Rudy Salvagnini: Dizionario dei film horror

 

Rudy Salvagnini è uno sceneggiatore di fumetti. Ha scritto centinaia di storie per TopolinoIl GiornalinoIl Messaggero dei RagazziLancioStory e molte altre testate. In campo letterario, sono suoi il romanzo di fantascienza Il vortice dei ricordi (Alcheringa, 2017) e la raccolta di racconti horror Nel buio (Weird Book, 2020). Critico cinematografico, collabora a Segnocinema e a MYmovies. Ha scritto Hal Ashby (Il Castoro Cinema, 1992), Il cinema di Bob Dylan (Le Mani, 2009) e Il cinema dell’eccesso vol. 1 e 2 (Crac, 2015 e 2016). Ha scritto anche e soprattutto il Dizionario dei film horror (Corte del Fontego, 2007 e 2011), di cui è appena uscita la terza edizione (Bloodbuster, 2020). Ne parliamo con l’autore.

Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto. Da dove spunta il suo interesse per l’horror?

Quando mi interrogo sulla questione, credo di percepire che ciò che mi ha da subito attirato verso questo genere è l’aspirazione al soprannaturale, che non è un elemento essenziale dell’horror, ma è molto frequente in esso. In un piccolo e modesto film spagnolo, Errementari, a un certo punto un pavido e insicuro sacerdote si trova di fronte a una micidiale creatura demoniaca e, in modo solo apparentemente incongruo, la ringrazia perché con la sua presenza gli ha finalmente dato la certezza che la sua vita non era stata sprecata: se il diavolo esiste, c’è il soprannaturale e anche quello in cui lui, il sacerdote, ha sempre cercato di credere. Quindi, se esiste il Male, è probabile che esista anche il Bene e questo è già qualcosa e l’horror, magari inconsciamente, ce lo rappresenta facendoci nel contempo riflettere sul mistero dell’esistenza. In questo senso è tipica anche la figura dei fantasmi – riflessi di noi stessi, solo più consapevoli – allegoria di qualcosa diverso da noi, ma vicino a noi. Oltre a ciò, che rappresenta il fascino del fantastico, c’è la grande attrattiva che, per me, l’horror ha quale genere metaforico per eccellenza, con la sua capacità di scandagliare la nostra società con una severità e una schiettezza altrove difficili da trovare. L’orrore fa parte della natura umana, l’abisso che ci guarda e che noi guardiamo, la morte che incombe, piacevolezze insomma su cui l’horror ci fa meditare e che a volte invece esorcizza trivializzandole. Alla fine, questo desiderio di spaventare e spaventarsi è sì come un viaggio nel tunnel dell’orrore di un luna park, ma è anche un viaggio dentro noi stessi. E questo mi ha sempre interessato.

L’horror è uno dei generi più fecondi e persistenti della storia del cinema. Qual è il suo linguaggio e come riesce a rispecchiare sempre la contemporaneità?

La forza dell’horror è quella di interpretare sentimenti e paure comuni a tutta l’umanità, sotto ogni latitudine: sa parlare un linguaggio universale compreso dovunque. In ogni parte del mondo c’è una tradizione horror: messicana, spagnola, persino brasiliana. Ci si è accorti solo negli ultimi vent’anni che esiste quella asiatica, ma esiste da un pezzo: capolavori come Jigoku ci ricordano che in Giappone gli horror ci sono da molto. Hong Kong, Indonesia, Filippine, ognuno con i suoi mostri e i suoi vampiri, quelli saltellanti di Hong Kong e i Pontianak, teste volanti con brandelli di intestini, in Malesia. Non esiste un altro genere che si sa coniugare così perfettamente con il comune sentire di ciascun popolo, proprio perché fa riferimento a un folclore radicato e persistente. L’horror non è mai particolarmente di moda perché sostanzialmente lo è sempre.

La storia del cinema dell’orrore di Teo Mora, alcuni volumi di Solfanelli,  Monster Show di David J. Skal; Danilo Arona su Craven, Fabrizio Liberti su Carpenter, Daniela Catelli su Friedkin o Gianni Canova su Cronenberg. Per quale ragione, a suo giudizio, la produzione di critica cinematografica del genere horror in Italia non è nemmeno in lontananza equiparabile a quella rinvenibile in altri paesi?

Oltre a quelli citati ci sono molti altri testi sul cinema dell’orrore in italiano – ne hanno scritti Fabio Zanello, Roberto Curti, Gordiano Lupi, Antonio Tentori, Mario Gerosa, Albiero e Cacciatore, per citare solo alcuni nomi tra i tanti – ma è vero che la produzione, in particolare, anglo-americana è decisamente superiore a livello quantitativo. Se ci pensiamo bene però è anche decisamente superiore la produzione di film horror e le due cose sono molto collegate. Negli USA, gli horror hanno una tradizione produttiva solidissima, continuativa ed enorme in quantità per cui esiste un pubblico maggiore anche per la pubblicistica. Da cosa, insomma, nasce cosa.

Quale criterio ha adottato per operare le sue scelte tassonomiche?

Siamo in un campo, quello della critica cinematografica e della conseguente suddivisione del cinema in generi, che solo in parte può dirsi scientifico, per cui le regole di classificazione si sono per forza di cose basate su criteri insieme oggettivi e personali. Ho cercato di darne conto in qualche misura nella Guida alla consultazione contenuta nel Dizionario, ma la questione è di certo complessa e impregnata di soggettività.

Cos’è mutato nei dieci anni intercorsi dall’ultima versione ad oggi?

Come sempre, il cinema horror ha mostrato vitalità invidiabile, rigenerandosi e reinventandosi. Tra le tendenze principali c’è stata senza dubbio quella del found footage – film apparentemente realizzati con filmati “veri” – che ha prodotto una notevole quantità di film spesso premiati dal successo. Ma, esattamente all’opposto, c’è stata la grande crescita dei film prodotti dalla Blumhouse, raffinate rivisitazioni dei capisaldi dell’horror con poco di nuovo, ma molto stile. E ci sono naturalmente state le singole perle provenienti da ogni parte del mondo come il coreano Train to Busan, il giapponese Zombie contro zombie o l’australiano Babadook. Insomma, la consueta vitalità di un genere che non muore mai, come i mostri che spesso lo popolano.

Giuseppina Capone

Olga Campofreda: Dalla generazione all’individuo

Olga Campofreda è dottore di ricerca in letteratura italiana. Vive a Londra, dove insegna presso l’Istituto di Cultura Italiano e alla UCL. Nel 2019 ha pubblicato A San Francisco con Lawrence Ferlinghetti (Giulio Perrone Editore), con lei abbiamo parlato del suo libro “Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli” edito da Nimesis.

Olga Campofreda, chi è Pier Vittorio Tondelli e quali peculiarità riserva la sua produzione?

Pier Vittorio Tondelli (o PVT, come spesso viene riportato con un’operazione simile alla “brandizzazione”) è stato uno scrittore italiano omosessuale che ha esordito nel 1980 con l’opera-scandalo “Altri libertini”, un romanzo che portava dentro tutta l’esperienza del Settantasette bolognese, ma anche molto altro: oltre la superficie fatta di simboli, atteggiamenti e linguaggi legati a quel periodo storico, questo libro racconta la provincia italiana lontana dai grandi centri, vite marginali ed emarginate, questi “altri” libertini, appunto, che sono poi a mio avviso il tema centrale di tutta la riflessione letteraria di Tondelli fino alla morte per AIDS, avvenuta nel 1991.

Prima ho parlato di “brandizzazione”: come racconto nell’introduzione del mio saggio, la critica si è espressa in modo particolarmente problematico su questo autore nel corso degli anni. Tondelli è stato il primo dei giovani scrittori degli anni Ottanta, un gruppo di autori messi insieme per ragioni di marketing editoriale (tra questi anche Andrea De Carlo, Enrico Palandri, Claudio Piersanti, per un periodo anche Daniele Del Giudice). In questo contesto, Tondelli è ricordato più di tutti per aver parlato di giovani ai giovani, trascinando a lungo su di sé le etichette della ribellione e del giovanilismo. Questo ha contribuito a eclissare altri temi più profondi, come appunto il significato reale delle giovinezze ribelli narrate. Oltre alla “brandizzazione” di questo autore, altra problematica è rappresentata dall’interesse morboso per la sua vita privata, specialmente intorno alla questione dell’omosessualità: cercare risposte biografiche nei suoi romanzi, non ha aiutato certamente a valorizzarne il lavoro letterario in quanto creazione di simboli intorno a un discorso più universale.

Lei ha manifestato l’intento di “liberare l’opera tondelliana dal contesto generazionale e da una fruizione limitata a un interesse documentario.” A quale scenario storico sono riconducibili i personaggi tondelliani e qual è il valore simbolico del mondo di giovani emarginati di cui narra?

Prima ho parlato della Bologna del Settantasette, che esce fuori principalmente dai racconti di “Altri libertini” (1980). Molti critici hanno parlato di Tondelli come di un autore generazionale, ergendolo a rappresentante di una determinata generazione e incasellandolo in un contesto storico, che senza dubbio è fortemente presente nei suoi romanzi. Ma Tondelli è anche e soprattutto gli anni Ottanta italiani, nel corso dei quali ha prodotto l’intera sua opera letteraria. Anni che ha osservato e interpretato attraverso reportage, articoli di giornale, rubriche.

La scrittura tondelliana ha assorbito moltissimo la realtà italiana nella quale l’autore era immerso, ma se ci si limitasse solo a questo Tondelli non sarebbe né più né meno che un attento giornalista, e le sue opere un documento. Ricordo benissimo una domanda – fondamentale – che mi ha fatto lo scrittore Enrico Palandri all’inizio della mia ricerca: che cosa resterà tra tantissimi anni dei romanzi di Pier Vittorio Tondelli? Che cos’è letteratura, al di là degli elementi biografici o generazionali? Provando a rispondere a questi interrogativi, ho capito che la giovinezza, tema ossessivamente riproposto dalla pagina tondelliana, ha in verità una carica simbolica fortissima. Il giovane, in particolare il giovane emarginato, è l’individuo ancora in formazione, ancora libero dal punto di vista identitario e non assoggettato agli incasellamenti della società borghese conservatrice.

In che misura la narrativa di Tondelli diverge dal romanzo di formazione così come codificato dalla tradizione, considerando la presenza da protagonisti di emarginati che rifiutano l’integrazione come prospettiva?

Il romanzo di formazione, così come già fa notare Franco Moretti nei suoi studi sul tema (1999), è un genere letterario prodotto da una società borghese in un determinato periodo storico, fondato su determinati valori che oggi definiremmo conservatori e senza dubbio eteronormativi. Nel corso del novecento il genere è stato usato per descrivere storie di adolescenze e di giovinezze in generale, pur mantenendo la sua natura conservatrice di fondo. Si tratta di un percorso che accompagna il giovane verso l’età adulta, che verrà raggiunta una volta conquistate le sfere del lavoro, di una famiglia (eterosessuale, è chiaro), del riconoscimento in una patria. I personaggi tondelliani sono giovani per i quali non solo questo percorso non funziona, ma viene proprio rifiutato per i valori che rappresenta. La scelta di una giovinezza come status permanente ha un valore politico fondamentale. Raccontare personaggi di questo tipo, nel modo in cui fa Tondelli, è un punto di svolta importante per la letteratura italiana: significa mostrare strade alternative fondate su un sistema di valori nuovo, inclusivo, anti-normativo.

“La rappresentazione della giovinezza coincide nel romanzo d’esordio con quella di un mondo di emarginati che vivono volutamente oltre i confini della società borghese fondata principalmente sul concetto di omologazione e su valori eteronormativi”. Ha pensato ad una fusione dell’ideale romantico con quello della Beat Generation e della “controcultura”?

Esattamente. Parlo di questa fusione di ideali e immaginari nel primo capitolo del saggio, in particolare in relazione ai due inediti Jungen Werther/Esecuzioni e Appunti per un intervento teatrale sulla condizione giovanile. Questi inediti, databili alla fine degli anni Settanta e quindi precedenti all’esordio di Tondelli, già raccolgono in nuce i nuclei principali del discorso letterario tondelliano. Il primo inedito presenta cinque eroi che scelgono il suicidio come affermazione della propria diversità contro un mondo, quello borghese, che li vuole integrare solo a patto di sottostare a determinati parametri. Nel secondo inedito il rifiuto del “mondo degli integrati” è invece interpretato attraverso l’allontanamento, il viaggio come strumento di formazione alternativa a quella imposta dalla società conformata. I libertini dell’esordio nascono da questo innesto: il romanticismo abbandona il suicidio come unica opzione di resistenza possibile, sfumando nell’epica della Beat Generation.

“La giovinezza è l’immaginario della dissidenza, della difesa delle voci diverse, è l’anti-kitsch-piccolo-borghese, è il linguaggio dell’individuo che si allontana dalla massa. L’opera di Tondelli si sviluppa lungo un percorso che passa dall’impegno collettivo a quello del singolo, dalla generazione del Movimento del ’77 alle voci individuali degli anni Ottanta. Questa esperienza si sviluppa parallelamente a un sistema teorico ben ponderato che nasce dall’esigenza di offrire un’alternativa ai giovani Werther e ai giovani Ortis ai quali solo il suicidio si proponeva come valida azione sovversiva in difesa dell’identità”.

Come ci si salva dal conformismo, dal convenzionalismo, dall’asfissiante rispetto dei codici?

Il linguaggio è la forma che diamo alla realtà. Le parole che scegliamo e poi usiamo, più o meno consapevolmente, sono sempre portatrici del nostro punto di vista sul mondo. Si caricano di un certo sistema di valori. La consapevolezza nell’uso della lingua è certamente un passo importante verso la liberazione dal conformismo, quello che Tondelli chiamava “letterarietà” non certo pensando alla letteratura, ma all’insegnamento della lingua che avviene presso l’istituzione scolastica. Questo è un punto decisivo nell’impegno di Tondelli ed è anche l’aspetto che più lo avvicina a Pasolini: il linguaggio burocratizzato della politica, quello della pubblicità, quello della società di massa allontana le parole dal dettaglio e dall’autenticità. L’invito è quello a ricercare una lingua che sia quanto più possibile autentica, sia essa esuberante come il linguaggio dei libertini o minimale e scarna come in Camere separate.

Giuseppina Capone

 

 

Senza arte né parte. Come evitare l’arte contemporanea e vivere felici

Dalmazio Frau è pittore, illustratore, scrittore e conferenziere. Con lui parliamo di arte e cultura.

Sembra che l’Italia abbia assunto modi e maniere di un irresponsabile anfitrione di numerosi obbrobri offerti come artistici ed urbanistici, abdicando al suo ruolo di Maestra del bello e dimenticando di perseguire il principio dell’Alto. Può indicarci qualche esempio di abiezione?

Gli esempi sono sotto lo sguardo di tutti noi, ogni giorno e in ogni luogo del nostro Paese. È che ci siamo talmente assuefatti a vederli che dopo un po’ non ci facciamo più caso, ma restano sempre obbrobri inaccettabili. Per esempio Roma ne è piena, a cominciare dalle cupole asimmetriche di vetro e metallo innalzate su pregevoli palazzi di via del Corso, per continuare con quel catafalco che è la teca di Richard Meier dell’Ara Pacis, oppure ancora con la rinomata Nuvola di Massimiliano Fuksas, ma ripeto, potremmo andare avanti ad libitum in ogni luogo d’Italia, perché la devastazione voluta e consapevole intervenuta dopo l’ultima guerra, un’anarchia scelta per distruggere tutto ciò che è Bellezza e Armonia, impera ovunque, dal Nord Italia, da Bolzano dove è stato previsto un cubo di cemento che andrà a sostituire l’antica funivia di S. Genesio del 1937 – e che magari poteva essere restaurata e conservata – sino al caldo Sud, massacrato da fila di pale eoliche e da altri incubi postmoderni.

Con un andamento dicotomico lei contrappone Eterno e Contemporaneo: non ravvede possibilità di sincretismo?

Premesso che ritengo l’arte, quella vera, che sia quella micenea o quella delle avanguardie del Novecento, tutta e sempre “contemporanea”; in quanto eternamente vivranno le pale d’altare del XV secolo come i dipinti notturni di Van Gogh. Il problema sorge piuttosto, quando l’arte è soltanto “contemporanea” ovvero, se si preferisce, postmoderna, e allora non è né arte né può essere definita eterna. Di certe “cose” non resterà traccia, fortunatamente.

Guardandosi intorno ritiene fattibile almeno il tentativo di riscattare la scienza e l’arte degli antichi, evitando di cadere in atteggiamenti di generica nostalgia?

Rispetto al passato, dove soprattutto tra Ottocento e primo Novecento, si è cercato di recuperare una tradizione sapienziale nel campo dell’arte, oggi questo avviene in modalità spesso più nascoste, quasi private e in maniera anche più difficile da realizzarsi.
La nostalgia potrebbe anche avere un valore positivo se psicotropa o comunque se fungesse da motore virtuoso per una conservazione attiva del nostro straordinario e unico passato artistico, culturale e – se me lo si consente – anche metafisico; invece troppo spesso assistiamo a deliri che sono dettati da un “nostalgismo” e che dunque ripetono in maniera sterile qualcosa che non è stato compreso. Non può oggi esistere, non creato a tavolino almeno, come vorrebbero alcuni, nessun “Rinascimento” né del resto, ancor meno, ci troviamo in un “nuovo Medio Evo”. Tutto muta, inesorabilmente in una caduta sempre più veloce alla fine di un ciclo e perché esista una vera e propria “rivoluzione” (dunque un ritorno all’origine) deve prima avvenire il crollo definitivo. E ci siamo vicini, forse lo vedranno le generazioni successive alla nostra, ma esso avverrà infallibilmente.

Può commentare l’aforisma di Ernst Jünger: «Il mondo diventa sempre più brutto e si riempie di musei»?

Condivido il pensiero di Jünger, è legato alla mia risposta precedente.
Il mondo peggiora, è nella natura delle cose, e di conseguenza il “brutto” un po’ come il Nulla de La Storia Infinita di Michael Ende, avanza.
Il brutto è Sauron con le sue orde di mostri, il brutto ormai è diffuso ovunque.
Per ciò che riguarda i musei invece il discorso è più complesso: spesso da luoghi di custodia e preservazione, di ricerca e di raccolta, sono diventati veri e propri cimiteri per l’arte, non visitati, negletti, abbandonati a loro stessi soprattutto i più piccoli, quelli che troviamo nella profonda provincia italiana e che a volte nascondono e rivelano, all’avventuroso viaggiatore che li visita, incredibili e stupefacenti sorprese. Dovrebbe essere modificata tutta la struttura legislativa relativa all’apparato museale italiano, ma sappiamo benissimo come è andata in questi anni, perciò godiamocelo così finché dura.

L’educazione e la cultura possono costituire una soluzione ancorché eroica per contrastare la volgarità, il pressapochismo ed aprirsi all’invisibile?

Voglio continuare a crederlo con ogni iota del mio essere. Sono intimamente e profondamente convinto che sia così, a patto che questo sia un vero atto generato da persone capaci, consapevoli e competenti e non da improvvisati millanatatori pieni di loro stessi – ovvero del niente – che ripetono in continuazione sterili e verbose formulette prive di senso ma pregne di arrogante presunzione. Sono per un’azione culturale generata dalle élite intellettuali che hanno la dignitas per fare questo. In senso platonico, dovrebbero essere i dotti e i sapienti ad indicare la direzione, anche e soprattutto nella politica, e non gli o le influencer o, forse ancor peggio, gl’improvvisati filosofi di una tuttologia frutto del pensiero altrui, peraltro mal compreso. L’apertura all’”invisibile” la si ottiene con un altro tipo di percorso, un cammino che si compie da soli, o se insieme a qualcuno, per Amore e nulla più. Un atto “eroico” allora sì, indubbiamente.

Dalmazio Frau è pittore, illustratore, scrittore e conferenziere. Studioso d’Arte, di Miti, Simboli ed Ermetismo nella Tradizione Europea, ha scritto: L’Arte Ermetica. Bosch, Brueghel, Dürer, Van Eyck (Edizioni Arkeios, Roma 2014), Senza arte né parte. Come evitare l’arte contemporanea e vivere felici (Edizioni Simmetria, Roma 2012 e Tabula Fati, Chieti 2020) e L’Arte spiegata a mia cugina. Pensieri sull’Arte nella Tradizione, nella Politica, nel Fantastico, in pieno Kali Yuga (Tabula Fati, Chieti 2015), Crociata contro l’Arte. Trecento anni di guerra contro il Sacro (Idrovolante, 2017), L’Angelo Inquieto. Scienza e magia in Leonardo da Vinci, (Iduna Ed., Milano 2020). Scrive tra gli altri per L’Opinione delle LibertàTotalitàLa Confederazione italianaPangeaIl FoglioLa Biblioteca di Via SenatoCultura e IdentitàIl Giornale OFF e Nazione Futura. Vive a Roma.

Giuseppina Capone

Silvia Celani: Ogni piccola cosa interrotta

Silvia Celani è al suo esordio per Garzanti con “Ogni piccola cosa interrotta”.

 “Sono le nostre imperfezioni a renderci più forti. Sono loro a tracciare la strada delle nostre cose interrotte” Questo sembra essere il senso della sua narrazione. Può esemplificare il concetto racchiuso nel termine “imperfezione”?

L’imperfezione è tutto ciò che non rientra nel canone. Nello schema. È la diversità. La particolarità. In un certo senso, le imperfezioni modellano la nostra identità. Siamo ciò che siamo, grazie alla mappa di nèi che ci contraddistingue. Eppure, spesso l’imperfezione è vissuta con valenza negativa, diminutiva. Mentre scrivevo di Vittoria, speravo proprio di ribaltare questo assioma. Di sfatarlo.

Il percorso della protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

C’è un filo che lega il passato al nostro presente, e che, in qualche modo, definisce anche il futuro che intendiamo costruire. Le esperienze, quelle che ricordiamo, ma anche quelle che sono sbiadite, che ci si presentano interrotte; finché non troviamo il coraggio di fare i conti con tutto questo, è complicato compiere i passi che servono per vivere pienamente le nostre vite. Per capirle fino in fondo. Quindi, sì: credo che con il nostro passato non solo si possano fare i conti, ma in realtà si debbano fare i conti. Un po’ come decide di fare Vittoria, anche se con grandissimo dolore e con enormi difficoltà.

“Ogni piccola cosa interrotta” fa riferimento alle piccole increspature dell’anima. Le crepe possono essere foriere di benefici interiori, quantunque le ferite?

Le crepe sono un passaggio. Come le imperfezioni, spesso vengono appesantite di un valore negativo: ma attraverso una crepa può passare la luce, attraverso una crepa può defluire un dolore. Il passato mischiarsi con il presente, sfociare nel futuro. Una superfice perfettamente liscia è incapace di trattenere. Non produce attrito. Non lascia spazio a nessuna scintilla. Dovremmo imparare a perdonare i nostri difetti. Accoglierli. Vestirli, come si indossa un abito. Miglioraci accettandoli, e accettandoci.

“L’amore che ognuno di noi riceve ha la stessa funzione delle stelle per i navigatori. Ci indica la rotta. Rimane in fondo alle nostre tasche, così, ogni volta che lo desideriamo, ogni volta che ne sentiamo la necessità, possiamo accertarci che sia sempre lì affondandovi una mano.” L’amore s’inabissa ma non scompare?

L’amore è l’unica cosa che dura. Ha un nucleo di metallo pregiato, inscalfibile. Soprattutto l’amore che riceviamo durante la nostra infanzia e durante l’adolescenza. Quell’amore ci definisce. Ci rende ciò che siamo.

È una specie di tesoro sotterraneo.

Amore, condivisione, solidarietà sono solo alcuni dei temi che affronta. Qual è il messaggio etico ultimo che intende veicolare?

Imparare a guardarci allo specchio. Non avere paura di noi stessi. Non avere paura di essere felici, anche se questo significa andare oltre il solcato. Essere diversi. Essere imperfetti.

Giuseppina Capone

Quello che non sono mi assomiglia

Gianluca Giraudo, dopo la laurea in Ingegneria del Cinema e dei Mezzi di Comunicazione a Torino ha frequentato un dottorato in Scienze Sociali a Roma, dove si è appassionato ai temi dell’identità e dei cambiamenti della società. Ora lavora nell’ambito della produzione televisiva.

Fughe intenzionali, amori inammissibili, piccole ossessioni, flirt goffi, mestizie fulminee, inerzia dell’esistenza, desideri latenti, lontananze subìte e cercate, famiglie sguaiate e complesse, ricerca di inediti equilibri e nuove identità. Molteplici e plurimi temi per un romanzo corale. Può motivare la scelta della polifonia?

Iniziando a scrivere ho capito che tra i tratti della mia voce dovevano esserci la sfumatura, la scomposizione dei punti di vista e la restituzione di una storia che fosse la somma di tante storie diverse. Credo che oggi l’identità, tema che ritrovo al centro di “Quello che non sono mi assomiglia” (Autori Riuniti), si presti moltissimo a questo modo di lavorare e intendere le storie.

Dieci capitoli, dieci nomi propri e dieci personaggi. C’è un filo rosso che li attraversa?

Ho una passione e una grande memoria per i nomi. Tendo a conservarli e a cercare corrispondenze, un po’ seriamente un po’ per gioco, tra il “bagaglio” che si portano dietro e le persone cui sono associati. Ritengo che tutti e dieci i personaggi siano coprotagonisti del romanzo, poi certo, c’è Ignacio, che è il protagonista tra i protagonisti. Il suo nome e la sua storia aprono il libro e lo accompagnano in tutti gli snodi.

Lei esplora la provvisorietà dell’Occidente sincronico come Annie Ernaux o Yasmina Reza: sagacia solo a prima vista distratta e breve intuizioni. Qual è la cifra caratteristica della sua narrazione?

Sono lusingato, e un po’ intimorito, da questi accostamenti. Ernaux e Reza rappresentano due autrici cruciali per le mie letture e la mia ispirazione. Apprezzo il modo che hanno di esplorare i processi laterali, più nascosti, che accompagnano le vite di ognuno, senza la vergogna di tirare fuori anche il marcio o l’indicibile. La loro scrittura giova di questo coraggio, risultando di un’eleganza irraggiungibile. Muovere anche solo un passo in questa direzione è per me fonte di motivazione e spinta a lavorare sodo.

“Grazie al mio lavoro so bene che di una persona non vediamo mai la persona, ma solo una rappresentazione.”. Quale idea intende veicolare della verità e della sua discutibile univocità?

Come accennavo sopra, per la mia idea di narrativa ritengo fondamentale la scomposizione dei punti di vista, la credenza che non esista una verità, ma solo tante versioni dei fatti. In “Quello che non sono mi assomiglia” ogni personaggio non solo aggiunge un pezzo di sé al romanzo, ma cambia anche le carte in tavola rispetto alle dichiarazioni dei personaggi che lo hanno preceduto. E al lettore non resta che questo: la sfida di tracciare una sua personale strada tra le storie o, meglio ancora, trovare la forza di accoglierle tutte, senza necessariamente trovare una sola “verità”.

I numeri a piè di pagina disposti al contrario: per quale ragione?

Si tratta di una cifra stilistica della casa editrice Autori Riuniti, che si ritrova in tutti i suoi bei libri. Devo dire che questa peculiarità si è adattata bene al mio piccolo “giallo”.

Giuseppina Capone

Lorenzo Sartori e “La Sindrome di Proust”

Lorenzo Sartori, giornalista, vive tra Crema e Milano. Dal 2000 è editore e direttore responsabile della rivista Dadi&Piombo, la prima testata italiana che si occupa di wargames e ricostruzioni storiche in miniatura. E’ autore de La sindrome di Proust (Plesio Editore/Lambda House, 2020, romanzo, thriller futuristico).

 “Madeleine de Proust” è una locuzione che può designare una parte della vita quotidiana, un oggetto, un gesto, un colore e in particolare un sapore o un profumo, che evocano in noi ricordi del passato, come una madeleine al narratore de “Alla ricerca del tempo perduto”. Quanto il titolo del suo scritto evoca la cosiddetta “memoria olfattiva”?

La Sindrome di Proust è un thriller incentrato sul tema della memoria e dell’identità di un individuo. È ambientato in un futuro in cui la cosa più preziosa che abbiamo, i ricordi, rischiano di non appartenerci più, di diventare qualcosa di prezioso anche per gli altri, qualcosa per cui possa valere la pena uccidere. Il titolo è un esplicito riferimento alla memoria olfattiva perché solo gli odori sono capaci di svegliare in noi i ricordi con quella prepotenza che in un thriller può rivelarsi decisiva. L’olfatto è in grado di aprirci all’improvviso una porta sul passato e l’esperienza può essere piuttosto forte e completa.

Il percorso del protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

Non credo si possano mai chiudere i conti con il passato. Forse si possono sospendere. I ricordi sono la nostra identità e il tema dell’identità a me è molto caro. Siamo quello che siamo proprio perché ricordiamo. Il presente, o meglio, la nostra percezione del presente dipende in modo imprescindibile da ciò che è stato il nostro passato. O ciò che ricordiamo che sia stato.

Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller . Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?

Credo che La Sindrome di Proust sia un thriller sui generis, almeno per il panorama italiano, dove spesso thriller e gialli sono la stessa cosa, cambia solo l’etichetta e dove troppo spesso la figura del serial killer sembra essere l’unica in grado di caratterizzare il genere, impersonificando il male assoluto e al tempo stesso ricoprendo il ruolo di un degno antagonista. Per me il thriller è prima di tutto tensione e colpi di scena. Ci sono autori che sono in grado di costruire tutto ciò con pochi ingredienti e soprattutto con poco sangue. Credo che un buon thriller debba lavorare soprattutto sulle immagini e sulla capacità di suscitare emozioni buttandoci dentro il lettore. In campo cinematografico penso a Hitchcock, alla sua abilità nel rendere iconica e al tempo stesso tensiva una semplice sequenza.

La Sindrome di Proust non è un thriller investigativo in senso stretto, il protagonista non è un poliziotto o un investigatore o un giornalista, uno abituato appunto a indagare, magari tormentato da un trauma del passato. Alec Raines è un giovanotto di 27 anni che ama il suo lavoro, un possibile lavoro del futuro, quello del “correttore di ricordi”, che gli permette di avere accesso alle vite degli altri. Un lavoro che solleva questioni etiche che lo stesso protagonista inizia a porsi. Un lavoro che lo condurrà dentro a un qualcosa di più grande di lui prima che se ne possa accorgere. Questo è un romanzo dove il confine tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che sbagliato, non è così netto.

“Di fatto si sapeva che i pensieri e i ricordi sono il risultato di un mutamento del nostro DNA. Se annusiamo o tocchiamo un oggetto il nostro cervello memorizza le informazioni ricevute e lo fa modificando un certo numero di neuroni in modo da fornirci una memoria di quell’oggetto. E i neuroni contengono DNA. E’ su questo che si basa poi la digitalizzazione dei ricordi.” In cosa consistono il download e l’upload dei ricordi?

La digitalizzazione e quindi lo scarico e la conservazione dei ricordi è qualcosa di ancora lontano, ma non quanto si potrebbe pensare. Il DNA, e i nostri neuroni contengono DNA, può contenere dati digitalizzati e pure tanti. Lo stato dell’arte è che in un solo grammo di DNA (sintetico, realizzato il laboratorio, ma tecnicamente potrebbe essere anche quello umano o animale) si possono archiviare fino a 700 tera byte di dati digitali, ovvero 700mila giga. Non solo, questi dati possono durare per migliaia di anni. Nessun hard disk si avvicina neanche lontanamente a questo potenziale. Il “ponte” tra dati digitali e essere viventi è stato gettato, con quali prospettive future, beh, è forse il caso che iniziamo a pensarci.

L’inviolabilità della memoria suscita riflessioni di natura etica?

Direi proprio di sì. I ricordi sono la sfera più intima della nostra identità, violata quella sfera possiamo solo andare incontro agli scenari immaginati da Orwell in 1984, dove la psicopolizia ti può leggere nel pensiero e il libero arbitrio cessa di avere qualsiasi importanza. Già adesso l’intelligenza artificiale sta condizionando le nostre scelte e le nostre vite: ogni volta che facciamo una ricerca su Google in qualche modo diamo informazioni preziose sui nostri interessi e desideri. Ormai da anni lasciamo ovunque tracce digitali della nostra vita (viaggi, acquisti, visite mediche e ricoveri…) e anche questi sono ricordi di cui facilmente perdiamo il controllo e di cui qualcuno potrebbe approfittare.

 

Lorenzo Sartori è anche autore di diversi giochi di simulazione, storici e fantascientifici, alcuni dei quali tradotti in diverse lingue e apprezzati in tutto il mondo. Si occupa anche di organizzazione di eventi sia di carattere ludico che letterario. È direttore artistico del f estival letterario Inchiostro (www.festivalinchiostro.it) e della rassegna DeGenere (http://degenere-storie.blogspot.com). In ambito letterario ha pubblicato le seguenti opere: Home Run (Sad Dog Project 2015, racconto lungo, fantascienza); Sonata per violino (Sad Dog Project 2016, racconto lungo, noir paranormale); Michael Farner (Nativi Digitali Edizioni, 2016, romanzo breve, noir surreale);L’ombra del primo re (Gainsworth Publishing, 2017, romanzo, fantasy);Alieni a Crema (Plesio Editore, 2018, romanzo, fantascienza).

 Giuseppina Capone

Archeologia e animali. La narrazione degli autori antichi

Michele Di Gerio, laureato in Medicina Veterinaria ed in Conservazione dei Beni Culturali -indirizzo Archeologico, area Classica, ha effettuato presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” ricerche su reperti ossei di specie animali da reddito rinvenuti negli scavi di Pompei. Ha condotto studi sugli strumenti chirurgici ritrovati negli scavi di Ercolano e Pompei. Nell’ambito delle ricerche riguardanti la figura del medico romano ha effettuato studi sulla pittura ‘Enea ferito’, rinvenuta negli scavi di Pompei. Col Dipartimento di Archeologia dell’Università di Colonia ha condotto ricerche su reperti ossei di specie animali e resti di molluschi del II-III secolo d.C. rinvenuti nelle ‘Terme romane’ di Baia. Presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” sta conducendo indagini su reperti ossei e dentali di cane rinvenuti negli scavi di Pompei. Le sue ricerche sono state pubblicate da Rivista di Studi Pompeiani e KuBA, rivista scientifica dei Dipartimenti di Archeologia delle Università di Colonia e Bonn. Tiene lezioni di Archeozoologia presso il Dipartimento di Medicina Veterinaria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Ha pubblicato tre saggi: La pesca nel Mediterraneo antico. I popoli, le specie acquatiche e l’economia (Guida Editori) nel 2016, Il cane nell’arte pompeiana (Valtrend Editore) nel 2017 e Archeologia e animali. La narrazione degli autori antichi (Guida Editori) nel 2019.

Le fonti che adopera sono le opere di autori di lingua greca e latina. Può indicarci la metodologia che ha adottato per orientarsi in un ambito tanto arduo ancorché insolito come il coniugare l’archeologia ed il mondo animale?

Poiché gli animali sono presenti in pitture, mosaici, bassorilievi e statue, è necessario, in un moderno contesto di ricerca archeologica, un loro studio approfondito che oltre a fornire dati anatomici, fisiologici, patologici e zootecnici, possa anche dare informazioni sul ruolo occupato nell’antichità in ambito sociale, economico e religioso. Per utilizzare le fonti classiche è stata necessaria da parte mia una buona conoscenza del contenuto delle opere di lingua greca e latina dove è presente la figura animale in ogni suo aspetto. Per il mio libro, Archeologia e animali. La narrazione degli autori antichi, ho consultato ventidue opere in lingua greca e ventisei in lingua latina. In alcune di esse le specie animali sono trattate ampiamente, ad esempio La caccia di Senofonte si occupa del cane da caccia con una serie di informazioni riguardanti l’addestramento, l’allevamento, l’alimentazione e l’accoppiamento mentre la Storia Naturale di Plinio il Vecchio, descrive molte specie animali, suddividendole in ‘terrestri’ e ‘acquatiche’, ed evidenziando gli aspetti biologici, economici e sociali, infine La natura degli animali, di Claudio Eliano è dedicata a tantissime specie, selvatiche e domestiche, la cui esposizione è simile a quella pliniana. Potrei citare altre opere dove l’animale è ampiamente trattato. Invece, in altre produzioni letterarie gli autori dedicano poco spazio agli animali anche se le informazioni fornite sono preziose. Per esempio, vorrei ricordare Le Metamorfosi di Apuleio dove è descritto l’asino utilizzato come forza-lavoro per azionare le macine del grano.

L’allevamento è una pratica intrapresa nel Neolitico. Quanto è stata determinante per il cambiamento della storia dell’uomo e, nella fattispecie, per le popolazioni affacciantesi sul Mediterraneo?

Prima dell’allevamento ci fu la domesticazione degli animali. I popoli primitivi giunsero alla domesticazione delle prime specie animali dopo moltissimo tempo perché il passaggio dalla pura e semplice cattura, espressa con la caccia, sino alla definitiva domesticazione, fu lenta e graduale. Con la domesticazione, l’animale abbandonò forzatamente le abitudini tipiche dello stato selvatico, integrando il proprio comportamento con quello dell’uomo. Fra le migliaia di specie di mammiferi esistenti, soltanto ben poche sono cadute sotto il dominio dell’uomo. Con la domesticazione l’animale fu allevato e utilizzato per la produzione di generi alimentari, utensili e come forza-lavoro nel settore agricolo. L’addomesticazione degli animali e il loro allevamento, insieme alla mietitura del grano selvatico e poi alla sua coltivazione, ebbero conseguenze sociali, come è facilmente immaginabile, di portata vastissima non soltanto sulle popolazioni del Mediterraneo antico ma anche nelle aree dell’entroterra orientale. Aumentando la quantità di cibo disponibile e legando contemporaneamente le comunità alle zone di produzione dello stesso cibo si registrò un costante incremento della popolazione. Questo processo, che segna il passaggio dal Mesolitico al Neolitico, fu definito ‘Rivoluzione Neolitica’ dal paletnologo inglese Vere Gordon Childe il cui segno più appariscente è la nascita del ‘villaggio’. Il carattere ‘rivoluzionario’ del passaggio è caratterizzato da una relativa rapidità e da un completo capovolgimento (si passa dal procacciamento alla produzione), con conseguenze culturali e demografiche enormi.

Può esemplificare il rapporto tra uomo ed animali domestici, ad esempio con gli animali d’affezione?

Con gli animali domestici da reddito l’uomo, sin dall’antichità, ha instaurato un rapporto soltanto per fini economici, che si è protratto senza alcun mutamento, sino in epoca moderna. Del bovino domestico utilizza il latte e le carni; del maiale, le carni e le setole, delle pecore, il latte e il vello; delle capre, il latte e le carni. Il cane e il gatto, invece, sono animali domestici d’affezione che dopo migliaia di anni, in modo diverso fra loro, si sono integrati nel nucleo familiare. Il gatto è presente nelle abitazioni ma continua ad assumere, rispetto al cane, un atteggiamento indipendente e austero. Il cane, invece, è completamente dipendente dall’uomo. Come in epoca antica continua ad assolvere compiti ben specifici: per la caccia, la compagnia e in alcune aree rurali è ancora impiegato per la guardia alla casa o delle pecore al pascolo. Vorrei ricordare che il particolare collare di epoca romana detto melium da Varrone, costituito da una striscia di cuoio dove erano posti dei chiodi protesi con la punta verso l’esterno, per proteggere il collo dei cani a guardia delle greggi di pecore dai morsi famelici dei lupi, è stato utilizzato, con la stessa funzione, sino a poco tempo fa dai pastori appenninici.

In qual misura gli animali hanno costituito nell’antichità classica una fonte di reddito?

In misura rilevante perché il settore zootecnico, insieme a quello agricolo, costituiva una notevole fonte di reddito. Riferito ai primi secoli della storia di Roma l’allevamento animale era largamente praticato da piccoli allevatori, con poche decine di animali, solitamente di una stessa specie. Dal 202 a.C., anno della disfatta annibalica, si assiste alla trasformazione delle fattorie di epoca medio-repubblicana in villae grazie al flusso di nuovi capitali e a un elevato di numero di schiavi impiegati come forza-lavoro. Nella villa, che occupa una certa centralità nell’economia romana, diviene fiorente non soltanto l’attività agricola ma anche l’allevamento animale. In tale struttura vengono allevate molte centinaia di animali da reddito di diversa specie. Imperatori, personaggi della politica o anche diversi letterati, tra questi Orazio, erano proprietari di villae che garantivano ricchezza. Ma anche nei piccoli centri o nelle aree periferiche dell’impero, i politici e i personaggi dell’aristocrazia locale erano proprietari di villae. Catone il Censore, Varrone e Columella nelle loro opere descrivono, oltre al settore agricolo, anche l’allevamento animale con interessanti informazioni zootecniche e medico veterinarie ampiamente utilizzate da me e da altri studiosi nel corso delle nostre ricerche.

I popoli antichi hanno attribuito un valore sacro agli animali, reputandoli imperscrutabili e divini. Ci offrirebbe qualche scenario curioso?

Mi sembra curioso, ma di importanza sociale, un fatto riguardante la sacralità del gatto nell’antico Egitto. Erodoto fu il primo autore ad interessarsi in modo approfondito al culto del gatto ed alla dea Bastet. Secondo la narrazione dello storiografo chiunque uccideva volontariamente un gatto veniva messo a morte, se invece, involontariamente pagava una multa imposta dai sacerdoti. Diodoro Siculo conferma e rafforza l’informazione di Erodoto. Infatti, dall’autore sappiamo che chiunque avesse ucciso involontariamente o volontariamente, un gatto o un ibis, era condannato a morte. Egli fu testimone di un singolare evento. Un membro della delegazione romana in visita in Egitto uccise accidentalmente un gatto, e secondo le leggi vigenti non fu possibile alcun sconto della pena capitale neanche se l’avesse voluto il re in persona. Ma spesso era il popolo ad uccidere il colpevole senza aspettare alcuna sentenza. La folla accorse presso la casa del membro della delegazione romana per ucciderlo ma i magistrati, mandati dal re, ebbero il potere di sottrarre l’uomo alla terribile punizione popolare. Egli, comunque, non fu ucciso neanche successivamente.

Giuseppina Capone

Lunga è la notte

Marinette Pendola fa parte del gruppo di lavoro “Progetto della memoria”, istituito dall’ambasciata italiana a Tunisi negli anni Novanta, cui sono legate numerose pubblicazioni, tra cui “L’alimentazione degli italiani di Tunisia” (Tunisi, Finzi, 2005), “Gli Italiani di Tunisia. Storia di una comunità” (Editoriale Umbra, 2007). I suoi studi hanno ispirato anche “La riva lontana” (Sellerio, 2000), romanzo autobiografico che ripercorre un’infanzia tunisina nel periodo coloniale. Per Arkadia Editore ha pubblicato “La traversata del deserto” (2014), che rievoca il ritorno degli emigrati dalla Tunisia all’Italia, e “L’erba di vento” (2016), storia potente di una donna che non si sottomette alla convenzioni del suo tempo.

La Tunisia rimane elemento focale delle sue ricerche e della sua narrazione, un punto di vista interessante, giacché lei è nata da genitori siciliani. Quali caratteristiche assume questa sorta di migrazione alla rovescia dal punto di vista della “mescolanza” e dell’integrazione?

Sono nata da genitori di origine siciliana a loro volta nati in Tunisia. Appartengo alla terza generazione nata in Tunisia. Perciò il paese nordafricano non è solo il mio paese di nascita ma quello in cui la mia famiglia si è profondamente radicata. E dover lasciare quella che consideravamo la nostra terra ha rappresentato un trauma notevole, uno sradicamento da cui molti non si sono mai ripresi. Poiché la mia infanzia e parte dell’adolescenza sono trascorse là, sono impregnata dalla cultura locale, in primis la capacità di convivere con culture diverse, l’accettazione dell’altro, la tolleranza. Difficile è stato inserirsi, per l’ignoranza della lingua, dei costumi locali, per la diffidenza nei nostri confronti. Tuttavia, negli italiani degli anni Sessanta del Novecento, periodo del nostro arrivo, la curiosità ha sempre prevalso sul rifiuto. Il che non mi pare che avvenga adesso. Ecco perché l’Italia di oggi, in cui emergono razzismi e sguaiatezze, non mi appartiene: non la riconosco, non la so capire.

Lei affonda la penna in una comunità stigmatizzata, portatrice di stereotipi e clichè. Le granitiche convinzioni possono scricchiolare?

L’ambiente che ho conosciuto nella prima infanzia era coloniale, socialmente ben strutturato. In alto stavano i colonizzatori, in altre parole i francesi, in basso i colonizzati, cioè i tunisini. In mezzo c’erano gli italiani, né colonizzatori né colonizzati, semplicemente emigrati in un momento storico in cui i francesi avevano bisogno di molta manodopera per costruire tutte quelle infrastrutture di cui il paese aveva necessità, e l’Italia aveva un eccesso di manodopera a cui non era in grado di dare lavoro. E gli italiani erano trattati da migranti, erano oggetto di stereotipi e cliché esattamente come lo sono oggi coloro che arrivano nel nostro paese. Nel mio romanzo “Lunga è la notte”, appare un piccolo campionario di questi stereotipi. Con il tempo e la conoscenza dell’altro, questi cliché possono essere scalfiti. Io faccio la mia parte. So perfettamente che è solo una goccia d’acqua in un oceano. Ma sono ottimista, gutta cavat lapidem.

Il suo romanzo narra di un femminicidio. Quanto ha attinto dalla cosiddetta cronaca nera?

Non ho attinto dalla cronaca nera. Questa storia, realmente accaduta, mi è stata raccontata da un testimone oculare. La vicenda risale agli inizi degli anni Trenta. Ho volutamente creato tutti i personaggi (nessuno di loro, ad eccezione del prete, è realmente esistito) poiché la vicenda è ancora viva nella memoria dei discendenti. Del resto l’ho chiarito nella Premessa.

Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del noir. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?

È vero, il mio romanzo è farcito degli ingredienti tipici del noir. Ma non lo è. L’obiettivo di tutto il romanzo non è trovare il colpevole, ma ritrovare la memoria, mettere il protagonista di fronte al trauma rimosso e permettergli (forse) di uscire dalla gabbia in cui volutamente si è chiuso. La domanda che mi sono posta sin dall’inizio della stesura è stata: cosa succede alle vittime, a coloro che sopravvivono a una tragedia simile? L’obiettivo del romanzo è stato cercare di dare una risposta.

Il percorso del protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?

La memoria di Mimmo, il protagonista, è “involontaria”, come direbbe Proust. Sono attimi del suo passato che riemergono all’improvviso sconvolgendo il presente, ma non portano mai a una epifania. La sua è una vita senza memoria, dunque senza qualità. Il passato nutre il presente, esattamente come l’albero che ha bisogno di radici profonde per nutrire la chioma. Più profonde sono le sue radici, più avrà la possibilità di trovare acqua e nutrienti, tanto più folta e vitale sarà la sua chioma. La memoria è fondamentale nella mia produzione. Lavorare ancorata a questo tema mi ha permesso innanzitutto di rivelarmi a me stessa, di prendere coscienza della mia identità e comporne armoniosamente i tasselli in modo da formare un mosaico unico. Il mio obiettivo però non è quello di lasciare una testimonianza di me (che forse potrebbe interessare i miei nipoti e nessun altro), quanto di fare emergere un’intera comunità dimenticata dalla storia, e dare voce a chi non l’ha, non l’ha mai avuta poiché appartiene alla fascia più umile di quella collettività. In fin dei conti mi piacerebbe che questa mia testimonianza contribuisse alla costruzione di una storia alternativa, che includesse tutte quelle Italie fuori dall’Italia. Non so, di fatto, se il mio lavoro sarà utile in questo senso. So per certo che lo è per tutti coloro che hanno vissuto la mia stessa esperienza poiché ha permesso loro di prendere coscienza della propria identità individuale, ma anche e soprattutto di sentirsi in qualche modo riconosciuti sul piano sociale e culturale.

Giuseppina Capone

La figlia di Shakespeare

Paola Musa, lei costruisce una storia superlativa intorno alla superbia. Può fornircene una definizione contemporanea?

La superbia fa parte dei sette vizi capitali della dottrina morale cattolica, ed è considerato dalla stessa uno dei massimi peccati, giacché espressione della disobbedienza di Lucifero a Dio. Come sostiene sant’Agostino, «il diavolo non è lussurioso né ubriacone: è invece superbo e invidioso». Volendo dare una definizione contemporanea, direi che il superbo è un individuo che idealizza l’immagine di sé che vuole offrire agli altri, è alla continua ricerca di riconoscimento, si rifiuta di di accettare se stesso per come è realmente e quindi di elaborare una trasformazione interiore.

Quali altri peccati e i vizi individua nella società moderna?

Credo si possano trovare tutti, anche se in misura e frequenza differenti. Nel mio lavoro di indagine dei sette vizi capitali, sono partita dall’accidia. Sebbene sia un termine oggi poco usato, conosciamo tutti abbastanza bene l’inerzia, l’indolenza, la depressione. Nell’era tecnologica ci illudiamo spesso di essere protagonisti ma siamo in realtà meri fruitori di strumenti che spesso annichiliscono la nostra autentica volontà. Senz’altro anche la Superbia è molto diffusa. E l’invidia.

Un vecchio attore ed un collega della sua compagnia teatrale giovanile che ne pone in dubbio merito artistico e morale. Il gap generazionale attuale possiede caratteristiche peculiari?

Nel mio romanzo “La figlia di Shakespeare” (Arkadia editore) il protagonista (Alfredo Destrè) incarna la superbia nel contesto dell’ambiente teatrale. Trovavo interessante descrivere una persona che nel profondo teme la mediocrità e respinge con forza il suo passato e per tutta la vita altro non desidera che essere riconosciuto come grande attore Shakespeariano. Eppure , dalle sue opere sembra che Alfredo non abbia appreso niente, o quasi. Il suo vecchio collega, non a caso da sempre interprete del fool, ha la funzione di ribaltare tutto, di smascherarlo. Il romanzo comunque affronta anche altre tematiche, come ad esempio il conflitto generazionale. E’ mia opinione che spesso gli anziani che hanno già ottenuto riconoscimenti e successo, non lascino spazio ai più giovani. Tendono ad essere conservatori, nel senso letterale e ed egoistico di voler conservare tutto il loro potere.

Il protagonista del suo romanzo accetta di risollevare le sorti del più importante teatro della città, riscuotendo successo di critica e di pubblico. La sua è una riflessione relativa alla dilagante e spavalda decadenza culturale?

Nel romanzo affronto anche il problema di un’epoca incapace spesso di produrre arte di alto livello. Perché il settore della cultura è costretta troppo spesso a fare compromessi al ribasso, è alla continua e ossessiva di ricerca di consenso, di gradimento da parte dei media. Svilisce così il proprio potenziale, rinuncia al lungo e tortuoso percorso della grandezza per un risultato immediato, oppure sfrutta e strumentalizza ciò che è già conosciuto e facilmente riconoscibile, fagocitandolo.

Lei non fa sconti ai suoi personaggi: li penetra con una lama tagliente. Intende veicolare messaggi etici o morali?

Sì, è vero: cerco di scandagliare ogni aspetto della loro psicologia, ma in questo caso si tratta anche una necessità narrativa, perché prendendo come spunto un vizio capitale, il racconto ha la dimensione di una metafora delle varie debolezze umane. Tuttavia non mi pongo mai in una posizione di giudizio. In parte il messaggio etico è invece intrinseco all’argomento che tratto.

 

Paola Musa è una scrittrice, traduttrice, poetessa, vive a Roma. Ha ottenuto diversi riconoscimenti in ambito poetico. Collabora da anni con numerosi musicisti come paroliere. Ha firmato diverse canzoni per Nicky Nicolai insieme a Stefano Di Battista e Dario Rosciglione. Per il teatro ha composto le liriche per la commedia musicale Datemi tre caravelle (interpretata da Alessandro Preziosi, con musiche di Stefano Di Battista) e La dodicesima notte di William Shakespeare (per la regia di Armando Pugliese, sulla musica di Ludovico Einaudi). Ha scritto con Tiziana Sensi la versione teatrale del suo romanzo Condominio occidentale, portato in scena da attori vedenti e ipovedenti in importanti teatri romani, e al Festival internazionale Babel Fast di Targoviste (Romania). Lo spettacolo ha ottenuto la medaglia dal Presidente della Repubblica e la menzione speciale per il teatro al “Premio Anima”. Nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo, Condominio occidentale (Salerno Editrice), selezionato al Festival du Premier Roman de Chambéry e al “Premio Primo Romanzo Città di Cuneo”. Condominio occidentale è diventato un tv movie per Rai 1 con il titolo Una casa nel cuore e con protagonista Cristiana Capotondi (2015). Nel giugno 2009 è uscito il romanzo Il terzo corpo dell’amore (Salerno Editrice) e nel marzo 2012 la sua prima raccolta di poesie Ore venti e trenta (Albeggi edizioni). Con Arkadia ha pubblicato nel 2014 il romanzo Quelli che restano e nel 2016 Go Max Go, biografia romanzata del sassofonista Massimo Urbani. Del febbraio 2019 è il suo romanzo, L’ora meridiana.

 

Giuseppina Capone

Polvere e cashmere

Vincenzo Orefice è un poeta che pensa che la poesia sia un dono.

Lei ha solo vent’anni, è un giovanissimo poeta. Si racconti; ci spieghi la ragione per cui ha scelto proprio la Poesia come codice comunicativo.

La scelta della Poesia mi piace pensarla come una scelta inevitabile. La trovo un mezzo ottimo per poter comunicare sia l’essenzialità delle cose che la propria sostanzialità, senza essere prolissi e soprattutto, per quello che concerne la mia persona, centrando il messaggio. Trovo che l’espressione metaforica, la ritmica, siano per me più espliciti di molti discorsi che ho costruito, ad esempio, con l’utilizzo della Prosa.

Lei sembra accogliere l’idea della Poesia come un dono da ricevere inaspettatamente, già presente nel Poeta. Ritiene che la Poesia non sia ricerca?

Credo assolutamente che la Poesia sia soprattutto ricerca, io stesso senza l’analisi linguistica, o anche semplicemente l’assimilazione dei vari input che mi vengono forniti dai miei studi e dalle mie letture personali, forse non scriverei niente perché non avrei le parole per esporre quello che sento e vedo. Allo stesso tempo però penso che la Poesia abbia un suo fondamento nella predisposizione. Non si nasce poeti ma si può avere un’inclinazione verso la Poesia, come chi ha una vocazione per la Musica, la Danza o l’Arte figurativa: come queste hanno bisogno di una proclività verso di esse, affinché anche il loro studio e perfezionamento possa essere sostenuto, lo stesso vale per la Scrittura.

I suoi versi, soventemente, suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, se non si sceglie d’amare né d’essere amati, in che misura si sceglie di comporre versi?

REPORT Tengo a precisare che all’interno della raccolta ho voluto parlare di una specifica storia d’amore, quella che per me è stata la più feroce e che ha creato un grande solco nella mia crescita soprattutto nei suoi termini negativi oltre che positivi, consequenzialmente gli scritti hanno di base un forte sentimento di terrore, misto ad un senso d’inadeguatezza nei confronti del sentimento. Parlando invece della mia idea d’amore in generale, la quale mi spinge a comporre, posso assolutamente affermare che non rifuggo dall’amare o dall’essere amato. Allo stesso tempo però vivo l’amore come una sorta di “malattia”, per intenderla come Saffo o Cavalcanti, e tutto questo è dato da un retroscena educativo molto religioso che ha instillato in me l’idea che “amare” abbia a che fare con la devozione e la celebrazione, anche del dolore, e quindi con tutto ciò che permette di comunicarlo.

Lei pare affrancare il linguaggio dalla necessità di riprodurre il reale e dall’obbligo di evocare, ritenuti vessilli di virtù poetica. Esemplifichi il suo rapporto con il verso e le maglie della texture che lo tessono.

Credo che ciò che può essere definito “reale” sia costituito dall’insieme di tutte le soggettività esistenti, le quali raccontano, ognuna di loro, una parte di esso, anche a rischio di contraddizioni. Il mio scopo è quello di comunicare ciò che della realtà io percepisco, utilizzando ovviamente le mie visioni, spesso surrealiste, altre simboliste, mescolando la quotidianità con la dimensione fantastica, proprio perché questo è il modo in cui personalmente elaboro quello che mi circonda.

Leggendo, ad esempio “Dimanche, après-midi”, pare che il suo proposito sia dare un calcio al tedio delle convenzioni, saltellando tra denotativo e connotativo. Lei parodizza il nesso linguaggio-verità a quale intento?

Questo è assolutamente vero, mi piace molto giocare con i vari significati che le parole possono assumere e con le numerose immagini che poi si vengono a formare. Vivo di molti simboli che nella forma lirica mescolo fra loro, spaziando fra diversi ordini di possibili verità e realtà sovrapposte. Infatti questo è molto evidente nel testo da lei menzionato in cui mi sono molto destreggiato fra i simboli offerti della mia realtà onirica.

 

Vincenzo Orefice è uno studente di Filosofia presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna. Parallelamente alla scrittura, si dedica all’attività di modello, partecipando a diversi progetti fotografici indipendenti e posando per mostre di artisti emergenti. Molti dei suoi scritti appaiono nelle riviste napoletane Libero Pensiero e Kairos, nuove arrivate all’interno dei circoli culturali della città partenopea.

 

Giuseppina Capone

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