vita difficile: mia madre aveva un look tutto suo, tipo stile gitano con foulard colorati e gonne lunghe. Andava sempre di fretta, per quel che mi ricordo di lei. Amo invece i colori scuri, quelli che mi fanno sentire a casa e protetta, quelli lunghi che mi coprono. Quando sono costretta a indossare un capo colorato mi sento a disagio. Odio apparire chi non sono.

Credi che il tuo look sia legato alle tue esperienze di vita?

Sì, ho un carattere forte, a volte anche troppo perché sono rigida, ma sono anche molto paziente. Sono cresciuta in una famiglia un po’ particolare: padre, due fratelli e una madre molto presa dalla sua carriera lavorativa. Sin da bambina vedevo mia madre la domenica a pranzo perché quando tornava in settimana la sera da lavoro io già dormivo. Quando avevo poco più di dodici anni decise di andare fuori Italia con il suo collega. Non l’ho mai più vista. Ed è per questo che il rancore lo manifesto tuttora nel mio look scuro e coprente.

Le persone che frequenti hanno un look diverso dal tuo?
Il look dei miei amici è come il mio. Non mi piace frequentare persone che indossano abiti colorati perché questo disturba il mio modo di essere, anche se non giudico nessuno perché ognuno è libero di avere il look che più gli si addice, a parere mio. Poi la paura di essere giudicati non c’è se mi circondo di persone simili a me.

Credi che un abito possa colmare le mancanze d’affetto?
Penso che colmare mancanze con cose materiali non farà altro che farci sentire più soli, perché l’affetto mancato possiamo trovarlo solo dentro di noi, amandoci di più. Io darò ai miei figli tutto l’affetto che non ho ricevuto e sono sicura che sarò una madre migliore di quanto lo sia stata la mia, se tale si può definire. La mancanza di mia madre cerco di colmarla indossando qualche suo capo, me la fa sentire in qualche modo più vicina. Anche se dovrei eliminare ogni cosa che mi ricorda lei. Per quanto male mi ha fatto, resta pur sempre mia madre.

Le parole di Lucia sono un esempio lampante di quanto il nostro look riesca a dare vita a tutto ciò che abbiamo dentro.

Alessandra Federico

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