Il linguaggio della violenza. Estremismo e ideologia nella filosofia contemporanea

Federico Dal Bo è Dottore di ricerca in Scienza della Traduzione (Bologna, 2005) e Dottore di Ricerca in Ebraistica (Berlino, 2009), svolge la sua attività di ricerca tra ebraistica e filosofia. Attualmente è post-dottorando all’Università di Heidelberg. Tra le sue recenti pubblicazioni si segnalano: Emanation and Philosophy of Language. An Introduction to Joseph ben Abraham Giqatilla (Cherub Press, 2019) e Deconstructing the Talmud. The Absolute Book (Routledge, 2019), Qabbalah e traduzione. Un saggio su Paul Celan traduttore (Orthotes 2019).

Colui che è capace d’esprimersi non ha necessità di appellarsi alla violenza: vige una cesura netta tra linguaggio e violenza?

Penso ci piaccia pensare — o piuttosto sperare — che si sia una cesura netta tra linguaggio e violenza. Purtroppo non è così. Primo Levi ci mette in guardia contro ogni facile distinzione tra i due. In uno dei suoi scritti, ci ricorda che il bastone dei kapò usato per percuotere i prigionieri veniva sarcasticamente chiamato der Dolmetscher — “l’interprete” — proprio perché sapeva spiegarsi meglio di qualunque altro in quella babele di lingue che erano i campi di concentramento nazisti. Questa feroce ironia tradiva una realtà tenebrosa e inquietante: la violenza può essere una forma di linguaggio.

Da un lato, è molto confortante immaginarsi che la violenza sia esclusivamente una cosa da bruti —appunto un atto “brutale,” attuato del brutus latino, da un essere privo di ragione e parola —e sperare che sia la risorsa ultima di chi non sa esprimersi altrimenti. È un’immagine spaventevole ma in fondo confortante perché estromette il violento dall’ambito del linguaggio e quindi, per implicazione, suggerisce che il linguaggio possa essere una sfera pacifica, quasi irenica della realtà. Dall’altro lato, però, sappiamo bene che non è così. Infatti, ci sono innumerevoli esempi storici, se non quotidiani, di uomini che sono pienamente capaci di comunicare, se non addirittura colti ma profondamente violenti – nelle parole e nei fatti. Vorrei richiamare l’attenzione ad un libro di alcuni anni fa che ebbe grande risonanza e fortuna editoriale: Le Benevole di Jonathan Littell. Questo romanzo, in fondo abbastanza modesto, si incentra sul personaggio fittizio di Maximilien Aue, liberamente ispirato alla figura storica di Léon Degrelle -un fascista e collaborazionista belga del quale si vocifera che Hitler una volta avrebbe detto: “se io avessi un figlio, mi sarebbe piaciuto che fosse come lui.” Una vanteria non da poco tra uomini di tal fatta… In ogni caso, sia il fittizio Maximilien Aue che lo storico Léon Degrelle emergono come figure ambivalenti: si tratta di uomini intelligenti, di buone letture, forse addirittura raffinati ma certamente violenti e depravati.

Penso allora che se si vuole che vi sia una cesura tra linguaggio e violenza, questa vada stabilita attivamente, quasi imprimendola tra loro, quasi forzandola. Si tratta, in un certo senso, di recuperare una dimensione socratica del linguaggio, confidando nella forza dell’educazione. Del resto, se come si può imparare una ideologia violenta, la si può anche disimparare.

Quanto il connubio linguaggio e violenza ha consentito il dilagare degli estremismi ideologici?

Se rinunciamo al mito filosofico di distinguere tra linguaggio e violenza, allora possiamo parlare di un’affinità fondamentale tra violenza fisica e violenza ideologica, quasi come se l’una trapassasse nell’altra. Anzi, si può dire che la violenza effettiva sia la prosecuzione della violenza linguistica con altri mezzi, per parafrasare una nota frase di Von Clausewitz.

Però, si noti una differenza fondamentale tra l’epoca post-Napoleonica e quella post-Novecentesca. Quando scrisse la famosa frase per cui “la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi,” Clausewitz operava ancora in un contesto direi “classico” della guerra: erano tipicamente impegnati eserciti contro eserciti e le popolazioni erano per lo più vittime collaterali degli scontri ma non realmente bersagli dell’azione bellica. È chiaro che la guerra ha sempre comportato violenze contro le popolazioni ma almeno ideologicamente, come descritto in tutte le grandi epopee della letteratura mondiale, dall’Iliade all’Ariosto, per dire, l’ideale era un scontro – un duello – tra due fronti contrapposti. Si tratta di una visione che emerge ancora, nonostante diverse storture, ancora nel celebre torbido romanzo Nelle tempeste d’acciaio del controverso Ernst Jünger. In altre parole, Clausewitz riteneva di riconoscere la brutalità della guerra ma anche la sua finalità profondamente politica. Insomma, si trattava di ascrivere alla sfera politica anche la guerra, di rivendicare la guerra come un ambito stesso della politica, non un suo accidente, un errore o una sua trasgressione. Si trattava, insomma, di una lezione di realismo politico.

Eppure, con i totalitarismi del Novecento, questa continuità tra politica e guerra si è tramutata in qualcosa di infinitamente più brutale e oscuro. Se la Grande Guerra obbediva ancora agli stilemi della tipica guerra tra eserciti, di fatto quasi escludendo le popolazioni dal loro diretto coinvolgimento, con la Seconda Guerra Mondiale si generò una “guerra totale,” quella che lo stesso Jünger chiamava la “mobilitazione totale.” Si trattava però di una guerra che era già stata ingaggiata a partire dal linguaggio stesso – da un linguaggio oscuro, tetro, profondamente violento e disumanizzante. Nei suoi celebri taccuini sul linguaggio fascista, Viktor Klemperer ha mostrato accuratamente come la brutalizzazione fisica sia stata anticipata da un linguaggio snaturato – quello burocratico nazista – che era un incrocio inaudito di ipocrisia e violenza. Da un lato si negava la persecuzione con frasi abilmente manipolate, ma dall’altro la si incentivava disumanizzando le vittime.

Lei ha scandagliato con raro acume il pensiero di Walter Benjamin, Martin Heidegger, George Steiner e Sigmund Freud a proposito del linguaggio della violenza. Quali specificità emergono e quale, eventualmente, il filo rosso che li lega?

Anche se può sembrare paradossale, devo dire che il filo rosso che lega queste quattro figure è proprio l’ebraicità, anche se ovviamente non sono tutti ebrei. Di questi tre questi intellettuali l’unico non ebreo era ovviamente Heidegger – che però ebbe un fortissimo ascendente sulla classe intellettuale ebraica, moltissimi suoi studenti erano ebrei e molti dei suoi futuri studiosi lo saranno. Pensiamo ai più illustri e famosi come Hannah Arendt, Karl Löwith, Emmanuel Lévinas e Jacques Derrida. Del resto, non è un caso se in ambienti nazisti Heidegger venisse accusato di “talmudismo,” come riportato in un celebre valutazione ufficiale presentata da un suo collega presso il Ministero dell’Istruzione nazista negli anni Trenta.

Tuttavia, la questione è più complessa di così. Riguarda proprio la particolarità della cultura ebraico-tedesca – la cosiddetta Bildung. Da un lato, c’erano volenterosi ebrei tedeschi come Martin Buber che credevano nel dialogo ebraico-tedesco con tutto il cuore, per usare, non a caso, una metafora cristiana. Dall’altro c’erano intellettuali ebrei tedeschi del tutto disincantati, come Gershom Scholem, che ritenevano che questo dialogo ebraico-tedesco fosse un mito – a danno degli ebrei che si trovavano a rincorrere un sogno da cui si sarebbero risvegliati in modo feroce e crudele. Non so chi dei due avesse più ragione, forse entrambi proprio data la intrinseca contraddittorietà dell’ebraismo ebraico-tedesco che poteva portare due così grandi figure – Martin Buber e Gershom Scholem – a due posizioni così antitetiche.

Ciò emerge anche nel caso di Heidegger, ora stigmatizzato in modo forse un po’ troppo superficiale per i suoi già famigerati Quaderni Neri. La questione in effetti non è quanto fosse antisemita l’uomo bensì quanto il suo pensiero abbia cercato di assimilare l’ebraismo tedesco, cogliere alcune delle sue idee fondamentali e infine espropriarle, rivendicandole esclusivamente all’ambito tedesco – ovvero “ariano,” in questo caso. Penso in primo luogo all’idea che il linguaggio sia il luogo stesso della riflessione e della possibilità per la filosofia. È un tema profondamente ebraico che emerge in tutti questi quattro autori, appunto con la differenza che Heidegger non lo ascrive all’ebraismo ma anzi lo “estrae” dall’ebraismo tedesco, rivendicandone una filiazione esclusivamente greca ed ariana -la famosa connessione essenziale tra Grecità e Germanicità che ha fatto sempre molto discutere.

Ecco, queste pretese da parte di Heidegger non sono semplicemente una forma di ideologia tardo romantica ma bensì l’esercizio di una profonda violenza filosofica nei confronti dell’Altro. Trovo che questo atto di violenza sia infinitamente più brutale delle sue frasi antisemite che, in fondo, sono ridicole, banali, qualunquiste e persino indegne del pensatore qual era. Eppure, anche se potessimo depurare il discorso heideggeriano da queste frasi, espungendole o semplicemente ignorandole, saremmo sempre di fronte all’immane colpa di aver espropriato l’ebraismo tedesco dei suoi concetti fondamentali e averli ascritti esclusivamente e perentoriamente alla tradizione filosofica occidentale.

Quali sono le attuali possibili derive autoritarie del nesso linguaggio-violenza?

Per cominciare a rispondere alla sua domanda, credo sia importante pensare nuovamente agli orrori del Novecento. Se questo secolo terribile ci ha insegnato qualcosa è proprio che il nesso tra linguaggio e violenza può portare alla costruzione, organizzazione e perpetuazione di orrori inimmaginabili – che però sono stati immaginati e rappresentati in forme linguistiche precise, secondo leggi precise, secondo direttive precise. È una questione di una profondità inaudita. Non è un caso se grandi autori come George Steiner rimasero sempre scettici rispetto alla possibilità di “depurare” il linguaggio da un simile bagno di violenza e quasi adombrarono l’idea che una volta intaccato così a fondo l’albero del linguaggio, per riprendere un’immagine kabbalistica, non sarebbe più stato possibile salvarne la linfa vitale. Ora, non è necessario proiettare la questione del nesso tra linguaggio e violenza in una simile prospettiva, quasi metafisica per osservare che la questione del nesso tra linguaggio e violenza è sempre attuale, tragicamente attuale.

Per tutti coloro che pensavano che i campi di concentramento nazisti fossero un evento irripetibile, la ferocia delle guerre jugoslave negli ultimi anni del Novecento e la costruzione di campi di concentramento per bosniaci a Tarčin hanno purtroppo mostrato quanto avesse ragione Primo Levi a dire, con spirito squisitamente scientifico: se è accaduto una volta può accadere ancora. Al di fuori del contesto europeo, possiamo pensare al genocidio in Ruanda, avvenuto quasi negli stessi anni. Si è trattato di due eventi dalle motivazioni storiche e sociali diversissime che però hanno avuto una matrice comune nella propaganda della violenza prima della violenza stessa, nella loro preparazione organizzazione.

Questo non significa dire che ogni forma di violenza o intemperanza verbale sia virtualmente omicida o addirittura causa di un genocidio bensì, più profondamente, che nessuna violenza può avere luogo senza il supporto del linguaggio che, per così dire, “si presta” ad essere abusato per perpetrare crimini. Si tratta di rendersi conto che i fascismi europei ma anche nei crimini più recenti videro alla loro guida e alla loro esecuzione non dei demoni bensì degli uomini in carne ed ossa. Si badi di non cadere nell’equivoco ingenerato, magari inconsapevolmente, dalla abusata idea della “banalità del male.” Questa formula ha il demerito di suggerire probabilmente il contrario di ciò che riteneva Hannah Arendt. Parlare della “banalità” di questi individui non significa dire che fossero uomini comuni o “banali” bensì che erano esseri umani normali, non deviati, psicopatici o abnormali. Ciò che li ha traviati, per usare un termine un po’ desueto, è stato il linguaggio. Si trattava infatti di individui che avevano grandi capacità oratorie ma che tuttavia erano dominati da una natura assolutamente violenta con cui avevano indottrinato i loro seguaci. Certamente, si può obiettare che costoro non fossero dei veri oratori ma bensì solo dei retori, dei sofisti, dei sobillatori e degli agitatori o, per dirla con Gadda, che i loro discorsi non fossero altro che “una istrombazzata di parole senza costrutto, ch’erano i rutti magni di quel furioso babbèo.”

Eppure, nonostante le cautele ironiche e caustiche del nostro Gadda, dà molto da pensare che la potenza oratoria dei dittatori esercitò un grande fascino anche su uomini di cultura. Si pensi, di nuovo, a Martin Heidegger — un uomo di grandi se non grandissime letture — che restò affascinato da Hitler. Quando gli venne rimproverato di lasciarsi trascinare da un uomo rozzo e ignorante, sembra che Heidegger abbia risposto: “la cultura è indifferente, basta guardare le sue mani portentose!” Si tratta di una frase spaventosa, non tanto perché tradisce il fascino dell’intellettuale per il Potere — questo, in fondo, è un luogo comune nella storia della filosofia, almeno dal caso di Platone e il tiranno di Siracusa in poi — ma piuttosto perché manifesta la debolezza dell’intellettuale di fronte al Potere. L’intellettuale si mostra per colui che è: qualcuno che è disposto a barattare la cultura per l’energia, la visione critica del reale per la propaganda, ovvero in un certo senso il linguaggio per la violenza. Ovviamente, si tratta di un tipo particolare di violenza, costruito su un uso particolare — oggi diremmo: demagogico — del linguaggio.

Arrivo allora alla risposta. Ciò che ci ha insegnato il Novecento appunto è la relativa facilità con cui si può indottrinare individui, gruppi o addirittura un popolo intero alla violenza, proprio perché linguaggio e violenza non sono intrinsecamente divisi bensì connessi, quasi permeabili l’uno con l’altro, se non tenuti distanti l’uno dall’altro, praticando proprio quella che lei prima chiamava una “cesura.” Insomma, si tratterebbe di concepire il compito filosofico come quello di incidere una cesura tra linguaggio e violenza, ottemperando al suo più antico spirito socratico. Il rischio più concreto, forieri di pericolose derive autoritarie, appunto è la demagogia.

La Cultura corre il rischio d’essere investita dalla violenza della comunicazione?

A dispetto di ogni nostro pregiudizio romantico o post-romantico, la cultura non è aliena dalla violenza ma anzi può esserne addirittura il veicolo principale. Se si legge Gramsci, la stessa idea dell’egemonia non è aliena dal presupposto che la cultura — lì intesa come cultura marxista — possa e anzi debba farsi carico di un’azione rivoluzionaria che ovviamente richiede l’uso della forza per effettuare un cambio di regime. Ciò non significa banalmente che la comunicazione svolga un ruolo fondamentale per veicolare i contenuti del linguaggio ma piuttosto che i canali di comunicazione di massa non siano necessariamente i più adatti per veicolare i contenuti del linguaggio, per quanto questo possa sembrare paradossale.

Ad un livello abbastanza superficiale, la sociologia della comunicazione cerca di diffondere una percezione quasi inoffensiva, tragicamente ingenua, dei canali comunicazione di massa – i cosiddetti mass media social media. Entrambi però veicolano il contenuto del linguaggio su una scala e una trasmissibilità che facilmente trascendono l’orizzonte antropologico comune. Nel testo ho fatto l’esempio di Twitter che ai suoi albori venne usato maldestramente da un utente per una battuta assai infelice prima di salire in aereo per il Sud Africa. La frase effettivamente cretina (“sto andando in Africa. Spero di non beccarmi l’Aids. Scherzo, sono bianca!”) venne rilanciata su scala planetaria trasformando questa grande stupidaggine personale (ma chi di noi non dice stupidaggini a livello privato?) in un caso di razzismo che interessò moltissime personalità internazionali e le provocò gravi danni sul piano lavorativo e personale. Ciò che mi interessava di questo caso non era tanto se fosse una bella battuta o meno bensì il fatto che una comunicazione personale venne forzatamente trasformata in un evento di natura politica. Al fondo di questo evento non c’era tanto l’uso maldestro di un social media come Twitter bensì, mi sembra, la profonda eterogeneità tra linguaggio e un mezzo di comunicazione di massa – che evidentemente non è più l’amplificazione della comunicazione ma qualcosa di più inquietante che non sappiamo ancora comprendere esattamente.

Sarei tentato di dire che l’avvento della comunicazione di massa ma soprattutto dei social media stia avendo un impatto assimilabile a quello dell’invenzione della scrittura. Come l’invenzione della scrittura non era, nonostante il trito mito platonico, la semplicemente “trascrizione” della voce su carta, così l’invenzione dei mezzi di comunicazione di massa non è semplicemente la “amplificazione” della voce di un gruppo o del singolo – bensì qualcosa di più eterogeneo che ancora sfugge alla nostra comprensione.

Giuseppina Capone

 

Alcolismo: le conseguenze sui figli di un padre alcolista

“Vivevo nel terrore ogni volta che sentivo i suo passi. Mio padre era un alcolizzato, beveva perché era debole e non sapeva affrontare i problemi della vita e questo lo portava ad essere violento. È stato il mio incubo e quello di mia madre per diversi anni”

Rifugiarsi nell’alcool per fuggire alle difficoltà della vita non può essere un rimedio anzi, si finisce per far soffrire chi si ha attorno, soprattutto quando a pagarne le conseguenze sono i figli. Difatti, per i figli, vivere con genitori che incutono terrore giorno e notte, li fa crescere con il timore di poter essere aggrediti in qualsiasi momento e da chiunque, anche quando si è fuori pericolo. Questo può portare ad avere difficoltà soprattutto durante l’adolescenza e non solo, corrono il rischio di trascinarsi questa paura fino all’età adulta. Le difficoltà che incontrerà colui che ha vissuto con un padre violento possono essere di diverso genere: ansia, paura dell’abbandono, difficoltà a relazionarsi con i coetanei, difficoltà nello studio, iperattività o, al contrario, si chiude in sé stesso, si isola o si circonda di troppe persone (di chiunque e spesso anche compagnie sbagliate perché si accontenta, perché crede di non poter meritare di più). Ancora, corre il pericolo di poter essere anaffettivo, oppure rischia di vivere con il continuo bisogno di affetto ma allo stesso tempo riscontrando problemi nelle relazioni, soprattutto quelle amorose.

“Perché se mio padre non mi ama come può amarmi qualcun altro?” è questo il quesito che si pone chi è cresciuto con una figura paterna violenta. Oltre alla carenza d’affetto, al perenne timore di essere aggredito e al vuoto che può lasciare nel cuore di un bambino un padre assente, si aggiunge la violenza verbale: parole offensive sminuiscono e svalutano il valore di chi le subisce, finendo per credere davvero in ciò che gli viene detto, ossia di non poter essere all’altezza di realizzare ciò che desidera.

Spesso, tanta tensione accumulata si somatizza in varie forme di malessere o, addirittura, nel peggiore dei casi, in gravi malattie. È fondamentale, quindi, chiedere aiuto qualora non si avesse la forza di reagire da soli ma bensì una grande volontà di farlo, perché  razionalizzare, prendere atto della sofferenza subita e riuscire a esternarla, ci regala la possibilità di lasciarla andare via per poter mettere una distanza tra noi e quella persona che per anni ci ha recato tanto dolore e dispiacere, in modo tale da riuscire ad accantonare quei brutti momenti e far si che diventino ricordi  lontani e magari il punto di forza da cui ricominciare. L’importante è comprendere che chi soffre non è chi subisce, ma chi fa del male. La vittima, prima o poi, se ne libera e va avanti, chi fa del male non può che continuare a vivere nell’infelicità e nell’incapacità di gioire della vita.

“Ho capito che l’unica soluzione sarebbe stata quella  di farmi aiutare e allontanarmi da lui perché solo così sarei riuscito a buttarmi tutto alle spalle e ricominciare da capo. Perché tutta quell’angoscia io la somatizzavo in forti mal di stomaco”. Emiliano 29 anni, napoletano racconta la sua esperienza con un padre alcolizzato.

Emiliano, ricordi quando tuo padre ha iniziato ad essere violento?

Da  sempre. Anche solo in piccole dinamiche, anche solo verbalmente o con i toni con cui si rivolgeva a me. Mia madre dice che quando erano fidanzati o all’inizio del matrimonio lui non era così, ha iniziato ad esserlo quando lei aspettava me, lui non voleva avere figli. Fabio (mi padre) suonava il pianoforte in una band e faceva concerti in piazza. Non solo, dipinge, ama disegnare ed è anche molto bravo, obiettivamente parlando. Si definiva un’artista, ma io credo che l’artista abbia un animo gentile, sensibile ed empatico, soprattutto. L’unica cosa buona che mi ha trasmesso è questa forte passione per l’arte. Per tutto il resto io sono e voglio essere una persona completamente diversa da lui.

Quanti anni avevi quando siete andati via di casa insieme a tua madre?

Avevo cinque anni quando una notte mio padre tornò ubriaco alle tre e voleva mettersi a suonare con i suoi amici. Mia madre glielo impedì e lui reagì malamente. Quella stessa notte, con la bocca sanguinante, mi prese in braccio e corse a casa di sua madre (mia nonna materna). Tutt’oggi, mamma si rammarica per non avermi portato via prima da quel mostro ma io non ce l’ho con lei anzi, capisco che era la vittima e quando è così non si ha la forza di reagire. Per fortuna, quando in quella casa si è toccato veramente il fondo, ha avuto il coraggio di andare via.  Purtroppo, però, io ci ho impiegato anni per buttarmi alle spalle tutti quegli episodi di violenza che abbiamo subito, tra calci e insulti.

Ti fa ancora male ricordare quegli episodi?

Con la maturità di adesso no, mi fa ancora rabbia solo per le conseguenze che hanno avuto i suoi comportamenti violenti su mia madre. Ma grazie all’affetto di mia nonna, mia mamma e del suo nuovo compagno sono riuscito ad andare avanti anche se ho riscontrato diverse difficoltà sia a concentrarmi nello studio sia nei rapporti umani, e soffrivo anche di forti mal di stomaco. Crescendo ho chiesto aiuto ad uno psicanalista e insieme abbiamo affrontato il mio passato, razionalizzandolo e accantonandolo per sempre. L’allontanamento da Fabio (mio padre) è stato, col tempo, solo una rinascita per me. Ho capito che è una persona perennemente infelice, incapace di apprezzare qualsiasi cosa della vita e quindi non può che suscitarmi tanta pena e tristezza, perché io che ho subito posso andare avanti, lui non saprà mai essere felice.

Quando hai iniziato a chiamarlo per nome e non più papà?

Da quando, verso i 10 anni, io e mia madre siamo andati a vivere a casa del suo compagno. Ho quindi iniziato a considerare lui mio padre, anche perché si comportava da tale e, di conseguenza, chiamavo mio padre biologico per nome. Per porre, una volta per tutte, questo distacco tra me e lui. In realtà, fino a quando avevo 9 anni, Fabio, veniva a casa di nonna a trovarmi ma io spesso fingevo di dormire avendo come complice nonna. Adesso vive fuori Napoli, per fortuna, e allora ho preso la palla al balzo per allontanarmi del tutto da lui.

Quali sono i ricordi belli e brutti che hai di lui?

Quando ancora vivevo con lui aveva dei momenti di lucidità e mi portava al parco, alle giostre, anche se spesso vedevo le sue reazioni eccessivamente aggressive anche con il prossimo, anche per cose molto futili dove non ce ne sarebbe stato bisogno. Ho anche trascorso dei momenti piacevoli con lui da bambino perche sapeva essere, a volte,  una persona divertente ma passava da uno stato d’animo all’altro e questo mi scombussolava. Ho deciso di perdonarlo per me stesso ma non voglio più averci a che fare. Anche se è colui che mi ha messo al mondo io non lo considero mio padre e credo fermamente che non basti avere lo stesso sangue. Per me non è, e non sarà mai mio padre.

Alessandra Federico

I capolavori di Giotto a Firenze, Rimini e a Padova

I capolavori di Giotto a Firenze, Rimini e Paova.

Crocifisso di Santa Maria Novella

Per Giotto la rappresentazione è concepita come un volume: le figure e il paesaggio dovevano essere estratti da un blocco di marmo con processo analogo a quello dello scultore. Il corpo del Cristo si sporge in avanti e il nudo è studiato dal vero. In tutta la storia dell’arte l’umanità del Cristo non era mai stata espressa in un modo altrettanto sincero e toccante. Per il Giubileo del 1300, Giotto si recò nuovamente a Roma dove ebbe importanti commissioni.

La pala della Madonna in maestà

Giotto dipinse la Madonna in Maestà per la chiesa fiorentina di Ognissanti (ad oggi agli Uffizi). Opera realizzata per essere inserita sull’altare maggiore dell’omonima chiesa. La Madonna è inserita per la prima volta entro un’edicola marmorea con tonalità di colori nuovo e vivaci.

La cappella degli Scrovegni a Padova

Enrico degli Scrovegni (ricco mercante padovano che commissionò la cappella da costruire e decorare) dichiarò che la desiderava per strappare l’anima del padre alle pene del purgatorio e per espiare i suoi peccati. Per questo motivo il ciclo di affreschi della cappella degli Scrovegni ha un carattere espiatorio. Tutto questo, però, scatenò la reazione dei frati del vicino convento degli Eremitani, i quali scrissero una lettera al vescovo affermando che i dipinti all’interno erano fonte di grande scandalo e che il committente aveva aperto la cappella per orgoglio, vanagloria e personale profitto e non che per lode, onore e gloria a Dio.

La cappella degli Scrovegni venne fondata nel 1303, venne poi consacrata due anni dopo. L’unica navata della cappella fu rivestita di affreschi. Tutto il restante dello spazio della cappella venne riempito con dipinti degli episodi della vita di Gesù. Da questi affreschi in poi, rispetto all’altro ciclo di Assisi, il senso della profondità e del rilievo permangono.

Giotto, accentua le gradazioni del colore, rende i contorni meno duri e incisivi, li attenua dando spazio ai  paesaggi che diventano sempre più parte della composizione. Ancora, Giotto, mette  a punto nuove definizioni degli affetti e dei sentimenti: la calma e concitazione dei volti dei personaggi danno rappresentazioni diverse e sempre più reali.

L’ultima fase della sua carriera, Giotto, la trascorse maggiormente viaggiando da Firenze a Napoli, a Milano, a Bologna. L’attività fiorentina dell’artista si svolse soprattutto nella chiesa francescana di Santa Croce, nella quale Giotto dipinse ben 4 cappelle che ad oggi, però, rimangono solo gli affreschi eseguiti per decorare le cappelle Peruzzi e Bardi, entrambe nel transetto dell’edificio. Le storie dei Santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista che decorano le pareti della cappella Peruzzi (1327-1318 – oggi molto rovinate ) segnano una notevole svolta nella carriera dell’artista: il senso di grande monumentalità reso attraverso la chiara disposizione delle figure e delle ampie strutture architettoniche è maggiore e restituisce l’idea dell’altissimo momento del percorso dell’artista. Per la decorazione della cappella Bardi, invece, furono scelte le storie di San Francesco  (1325-1328)

Verso la città partenopea

Da lì a poco, Giotto si recò a Napoli in seguito alla chiamata di re Roberto d’Angiò  presso la corte angioina. Giotto, in breve tempo venne nominato dal re “primo pittore di corte e nostro fedele” assegnandogli anche uno stipendio annuo. L’artista rimase  a Napoli fino al 1333. Una volta tornato a Firenze, essendo responsabile della fabbrica del Duomo, avviò la costruzione del celebre campanile. Poco tempo dopo, realizzò, per la chiesa bolognese di Santa Maria degli Angeli, il polittico raffigurante la Vergine in trovo e i quattro santi. Giotto morì l’8 gennaio del 1337 e venne sepolto in Santa Reparata.

Alessandra Federico

 

 

Giotto: l’artista imprenditore del Trecento

Giotto nasce a colle di Vespignano nel 1267 (Vicchio, Toscana) da una famiglia di possidenti terrieri. Affidato in tenera età alla bottega di Cimabue, rivela ben presto le sue capacità artistiche attraverso il suo primo disegno  (pecorella fatto col carbone su un sasso). Non solo, per la famosa “O” di Giotto (era capace di disegnare una perfetta circonferenza senza l’aiuto del compasso),  fu la conferma che il piccolo aspirante pittore-architetto possedeva grandi doti  artistiche che avrebbero fatto la storia dell’arte.

Nel 1287 sposò Ciuta con la quale ebbe ben quattro figlie e quattro figli. Successivamente aprì una bottega all’interno della quale progettava, assieme ai suoi alunni, ai quali lasciava fare compiti secondari, le opere e composizioni più importanti. Durante la sua lunga carriera, Giotto, ebbe mutamenti profondi. Si allontanò, infatti, dalla tradizione e compì nella pittura il grande mutamento: rinunciò a conservare la tradizione per esporsi invece ai rischi di un’elaborazione personale e, grazie alla sua scelta di distaccarsi dalle vecchie tradizioni, riuscì a stabilire un rapporto privilegiato e diretto con tutto ciò che viene definito natura. Agevolando la formazione dell’artista tutto questo fece sì che i suoi personaggi fossero maggiormente dotati di espressività di sentimenti e di stati d’animo.

La formazione di Giotto

Nella formazione e maturazione di Giotto ebbero una notevole importanza gli stimoli intellettuali di cui si nutrì la sua opera. Ad Assisi l’artista entrò in contatto con un pensiero profondamente innovatore (pensiero antiscolastico francescano), quasi sovvertitore rispetto all’autorità costituita dalla chiesa,  e con il forte senso della realtà di dio. Mentre a Padova entrò in contatto con la raffinata vita di corte e con i fermenti  di un’università votata allo studio della medicina, della filosofia aristotelica e del rapporto fra corpo  e anima.

Sempre a Padova, ebbe qualche nozione della civiltà bizantina del mosaico. Conobbe, inoltre, il percorso della scultura francese dal Duecento al Trecento.

Giotto era uno dei pochi grandi artisti capaci di mutare incessantemente pur rimanendo sé stesso. Questa grande capacità di espansione del linguaggio giottesco si lega ai mutamenti culturali del periodo passando anche attraverso forme di lavoro artistico. Nel periodo della sua maturità Giotto fu anche artista-imprenditore: progettava le opere, dirigeva il lavoro degli allievi all’interno della sua bottega che produceva per l’intera Italia. Giotto fu, di fatti, il protagonista della rivoluzione pittorica in Italia del Trecento. Con lui nasceva un nuovo modo di rappresentare e di raccontare.

Le opere di Giotto ad Assisi

Poco più che ventenne (1292) dipinse una delle volte e alcune scene bibliche ad Assisi. Poco dopo si dedicò alla realizzazione degli affreschi dedicati alla vita di San Francesco: ventotto scene ispirate alla vita del santo. San Francesco non era più raffigurato come immagine della santità, ma la sua umanità si distanzia dall’immagine formale, conforme ai canoni della pittura bizantina. Gli artisti traducono la sua leggenda come l’incontro con una persona reale. Le figure sono inserite in paesaggi aperti in modo da farle apparire perfettamente reali.

Alessandra Federico

Il MARCONI va in scena… al tempo del COVID

Gli studenti dell’I.S. “G. Marconi” di Giugliano impegnati nel progetto realizzato nell’ambito dell’iniziativa “PER CHI CREA” promosso dal MiBAC e SIAE

E’ già ripreso con fervore da alcune settimane dopo una lunga pausa causata dalla situazione che si è generata dalla pandemia e dal lockdown, nel rispetto delle norme anti Covid-19, il lavoro di preparazione per la messa in scena nella nuova modalità online del lavoro che vede protagonisti gli studenti dell’I.S. “G. Marconi” di Giugliano in Campania. 

Nato originariamente come “musical”, con il sostegno del MiBAC e di SIAE nell’ambito dell’iniziativa PER CHI CREA, ha dovuto necessariamente fare i conti con tutte le problematiche legate al Covid-19 che hanno limitato la possibilità di studiare e stare a scuola in presenza e di conseguenza di portare avanti l’iniziativa.

La prof. Giovanna Mugione, dirigente scolastico del prestigioso Istituto, che ha conquistato nel corso degli anni importanti riconoscimenti nazionali ed internazionali, però, non si è arresa all’impossibilità di andare in scena con il musical “Il Marconi va in scena” e insieme ai docenti impegnati nel progetto, all’autore, al regista, agli esperti (storica dell’arte, giornalista, musicista, coreografa) coinvolti nel lavoro ha ripensato l’iniziativa attualizzandola all’odierna situazione.

Gli studenti del Marconi saranno quindi i protagonisti con i loro personaggi di questa storia d’amore ambientata tra presente e passato nei luoghi dei Sedili di Napoli.

Certo, il lavoro di organizzazione e realizzazione è e sarà più complesso ma gli studenti-protagonisti di questo straordinario impegno, dagli attori ai tecnici audio-video, non hanno perso l’entusiasmo iniziale anzi hanno accettato con interesse e impegno la nuova sfida lanciata certi di portare a termine questa nuova importante esperienza.

 

 

Piero Sorrentino: Un cuore tuo malgrado

Abbiamo incontrato Piero Sorrentino per parlare del suo libro.

Un cuore tuo malgrado: su quali temi si innesta la sua riflessione?

Sono partito dalla prima scena del libro, scrivendo solo quella e senza darmi un tema preciso. Il capitolo di apertura, quello nel quale avviene il rovinoso tamponamento tra l’autobus guidato dalla protagonista e voce narrante, Bianca, e l’automobile sulla quale viaggiano Dario Spatola, sua moglie Giulia e il loro figlio piccolo Vittorio, è anche il capitolo nel quale ho rifuso pressoché integralmente l’unico spunto autobiografico del romanzo, uno scontro appunto tra un autobus e un’auto al quale mi era capitato di assistere, praticamente nelle stesse identiche modalità raccontate nelle prime pagine del romanzo, ma per fortuna con esiti assai meno disastrosi. Da quel pullman era scesa un’autista donna, dall’auto era venuta fuori una famiglia di tre persone, e mi aveva colpito il fatto che la relazione che si era immediatamente innescata da quello scontro era una relazione tra donne. Mentre l’uomo, come spesso idiotamente facciamo noi maschi, era corso a guardare il paraurti della sua bella automobile, l’autista donna era andata immediatamente verso la mamma che teneva in braccio suo figlio e aveva messo una mano a coppa, a casco, sulla testa del bambino, benché fosse chiarissimo che nessuno si era fatto neppure un graffio. Da lì ho cominciato ad assecondare il meccanismo immortale del “what if’”, del cosa sarebbe successo se le conseguenze di quello scontro fossero state invece decisamente più gravi.

E a partire da questo, ho capito che la prima cosa che mi interessava raccontare era quella che Ottieri aveva chiamato in un suo libro bellissimo “L’irrealtà quotidiana”, quella irrealtà quotidiana, nel caso della storia raccontata in “Un cuore tuo malgrado”, di chi vive un momento di pura sorte che dura dieci secondi – cioè appunto l’incidente – e le conseguenze di questo che si allungano su tutta la vita. Quindi stare dentro un dolore e raccontare una ferita, un trauma che da un lato trascolora nella normalità del dopo, nella ripresa della vita, ma contemporaneamente anche, seguendo un movimento opposto, la quotidianità che assume le fattezze del trauma, le giornate in cui non hai neppure la possibilità di elaborare un lutto intanto per il non trascurabile motivo che sei stato tu il portatore di quel lutto; e poi perché non hai la possibilità di dire addio a quel momento, in questo caso l’incidente d’auto provocato da Bianca, perché di quel fatto, che pure ha portato alla morte di due persone, ne resta una terza, resta colui che è sopravvissuto, e dunque resta il testimone scandaloso non solo del suo dolore ma anche del TUO dolore, la sua esistenza è la denuncia continua non solo della tua colpa ma della tua fragilite della tua impossibilità di trovare un posto, in qualsivoglia forma, nel mondo sbagliato, nell’universo storto che hai contribuito giocoforza, e tuo malgrado, appunto, come recita il titolo del libro, a creare.

Il suo romanzo narra anche di due sorelle, legate da un laccio sentimentale inscindibile, quello della famiglia. Perché i legami familiari sono sempre così passionali, in grado, al contempo, di allontanare ed attirare, congiungere e dividere, annientare e generare?

Perché le famiglie sono il nodo che stringe fino al soffocamento o che ti salva dal precipizio, dipende da come e quanto riesci a regolarlo senza farti male. In questo caso un ruolo importantissimo nel romanzo è quello di Margherita, la sorella di Bianca. Margherita è una traduttrice letteraria, ed è dunque anche in fondo una scrittrice – noi spesso ci dimentichiamo che un traduttore è anche uno scrittore. Intere generazioni di noi non hanno mai letto The catcher in the rye di Salinger, hanno letto Il Giovane Holden di Adriana Motti. E dunque in virtù di questo suo statuto professionale Margherita è profondamente consapevole che le parole sono creature viventi, assumono forme diverse, significanti che mutano spesso radicalmente da una lingua all’altra, e quindi sa che le parole che salvano non sono facili da rintracciare, proprio come spesso non è facile portare da un’altra lingua i sensi, le sfumature, i significati, le gradazioni. Margherita sa quello che sapeva benissimo Marina Cvetaeva quando diceva: “Faticoso e febbrile è il lavoro necessario nel trovare parole che facciano del bene. Lei ci prova con Bianca subito dopo l’incidente, le suggerisce di seguire la terapia di parola per eccellenza, che è quella psicoterapeutica, ma ottiene da parte di sua sorella un rifiuto forte, frontale, diretto, e quindi a un certo punto farà un passo di lato provando a starle accanto utilizzando altre virtù, quella della speranza, per esempio, o della temperanza, assecondando la semplicità dimessa dei bisogni di Bianca. È un personaggio, quello di Margherita, al quale pensavo sempre come se agisse tenendo tra le mani la mappa dell’ “Isola del Tesoro” di Stevenson, un pezzo di carta per il quale ci sono morti, arrembaggi, tradimenti salvo poi scoprire che era tutto inutile visto che il tesoro fin dall’inizio era già altrove, non è mai stato lì dove era indicato. Per Margherita la salvezza di Bianca corrisponde esattamente a quella crocetta sulla mappa: apparentemente vicinissima, letteralmente sotto gli occhi, eppure irraggiungibile.

Il percorso della protagonista si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole impatto emozionale.

Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione?

Io non volevo raccontare il tempo della sintesi, della elaborazione. Sarebbe stato un altro romanzo, quello del tempo che passava, e Aldo Busi, per esempio, questo l’ha detto magnificamente nell’incipit di quel suo primo romanzo straordinario che è “Seminario sulla gioventù”: “Che cosa resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? Niente, neppure una reminiscenza. Il peggio, una volta sperimentato, si riduce col tempo a un risolino di stupore…”.

Quello della protagonista è un percorso di urgenza, la traiettoria di qualcuno che non capisce o non vuole capire di dover armonizzare la sua esperienza del tempo con quella degli altri, che siano appunto Dario, ma anche sua sorella Margherita. E per raggiungere questo scopo utilizza anche mezzi e strategie di puro inganno.

Questo è un libro sul dolore, sul senso di colpa, sul trauma ma è anche un libro sulle maschere. In esergo ho indicato tre o quattro versi di un testo di un poeta molto bravo – temo non troppo noto – che è Vittorio Reta, morto suicida molto giovane, nel ‘77, a neppure 30 anni, versi che per il lettore sono – almeno credo, almeno queste erano le mie intenzioni – una traccia utile di decifrazione di tutta la vicenda del libro. È come se gli consegnassi subito in mano le chiavi che aprono la porta di questo romanzo ma poi ovviamente gli stacco la targhetta col numero, è lui che deve andare, come è doveroso che sia, alla ricerca del percorso giusto da fare per trovare la toppa utile con la quale aprirlo.

Amore, condivisione, solidarietà sono solo alcuni dei temi che affronta.

Qual è il messaggio etico ultimo che intende veicolare?

Qui non saprei bene che cosa rispondere, anche perché credo che la letteratura non debba mai mandare messaggi, soprattutto etici. Questa, del resto, è anche una storia che contiene aspetti contraddittori e respingenti del nostro essere e del nostro animo, come la rabbia. Di tutti i sentimenti, io credo che sia la collera che spesso spinge le persone più direttamente alla volontà di esprimersi. Come nel caso di Dario, il personaggio che subisce una grave tragedia, che è profondamente in collera con la vita, e che da questa sembrerebbe, con quella brutta espressione che spesso usiamo, sempre sul punto di essere invitato da chi gli sta accanto, come a volte capita in questi casi, a “buttarsi subito nel lavoro”. In realtà è per colmare lo strappo che l’esperienza della perdita apre nella sua esistenza, Dario va contro l’insegnamento tragico di Lacan, Freud, della psicoanalisi, quando spingono verso la notissima “elaborazione del lutto”. Non la capisce, non gli interessa. Siccome viene presentata come lento ritorno alla normalità, smussamento del dolore e così via, lui fa finta di intraprendere questo percorso tenendo un corso di fotografia, lanciandosi in un nuovo progetto fotografico, ma in fondo la sua volontà è quella di tenersi stretta questa esperienza tragica (per esempio continua a tenere in bella vista nel suo studio le fotografie della moglie e del figlio, anzi le dispone in modo tale che risultino a lui SEMPRE e COSTANTEMENTE visibili), lui raccoglie l’eredità di questa tragedia, non vuole che vada dispersa perché sennò rischierebbe di sentire di star perdendo una dimensione della nostra vera condizione, cioè quella di esseri viventi esposti irreparabilmente al rischio, letteralmente ogni secondo, della morte, la nostra e quella altrui. E lo fa imponendosi una costrizione, quella di un progetto fotografico in cui assume molte identità. È un lavoro realmente esistito di un americano che si chiama Caleb Cole, “other people’ clothes”, i vestiti degli altri, e questa costrizione lui la vive non come un limite che richiude una esperienza ma come un varco da attraversare.

La storia che narra delinea un percorso che pare indurre ad evadere dalla “comfort zone”, sfidando i propri spettri per smettere di sopravvivere e iniziare realmente a vivere.

Questo delicatissimo libro nasce con uno scopo salvifico? La scrittura stessa può assurgere ad una funzione soterica?

Anche in questo caso, guardo sempre con sospetto i libri che nascono con delle intenzioni. Però è altrettanto vero che questo non è un libro interamente nero e pessimista, e in fondo uno spiraglio di luce si apre con il personaggio del bambino Carlo, che incarna una ipotesi e una prospettiva di futuro e di redenzione (anche se ovviamente non dirò quale e in che modo per lasciare il sacrosanto gusto della scoperta dei lettori). E Carlo lo fa assumendo su di sé la figura della Speranza. A pensarci, non è tanto facile comprendere la natura di virtù della Speranza, che sembra non avere alcun legame con le altre sei Virtù, perché nella Speranza c’è inevitabilmente la condizione del futuro, di qualcosa che non c’è e che noi crediamo verrà, ma non esiste, ci è estranea la Speranza. Io posso essere forte, temperante, giusto, prudente, e posso soprattutto esserlo qui e ora, ma la Speranza, chi lo sa. In fondo è pure qualcosa che ci pesa: aspettiamo i giorni favorevoli futuri, e però mentre lo facciamo sentiamo ancora di più il peso dei giorni presenti che sono angoscianti. C’è una pagina dello Zibaldone in cui Leopardi notava come abbiamo un sacco di modi e di parole per esprimere il timore, il temere, l’intimorire, il timoroso e così via, alla speranza, diceva, toccano “una parola o due”, e questo vale, notava Leopardi, non solo per l’italiano ma per lo spagnolo, anche il greco…

Ecco, io ho voluto che in quella figura si addensasse una possibilità di ricostruire un tessuto di contatto anche con una esistenza tormentata nella quale la luce della speranza si può accendere e può arrivare da dove meno te l’aspetti.

 

Piero Sorrentino

Suoi racconti sono stati pubblicati nelle antologie Voi siete quiIl corpo e il sangue d’Italia(minimum fax), Niente resterà pulito(Rizzoli), A occhi aperti(Mondadori). È dottore di ricerca in Studi letterari. Dal 2010 è autore e conduttore del programma radiofonico Zazà, in onda su Rai Radio3. Questo è il suo primo romanzo.

Giuseppina Capone

Eleonora Molisani: Affetti collaterali

Parliamo con Eleonora Molisani del suo romanzo, “Affetti collaterali”.

Sei personaggi in cerca di ascolto, che vanno alla deriva tra incomunicabilità e solitudine esistenziale. Quanto ha attinto dal contemporaneo urlato isolamento interiore?

Facendo la giornalista da più di 25 anni non riesco a prescindere dall’osservazione di quello che mi circonda. Il progresso ha accorciato le distanze fisiche ma ha amplificato quelle emotive, i rapporti umani sono in crisi, l’incomunicabilità familiare e quella tra genitori e figli è un’emergenza che non si può ignorare. Siamo distratti da mille cose e perdiamo il senso di quello che è più importante, salvo poi rendercene conto quando capita una tragedia. La pandemia, per esempio, che ci ha costretti a fare i conti con le cose che negli anni avevamo trascurato, a ripensare le priorità. E poi: più che la narrativa “di evasione” mi interessa quella “di invasione”. Mi ispiro alla frase kafkiana: “Un libro dev’essere l’ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi”. Amo la narrativa che scuote le coscienze, che turba e disturba. Che non lascia indifferente nel bene o nel male, che lascia dentro di noi un sedimento.

Questo è un libro che gratta il fondo della sfera affettiva; vaglia meticolosamente i sentimenti, emozione, ossessione, attrazione, passione, per poi scaraventarli, di nuovo, sul fondo, senza sterili edulcorazioni. Qual idea ha voluto che emergesse dei rapporti umani?

Mi ripeto, ma penso che l’emergenza della pandemia abbia enfatizzato all’ennesima potenza quello che volevo esprimere nel romanzo. Molte coppie vivono la stanchezza di rapporti di lunga data, sperimentano quotidianamente la fatica di seguire i figli, le difficoltà del lavoro, la crisi economica. Di conseguenza può essere comprensibile la tentazione di evadere, di cedere alla distrazione di “affetti collaterali” che danno l’illusione di evadere dalla routine, di ricevere ascolto e attenzioni, come capita a Nero e Scura nel romanzo. Migliaia di adolescenti si sentono inascoltati dalla famiglia e dalla società, non compresi, senza punti di riferimento saldi, e si rifugiano nel mondo virtuale oppure nelle dipendenze, come succede a Ricola, la giovane protagonista di Affetti collaterali. Migliaia di immigrati vivono la speranza nel momento dell’accoglienza, e poi sono costretti a vivere la disperazione di una falsa integrazione sociale, come capita a Blanca, la ragazza madre extracomunitaria della storia e a suo figlio Momo, un ragazzo pieno di rabbia e di voglia di riscatto.

I protagonisti della sua narrazione esistono in quadri della quotidianità che si scopre sotto i loro occhi mediante circostanze comuni che divengono le porte per una sensibilità, a volte, al limite della sopportazione. Perché ha deciso nei suoi racconti d’esplorare il banale, reale, vero quotidiano anziché l’esuberante straordinario?

Credo che ci si rifugi sempre di più nello straordinario, nell’intrattenimento, perché la verità, nuda e cruda, procura sconcerto, sensi di colpa, paura. Questo timore genera nelle persone distanza e indifferenza verso i problemi altrui, individui anestetizzati, sempre più superficiali ed egoriferiti. Philip Roth diceva che “la letteratura dev’essere spietata, anche terribile”, che “il libro è un feroce viaggio all’interno di ferite aperte”, che “il compito del narratore è di presentare al mondo i problemi, anche se non spetta a lui risolverli”. Sentendomi prima di tutto una giornalista, la realtà che mi interessa non è quella dell’ombelico dello scrittore, ma quella che si annida nell’esclusione, nell’abbandono, nella violenza, nell’ingiustizia, nelle speranze e nelle sconfitte delle persone normali. Sempre citando Roth: “nella narrativa bisogna contemplare gli afflitti, i feriti, i vulnerabili, gli accusati e i loro accusatori”.

Le sue righe suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, non si sceglie d’amare né d’essere amati?

L’amore non intrappola ma sicuramente è una “trappola”. Nel senso che è relativamente facile nel momento passionale, quello in cui si immagina solo la parte entusiasmante ed avventurosa del viaggio a due. Poi, però, se non ci si mette in ascolto dell’altro, può diventare una fatica quotidiana. Volevo rappresentare persone che si sono scelte con convinzione, che si amano, eppure non fanno altro che ferirsi e farsi del male, perché non trovano la chiave per comunicare nel modo giusto tra loro. Come diceva il poeta Eugenio Montale, in ciascuno di noi coesistono la dolcezza e l’orrore. Dipende da noi saper riconoscere la bellezza o le fragilità altrui, se non ci mettiamo in ascolto dell’altro le relazioni costruttive diventano distruttive. Spesso ci poniamo nel modo sbagliato, siamo troppo centrati sulle nostre esigenze, con il risultato di tirare fuori dall’altro solo la parte aggressiva, rabbiosa, negativa. Per questo nel romanzo sia Nero che Scura cercano negli “affetti collaterali” quella accoglienza e quell’ascolto che come coppia non riescono più a darsi. E’ una dinamica che si scatena spesso in famiglia, perché la convivenza è un lavoro duro, quotidiano. Lo psicologo statunitense Carl Rogers diceva: “Ascoltare vuol dire capire ciò che l’altro non dice”. Se vogliamo essere amati dall’altro, dobbiamo metterci prima di tutto in ascolto.

Qual è il rapporto con il tempo dei suoi personaggi?

Il rapporto con il tempo è fondamentale. Nelle dinamiche familiari il tempo ha un ruolo determinante. Perché inesorabilmente stanca, trasforma, logora. Come dicevo prima, nella coppia il tempo può essere deleterio se dopo la passione non si coltivano il dialogo e il reciproco ascolto. Lo stesso vale per il rapporto tra genitori e figli. Se l’adolescente, nel momento in cui ha più bisogno di ascolto e di conferme, non viene riconosciuto, seguito e amato dai genitori, cresce come una pianta arida, storta. E’ quello che capita a Ricola, che con il suo gesto estremo farà capire ai genitori l’importanza dei tempi in amore. Ci sono cose che vanno fatte nei tempi giusti, e se non vengono fatte in quel determinato tempo, rischiano di non poter essere più recuperate. Nei rapporti umani vale sempre il detto: “Chi ha tempo non aspetti tempo”. Nel mio romanzo il tempo sarà fatale per tutti e sei i personaggi.

 

Eleonora Molisani, Eleonora Molisani, giornalista professionista, si occupa di attualità, costume e libri per il settimanale Tustyle. Collabora, come docente di giornalismo, comunicazione e new-media, con la Scuola Mohole di Milano, dove cura la rassegna letteraria annuale “Parolibere”. Ha collaborato alla redazione di libri di scolastica e saggistica per Garzanti e McGraw-Hill. Nel 2014 ha esordito nella narrativa con “Il buco che ho nel cuore ha la tua forma” (Priamo & Meligrana). Nel 2016 ha partecipato all’antologia “Pausa caffè” (Prospero). Nel 2019 ha pubblicato il romanzo, “Affetti collaterali” (Giraldi). Nel 2020 ha partecipato all’antologia “Lettere al padre” (Morellini). Nel 2020 ha partecipato all’antologia “Reboot-Lettere d’amore a Milano” (BookaBook). Nel 2021 ha pubblicato la raccolta di poesie: “Romanticidio, spoesie d’amore e altri disastri” (Neo edizioni).

Organizzatrice di eventi culturali, online ha fondato la community “Natural Born Readers and writers”, per la tutela della bibliodiversità. Cura la rubrica di libri “Book & Mood” per Scrittori a domicilio.

Giuseppina Capone

Franco Mimmi: Lontano da Itaca

Parliamo con Franco Mimmi della sua pubblicazione “Lontano da Itaca”.

Lei ha rievocato l’Odissea, uno dei testi fondamentali della cultura classica occidentale. Perché ha voluto dialogare con Omero?

Omero rappresenta, con Dante, Cervantes e Shakespeare, uno dei quattro vertici della letteratura mondiale, è praticamente impossibile evitare il dialogo con loro, sia pure dalla posizione più umile possibile. Basti pensare al paradosso di Harold Bloom, che sosteneva che Shakespeare ha influenzato anche gli scrittori che lo hanno preceduto. Diciamo dunque: in che cosa ho voluto dialogare con Omero? Quel qualcosa è stata l’attrazione di un personaggio come Odisseo, le cui peripezie, nel tribolato viaggio di ritorno a casa dalla sconfitta Troia, costituiscono il primo romanzo dell’Occidente infinite volte rivisitato, reinterpretato e rielaborato nei secoli successivi. Il re di Itaca attraversa il tempo come personaggio via via mitico, umanistico, romantico, naturalistico, moderno e certamente, qualunque cosa la parola significhi, anche postmoderno, e insomma protagonista ante litteram di qualsiasi momento o movimento letterario. Ha ispirato, in ventotto secoli, la reinvenzione sublime di Dante nel canto XXVI dell’Inferno (Fatti non foste a viver come bruti…) e quella giocosa di Guido Gozzano nel poemetto L’Ipotesi (Il Re di Tempeste era un tale / che diede col vivere scempio / un ben deplorevole esempio / d’infedeltà maritale…), quella decadente di Giovanni Pascoli in L’ultimo viaggio, dove si afferma che la morte è più dolorosa che non nascere (Non esser mai! Non esser mai! Più nulla,/ ma meno morte, che non esser più!) e quella iconoclasta di Jean Giono in Nascita dell’Odissea, dove la realtà è ben diversa dall’eroico mito ma a prevalere è quest’ultimo persino contro la volontà del protagonista. Ha ispirato l’Ulisse di Joyce, dove l’autore si concesse la variante di presentare un Telemaco/Dedalus più intelligente di Ulisse/Bloom, forse perché era con Dedalus e non con Bloom che si identificava. Ha ispirato il Viaggio di Odisseo di Vincenzo Consolo e Mario Nicolao, dove il nostos è un viaggio di espiazione per l’orrore della guerra e l’invenzione del “mostro tecnologico”, il cavallo di legno. E poi decine e decine di componimenti poetici, da Alfred Tennyson a Gabriele D’Annunzio a Umberto Saba fino allo splendido Itaca, di Kostantinos Kavafis, dove si canta il concetto che più dell’arrivo è importante il viaggio (Itaca ti ha dato il bel viaggio, / senza di lei mai ti saresti messo / in viaggio: che cos’altro ti aspetti?). Sono soprattutto questa poesia e questo concetto che hanno ispirato Lontano da Itaca, la storia che anch’io ho voluto caricare sulle capaci spalle di Ulisse.

Nessuno fra i Greci ignorava Odisseo: la sua astuzia e la sua impulsività. Il suo desiderio di uccidere la morte, disprezzandola. Odisseo va inteso come paradigmatico d’una specifica maniera d’affrontare la vita?

Nessun greco ignorava Odisseo, anche perché quelli di Omero erano i testi fondamentali per l’insegnamento, ma già allora la sua figura era multiforme, e non solo d’ingegno. L’Odisseo dell’Iliade e quello dell’Odissea sono ben diversi, come quello dell’Aiace di Sofocle, dove viene definito “scaltro intruglio schifoso” ma è anche colui che salverà le spoglie del protagonista dal restare insepolte, e come quello delle Troiane di Euripide, dove Ecuba lo chiama “spregevole traditore, nemico della giustizia, / un mostro che non conosce legge”. È questo affascinante polimorfismo, che attraversa i secoli dal tempo di Omero a quello dei grandi tragici, che mi diede l’idea di inserire nel mio testo brani degli autori che ho citato ma anche di Eschilo e di Tucidide.

Poi verrà Dante Alighieri, che non conosceva il greco e mai aveva letto quei testi, sapeva di Odisseo, o meglio di Ulisse, grazie alle citazioni di autori latini – primo fra tutti naturalmente Virgilio e la sua Eneide – e a un compendio latino dell’Iliade, la Ilias Latina, di età neroniana, e per pura genialità si inventò un Ulisse tutto nuovo, spinto dal desiderio di scoprire che cosa vi sia “di retro al sol, del mondo sanza gente” al punto da preferire la nuova fatale avventura al ritorno a casa e agli affetti familiari. È questo l’Ulisse che ancora paga il prezzo del castigo divino, per troppo osare, ma che il Rinascimento libererà anche da questa catena, per esempio nel Morgante di Luigi Pulci, e che poi i moderni, affascinati, moltiplicheranno.

Ulisse è oculato, astuto e menzognero altresì debole, impegnato nella contesa con la propria limitatezza. Eppure è unanimamente reputato eroe. E’ la sua umanità foriera d’eroismo?

In realtà la debolezza di Ulisse si manifesta solo nel suo confronto con gli Dei ed è piuttosto un problema di impotenza, vista la statura dell’avversario, ma anche tra gli Dei ha degli ammiratori della sua resilienza che interverranno a dargli una mano. Il suo eroismo consiste soprattutto, come dice il poema del Tennyson splendidamente tradotto da Pascoli, nell’essere, lui e i suoi compagni grazie al suo esempio, “duri sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai.”

Odisseo muta incessantemente il suo status: eroe polýtropos, naufrago in balia delle onde, migrante vestito di cenci. C’è un tratto d’indole immutabile?

Nell’arco millenario della sua esistenza il tratto immutabile di Ulisse è l’audacia, della quale un eroe evidentemente non può fare a meno, ma per il resto l’abbiamo visto mutare continuamente, e possiamo scommettere che continuerà a trovare nuovi interpreti dei suoi vizi e delle sue virtù.

L’Ulisse dantesco, Frodo e l’impresa post-cubana del Che contraddicono la teoria di Christopher Vogler. Quali altri tipi di viaggio si profilano?

Non c’è motivo, ovviamente, perché il viaggio sia confinato alla dimensione spaziale, oltre che fisico può essere spirituale, mentale, interculturale, temporale: pensate per esempio ai viaggi compiuti da Darrell Standing, protagonista del Vagabondo delle stelle, di Jack London, mentre in realtà giace in prigione immobilizzato da una camicia di forza. E forse è meglio non spingere gli accostamenti oltre le colonne d’Ercole della buona letteratura, dove rischieremmo di vedere il mare richiudersi sulla fragile barca delle nostre ipotesi e delle nostre interpretazioni. Per ciò che riguarda Frodo, per esempio, mi costerebbe molto metterlo in una categoria ulissica: Il signore degli anelli non mi ha mai conquistato, non sono mai riuscito ad andare oltre un centinaio di pagine, e sono piuttosto d’accordo con l’impietosa critica che gli dedicò Edmund Wilson, sarcasticamente intitolata Oh, i mostruosi orchi!, che nel libro di Tolkien trovava cattiva prosa, scarsa originalità, e quanto alla pretesa di avere scritto un libro per adulti, “c’è poco, nel Signore degli anelli – commentò il grande critico americano –, che ecceda la testa di un bambino di sette anni.” Ho piuttosto l’impressione che il crescente entusiasmo degli adulti per il libro e per i film derivati siano un altro segno, insieme con il dilagare di supereroi, maghi e maghetti, zombi, vampiri eccetera, di un processo di infantilizzazione della specie.

Lascerei da parte anche Che Guevara, le cui imprese post-cubane furono probabilmente il frutto della delusione per come progrediva, o regrediva, la rivoluzione castrista, che era stata anche la sua ma che non vedeva più tendere all’avvento del nuevo hombre, l’uomo nuovo che avrebbe dovuto coniugare il rivoluzionario con l’umanista.

Interessante il richiamo a Christopher Vogler, ma anche in questo caso sarei per un distinguo: il suo libro è stato pubblicato in Italia con un titolo sviante, Il viaggio dell’eroe, quando in realtà si intitola The Writer’s Journey: Mythic Structure For Writers, ed è, insomma, una intelligente individuazione e sistematizzazione degli archetipi narrativi, sicché viene ad essere al tempo stesso una lucida analisi letteraria e un dotto manuale ad uso dei bravi artigiani che ci regalano i best seller e le serie televisive tanto in voga, l’equivalente attuale del feuilleton ottocentesco. Attenzione, però: il manuale di Vogler ci insegna il “che cosa”, ma Vladimir Nabokov avvertiva che il valore di un’opera letteraria andava cercato nei “divine details”, nei divini dettagli, e che la grandezza di un libro non stava nel “che cosa” ma nel “come”, e insomma nello stile. Qualcosa che nessun manuale e nessun corso di scrittura puó dare.

 

Franco Mimmi. Laureato in Lettere. Giornalista professionista (Il Resto del Carlino, La Stampa, Il Mondo, Italia Oggi, Il Sole-24 Ore, l’Unità) e scrittore. È autore di “Rivoluzione” (1979–Premio Scanno Opera Prima), “Relitti” (1988), “Villaggio Vacanze” (1994), “Il nostro agente in Giudea” (2000–Premio Scerbanenco), “Un cielo così sporco” (2001), “Cavaliere di grazia” (2003–finalista Premio dei lettori di Lucca e Premio città di Scalea), “Una vecchiaia normale” (2004), “Povera spia” (2006), “Lontano da Itaca” (2007), “Oracoli & Miracoli” (2009), “Tra il Dolore e il Nulla” (2010), “Corso di lettura creativa” (2011), “Una stupida avventura” (2012), “Il tango vi aspetta” (2013), “Le tre età dell’uomo” (2015), “Le sette vite di Sebastian Nabokov” (2016), “L’ultima avventura di Don Giovanni” (2016), “Il Sogno dello Scrittore” (2017), “Su l’arida schiena del formidabil monte sterminator” (2018), “Amanti latini, la storia di Ovidio e Giulia” (2020), “Il Topo e il Virus” (2020).

Giuseppina Capone

 

Tansgender: i coraggio di essere liberi. La storia di Marcello

“Io non mi sento a mio agio, questo corpo non è mio, quando mi guardo allo specchio non riesco a vedere la mia anima.” Marcello, trentotto anni, napoletano, racconta la sua storia.

Marcello, quanti anni avevi quando hai scoperto di essere attratto da persone del tuo stesso sesso?

Prima di provare attrazione verso una persona del mio stesso sesso, io ho da sempre sentito il desiderio di essere donna, al di là di tutto. Avevo solo 7 anni. Una domenica mattina stavo passeggiando con mia madre quando vidi passare una meravigliosa donna (ad oggi credo almeno al 7 mese di gravidanza) e nel guardarla provai una sensazione di invidia. Invidia, perché già a quella tenera età pensavo che quella di creare una vita dentro sé fosse la gioia più grande che una donna possa provare e che io, essendo maschio, non avrei mai potuto provare una sensazione simile. Diventando grande, questa voglia di voler essere donna cresceva sempre di più, ma, allo stesso tempo, è sempre stata una sofferenza per me perché mio padre non mi accettava. Mio padre era uno di quegli uomini che avrebbe preferito avere un figlio drogato anziché omosessuale. Mio padre ha sempre maltrattato me e mia madre. La sofferenza che mi porto dietro da bambino ha segnato tutta la mia vita. Avevo sedici anni quando provai a dire a mio padre che non sarei mai stato con una ragazza e che un giorno avrei voluto diventare donna a tutti gli effetti. La sua reazione fu tremenda. “Meglio avere un figlio delinquente o tossicodipendente, ma io un figlio come te non lo voglio, non l’ho fatto io”- disse – naturalmente, da bravo maschilista- facendo ricadere tutta la colpa su mia madre, dicendole che, non mi aveva concepito con lui o che, peggio ancora, non era stata una buona madre perché aveva fatto venir su “un uomo che non è uomo”, come diceva lui- adesso ho trentotto anni e sono stato in terapia dallo psicanalista (portato con la forza da mio padre) per ben tredici anni. Ho dovuto fingere di essere tornato etero o, meglio ancora normale, come voleva sentirsi dire mio padre. Odiavo quell’uomo. Solo due anni fa ho avuto il coraggio di andare via e prendere casa con mia madre. Mio padre è morto un anno fa. Io non riesco a sentire la sua mancanza. Ora vivo la vita che voglio.

Pensi di realizzare presto il tuo sogno?

Sì, presto andrò a vivere dall’altra parte del mondo, proprio perché il mio desiderio più grande è quello di diventare donna a tutti gli effetti e vivere tranquilla senza essere giudicata ogni giorno come accadrebbe se restassi a vivere qui in Italia. Voglio potermi guardare allo specchio e vedere la mia anima nel corpo giusto. Voglio poter essere me stessa e con chiunque, senza dovermi nascondere o vivere con il terrore di essere giudicata, maltrattata. Voglio scendere per le strade della città vestita da donna, truccarmi e portare tacco dodici di Jimmy Choo, poter interagire con altre donne ed essere considerata tale. Io sono una donna, lo sono sempre stata. Tra meno di un anno realizzerò tutti i miei sogni. Ma c’è un pensiero che mi tormenta: sono felice ora che mio padre non c’è più. Mi tormenta perché mi fa credere di essere una persona crudele, anche se mia madre mi ripete in continuazione che questo nostro stato di felicità ora è comprensibile perché quell’uomo ci ha reso la vita un incubo per anni. Molte persone mi dicevano che sono un debole perché solo a trentasei anni ho avuto il coraggio di andar via. Forse è cosi, ma chi non l’ha vissuto non può provare quello che ho provato io. Purtroppo io dipendevo mia madre che a sua volta dipendeva da lui. Lei non riusciva a mandarlo via, è come se avesse per anni avuto una sorta di dipendenza da lui e questo ha fatto si che di conseguenza anche io dipendessi da qualcun altro: da mia madre, ero morbosamente legata a lei e in realtà lo sono ancora tutt’ora. Non riuscivo ad andare via di casa finché non è venuta anche lei con me. E, soprattutto, la mancanza d’affetto che avevo da parte di mio padre ha fatto si che io mi sentissi sempre un po’ bambino.

Come hai trovato la forza di andare via nonostante tutto e di portare tua madre con te?

Ero stanco, esausto. Ero esasperato. Da quando sono nato non ho mai vissuto la vita che volevo e ho più volte addirittura pensato di farla finita ma un giorno, tornando da lavoro, trovai mia madre per terra con il labbro sanguinante e mio padre che dormiva sul divano con una bottiglia di liquore, allora pensai che se fossi finito io, nessuno avrebbe salvato mia madre. Avevo il sospetto, sin da bambino, che lui fosse violento con lei, ma mia madre aveva da sempre negato. Quando ti toccano la cosa che hai più cara al mondo, puoi arrivare a tirar fuori tutta la forza che non credevi nemmeno di poter avere. Mio padre, oltre ad essere una persona violenta, era un alcolista. Credo che in quel momento mi si sia annebbiata la vista perché mai avevo visto mia madre in quelle condizioni. Ad oggi credo sia stato un bene, forse, paradossalmente. Perlomeno quella vicenda ci ha fatto trovare il coraggio di andar via. Tutto l’odio represso che avevo provato da sempre nei confronti di mio padre l’avevo finalmente e improvvisamente scaricato in quel momento. Per la prima volta in tutta la mia vita sentii un senso di liberazione e soprattutto avevo io, anche se solo per poco, la situazione in mano. Presi mia madre per mano e racimolammo un po’ di cose da portar via e alloggiammo per qualche notte a casa di sua sorella fino a quando abbiamo trovato la casa dove finalmente abitiamo adesso. Dopo circa un anno mio padre morì con una brutta malattia. Sono ovviamente andato al funerale. Non ne sento la mancanza.

Adesso com’è la tua vita?

Decisamente migliore. Sono libera, almeno in casa, di essere come sono e dire ciò che voglio. Fuori casa ancora c’è qualcuno che mi giudica per come parlo o per come mi vesto. Ora che mio padre non c’è più io sono rinata e con me anche mia madre.

Nessuno ha il diritto di rovinare la vita degli altri e nessuno dovrebbe permettere al prossimo di farsi rovinare la vita. Mia madre era sua succube, la sua martire, la sua schiava. Lei ora è un’altra persona. Vederla sorridere, vestirsi e truccarsi come desidera, addirittura trovarsi un lavoro e uscire con le amiche, le sue nuove amiche, mi riempie il cuore di gioia. Adesso la mia vita ha un altro sapore, mi pento solo di non aver avuto prima la forza di liberarmene, avrei potuto iniziare a vivere molti anni fa. Anche se, per anni e ogni giorno, cercavo di fare il lavaggio del cervello a mia madre ma con scarsi risultati. Ho trascorso tanti anni vivendo così, soffriva lei e soffrivo io. “Mamma, fallo per me” le dicevo sempre. Lei mi guardava e piangeva e diceva che per me si sarebbe fatta ammazzare e che la cosa che più le faceva male era che non riusciva a reagire per suo figlio, allora mi supplicava ogni giorno di andarmene ma io senza lei non riuscivo a farlo. Adesso, la cosa che conta, è che entrambi abbiamo avuto la forza di andar via. Bisogna avere il coraggio di ribellarsi e di liberarsi di queste persone, maggiormente se fanno parte della famiglia, anche se è difficile. Personalmente, oltre a questa situazione demoralizzante con mio padre, io dovevo affrontare ogni giorno le critiche delle persone di quartiere, a scuola, al catechismo e in ogni luogo io mettessi piede. Ho subito atti di bullismo sin dalle elementari, e per me, vivere così dentro e fuori casa non mi dava la forza di lottare. Mi sentivo solo.

Come hai affrontato le critiche e i bulli?

Naturalmente ogni giorno andavo a scuola e ogni giorno subivo. Parole offensive, sgambetti, mi rubavano la merenda. “ Marcella 5 stelle” mi chiamavano. Perché amavo indossare braccialetti con dei ciondoli luccicanti e loro dicevano che somigliavano ai lampadari di un albergo a 5 stelle. Quando tornavo a casa, le persone del quartiere mi deridevano, e parlavano a bassa voce e c’era chi accennava un sorriso o chi addirittura rideva senza ritegno. Alcuni ragazzini con il motorino mi bloccavano e non mi facevano passare. Quando tornavo a casa, cercavo conforto dai miei genitori ma da mio padre ottenevo solo insulti. Mio padre litigava con tutto il quartiere per far capire loro che io fossi etero e che lui un figlio “anormale” non ce l’aveva. Intanto, però, continuava a trattarmi male perché diceva che dovevo parlare e camminare come fa un uomo. Mi iscrisse a calcetto, mi comprava giornaletti porno, ovviamente con immagini di donne. Credeva fosse una malattia, ne era convinto e lo è stato fino alla fine. Allora dopo questi lunghi tredici anni di terapia dallo psicanalista ho dovuto poi fingere di essere etero.

Non avevi nessuno amico che ti supportava?

A parte mia madre, avevo la mia migliore amica Alice. Per il resto ho avuto sempre problemi a relazionarmi con le persone, a crearmi amicizie e soprattutto ero molto insicuro e non mi fidavo di nessuno. Credevo, inoltre, di non essere capace a fare nulla, nemmeno di laurearmi e di realizzare i miei sogni, perché mio padre mi aveva da sempre fatto sentire un buono a nulla. Ora ho preso consapevolezza di ciò che sono e di quanto valgo e quindi di poter raggiungere qualsiasi tipo di obiettivo alla pari di chiunque altro. È una sicurezza che ho acquisito col tempo, quando mi sono reso conto della bella persona che sono. Alice è ancora la mia migliore amica anche se per un periodo lei è stata innamorata di me. Ma questo poco conta. Ora è sposata con Diego e hanno una bambina bellissima. Alice mi ha aiutato tanto nei momenti di sconforto, quando tutti mi andavano contro e quando nemmeno con mia madre potevo parlare perché era occupata a fare da schiava a quel mostro che aveva sposato. Se c’è una cosa che penso spesso è che se non avessi avuto lui come padre, la mia vita sarebbe stata completamente diversa, io sarei stata un’altra persona, magari più sicura di me. Adesso sono felice, anche se la morte di una persona dovrebbe portare sofferenza, io mi sento una persona nuova. Penso che per le cattiverie che si fanno prima o poi la vita ti presenta il conto tutto all’improvviso. E così è stato per lui. Spesso mi domandano come faccio ad essere così buona e altruista dopo tutto quello che ho subito dalla gente e soprattutto avendo avuto un padre così. La mia risposta è stata semplice: “proprio perché ho avuto un padre così, so bene come voglio essere, e di certo non come lui. Mi aveva rovinato la vita, avevo grandi ambizioni, volevo studiare biologia ma non l’ho mai fatto perché mi perdevo, mi smarrivo come se non riuscissi a mettermi sulla retta via e condurre una vita stabile. Ho quindi sempre lavorato come magazziniere. Mi sentivo disperso, la mia situazione personale e familiare mi faceva stare sempre male, ho praticamente vissuto da sempre in uno stato di disorientamento totale. Adesso sono già al secondo anno di università. Voglio riprendere la mia vita in mano. Non importa quanti anni io abbia e quanto ritardo possa fare nel realizzarmi. Conta solo quanto, da oggi in poi, quanto io possa vivere davvero come desidero. Ho solo paura di essere ancor più preso in giro ed emarginato una volta aver cambiato corpo, perché conosco storie di diverse persone che hanno avuto problemi ad inserirsi anche nel mondo del lavoro. Ma io credo che andrò via, oltre oceano, dove potrò sentirmi vivo davvero.

Alessandra Federico

 

Angela Nese: Microclimi

Angela Nese nasce ad Agropoli (SA), dove frequenta il liceo classico. Dopo il diploma si iscrive al corso di laurea in Filosofia presso l’Università degli Studi di Salerno, dove consegue la laurea magistrale nel 2013. Lavora come editor freelance. Nel 2016 viene pubblicato il suo primo romanzo, Le tele di Valerie (Montedit); è del 2018 la raccolta di racconti Del tempo e dell’esistenza (L’ArgoLibro). Microclimi (L’ArgoLibro) è la sua prima raccolta poetica.

Ne parliamo con l’Autrice.

 “Microclimi”: su quali temi si innesta la sua riflessione?

L’esistenza, l’amore, il tempo, la natura, il corpo: potrei dire che si tratta di un solo grande tema. Sono i diversi aspetti di un nucleo unico riassumibile con l’espressione “essere mondo”. E come ha scritto Ludwig Wittgenstein: “Il mondo è tutto ciò che accade”.

In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dalla Poesia?

La Poesia insegna a vivere nel conflitto senza esserne sopraffatti. Più che lenire la conflittualità interiore, quindi, credo che la Poesia metta a fuoco i problemi dello stare al mondo, del vivere come esseri umani prima ancora che come cittadini, membri di una società. Il Poeta ha il compito di indicare ciò che è sommamente umano sia nel bene che nel male.

Sai dirmi qual è il posto / degli amori mai sbocciati? / Dove riposano gli amori / che ho soffocato col cuscino?” Il suo “viaggio” appare faticoso, scosceso, una scalata a mani nude. Il dolore come condizione ontologica?

Il dolore come condizione ontologica dagli esiti morali, in quanto momento di frattura dell’io che consente di accedere a un nuovo sé, più consapevole, meno integro ma sicuramente più autentico.

Lei scrive versi che narrano una quotidianità quasi atemporale, in cui si stenta a riconoscere il contesto storico in cui la vita si svolge.

La vita umana vive una costante condizione di anonimato?

La dimensione della Poesia credo sia quella di un tempo che precede quello storico, è l’istante nel quale è possibile vedersi semplicemente come creature che esistono, al di là di ogni contesto storico. Si può parlare di anonimato, ma assolutamente non in senso negativo. A volte per poter capire ciò che ci circonda, qui e ora, paradossalmente, occorre diventare a-storici e spogliarsi del proprio nome.

Ho bruciato lettere d’amore/altre le ho ingoiate ed erano vetro/ cocci azzurro ghiaccio e grigio tetro/ruvidi rudi prodotti del mio umore…” Eros, divinità dal potere abnorme, oscuro ed ossessivo, che turba ed atterrisce?

Saffo lo definiva “glykypikron amachanon orpeton”, e i tre termini significano rispettivamente “dolceamaro”, “senza rimedio” e “bestia”. Penso che questa definizione resti ancora valida, con qualche specificazione e svariate aggiunte, non ultima quella secondo la quale Eros è anche spinta conoscitiva, l’elemento che ci turba e ci pone di fronte all’alterità rappresentata dalla persona amata, imponendoci di accoglierla in quanto tale.

Giuseppina Capone

 

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