Le tue parole erano un panneggio di stelle/Galassie di mondi segreti e sommersi

La  silloge di  Donato Di Poce  racchiude meditazione e raccoglimento interiore, unione panica con la natura, disuguaglianza e sperequazione sociale nonché rilievo del poeta nel mondo coevo. Paiono tematiche prive di un fil rouge.

E’ possibile, invece, scorgere una traccia che le inanelli?

Io cerco da sempre la trama del silenzio e dell’ascolto dell’altro da sé e dell’equilibrio cosmico e di una humanitas sociale e poetica, di universi mondi (vedi poesia dedicata a Giordano Bruno) e Onde gravitazionali (dedicata ad Einstein cha dà il titolo all’intera raccolta), una traccia di parole alla ricerca della parola primaria e generatrice di senso e di sensi.

Lei consacra innumerevoli acrostici civili e sociali La ai derelitti, a chi è ai margini, vessato ed oppresso; evidenziando e sottolineando come sia esiziale una ripartenza dallo spirito di solidarietà, da un afflato comunitario. “Forse la poesia è un vento d’umanità/Che accarezza l’Anima del mondo”. Ritiene che la Poesia possa costituire un vettore di buone prassi?

Grazie per la citazione, La poesia è certamente una buona prassi umanitaria ed estetica è l’esempio del valore etico, stilistico e formale dei rapporti umani. Una praxis di conoscenza, di libertà e di empatia con le piccole cose del mondo che nessuno vede, con le cose invisibili che attraversiamo e ci attraversano ogni giorno.

Quali sono le ragioni profonde che l’hanno indotta e spinta ad istituire un parallelismo tra le onde gravitazionali e le voci che producono una poesia?

Forse lo scarto minimale e invisibile tra noi e la percezione del mondo, la correlazione tra le nostre azioni e parole e il cambiamento impercettibile che producono nella realtà e nello spazio/tempo. Le onde gravitazionali sono come piccole increspature del tessuto dello spazio-tempo che permea tutto l’universo. Secondo Einstein la gravità stessa è dovuta alla curvatura dello spazio-tempo causata dalla massa. Le onde gravitazionali sono prodotte dal movimento di corpi dotati di massa nello spazio-tempo. Nel 2016 a distanza di un secolo dalla teoria di Einstein, la fisica ha confermato che le onde gravitazionali esistono davvero e che la teoria di Einstein era giusta. I due buchi neri osservati, prima di fondersi hanno percorso una traiettoria a spirale per poi scontrarsi a una velocità di circa 150 mila chilometri al secondo, la metà della velocità della luce. Il fenomeno è stato accompagnato della fusione di un sistema binario di buchi neri. Non è forse vero che le sillabe assomigliano a un sistema binario di senso? E non è forse vero che la parola una volta rivelata, scoperta e messa in circolo nel sistema testo poetico, determina una variazione nel sistema poetico e culturale? Non è forse vero che la poesia è un sistema talmente complesso e potente da resistere e sopravvivere persino all’uomo stesso che le ha generate, create, scoperte?

La sua parola è minimale, quasi sussurrata. Quali emozioni intende risvegliare nel lettore?

“Amiamo le parole perché prima erano silenzi”, in un mondo che pensa solo all’immagine e ad apparire , che grida soltanto, il poeta è colui che tace più a lungo. La mia poesia nasce dal silenzio e dall’ascolto e vuole sussurrare e accarezzare una riflessione, una visione, un’immagine. Dopo anni in cui scrivevo poemetti, Alda Merini mi fece capire che in ogni mia terzina o quartina, c’era un mondo chiuso e risolto in sé. Mi invitò a scrivere aforismi ritenendo che io avessi il dono della sintesi tra poesia, ironia e filosofia. Nacquero così i miei “Poesismi”.  Ad oggi ben sette libri di poesismi.

Lei è un poeta, un critico d’arte, uno scrittore, un fotografo. Reputa che l’arte possa essere, come di fatto è, terapia dei mali dell’anima?

Certamente l’Arte e la poesia prima ancora che essere un veicolo di idee, emozioni estetiche e stilistiche è un’autoterapia interiore, un modo per prendere coscienza della propria interiorità, dei propri bisogni più intimi e creativi. L’uomo senza la sua creatività è solo un gregge consumistico, una macchina di like e di consensi sterile, un automa senza idee e senza pensiero. L’intera terza parte del libro: “Ulisse il cavaliere azzurro”, è dedicata all’amico poeta prematuramente scomparso Ulisse Casartelli, ed è una sorta di riflessione e dialogo a due sulla poesia, sulla vita e sul dolore del mondo.

 

Una stanza vuota

                         Per Ulisse Casartelli

Una stanza vuota racconta

La discesa agli inferi

E l’attraversamento del dolore.

Una stanza vuota racconta

Il ritrovamento di se stessi

E attraversamento della leggerezza

L’inchiostro d’amore e di parole

Attraversate dal silenzio.

Una stanza vuota racconta

L’ascolto e la solitudine

Il desiderio e il viaggio nell’altro e nell’oltre

La coscienza di un poeta

Che sfidò il nulla e vinse

Che accarezzò l’erba e conobbe il respiro

E un giorno abbracciò il mondo

E scoprì d’avere le braccia troppo piccole

Ma il suo cuore era diventato un nido di solitudini

Una pista d’azzurro per volare libero nell’infinito.

 

*dal libro di Donato Di Poce, Onde Gravitazionali, Arcipelago Itaca Edizioni, OSIMO (Ancona), 2020.

 

Donato Di Poce, ama definirsi un ex poeta che gioca a scacchi per spaventare i critici. Poeta, Critico d’Arte, Scrittore di Poesismi, Fotografo. Artista poliedrico, innovativo ed ironico, dotato di grande umanità, e CreAttività. Ha al suo attivo 23 libri pubblicati (tradotti anche in inglese, arabo, rumeno e spagnolo), 20 ebook pubblicati su Amazon e 40 libri d’arte Pulcinoelefante. Dal 1998 è teorico, promotore e collezionista di Taccuini d’Artista. Ha realizzato L’Archivio Internazionale di Taccuini d’Artista e Poetry Box di Donato Di Poce, progetto espositivo itinerante. (Vedi sito internet: www.taccuinidartista.it). Tra le numerose pubblicazioni di Poesie ricordiamo: Atelier d’Artista, I Quaderni del Bardo Edizioni, Lecce, 2020. Onde gravitazioni, Arcipelago Itaca Edizioni, Osimo (AN) 2020. Artaud: Il Poeta e il suo doppio, I Quaderni del Bardo Edizioni, di Stefano Donno, Sannicola (LC), 2019. La poesia dilata i confini. Omaggio a Tomaso Kemeny, I Quaderni del Bardo Edizioni, di Stefano Donno,  Sannicola (LC), 2018. Lampi di verità, I Quaderni del Bardo Edizioni, di Stefano Donno, Sannicola (LC), 2017. Ut pictura poesis,  Dot.com Press, Milano, 2017. Vita, Poemetto, Il Sottobosco, Bologna, 2017. Labirinto d’amore, Lietocollelibri, Como, 2013. La zattera delle parole, Campanotto Editore, Udine, 2005 e nel 2006 è stato ristampato e tradotto con testo inglese a fronte, con traduzioni di Daniela Caldaroni e Donaldo Speranza, sempre per la Campanotto Editore, Udine. L’origine du monde, Lietocollelibri, 2004. Poemetto Erotico. Vincolo testuale, Lietocollelibri, Como, 1998 “opera prima” in versi che era in realtà un’accuratissima scelta antologica, con testi critici di Roberto Roversi, e Gianni D’Elia.

Giuseppina Capone

“Niente di personale”. Uno spettacolo di circo

“Niente di personale” di Doriana De Vecchi è stato definito come uno “spettacolo di circo”. E’ un’attribuzione affascinante ancorché anomala per un’opera letteraria.

Quali caratteristiche narratologiche fanno sì che le sue pagine divergano dal romanzo così come codificato?

(Sorrido). Niente di personale prima di essere un’opera letteraria è uno spettacolo di circo contemporaneo: chi legge capisce sin dalle prime pagine di perdere la definizione di lettore e, capitolo dopo capitolo, indossa gli abiti di uno spettatore. I protagonisti ed i personaggi sono atleti circensi che compiono un viaggio introspettivo ed emotivo attraverso le performance che portano sul palco (della vita). Ogni capitolo è abbinato ad una canzone che il lettore potrà cercare su Youtube e ascoltare durante la lettura, perché “Niente di Personale” è un’esperienza immersiva multisensoriale, in cui l’occhio viene catturato dalle immagini abbinate alla storia, e mentre il testo scorre tra le pagine e le dita del lettore, la musica lo avvolge nell’atmosfera. Del resto tutti noi non siamo altro che acrobati, sul filo teso della vita, tra scelte, sogni, desideri e occasioni da cogliere al volo.

Un tema affrontato è la comunicazione in una raffinata forma che valica i confini della parola e diviene complicità silente. In fondo, l’empatia è anche la capacità di coinvolgere emotivamente il fruitore/spettatore con un messaggio in cui lo stesso è incline ad identificarsi. I trenta artisti che la sua narrazione segue accompagnano lo spettatore con elevata partecipazione emotiva. Quale sentimento, magari sopito, ha inteso risvegliare?

“Niente di Personale” è la storia di Peter, che non vuole guardare anche se potrebbe, e di Chiara, che non vuole parlare anche se potrebbe. Questo libro è un incontro di anime e di vite diverse; quando due persone sensibili entrano in contatto, istituiscono da subito un linguaggio diverso dal consueto, una sorta di codice emotivo, e prendono le distanze dal resto del mondo perché si appartengono a livello intimo. Vorrei trasmettere una forte sensazione di energia positiva composta da passione, amicizia, impegno, sudore, coraggio, concentrazione, comprensione, entusiasmo, libertà, perseveranza, complicità, sensibilità, fiducia, speranza, spontaneità e fragilità; uno dei miei desideri più grande è che il lettore, finito di leggere il libro, sia pervaso da una voglia incontenibile e indomita di vivere, ed affrontare a testa alta tutte le tempeste della vita. Il messaggio è alla portata del lettore sin dalla copertina che rappresenta un albero rovesciato: le nostre esperienze sono le nostre radici e vanno poste verso il cielo affinché ciò che ci è accaduto faccia parte del nostro bagaglio senza appesantire le nostre scelte quotidiane, mentre le fronde, ovvero i sogni, vanno poste sempre vicino alla realtà (alla terra) per poterli realizzare concreta(mente).

La fragilità tange i protagonisti che lei ha così poeticamente tratteggiato, rendendoli figure quasi evanescenti; eppure essi denotano una forza granitica che li eleva miracolosamente. Crede che la vera forza possa maturare dalla virtù della debolezza?

Le debolezze che superiamo nel corso della vita ci fortificano. Spesso richiamo la citazione “sette volte cado, otto volte mi rialzo”: intendo dire che nella vita si deve mettere in conto che si può cadere, ma ogni volta che accade si impara a non farlo più. Compiamo scelte ogni giorno, ogni istante, e può accadere di sbagliare, ma è importante distillare il valore positivo anche dalle esperienze negative. Le cicatrici che indossiamo sono segni tangibili della strada percorsa ma non è tutto ciò che siamo. A volte si vorrebbe dimenticare ma la “dimenticanza” è un processo lento e intimo mentre i ricordi sono bambini impertinenti che hanno sempre l’energia di correre: noi siamo i ricordi di ieri che diventano forza del nostro domani.

Lei sembra aspirare ad un romanzo multisensoriale. Ciò implica una creatività inusitata, tendente ad un sincretismo di effetti e ad una combinazione di stimoli. Quali obiettivi si è posta nella sua produzione e quali esiti quanto a ricezione?

Io vorrei avvolgere il lettore in un altro mondo, fargli dimenticare per un attimo la sua vita reale e trasportarlo semplicemente altrove. Vorrei che il mio libro fosse per lui una casa da abitare e vorrei che i protagonisti diventassero i suoi migliori amici. Spesso quando leggo tendo a finire i capitoli e alcuni libri ne hanno di lunghissimi, così quando riprendo a leggere nei giorni successivi torno indietro di qualche pagina per riprendere il filo della trama. Nell’immedesimarmi nel lettore ho voluto rendergli la lettura leggera: i capitoli di Niente di Personale sono brevi, spesso durano poco più del tempo della canzone, per gustarlo a piccoli morsi, e quando lo riprendi in mano non hai bisogno di rileggere perché l’immagine associata al capitolo ti conduce immediatamente al punto in cui ti eri fermato. Ogni porzione di storia contiene una tappa del viaggio introspettivo: dall’eterna lotta tra la ragione e l’istinto, alla voglia di lasciarsi andare, alla fatica di recidere una parte di sé per far spazio a nuove esperienze e nuovi incontri, dal superamento dei propri limiti all’identificazione di quei confini che è meglio non superare per non autodistruggersi. Niente di personale vuole urlare “volare si può”, e se non ci credi, pensa ad una situazione che ti appesantisce e poi apri a caso il mio libro: sono certa che troverai un amico con un buon consiglio tra le righe del mio romanzo.

Lei è anche un’appassionata fotografa e videomaker. Quali sue competenze artistiche ha traghettato nella scrittura e qual è il suo rapporto con il digitale?

Spesso mi dicono che il mio modo di scrivere è fotografico: persino le emozioni diventano immagini sinestetiche. Ho prodotto diversi spettacoli multiartistici, e sto attualmente lavorando, insieme ad altri artisti, allo spettacolo del mio libro, in cui (e faccio un po’ di spoiler) si susseguiranno alcuni audiovisivi (foto e musica) intervallati da recitazione e improvvisazione teatrale. Il mio rapporto con il digitale? Appena l’ho completato ho costruito un quadro sonoro con letture digitalizzate in QRcode e schede interscambiabili. Mi piace sperimentare e inventare nuove forme di comunicazione. e poi… (sorrido). “Niente di personale” è stato scritto su un cellulare, è un romanzo metropolitano, esso stesso è nato in viaggio, eppure, per quanto anch’io mi stia adeguando al mondo social a fini promozionali, penso sempre che uno sguardo, consumato in silenzio, mentre la pelle ed i gesti già tutto dicono, sia l’esperienza più autentica che si possa vivere; per questo motivo il libro è dedicato alla vita, a chi me l’ha donata, e a chi ha il coraggio di vivermi.

 

Doriana De Vecchi ha pubblicato due romanzi: “Fogli sgualciti…”, noir thriller, e “Porta di confine”, noir psicologico, partecipato all’antologia “TOnirica” e ottenuto diversi riconoscimenti regionali e nazionali. Poetry slammer, performer, video maker e docente in corsi di fotografia, organizza mostre, rassegne di audiovisivi ed eventi culturali che uniscono poesia, musica, teatro e fotografia. Condu-autrice degli spettacoli “Idea Loading”, “I colori dell’anima” e “Un treno per l’Africa”, collabora con diversi Collettivi Artistici ed è l’anima di alcuni Caffè Letterari poetici. Crede profondamente che l’arte sia il mezzo capace di restituire al mondo tutta la sua luce e bellezza. E’ una tavolozza di colori e vitalità. Sogn-attrice. Lumin-osa. Cre-attiva. Fr-agile. http://www.dorianadevecchi.wordpress.com

 

Giuseppina Capone

Il sangue e lo schermo. Lo spettacolo dei delitti e del terrore. Da Barbara D’Urso all’ISIS

Tra canali mainstream, satellitari e Web, si registra un pullulare di delitti che divengono telenovele, dettagli eccessivi, skyline alla CSI, inchieste pseudo-giornalistiche, cacce all’assassino. Barbara D’Urso e la “tv del dolore” e l’ISIS divulgatore di terrorismo sono polarità distanti altresì, Lei scrive, legature di una medesima rete che ci muove a vivere un modello di Male incessantemente de-simbolizzato, de-storicizzato, in un impianto mediatico dove si valutano più le messinscene raccapriccianti, le drammaturgie banali, le collere da boudoir ed i romanticismi precotti che non la filiera delle ragioni di un dilemma, la loro politicizzazione, la nostra responsabilità.

Quali osservazioni può offrire a tal proposito?

Quando Gilles Lipovetsky ci vuole spiegare la fase III del Capitalismo, quella dell’uomo al massimo grado di consumerismo e isolazionismo individualista, ci dice: “Tutto accade come se, da ora in poi, il consumo funzionasse come un impero, senza tempi morti e senza confini”. Ecco, la vita, de-simbolizzata, de-socializzata nei suoi legami comunitari forti, de-conflittualizzata si trasferisce armi e bagagli nelle sue effervescenze mediatiche, nel personalismo del mordi e fuggi, dell’usa e getta, nelle accelerazioni frenetiche di ciò che va comprato e sentito intimamente, nelle taglie su misura che di ogni bene e servizio – e stato dell’anima – la Grande Sartoria del Tele-Capitalismo sforbicia, abbozza, delinea. E allora perché stupirsi se, in corrispondenza di un mondo che in pochi decenni ha slatentizzato cataclismi, rischi ambientali, guerre, terrorismi, crack informatici e bancari, virus e pandemie, città inabitabili e paranoie inconsce, questi stessi ingredienti di una civiltà nettamente al tramonto, diventino combustibile permanente di un sistema mediatico che contrabbanda fosforescenze per consapevolezza, postverità per informazione, barbarie imbellettata (per dirla alla Balandier) per rivolte popolari?

Lei scrive: “Nell’ostentazione e nell’iper-radiografia delle lacrime e delle tribolazioni altrui, la televisione non rimanda un pensiero recondito né un ipertesto fenomenologicamente avveduto, né un vero tessuto narrativo. Ma solo lo choc emotivo dello spettatore come messa in scena di una partecipazione, più o meno vergognosa, più o meno impaurita o schifata.” Come distaccarsi da siffatto vicolo cieco imboccato dai mezzi di comunicazione?

Il nesso che lega emozioni e comunicazione è di particolare attualità oggigiorno, soprattutto per quanto riguarda le giovani generazioni. Fino a qualche decennio fa la crescita affettiva, psicologica, relazionale degli individui – e degli adolescenti in particolar modo – era costruita in base all’operato di precise agenzie sociali: la famiglia, la scuola, le strutture di tempo libero, i partiti, i contesti produttivi, mentre i media e la televisione erano considerati “satellitari” rispetto al nucleo identitario, e senza particolari interferenze con la vita reale. Oggi il rovesciamento è totale e si corre il rischio di ri-alfabetizzare la sfera comunitaria, intersoggettiva, oltre che i propri percorsi evolutivi, solo in funzione di tastiere, algoritmi, app e click compulsivi, per non parlare di informazione manipolata e reality show a ogni pié sospinto.

Mai come oggi serve una santa alleanza di menti fervide e on omologate, capaci di offrire strumenti di decostruzione e comprensione di tutti gli “specchi” della televisione e della Rete che ci assorbono, mobilitano e “ustionano” ogni giorno, nel tentativo di riportare questi ultimi alla loro missione iniziale: creare una polifonia di voci e differenze, sapere “davvero” cosa accade nel mondo, potenziare l’Umano, risvegliare le coscienze e non affossarle nella Grande Barbarie della banalità e della ripetizione.

I suoi accurati studi fanno luce su quell’oscenità sostituitasi alla pornografia. Cos’intende per oscenità? Contro chi e cosa dirige il suo j’accuse?

L’Osceno oggi non ha più nulla a che fare con un’attribuzione di tipo morale, se per morale intendiamo il senso dello scandalo, del peccato, della riprovazione verso il “rimosso”. L’Osceno è bonifica totale del senso, cooptazione e incapsulamento del reale in una Macchina mondiale che replica i suoi effetti secondo ratio e linguaggi quasi totalmente improntati alla monetarizzazione degli automatismi e alla perdita di ogni senso critico. Baudrillard diceva: “Senza l’arbitrarietà del segno niente funzione differenziale, né linguaggio, né dimensione simbolica. Il segno, cessando di essere segno, ridiventa cosa fra le cose. Cioè di una necessità totale o di una contingenza assoluta. Senza instanziazione del senso da parte del segno, non resta che il fanatismo della lingua – quel fanatismo che Rafael Sanchez Ferlosio definisce “un’infiammazione assolutista del significante””. Ecco, noi bruciamo mediaticamente di spasmi e di flash, di ardori e fuochi fatui, ma la la contemporanea secessione delle cose dal mondo delle cose e del segno dal servigio dell’implorazione verso le cose stesse, rende il mondo granitico e non decrittabile.

Professore, come ci si può riappropriare dello spirito critico che può fungere da barriera tra l’uomo ed il nulla, considerando che, probabilmente, ci siamo già mutati in un “uomo modulare”?

Fa bene a fare un chiaro riferimento a una antropologia scheggiata, dilazionata, dilapidata. Oggi siamo di fronte a un’individualità-patchwork, sabbiosa e ultraspiata, decostruita e messa a profitto, modulare e trasferibile come una moneta vivente di volgare conio, all’interno della cui griglia corriamo il rischio non solo di rimanere impigliati permanentemente, alienandoci dal suolo reale della vita, ma di essere utili solo come data-double, come doppione di noi stessi, scaffale statistico e granulare di gusti, scelte, desideri, tendenze, informazioni private, radici etniche, pensieri scritti, da estrarre come marmo da una cava, da ricomporre nel Gran Laboratorio dei mercati incrociati, da smistare al miglior offerente – multinazionale commerciale, manipolatore dell’opinione pubblica o agenzia di Intelligence che sia. Ricomporre, evitare il naufragio particellare del nostro essere, asciugare la dispersione del senso, coagulare azioni e scopi, ritrovare fermezza e cura nel sé e nel noi: queste le coordinate di una nuova sintassi dello stare al mondo.

Moltissimi format televisivi e non solo propongono la paura quale tema trainante. Perché?

La paura è una scena madre della nostra condizione umana: ne son piene le tragedie greche, il teatro, la storia, le spirali millenarie del nostro pensiero e del nostro interrogarci su chi siamo e da dove veniamo, ovvero il sale della filosofia. Come le dicevo nella prima risposta, oggi più che mai la paura, l’insicurezza, la preoccupazione per la nostra incolumità, individuale e collettiva, si intersecano perfettamente con un sostrato storico che alimenta tutto questo. Se pochi decenni fa il grande attrattore era la sessualità, dopo decenni di conservatorismo e di strapotere cattolico, oggi lo è senz’altro il dubbio sul nostro futuro immediato, con un carico di ombre e di angosce senza precedenti nel recente passato. Ma il punto è “come” affrontiamo questo gorgo di fragilità e di frantumazione di vecchie rassicuranti strutture comunitarie, se con gli strumenti della razionalità e della politica trasformatrice o, non piuttosto, con una sciocca suspense televisiva usata per fini manipolatori e mercantili, che si presta come “software” editoriale alla nostra impressionabilità, ci intasa di affanni e verosimiglianze, e corse a perdifiato, corrispondendo esattamente a quello che vediamo ogni giorno in tanti programmacci televisivi che dal pomeriggio invadono le nostre case di boschetti e ammazzamenti, di donne scomparse e di mezzi teoremi giudiziari, di musichette alla Dario Argento e di fantasmi in formalina, e su cui spicca l’orrida docenza di conduttrici televisive come Barbara D’Urso e Maria De Filippi, portatrici sane, purtroppo, di uno pseudo-giornalismo e di un patetismo cenciosi e voyeuristici, ignobili e insignificanti. Io penso che la vera sfida inaggirabile sia questa.

Carmine Castoro, filosofo della comunicazione, giornalista professionista, è stato collaboratore e inviato per quotidiani e magazine nazionali. Come autore televisivo ha firmato numerosi programmi per il palinsesto notturno della RAI e per canali Sky. E’ Professore incaricato di: Media Perception Analysis alla Link Campus University di Roma; Sociologia criminale e della devianza e Antropologia filosofica a Criminologia all’Università UCM United Campus of Malta; Intelligence nelle Telecomunicazioni ai Master di Criminologia e Psicologia investigativa all’università di Foggia. Collabora con Semiotica dei media e Filosofia del Linguaggio all’università di Bari. Collabora con Estetica dei media all’università di Varese. Fra le sue opere: “Crash Tv. Filosofia dell’odio televisivo” (2009), “Maria De Filippi ti odio. Per un’ecologia dell’immaginario televisivo” (2012), “Filosofia dell’Osceno televisivo. Pratiche dell’odio contro la tv del nulla” (2013). “Clinica della tv. I dieci virus del Tele-Capitalismo” (2015). “I” (2017). E’ stato visiting professor alle università di Modena, Pontificia di Napoli, Roma La Sapienza, Roma Tre, e all’Accademia di Belle Arti di Brera. Negli ultimi anni ha collaborato in Cultura con il portale-tv del Messaggero e l’Unità. Si è occupato di filosofia e media per la rivistadiscienzesociali.it e per democratica.com. Attualmente per i quotidiani nazionali La Notizia e Quotidiano del Sud.

Giuseppina Capone

Maggio dei Monumenti: “Napoli è” presenta i luoghi dei Sedili di Napoli e il Candelaio di Giordano Bruno

Appuntamento oggi alle ore 19.00 sulla pagina facebook dell’Assessorato alla Cultura e Turismo del Comune di Napoli con l’Associazione Culturale “Napoli è”, presieduta dal giornalista Giuseppe Desideri.

Anche quest’anno l’Associazione è presente nel programma del Maggio dei Monumenti e per il 2020 partecipa nella modalità “virtuale” a causa del Covid-19 con il progetto “Giordano Bruno e il Candelaio”.

Grazie a tutti coloro che hanno lavorato alla realizzazione di questo video che ci accompagna nelle vicende e nei luoghi dei Sedili di Napoli dove Giordano Bruno ambienta il suo “Candelaio”.

Il progetto è stato realizzato dal team di giornalisti dell’Associazione Culturale Napoli è. Ideato da Bianca e Giuseppe Desideri su testo di Rossella Marchese. Voce narrante ed editing del video Alessandra Desideri. Consulenza storico-architettonica dell’arch. Laura Bourellis.

Un grazie particolare per l’attenzione al progetto va all’Assessorato alla Cultura e Turismo del Comune di Napoli che lo ha inserito nel programma del Maggio dei Monumenti, alla Consigliera di Parità della Città Metropolitana di Napoli e ai presidenti della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus e dell’AIMC Napoli Centro, alla dirigente scolastica e ai docenti dell’I.S. “G. Marconi”, al delegato regionale FIAF, alla direttrice del Museo dei Sedili di Napoli.

In attesa di poterci nuovamente incontrare, seguiteci  https://www.facebook.com/assessoratoallaculturaealturismodelcomunedinapoli/

Mine viandanti: l’homo viaticor come ordigno inesploso

 “Mine viandanti” di Valentina Barile è la narrazione di un viaggio. Può costituire oggetto di riflessione il viaggio velato di un alone di mistero e concepito come spostamento in un luogo sconosciuto ed ignoto laddove la realtà tecnologica in cui siamo immersi ci impone di non passare inosservati, puntando proprio sul dato noto e visibile?

La sana relazione tra passato e presente può esistere. In questo e in molti altri casi, diventa una convivenza meravigliosa.

Quale mezzo migliore per veicolare la storia a un target anagrafico medio-basso, vale a dire giovanile. E non solo. Trovo che la cultura debba democraticizzarsi molto più di quanto non lo sia già (non è abbastanza!), e i social network – per fortuna – hanno reso questo possibile. Un monumento, un sito archeologico, il basolato di una vecchia via, un paesaggio remoto possono entrare nella Home page di uno spazio Web. Possono vederlo tutti, conoscerlo, incuriosirsi ad ammirarlo dal vivo.

Il viaggio come maieutica socratica, certamente un approccio originale. Perché ha inteso applicare siffatto criterio di ricerca della verità, sollecitando le protagoniste a ritrovarla in sé stesse e a trarla fuori dalle proprie anime, osservando tuttavia il fuori da sé?

Etimologicamente, maieutico dal greco vuol dire far nascere la verità.

E la verità può affermarsi solo quando la si indaga con i propri occhi. In luogo di ciò, il sé statico ha bisogno del sé dinamico per evolversi, e trovo che uscire dal proprio habitat per mescolarsi consapevolmente a quello più vicino o più estremo, sia l’essenza dell’Homo sapiens, che altrimenti non potrebbe definirsi tale.

Il suo homo viaticor ha uno sguardo delicatamente carezzevole, accoratamente umile, soavemente poetico, fortemente empatico ancorchè mai profanatore dei luoghi e delle genti. In quale accezione possiamo declinare il suo uso del termine “viaggio”.

Il viaggio è capire dove si vive, cosa esiste intorno a sé. Il viaggio è il motore che muove gli esseri umani – ho scritto in uno dei miei libri – o, almeno, dovrebbe esserlo. Viaggiare dovrebbe essere un diritto, come il diritto all’istruzione. Viaggiare è libertà. Conoscenza. Ma soprattutto, è l’unica soluzione a un’ulcera che fa ancora sanguinare il mondo: il razzismo.

Le sue viandanti s’inoltrano nel profondo Sud attraverso la Via Popilia-Annia. Quali riflessioni può offrirci rispetto anche alla scoperta di un passato indissolubilmente congiunto al presente?

In riferimento alla via Popilia, che da Capua portava a Reggio Calabria, guardo la strada – una pedemontana che taglia l’Appennino meridionale – e vedo l’identità delle persone che la vivono oggi. Gente di montagna, lontana dalle onde e dalla brezza marina, che vive la propria esistenza a ritmi più lenti. E talvolta, tra questa gente vi si annida la brutalità dell’ozio e dell’illegalità, che tenta di sopraffare quelle anime d’Appennino che con dignità sostengono le proprie lotte quotidiane.

Perché due viandanti sono da considerarsi mine?

La mina è un ordigno esplosivo. Nel linguaggio politico e giornalistico è usata, in senso figurato, l’espressione mina vagante per indicare un fatto, una situazione, un problema che rappresenta una minaccia latente, e che può improvvisamente acutizzarsi sconvolgendo gli equilibri esistenti.

Un individuo può fare lo stesso… per meglio dire, le sue emozioni, se tenute in silenzio per un periodo di tempo non controllato, possono produrre gli stessi effetti delle mine inesplose.

I viandanti sono ordigni inesplosi, per questa ragione hanno la necessità di partire, allontanarsi, conoscere, esplorare, evolversi in una mina di livello superiore, pronta a esplodere quando si ferma. Per poi, riprendere il processo con ciclicità.

 

Valentina Barile è narratrice di viaggio. Collabora, tra l’altro, per Donna Moderna, Confidenze e varie testate sudamericane: Convergencia Medios (Cile), Rede Brasil Atual e Alajuela Digital (Web tv di Costa Rica). Ha organizzato la Fiera del Libro di Napoli, Ricomincio dai libri. Finalista al Premio Passaggi 2015, Festival della Letteratura di Viaggio. Il suo primo diario di viaggio, #mineviandanti sull’Appia antica (2016), ottiene due riconoscimenti: il Premio “Peppino Orlando” di Borgo d’Autore, il Festival del libro di Venosa, e il Premio “Enea – Buone pratiche per l’Italia” di Come il vento nel mare, il Festival delle narrazioni e di cultura politica, di Latina.

Giuseppina Capone

Vivere a colori

Arianna Di Presa è una giovanissima ma già affermata poetessa nel panorama della lirica italiana.

Si racconti; ci spieghi la ragione per cui ha scelto proprio la Poesia come codice comunicativo.

Personalmente, reputo la poesia un linguaggio armonico, senza veli, che permette di ascoltare l’anima nei suoi battiti più profondi, navigando negli abissi, riemergendo alla luce. La massima più evocativa è riassunta in testuali parole: “Per scrivere con l’Anima è necessario un dialogo con il Dolore.” La poesia, dunque, si prefigura come un dialogo costante di analisi esistenziale in tutte le sue sfumature, persino le più dettagliate, un filo invisibile di immense intuizioni sul quale accorpare l’etimologia del mondo e dei vissuti altrui per poter arricchire il proprio.

Lei pare affrancare il linguaggio dalla necessità di riprodurre il reale e dall’obbligo di evocare, ritenuti vessilli di virtù poetica. Esemplifichi il suo rapporto con il verso e le maglie della texture che lo tessono.

Il verso è un’aulica sinfonia, un rivelatore di sfumature delicatamente forti e al contempo prepotentemente delicate che trasmette una profondità sensoriale idonea ad abbracciare il silenzio palpitante dell’anima. Il verso costituisce, dunque, note dipinte da un’interiorità dialogica complessa che desidera leggerezza in un’elevazione leggiadra verso la grandezza del senso umano.

Leggendo, ad esempio “Pelle permeabile”, pare che il suo proposito sia dare un calcio al tedio delle convenzioni, saltellando tra denotativo e connotativo. Lei parodizza il nesso linguaggio-verità a quale intento?

Il linguaggio poetico annuncia trasparenza poiché permette di sorvolare dalla mediocrità si avvale di pienezza per affermare la propria essenza e per accorpare con lungimiranza le esperienze esistenziali tra partenze ed arrivi e annunciando nuovamente altre ripartenze. Il linguaggio è il viaggio del Vero che scorre in un insieme di sguardi intrecciati verso autentici ed inaspettati orizzonti.

In “Due lune” pare che il suo proposito sia dare un calcio al tedio delle convenzioni, saltellando tra denotativo e connotativo. Lei parodizza il nesso linguaggio-verità a quale intento?

La verità è sempre stata un’esigenza dell’Anima che non ho mai rifiutato di assecondare. Il linguaggio è il mezzo più idoneo per essere costantemente alla ricerca del Vero per immergersi nell’ unicità dell’istante e coglierne la pienezza. In un mondo dove tutto muta e passa freneticamente in cui l’omologazione sembra essere l’unica soluzione ho optato per restare me stessa porgendo un’accurata attenzione verso tutte le sfumature esistenziali perché la vita stessa è un dipinto a colori, che volutamente racconto ogni giorno attraverso la musica sgorgante della Poesia.

Uno degli aspetti che colpisce del suo poetare è l’essenzialità senza sconti. Da dove deriva il bisogno di dare alle cose il proprio nome, evitando i tortuosi labirinti delle perifrasi?

Sì, confermo una delle fondanti caratteristiche del mio poetare è proprio mettere in atto la sintesi arrivando al fulcro del senso concettuale. Un binomio di parole per me esprime già l’essenziale. L’essenziale viene concepito come il viaggio di una piuma tra le nuvole, per trasportare quel candore di purezza rivelatrice che caratterizza l’essenza interiore resa volutamente esplicita nel canto poetico.

 

Arianna Di Presa è nata a San Marino il 10 Novembre 1993. Diplomata al liceo psicopedagogico nel 2013, nel 2017 si laurea presso l’Università di Bologna in Psicologia e Scienze della Formazione con un elaborato di carattere umanistico dal Titolo Michel Foucault e la valenza trasformativa dell’educazione di genere con particolare attenzione al fenomeno del femminicidio. Partecipa al Catalogo “Lo stato dell’arte ai tempi della 57ma Biennale di Venezia” con la lirica Profumo di primavera curato da Giorgio Gregorio Grasso ed è Autrice del libro Vivere a colori. Aderisce a due cataloghi promossi dalla Casa Editrice Pagine e al volume “Caro maschio che mi uccidi” poesie di donne ammazzate promosso da Fusibilia Edizioni. Il 21 Novembre 2019 presenta il primo percorso d’Arte intitolato “Profondità Universali” fornendo una conoscenza artistica ed un’esposizione critico-letteraria in merito alle opere pittoriche e scultoree di Anna Vasile.

Giuseppina Capone

Julia Mantero: Avevo fame!

La sua è un’autobiografia, un racconto retrospettivo della sua pur giovane esistenza, che mette in forte risalto la sua vita individuale ed aspetti salienti della sua crescita. La “fame” appare essere un elemento rilevante, considerando che è presente sin dal titolo: termine che può essere riferito letteralmente al bisogno di cibo ma può anche essere applicato metaforicamente a desideri di altra natura. Ci spiega l’accezione in cui l’adopera?

Come ha correttamente notato, il termine “Fame” è utilizzato nel reale significato del bisogno di cibo ma anche, simbolicamente, per dare l’idea, in primo luogo, di una fame di libertà e di una vita migliore, ed in secondo luogo, con riferimento ad oggi, fame di imparare sempre di più, di viaggiare, di scoprire il futuro giorno dopo giorno con intensità.

Lei ripercorre i giorni di una fanciullezza angosciante, dolorosa, oppressiva, asfittica. Quali sono le ragioni più intime che l’hanno indotta a rievocare un periodo tanto cupo?

Le ragioni per cui ho ripercorso un periodo cupo ma anche un periodo piuttosto positivo, diciamocelo, della mia infanzia/adolescenza è stata proprio la voglia di raccontare la storia al mondo per mettere a conoscenza le persone di realtà a loro sconosciute o poco raccontate. Per quanto l’idea di scriverne un libro girasse nella mia testa da molto tempo, ciò che mi ha dato l’input è stata proprio la mia gravidanza. Il diventare madre, capire cosa provi e cosa superi una donna per avere un figlio, mi ha fatto pensare moltissimo a mia madre. Ho voluto mettere nero su bianco il suo ricordo perché se non fosse stato per lei, nonostante le difficoltà, nonostante la tempesta, io non sarei qui a stringere mia figlia tra le braccia.

La storia è ambientata nella Russia post-sovietica, facendo intravedere la traccia della linea della transizione dalla caduta del comunismo a Putin. Può offrirci qualche dettaglio degno di curiosità?

Non torno in Russia da molto tempo, per cui, non riesco a rendermi effettivamente conto dei cambiamenti che ha subito il paese negli anni. Nel mio racconto, però, faccio notare come la Russia di allora e, molto probabilmente, anche l’attuale Federazione Russa, portino negli anni, gli effetti, i pensieri, i modi, le decisioni dell’epoca sovietica. Un esempio lampante potrebbe essere l’utilizzo del colore rosso in molti ambiti.

Lei è un’orfana, le è mancata la protezione ed il “nutrimento” dei suoi genitori; ha vissuto l’esperienza di attendere d’esser scelta per l’adozione. Quali emozioni ricorda e sente di voler condividere rispetto a quei momenti?

Le emozioni che sicuramente sono prevalse in quel momento erano la paura che qualcosa andasse storto nel processo adottivo che avevano intrapreso i miei attuali genitori (poiché il processo adottivo in Russia è davvero complicato) e la gioia di essere libera. Mi riferisco a una libertà non solo fisica ma liberta dall’imposizione delle rigide regole di convivenza all’interno dell’orfanotrofio. Direi, quindi, più una libertà mentale dalle imposizioni, forse necessarie, ma comunque troppo premature per un bambino.

Quali sono stati gli ostacoli, le difficoltà, gli inconvenienti che ha dovuto affrontare durante l’adozione e quali riverberi hanno tutt’oggi?

Questa domanda andrebbe decisamente fatta ai miei genitori. Le mie difficoltà erano solo i pensieri e l’interminabile attesa. La mia famiglia invece ha superato non pochi ostacoli per regalarmi una vita migliore.

Giusy Capone

Rocksofia. Filosofia dell’hard rock nel passaggio di millennio

Il saggio di Alessandro Alfieri  prende in esame le due differenti modalità di esperienza elettronica accolte dai Radiohead e dall’industrial rock dei Nine Inch Nails, per poi addentrarsi nella riattualizzazione di due esemplari sostanziali della storia del rock: nel Nu Metal la propensione innovativa e la rimonta dell’urto ribellistico scagionano la veemenza dei Rage Against the Machine, mentre lo spazio asfissiante e buio dei Tool non è che desiderio di disintegrazione totale; nel Neo Punk contrariamente, l’esperienza di cambiamento vissuta dai Green Day nel passaggio dai 90es agli Anni Zero si oppone al furore sfacciato e quasi spensierato del punk-hardcore dei NOFX.

 

Ebbene, quale ascendente assume la politica nel panorama del rock che ha osservato?

La politica, anche se in termini dialettici, ha un ruolo significativo all’interno della mia argomentazione, perché nell’hard rock del passaggio di millennio spesso l’intransigenza non esprime alcuna intenzionalità politica o ideologica, come nella musica dei Nirvana. Gli anni Ottanta, dopo le intense passioni politiche che avevano caratterizzato gli anni Sessanta e gli anni Settanta, hanno rappresentato in ambito sociale la piena realizzazione dell’utopia consumistico-edonistica: la violenza di ispirazione rivoluzionaria si è tradotta nell’eccesso della stravaganza, nell’abbigliamento quanto nel look, e all’impegno politico si sostituì una stagione basata sul principio della stilizzazione e della teatralità. I Rage Against the Machine invece recuperano la tradizione funk rock, attingono agli anni Sessanta per l’attivismo politico e ai Settanta per l’indole violenta e irruenta della loro musica, per ristabilire la dimensione politica come predominante nell’immaginario hard rock.

Nei Rage against the Machine la politica si presenta come tentativo di ristabilire un principio comunitario. L’impulso politico-vitalistico però è in qualche maniera inconciliato e contraddittorio: la violenza – dei testi e della musica – è impregnata dall’ideologia socialista rivoluzionaria, e tuttavia rispetto agli anni di Woodstock è quella stessa violenza che attesta come il vitalismo politico oggi sia condannato al fallimento, perché incapace di istituire un nuovo principio di comunità.

Anche i Green Day si sono prestati al tentativo di riscatto politico convertendo la loro proposta verso le esigenze della nuova generazione (sia da un punto di vista scenografico che di scrittura musicale), e anche le intenzioni dei NOFX negli ultimi anni sono state queste, ma ancora una volta la spirale dialettica porta il tentativo di attivismo in un ulteriore capovolgimento, dove mercato e impegno politico fanno paradossalmente tutt’uno.

Lei scrive che la nascita del rock costituisce “il paradosso del rock, alla luce del fatto che la sua nascita e la sua esistenza sono iscritte all’interno della cultura di massa e dell’industria culturale». Qual è, oggi, la funzione ed il messaggio del rock, valutando il fatto che esso sia stato sicuramente partorito da una società capitalistica nella prima fase del consumismo?

Quel paradosso si ripropone e si reitera nel corso dei decenni, ed oggi è quanto mai pregnante: nella fase globalizzata del consumo, l’impulso ribellistico connaturato al genere rock si accompagna sempre alla stimolazione commerciale. Niente funziona di più sul mercato che l’avversione al mercato stesso: pensi alle t-shirt dei Ramones, dei Nirvana e dei Sex Pistols in vendita sugli scaffali di store come H&M e Zara.

Lei evidenzia il resistere d’una fruizione della musica rock nonché dei concerti, principalmente da parte di chi venerava certuni artisti all’incirca venti o trenta anni fa e che attualmente si conforma al rito ed interviene ai medesimi concerti, sotto l’egida, chissà, della percezione di qualche cosa di scomparso ed unico. Quanto gioca la nostalgia?

La nostalgia è decisiva, in quanto sentimento ancestrale che il mercato sfrutta sagacemente. Questo fenomeno riguarda per esempio il trionfo dei Pearl Jam e dei Radiohead in quanto band longeve che hanno attraversato i decenni e l’abisso dell’autodistruzione per approdare all’oggi in maniere diverse; soprattutto per i primi, l’uscita del “nuovo disco” e il conseguente lancio del tour sono eventi che si fondano sull’attrazione nei confronti di un “passato immediato” poiché non si tratta del ritorno di una band di mezzo secolo fa, quanto di una carriera che non si è mai interrotta e che ha rinnovato in corso d’opera il suo potenziale nostalgico. La nostalgia è infatti ricerca di soccorso nella trasfigurazione narrativa della celebrazione del passato mitico e per questo ancora una volta impulso di morte più che di vita. Questa dimensione è stata investita dal sentimento diffuso nei confronti di quella “nostalgia del presente” che caratterizza gli attuali trenta-quarantenni: una visione perciò a metà strada tra nichilismo anedonico e vitalismo.

Il nichilismo, lo smarrimento, il senso di vuoto incolmabile, serpeggia tra le sue pagine. Il rock come illusione?

Il rock nella sua storia ha messo in evidenza tali interrogativi, e in una sua specifica tendenza è stato espressione di un impulso autodistruttivo (una tendenza che ha origine coi Velvet Underground nel cuore degli anni Sessanta). In molti casi il rock appare come illusione di una presunta liberazione, ma in molti altri non si è trattato di un’illusione ma di un effettivo propulsore vitalista, capace di opporsi allo status quo e alle convenzioni asfissianti. Non è un caso che i Foo Fighters si siano nettamente sganciati dal peso enorme di esprimere il vuoto anedonico, anche perché i tempi sono cambiati rispetto ai Nirvana: infatti, da un lato il mercato è stato talmente potente e astuto da aver assorbito le contemporanee forme di espressione di dolore dell’anima, dall’altro, le condizioni economiche globali oggi sono precipitate un po’ per tutti, e parlare di dolore esistenziale e di incapacità di comunicare in un’epoca in cui il benessere di vent’anni fa si sta progressivamente sbriciolando, non ha più molto senso.

Lei, riprendendo Reynolds, fa riferimento al vivere inserendo la marcia della “retromania”. Pensa che il ruolo “filosofico” del rock possa passare ad altri testimoni quanto a generi musicali?

Quello della retromania è un fenomeno culturale ampio, che non riguarda solo o soprattutto il rock; d’altronde, fare riferimento a molti generi vintage significa comunque proiettarsi nella dimensione retromaniaca. Credo che le considerazioni del mio volume, trattate in termini sempre dialettici e mai in tono risolutivo, dimostrino che la musica rock, ieri come oggi, sia ancora pregna di filosofia, perché in fondo meno nel fenomeno la filosofia compare in maniera didascalica, più in esso diventa rilevante la filosofia stessa come “contenuto di verità” da interpretate e scovare.

 

ALESSANDRO ALFIERI insegna Teoria e metodo dei mass media all’Accademia di Belle Arti di Roma e si occupa prevalentemente di cultura di massa; ha insegnato Fotografia e nuove tecnologie visuali presso l’Università di Macerata; è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università “Sapienza” di Roma; è giornalista. Tra i suoi libri Musica dei tempi bui. Nuove band italiane dinanzi alla catastrofe (Orthotes, 2015);  Il cinismo dei media. Desiderio, destino e religione dalla pubblicità alle serie tv (Villaggio Maori, 2017); Dal simulacro alla storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino (Le petite plaisance, 2018); Lady Gaga. La seduzione del mostro (Arcana, 2018); Galassia Netflix. L’estetica, i personaggi e i temi della nuova serialità (Villaggio Maori, 2019).

Giusy Capone

Aldo Masullo: etica e politica dei giorni nostri

Oltre ai temi del “tempo” e della “solitudine”,  Lei ha sempre posto al centro della sua riflessione filosofica i temi della “comunità” e della “intersoggettività”.  Anzi, spesso Lei riprende nei suoi libri un’emblematica affermazione di Fichte secondo il quale “l’uomo diventa un uomo solo tra uomini”.  Che ne è oggi dell’uomo che resta indifferente, insensibile, di fronte ai suoi simili che annegano quotidianamente nel Mediterraneo?

La filosofia, che risulta dal pensiero non solo dei cosiddetti filosofi, ma pure degli artisti, degli scienziati, dei religiosi, e di tutti coloro che sia pure oscuramente elaborano la cultura di un’epoca, è come il sole: pur non cessando di emettere i suoi raggi, viene spesso oscurato da nubi tempestose e di notte diventa invisibile. Le notti della storia civile a volte sono intollerabilmente lunghe e popolate di spettri spaventosi. Allora gl’innumerevoli deboli diventano ancora più deboli, “scarti”, e i pochi forti diventano ancora più forti, rendendo sempre meno tollerabile il loro proprio prepotere.

Prima ancora che di un’emergenza politica, vi è oggi in Italia un’urgenza “etica”. Dopo gli anni bui della deriva partitocratica, culminata in tangentopoli, e il ventennio mediatico berlusconiano, abbiamo assistito ad una svalutazione sempre più marcata dell’idea di politica, intesa non come interesse alla “cosa pubblica”  (alla collettività), ma all’interesse personale (privato). Come si risana questa insanabile ferita? In che modo è possibile ricucire il tessuto di una “comunità”, oramai privata della propria identità?

Più che di ricucire il tessuto di una comunità, si tratta oggi di riattivare nessi o meglio attivarne di nuovi tra individui, società, continenti. In altre parole si tratta di darsi da fare per riscattare i più dal lasciarsi alienare dalla falsa comunicazione e così alla fine, senza accorgersene, ridursi in massa alla sottomissione.

Sempre riferendoci all’Italia, esistono delle questioni che si sono oramai incancrenite, divenendo un tutt’uno con la società. Questioni ataviche e irrisolte a cominciare dalla criminalità organizzata. Interi territori sono “formalmente” sotto il controllo dello Stato italiano, ma nei fatti, si verificano altre dinamiche, di soprusi e di ordinaria prevaricazione, che nulla hanno a che fare con la sfera del diritto. Perché questa immobilità o assenza dello Stato? Parafrasando il titolo di un suo libro del 2008, dedicato a Napoli, mi verrebbe da dire “Italia siccome immobile”.

Lo Stato è la sua forma costituzionale, ma la sua sostanza è la società. La società è la struttura degli scambi, ma la sua energia siamo tutti noi. Insomma tra lo Stato formale e le esistenze in carne ed ossa di tutti noi sta la struttura degli scambi sociali. Questa dall’unificazione d’Italia ad oggi non è stata corretta e rinnovata fino in fondo. Anzi le sue deformazioni sono state aggravate al punto che ora tendono a ripresentarsi due Italie, una sempre più funzionante e ricca, l’altra sempre più sgangherata e povera.

Parliamo di Europa. L’Europa che abbiamo conosciuto in questi anni non è certamente quella che sognava Stefan Zweig: un’Europa solidale forgiata da interessi “comuni” e intesa come un “organismo culturale unitario”. Come è stato possibile tradire questo sogno? Come è stato possibile assistere inermi, ad esempio, alla feroce pressione sulla Grecia, culla della nostra civiltà? In che modo è possibile liberarsi dai lacci della finanza e rilanciare l’ethos della nostra comune appartenenza spirituale?

Quella Europa era nata dalla dolente volontà di una generazione scottata dal fuoco delle stragi e delle distruzioni di due immani guerre. Questa invece è l’eredità gestita da generazioni senza memoria. Esse hanno creduto che bastasse un freddo sistema di regole, certo non perfette, a conservarne la funzione. Si è infine, peggio ancora, lasciato che le regole sovranazionali fossero forzate dalle variabili convenienze degli accordi tra i governi. Peraltro fino a qualche anno fa l’opinione pubblica non ne ha saputo nulla, mai informata da una stampa nazionale a tutt’altro interessata.

Lei è nato nel 1923. Ha attraversato il Novecento e ancora oggi rappresenta un’autorevole voce della cultura italiana. Cosa le hanno insegnato la vita e la storia?

Soprattutto che nella decisione dei destini collettivi quasi sempre l’illusoria ambizione di potenza di pochi tragicamente soffoca l’esperienza dell’inutile dolore dei più.

Un’ultima domanda: quali sono a suo avviso le principali sfide che ci attendono per costruire un mondo migliore?

È vitale che l’illimitato potenziale delle tecnologie elettroniche, soprattutto digitalizzazione e “intelligenza artificiale” si accordi con il bisogno di un’umanità migliore, innanzitutto con una vera democrazia delle persone e con un più forte senso di responsabilità diffuso.

Giusy Capone

 

Aldo Masullo è professore emerito di Filosofia morale nell’Università di Napoli Federico II. Il lungo percorso del suo pensiero si muove intorno a tre nodi teorici, fondamentali per una «genealogia» antropologica: il tempo, la paticità, la relazione intersoggettiva. La metafisica resta, sullo sfondo, il tragico della ragione: necessaria e insieme impossibile. Tra i suoi molti libri: Struttura soggetto prassi (1962, 1994), Fichte: l’intersoggettività e l’originario (1986), Filosofie del soggetto e diritto del senso (1990), Il tempo e la grazia(1995), La metafisica, storia di un’idea (1980, 1996), La potenza della scissione (1997), Paticità e indifferenza (2003), La libertà e le occasioni (2011), Piccolo teatro filosofico. Dialoghi (2012), Stati di nichilismo (2013), Giordano Bruno maestro d’anarchia (2016), L’Arcisenso. Dialettica della solitudine (2018).

 

Cold case: il mistero della morte di Arsinoe sorella di Cleopatra

Questa è la triste vicenda d’una giovane donna. Si gioca tutta sulle rive del Mediterraneo, tra Alessandria d’Egitto, dove comincia nel cupo contesto di una faida familiare; Roma, città che ne avrebbe vista la fine, non fosse stato che per un atto d’indulgenza; Efeso, dove si risolvé nel sangue. E’ la storia della morte di Arsinoe, sorella della celebre Cleopatra.

Le fonti riferiscono che morì per volontà di quest’ultima ed è risaputo che Efeso fu il luogo del suo seppellimento. Ed il suo corpo? Nessuna notizia pervenuta! Tentiamo di sbrogliare i fili di questa infelice storia, rincorrendola nei territori che ne costituirono il set. Mettiamoci alla ricerca del corpo perduto! Arsinoe e Cleopatra sono figlie di Tolomeo XII.

Cleopatra è insidiosa, affascinante, ammaliante per bellezza ed intelligenza; conquista Cesare, fatto visto come un tradimento da parte del popolo. Scoppia una guerra civile in cui sono coinvolte le due sorelle!

Arsinoe viene catturata e si ritrova imbarcata su una nave, diretta a Roma. E’poco più che una ragazza, a Cesare non conviene strangolarla davanti alla folla! Scampata alla morte, Arsinoe approda ad Efeso. Tra le sacre mura del tempio di Artemide, l’egizia gode del diritto di asilo; tuttavia, il destino le gioca contro! Dopo l’assassinio di Cesare e con il rafforzarsi del legame fra Antonio e Cleopatra, la sua vita è a rischio: Cleopatra, infatti, la vede come una possibile antagonista ed il suo sogno di eliminarla è rapidamente appagato. È il 41 a.C., quando Arsinoe incontra la morte per mano dei sicari di Antonio. Ad Efeso, nel corso d’indagini archeologiche all’interno di una tomba, vengono scoperte delle ossa: il sepolcro è imponente; le ossa vengono rimosse dall’acqua, fotografate, misurate e analizzate. In seguito, incomprensibilmente, mentre il resto del corpo viene ricollocato al suo posto, il cranio viene trasferito in Germania e lì sta, fintantoché non se ne perdono le orme per le devastazioni procurate dal secondo conflitto mondiale. Il sepolcro viene riaperto dopo quasi settant’anni, riportando di nuovo alla luce le ossa: è un corpo femminile, l’epoca a cui risale, indagata attraverso il carbonio 14, è compatibile con quella in cui Arsinoe visse; le fotografie e le misurazioni vengono adoperate per una ricostruzione tridimensionale del cranio, che mostra caratteristiche afro-caucasiche (testa allungata e naso somigliante a quello greco), conciliabili con quelle che dovevano essere proprio di Arsinoe. I programmi informatici, usati per le indagini forensi, ci restituiscono un volto che, probabilmente, è quello della sorella di Cleopatra.

Giusy Capone

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