Rudy Salvagnini: Dizionario dei film horror

 

Rudy Salvagnini è uno sceneggiatore di fumetti. Ha scritto centinaia di storie per TopolinoIl GiornalinoIl Messaggero dei RagazziLancioStory e molte altre testate. In campo letterario, sono suoi il romanzo di fantascienza Il vortice dei ricordi (Alcheringa, 2017) e la raccolta di racconti horror Nel buio (Weird Book, 2020). Critico cinematografico, collabora a Segnocinema e a MYmovies. Ha scritto Hal Ashby (Il Castoro Cinema, 1992), Il cinema di Bob Dylan (Le Mani, 2009) e Il cinema dell’eccesso vol. 1 e 2 (Crac, 2015 e 2016). Ha scritto anche e soprattutto il Dizionario dei film horror (Corte del Fontego, 2007 e 2011), di cui è appena uscita la terza edizione (Bloodbuster, 2020). Ne parliamo con l’autore.

Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto. Da dove spunta il suo interesse per l’horror?

Quando mi interrogo sulla questione, credo di percepire che ciò che mi ha da subito attirato verso questo genere è l’aspirazione al soprannaturale, che non è un elemento essenziale dell’horror, ma è molto frequente in esso. In un piccolo e modesto film spagnolo, Errementari, a un certo punto un pavido e insicuro sacerdote si trova di fronte a una micidiale creatura demoniaca e, in modo solo apparentemente incongruo, la ringrazia perché con la sua presenza gli ha finalmente dato la certezza che la sua vita non era stata sprecata: se il diavolo esiste, c’è il soprannaturale e anche quello in cui lui, il sacerdote, ha sempre cercato di credere. Quindi, se esiste il Male, è probabile che esista anche il Bene e questo è già qualcosa e l’horror, magari inconsciamente, ce lo rappresenta facendoci nel contempo riflettere sul mistero dell’esistenza. In questo senso è tipica anche la figura dei fantasmi – riflessi di noi stessi, solo più consapevoli – allegoria di qualcosa diverso da noi, ma vicino a noi. Oltre a ciò, che rappresenta il fascino del fantastico, c’è la grande attrattiva che, per me, l’horror ha quale genere metaforico per eccellenza, con la sua capacità di scandagliare la nostra società con una severità e una schiettezza altrove difficili da trovare. L’orrore fa parte della natura umana, l’abisso che ci guarda e che noi guardiamo, la morte che incombe, piacevolezze insomma su cui l’horror ci fa meditare e che a volte invece esorcizza trivializzandole. Alla fine, questo desiderio di spaventare e spaventarsi è sì come un viaggio nel tunnel dell’orrore di un luna park, ma è anche un viaggio dentro noi stessi. E questo mi ha sempre interessato.

L’horror è uno dei generi più fecondi e persistenti della storia del cinema. Qual è il suo linguaggio e come riesce a rispecchiare sempre la contemporaneità?

La forza dell’horror è quella di interpretare sentimenti e paure comuni a tutta l’umanità, sotto ogni latitudine: sa parlare un linguaggio universale compreso dovunque. In ogni parte del mondo c’è una tradizione horror: messicana, spagnola, persino brasiliana. Ci si è accorti solo negli ultimi vent’anni che esiste quella asiatica, ma esiste da un pezzo: capolavori come Jigoku ci ricordano che in Giappone gli horror ci sono da molto. Hong Kong, Indonesia, Filippine, ognuno con i suoi mostri e i suoi vampiri, quelli saltellanti di Hong Kong e i Pontianak, teste volanti con brandelli di intestini, in Malesia. Non esiste un altro genere che si sa coniugare così perfettamente con il comune sentire di ciascun popolo, proprio perché fa riferimento a un folclore radicato e persistente. L’horror non è mai particolarmente di moda perché sostanzialmente lo è sempre.

La storia del cinema dell’orrore di Teo Mora, alcuni volumi di Solfanelli,  Monster Show di David J. Skal; Danilo Arona su Craven, Fabrizio Liberti su Carpenter, Daniela Catelli su Friedkin o Gianni Canova su Cronenberg. Per quale ragione, a suo giudizio, la produzione di critica cinematografica del genere horror in Italia non è nemmeno in lontananza equiparabile a quella rinvenibile in altri paesi?

Oltre a quelli citati ci sono molti altri testi sul cinema dell’orrore in italiano – ne hanno scritti Fabio Zanello, Roberto Curti, Gordiano Lupi, Antonio Tentori, Mario Gerosa, Albiero e Cacciatore, per citare solo alcuni nomi tra i tanti – ma è vero che la produzione, in particolare, anglo-americana è decisamente superiore a livello quantitativo. Se ci pensiamo bene però è anche decisamente superiore la produzione di film horror e le due cose sono molto collegate. Negli USA, gli horror hanno una tradizione produttiva solidissima, continuativa ed enorme in quantità per cui esiste un pubblico maggiore anche per la pubblicistica. Da cosa, insomma, nasce cosa.

Quale criterio ha adottato per operare le sue scelte tassonomiche?

Siamo in un campo, quello della critica cinematografica e della conseguente suddivisione del cinema in generi, che solo in parte può dirsi scientifico, per cui le regole di classificazione si sono per forza di cose basate su criteri insieme oggettivi e personali. Ho cercato di darne conto in qualche misura nella Guida alla consultazione contenuta nel Dizionario, ma la questione è di certo complessa e impregnata di soggettività.

Cos’è mutato nei dieci anni intercorsi dall’ultima versione ad oggi?

Come sempre, il cinema horror ha mostrato vitalità invidiabile, rigenerandosi e reinventandosi. Tra le tendenze principali c’è stata senza dubbio quella del found footage – film apparentemente realizzati con filmati “veri” – che ha prodotto una notevole quantità di film spesso premiati dal successo. Ma, esattamente all’opposto, c’è stata la grande crescita dei film prodotti dalla Blumhouse, raffinate rivisitazioni dei capisaldi dell’horror con poco di nuovo, ma molto stile. E ci sono naturalmente state le singole perle provenienti da ogni parte del mondo come il coreano Train to Busan, il giapponese Zombie contro zombie o l’australiano Babadook. Insomma, la consueta vitalità di un genere che non muore mai, come i mostri che spesso lo popolano.

Giuseppina Capone

Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta

 Stefania Prandi, il femminicidio può essere attribuito al caso o è un fenomeno con radici culturali e sociali profonde, tenendo presente che, secondo il rapporto Eures, in Italia viene assassinata una donna ogni sessanta ore?

Come ha dichiarato l’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 1993, «La violenza contro le donne è la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne». Il femminicidio si inserisce in questa subalternità. In Italia viene assassinata, in media, una donna ogni sessanta ore e mentre il numero degli omicidi diminuisce, quello dei femminicidi, in proporzione, aumenta e rappresenta quasi il 40% del totale. Scrive il magistrato Fabio Roia in “Crimini contro le donne. Politiche, leggi, buone pratiche”: «Il fenomeno della violenza contro le donne è un atteggiamento diffuso, oscuro, antico, tollerato». Ci sono diverse statistiche a disposizione. Nei paesi dell’Unione europea una donna su tre ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita, e una su venti è stata stuprata. I dati sono in linea con l’Italia, stando ai rapporti annuali dell’Istat. Da noi, inoltre, manca una percezione reale del problema: appena un terzo di chi subisce violenza ritiene di essere vittima di reato.

Si reputa che la intimate partner violence si riveli una strategia per “fare il genere”, e per “fare le maschilità”. La polisemia di accezioni (genere linguistico, biologico e sociale) che la lingua sviluppa dimostra quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti. Reputa che modi di dire, proverbi e battute possano costituire l’anticamera di forme di violenza?

Come scrive giustamente la ricercatrice e studiosa Chiara Cretella nell’introduzione al mio libro, “i processi di nominazione creano il reale”. Certe espressioni o modi di dire sono parte integrante della violenza, sono espressioni della cultura della violenza maschile contro le donne e della violenza di genere che ancora definisce la nostra società.

Chi paga le conseguenze del femminicidio ed in quali forme?

Quando una donna muore per mano di un uomo, non viene distrutta soltanto una vita, si colpiscono intere famiglie. A pagare le conseguenze dei femminicidi – che pesano per generazioni, duecento anni o più – sono madri, padri, sorelle, fratelli, figli . A loro restano i giorni del dopo, i ricordi immobili appesi ai muri, trattenuti dalle cornici, impressi nei vestiti impolverati, le spese legali, i ricorsi, le maldicenze nei tribunali («se l’è cercata», «era una poco di buono»), le giustificazioni: «stavano litigando», «lui era fuori di sé per la gelosia», «era pazzo d’amore», «non accettava di essere lasciato».

I media offrono plurimi e molteplici voci di famiglie che rifiutano di ripiegarsi nella sofferenza ed avviano battaglie giornaliere. Qual è il loro fine?
Sempre più familiari (nella maggioranza dei casi madri), intraprendono battaglie quotidiane, piccole o grandi, a seconda dei casi. C’è chi scrive libri, organizza incontri nelle scuole, lancia petizioni, raccoglie fondi per iniziative di sensibilizzazione e fa attivismo online. Lo scopo è dimostrare che quanto si sono trovati a vivere non è dovuto né alla sfortuna né alla colpa di chi è stata uccisa, ma ha radici culturali ben precise.

Le norme religiose, a cui sono poi seguite le leggi civili, hanno acuito le disparità e le differenze tra maschi e femmine. Qual è ad oggi lo status delle discriminazioni di genere, soventemente preludio a forme di violenza?
Tutti gli indicatori internazionali e nazionali ci dicono che le discriminazioni di genere sono ancora presenti e hanno un peso enorme sulle vite individuali e sulla società.

Stefania Prandi, giornalista, scrittrice e fotografa, ha realizzato reportage e inchieste in Italia, Europa, Africa e Sudamerica. Si occupa di questioni di genere, lavoro, diritti umani, ambiente e cultura. Tra le sue collaborazioni: Il Sole 24 Ore, National Geographic, Azione, Radiotelevisione svizzera, El País, Al Jazeera, Correctiv, BuzzFeed. Nel 2018 ha pubblicato con la casa editrice Settenove Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo. Con l’inchiesta legata al libro ha vinto numerosi riconoscimenti internazionali e premi come Henri Nannen Preis, Otto Brenner Preis, Georg Von Holtzbrinck Preis, Volkart Stiftung Grant, The Pollination Project Grant. A ottobre 2020 ha ricevuto la menzione speciale alla XXIma edizione del Premio di scrittura femminile “Il Paese delle Donne et Donna e Poesia”. Nel 2020 (settembre), sempre con Settenove, ha pubblicato il libro Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta col quale, lo scorso ottobre, ha vinto il premio letterario Essere Donna.

Giuseppina Capone

Annalisa Corrado: Le ragazze salveranno il mondo

Annalisa Corrado, ingegnera meccanica, ha conseguito nel 2005 un Dottorato di Ricerca in Energetica presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Dopo le prime esperienze con le società Ambiente Italia ed Ecobilancio come consulente/analista Life Cycle Assessment, per la valutazione del ciclo di vita di prodotti e servizi, ha ricoperto per 2 anni ruoli di consulenza specializzata presso il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare. Attualmente è responsabile dello sviluppo dei progetti innovativi della società ESCO AzzeroCO2 e referente delle attività tecniche dell’associazione Kyoto Club con le quali collabora stabilmente dal 2007; si occupa principalmente di promuovere e costruire azioni per la mitigazione dei cambiamenti climatici, strategie per la sostenibilità in chiave “agenda 2030 dell’ONU”, percorsi di economia circolare. Ha co-ideato con Alessandro Gassmann la campagna #GreenHeroes, che attualmente coordina. E’ co-portavoce, dal 2014, dell’associazione ecologista Green Italia. Parliamo del suo libro “Le ragazze salveranno il mondo” edito da People.

Per quale ragione, oggidì, sono le donne a scandire la grande lotta del movimento ecologista?

Pur non essendo un’amante delle generalizzazioni, che sono un terreno molto scivoloso, credo che tanti dei talenti e delle attitudini delle donne, abbiano moltissimo a che vedere con l’approccio ecologista alla realtà. Le donne hanno con più facilità uno sguardo sistemico, che non lascia indietro pezzi o persone; sono più spesso attente alle conseguenze delle proprie azioni e non lasciano che un singolo obiettivo possa divenire un alibi per abbandonare ogni remora o sguardo critico. Probabilmente l’ancestrale abitudine a tenere sotto controllo più cose e più persone è diventata un’attitudine preziosissima alla cura, alla condivisione, all’empatia e alla protezione: uno sguardo che invece è stato sistematicamente cancellato e dimenticato dalla mentalità fossile e turbo-capitalistica, che ha sempre considerato la natura un castello pieno di ricchezze da espugnare e saccheggiare, piuttosto che la nostra casa.

Le donne sono riuscite ad abbattere con fiera determinazione le gabbie concettuali in cui abbiamo abitato per lungo tempo. Ebbene in cosa si diversifica il punto di vista muliebre?

Mah, il cammino da fare è lungo. Il patriarcato si è insinuato così profondamente nella nostra società, da risultare molto spesso mimetizzato per molte persone. Ci sono ancora moltissime gabbie in giro e moltissimi fabbri che cercano di costruirne di nuove quando alcune vengono forzate o distrutte. E’ una battaglia continua per molte di noi, anche per alcune delle protagoniste del mio libro.

Un po’ ho risposto a questa domanda nella prima… Posso però aggiungere una riflessione: donne cresciute in una società in cui ai bambini si insegna la determinazione e l’arroganza, mentre alle bambine la remissione e la docilità, seppur portatrici di talenti, competenze e passione, saranno molto probabilmente soggette ad uno scontro durissimo con un senso di inadeguatezza profondo, con una pressione sociale spaventosa, solo perché osano prendere spazio e parola.

Nella mia esperienza, però, il senso di inadeguatezza diviene spinta all’evoluzione, desiderio di continuo apprendimento e consolidamento. E diventa uno strumento prezioso.

Rachel Carson, la donna che sconfisse le multinazionali del DDT, il premio Nobel Wangari Maathai, l’instancabile Jane Fonda, Alexandria Ocasio-Cortez e Greta Thunberg unite in un’alleanza intergenerazionale. Qual è il filo rosso, la traccia che le accomuna, pur nelle ovvie specificità?

Sono donne che hanno mostrato una grandissima determinazione e una profonda dedizione alle cause che hanno identificato come davvero importanti. Sono state capaci di creare reti, comunità, mobilitazioni che sono divenute vere e proprie onde anomale, in grado di scuotere l’opinione pubblica e cambiare, seppur in misura diversa, il corso della storia. Donne che non hanno fatto mistero della propria fragilità, ma hanno saputo renderla una specie di “super potere”, che le ha rese più credibili, più umane, più vicine alle persone che hanno deciso di mettersi in cammino al loro fianco.

Ecologia e democrazia sono un connubio inscindibile?

Lo dimostra chiaramente la storia di Wangari Maathai, che ha rischiato più di una volta la vita per essersi resa invisa al regime keniota, e al suo sommo esponente Moi, proprio per aver difeso i territori del suo Paese dagli scempi, le devastazioni e i veri e propri saccheggi che lo stra-potere di multi-nazionali voraci esercitavano indisturbate a danno di patrimoni di biodiversità inestimabili, della salute delle persone e della loro stessa possibilità di vivere una vita degna. Lo dimostrano anche le storie più recenti, in cui pochissimi detentori di un enorme potere (come le compagnie petrolifere o come le multinazionali della chimica) cercano di condizionare le scelte dei Governi con ogni mezzo, anche montando e alimentando vere campagne anti-scientifiche o nascondendo informazioni preziose, pur di tutelare i propri interessi, a discapito di tutti.

Qual è il futuro prossimo del movimento ecologista?

Credo che di fronte a un sistema di potere fossile così consolidato e pervasivo, di fronte ai grandi sconvolgimenti che l’umanità ha attratto su se stessa con miope auto-lesionismo (dal collasso climatico al COVID19, pandemia annunciata), sia necessaria una mobilitazione mai vista fino ad ora. Globale, intergenerazionale, intersezionale. Una mobilitazione che deve farci sentire tutti convocati, perché abbiamo il dovere di non sprecare questa ennesima crisi e pretendere che non si torni più ad una “normalità” di devastazioni e diseguaglianze, ma ad un nuovo modo di pensare le relazioni sociali ed economiche. Arriveranno molti soldi per aiutare i Paesi a gestire la crisi economica scatenata dalla pandemia. Dobbiamo fare in modo che non un solo euro vada sprecato, perché sono, ancora una volta, risorse prese in prestito dal futuro e al futuro devono essere dedicate. Dobbiamo uscire dall’era delle fossili ed entrare in quella delle energie rinnovabili, dobbiamo pretendere che i Paesi siano coerenti con gli impegni presi a Parigi nel 2015 con la COP21, dove si è deciso di decarbonizzare economia e società entro il 2050 (E, anche da questo punto di vista, la vittoria di Biden/Harris è un’ottima notizia); dobbiamo ricordare che non c’è giustizia climatica o giustizia ambientale senza giustizia sociale, e viceversa. Dobbiamo cambiare tutto, insomma. A partire dall’osare immaginare che il mondo possa diventare davvero un posto diverso.

Giuseppina Capone

 

 

 

Digital Conference su Mario Borrelli e l’attualità del suo pensiero

Si terrà oggi martedì 24 novembre 2020 alle ore 17.30 la Digital Conference dal titolo “Mario Borrelli: attualità del pensiero e dell’azione in un pensiero socio-pedagogico per l’infanzia disagiata” organizzata dalla Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus con sede a Napoli e presieduta dal prof. Antonio Lanzaro, a cura del Centro Studi “Mario Borrelli”, diretto dalla giornalista Bianca Desideri.

Il convegno, che si terrà su piattaforma Zoom a seguito dell’attuale situazione generata dalla pandemia da Covid-19, si pone l’obiettivo di presentare e portare all’attenzione della comunità in particolare di quella educante l’attualità della figura e dell’opera di Mario Borrelli, sociologo e pedagogista, figura nota a livello internazionale per la sua attività svolta nell’immediato dopoguerra e proseguita fino alla sua morte in favore del disagio sociale e dell’infanzia e i giovani in situazione di difficoltà (ha scritto di lui anche Morris West).

Mario Borrelli, don Vesuvio come lo chiamavano fu in grado di realizzare negli Anni Cinquanta, una rete di sostegno umanitario internazionale, la Casa dello Scugnizzo, con la mission di recuperare e favorire l’avviamento professionale dei bambini di strada di Napoli (gli Scugnizzi). Tornato allo stato laicale, proseguì il suo impegno civile per il quale era noto a livello internazionale e gli studi di educazione alla Pace.

Ad aprire i lavori i saluti di:  Dott.ssa Isabella Bonfiglio, Consigliera di Parità Città Metropolitana di Napoli; Prof. Antonio Lanzaro, Presidente Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Dott. Alberto Bianco, Presidente Consiglio Generale Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Mons. Adolfo Russo, Ufficio Cultura Curia di Napoli;  Prof. Francesco Asti, Decano Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sez. S. Tommaso d’Aquino; Don Giuseppe Maglione, Direttore Archivio Storico; Mrs. Margaret Rush, Responsabile Comitato inglese Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus.

A parlare di Mario Borrelli, della sua figura ed esperienza socio-pedagogica interverranno: Prof. Sergio Minichini, Presidente Centro Studi ‘’Mario Borrelli’’ Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Dott. Giuseppe Desideri, Presidente nazionale  A.I.M.C.   Associazione Italiana Maestri Cattolici e Docente Università Pontificia Urbaniana; Dott. Giuseppe Errico, Psicologo e Presidente I.P.E.R.S.; Dott.ssa Laura Bourellis, Esperta di Beni artistici e culturali; Dott. Ermete Ferraro, già Presidente Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Dott.ssa Assunta Landri, Psicologa – Psicoterapeuta; Prof. Antonio Marra, Sociologo.

Seguiranno alcune testimonianze: Dott. Giuseppe Simonelli già Presidente Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Dott. Domenico Molino Consiglio Generale Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus;  Avv. Stefano Serao Consiglio di Amministrazione Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Dott. Eduardo Nappi Archivio Storico Fondazione Banco di Napoli; Sig.ra Ida D’Aniello segreteria Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Sig.ra Matilde Colombrino assistente sociale Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus.

A moderare l’incontro la Dott.ssa Bianca Desideri, Giornalista – Direttore Centro Studi “Mario Borrelli” Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus.

Il convegno è stato realizzato grazie al contributo concesso dalla Direzione generale Educazione, Ricerca e Istituti Culturali – Servizio II “Istituti culturali” del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo.

La Digital Conference si terrà sulla piattaforma Zoom e sarà possibile seguirla inviando una email a casadelloscugnizzo@libero.it.

Enti partner: A.I.M.C. Associazione Italiana Maestri Cattolici – Archivio Storico Diocesano – Ufficio Cultura Curia di Napoli – Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale Sez. S. Tommaso d’Aquino – Associazione Agenzia Arcipelago E.P.S. – I.P.E R.S. Istituto di Psicologia e ricerche socio sanitarie.

Media Partner: www.loscugnizzo.it – www.networknews24.it

Olga Campofreda: Dalla generazione all’individuo

Olga Campofreda è dottore di ricerca in letteratura italiana. Vive a Londra, dove insegna presso l’Istituto di Cultura Italiano e alla UCL. Nel 2019 ha pubblicato A San Francisco con Lawrence Ferlinghetti (Giulio Perrone Editore), con lei abbiamo parlato del suo libro “Dalla generazione all’individuo. Giovinezza, identità, impegno nell’opera di Pier Vittorio Tondelli” edito da Nimesis.

Olga Campofreda, chi è Pier Vittorio Tondelli e quali peculiarità riserva la sua produzione?

Pier Vittorio Tondelli (o PVT, come spesso viene riportato con un’operazione simile alla “brandizzazione”) è stato uno scrittore italiano omosessuale che ha esordito nel 1980 con l’opera-scandalo “Altri libertini”, un romanzo che portava dentro tutta l’esperienza del Settantasette bolognese, ma anche molto altro: oltre la superficie fatta di simboli, atteggiamenti e linguaggi legati a quel periodo storico, questo libro racconta la provincia italiana lontana dai grandi centri, vite marginali ed emarginate, questi “altri” libertini, appunto, che sono poi a mio avviso il tema centrale di tutta la riflessione letteraria di Tondelli fino alla morte per AIDS, avvenuta nel 1991.

Prima ho parlato di “brandizzazione”: come racconto nell’introduzione del mio saggio, la critica si è espressa in modo particolarmente problematico su questo autore nel corso degli anni. Tondelli è stato il primo dei giovani scrittori degli anni Ottanta, un gruppo di autori messi insieme per ragioni di marketing editoriale (tra questi anche Andrea De Carlo, Enrico Palandri, Claudio Piersanti, per un periodo anche Daniele Del Giudice). In questo contesto, Tondelli è ricordato più di tutti per aver parlato di giovani ai giovani, trascinando a lungo su di sé le etichette della ribellione e del giovanilismo. Questo ha contribuito a eclissare altri temi più profondi, come appunto il significato reale delle giovinezze ribelli narrate. Oltre alla “brandizzazione” di questo autore, altra problematica è rappresentata dall’interesse morboso per la sua vita privata, specialmente intorno alla questione dell’omosessualità: cercare risposte biografiche nei suoi romanzi, non ha aiutato certamente a valorizzarne il lavoro letterario in quanto creazione di simboli intorno a un discorso più universale.

Lei ha manifestato l’intento di “liberare l’opera tondelliana dal contesto generazionale e da una fruizione limitata a un interesse documentario.” A quale scenario storico sono riconducibili i personaggi tondelliani e qual è il valore simbolico del mondo di giovani emarginati di cui narra?

Prima ho parlato della Bologna del Settantasette, che esce fuori principalmente dai racconti di “Altri libertini” (1980). Molti critici hanno parlato di Tondelli come di un autore generazionale, ergendolo a rappresentante di una determinata generazione e incasellandolo in un contesto storico, che senza dubbio è fortemente presente nei suoi romanzi. Ma Tondelli è anche e soprattutto gli anni Ottanta italiani, nel corso dei quali ha prodotto l’intera sua opera letteraria. Anni che ha osservato e interpretato attraverso reportage, articoli di giornale, rubriche.

La scrittura tondelliana ha assorbito moltissimo la realtà italiana nella quale l’autore era immerso, ma se ci si limitasse solo a questo Tondelli non sarebbe né più né meno che un attento giornalista, e le sue opere un documento. Ricordo benissimo una domanda – fondamentale – che mi ha fatto lo scrittore Enrico Palandri all’inizio della mia ricerca: che cosa resterà tra tantissimi anni dei romanzi di Pier Vittorio Tondelli? Che cos’è letteratura, al di là degli elementi biografici o generazionali? Provando a rispondere a questi interrogativi, ho capito che la giovinezza, tema ossessivamente riproposto dalla pagina tondelliana, ha in verità una carica simbolica fortissima. Il giovane, in particolare il giovane emarginato, è l’individuo ancora in formazione, ancora libero dal punto di vista identitario e non assoggettato agli incasellamenti della società borghese conservatrice.

In che misura la narrativa di Tondelli diverge dal romanzo di formazione così come codificato dalla tradizione, considerando la presenza da protagonisti di emarginati che rifiutano l’integrazione come prospettiva?

Il romanzo di formazione, così come già fa notare Franco Moretti nei suoi studi sul tema (1999), è un genere letterario prodotto da una società borghese in un determinato periodo storico, fondato su determinati valori che oggi definiremmo conservatori e senza dubbio eteronormativi. Nel corso del novecento il genere è stato usato per descrivere storie di adolescenze e di giovinezze in generale, pur mantenendo la sua natura conservatrice di fondo. Si tratta di un percorso che accompagna il giovane verso l’età adulta, che verrà raggiunta una volta conquistate le sfere del lavoro, di una famiglia (eterosessuale, è chiaro), del riconoscimento in una patria. I personaggi tondelliani sono giovani per i quali non solo questo percorso non funziona, ma viene proprio rifiutato per i valori che rappresenta. La scelta di una giovinezza come status permanente ha un valore politico fondamentale. Raccontare personaggi di questo tipo, nel modo in cui fa Tondelli, è un punto di svolta importante per la letteratura italiana: significa mostrare strade alternative fondate su un sistema di valori nuovo, inclusivo, anti-normativo.

“La rappresentazione della giovinezza coincide nel romanzo d’esordio con quella di un mondo di emarginati che vivono volutamente oltre i confini della società borghese fondata principalmente sul concetto di omologazione e su valori eteronormativi”. Ha pensato ad una fusione dell’ideale romantico con quello della Beat Generation e della “controcultura”?

Esattamente. Parlo di questa fusione di ideali e immaginari nel primo capitolo del saggio, in particolare in relazione ai due inediti Jungen Werther/Esecuzioni e Appunti per un intervento teatrale sulla condizione giovanile. Questi inediti, databili alla fine degli anni Settanta e quindi precedenti all’esordio di Tondelli, già raccolgono in nuce i nuclei principali del discorso letterario tondelliano. Il primo inedito presenta cinque eroi che scelgono il suicidio come affermazione della propria diversità contro un mondo, quello borghese, che li vuole integrare solo a patto di sottostare a determinati parametri. Nel secondo inedito il rifiuto del “mondo degli integrati” è invece interpretato attraverso l’allontanamento, il viaggio come strumento di formazione alternativa a quella imposta dalla società conformata. I libertini dell’esordio nascono da questo innesto: il romanticismo abbandona il suicidio come unica opzione di resistenza possibile, sfumando nell’epica della Beat Generation.

“La giovinezza è l’immaginario della dissidenza, della difesa delle voci diverse, è l’anti-kitsch-piccolo-borghese, è il linguaggio dell’individuo che si allontana dalla massa. L’opera di Tondelli si sviluppa lungo un percorso che passa dall’impegno collettivo a quello del singolo, dalla generazione del Movimento del ’77 alle voci individuali degli anni Ottanta. Questa esperienza si sviluppa parallelamente a un sistema teorico ben ponderato che nasce dall’esigenza di offrire un’alternativa ai giovani Werther e ai giovani Ortis ai quali solo il suicidio si proponeva come valida azione sovversiva in difesa dell’identità”.

Come ci si salva dal conformismo, dal convenzionalismo, dall’asfissiante rispetto dei codici?

Il linguaggio è la forma che diamo alla realtà. Le parole che scegliamo e poi usiamo, più o meno consapevolmente, sono sempre portatrici del nostro punto di vista sul mondo. Si caricano di un certo sistema di valori. La consapevolezza nell’uso della lingua è certamente un passo importante verso la liberazione dal conformismo, quello che Tondelli chiamava “letterarietà” non certo pensando alla letteratura, ma all’insegnamento della lingua che avviene presso l’istituzione scolastica. Questo è un punto decisivo nell’impegno di Tondelli ed è anche l’aspetto che più lo avvicina a Pasolini: il linguaggio burocratizzato della politica, quello della pubblicità, quello della società di massa allontana le parole dal dettaglio e dall’autenticità. L’invito è quello a ricercare una lingua che sia quanto più possibile autentica, sia essa esuberante come il linguaggio dei libertini o minimale e scarna come in Camere separate.

Giuseppina Capone

 

 

Elsa Schiaparelli e Salvador Dalì: l’arte veste di lusso

Quando l’arte e la moda si fondono possono dare vita a  veri e propri capolavori: dipinti su stoffa, abiti con applicazioni tridimensionali  per una collezione originale che ha fatto la storia della moda grazie all’unione delle due menti artistiche di Schiaparelli e Dalì.

La stilista di moda italiana Schiaparelli insieme al pittore spagnolo Dalì davano vita ad una collezione ricca di arte, lusso ed eleganza.

La talentuosa stilista italiana, oltre alla moda,  amava l’arte e considerò l’artista spagnolo nonché pittore, abilissimo disegnatore, scrittore, fotografo, cineasta, scultore e sceneggiatore, il  suo  socio perfetto per realizzare insieme nuove originali collezioni. L’incontro tra i due artisti avvenne nel 1934 quando entrambi erano già in carriera. Con un enorme spirito di iniziativa, creatività e audacia i due non poterono fare a meno di collaborare per dare origine a nuove meravigliose e impeccabili creazioni, poiché la creatività dell’una avrebbe arricchito ancor di più quella dell’altro così, nel 1937, ci fu la loro prima ideazione: il celebre abito con l’aragosta. Dalì la dipinse  su un  abito lungo da sera di seta bianca, collocando strategicamente il rosso crostaceo all’altezza del bacino. L’aragosta era un “objet du jour” per Dalí, con il suo interno morbido ed esterno duro, che compariva spesso nei suoi dipinti. Altra memorabile creazione venuta fuori sempre dall’unione dei due artisti è il cappello-scarpa, che prende ispirazione da un disegno di Dalì che a sua volta prese ispirazione da una foto scattata da Gala nel 1933 in cui ritrae suo marito con una scarpa da donna sulla testa e un’altra sulla spalla. Il tacco della scarpa del cappello, invece, fu maliziosamente colorato di rosa smoking per richiamare la forma fallica. Per quanto riguarda la creazione del profumo prende il nome di Shoking si tratta di una bottiglia dal busto di west coperto da fiori, ispirato sempre ai dipinti di Dalì. Sui tailleur neri, i cassetti dei dipinti di Dalì, diventano tasche con pomelli per evidenziare i bottoni. Ancora, le borse a forma di telefono in velluto nero con dischi ricamati in oro, abiti con farfalle, strumenti musicali, temi ispirati all’astrologia, elefanti, trapezisti, giocolieri, coni gelato, turbanti, fiocchi, copricapo di piume e pelliccia. Un inizio di stravaganza per dare libertà alla fantasia. D’altro canto entrambi gli artisti avevano, sin da bambini, un animo artistico e creativo.

La vita privata di Elsa

Elsa Luisa Maria Schiaparelli nasce a Roma il 10 settembre 1890. Elsa, a differenza della sua più grande rivale Coco Chanel, nasce da una famiglia benestante, poiché sua madre apparteneva all’aristocrazia napoletana discendente dai Medici, suo padre proveniva da una famiglia di intellettuali piemontesi. Tutto questo avrebbe potuto far presumere che avrebbe vissuto una serena vita borghese ma è chiaro che non doveva essere nel suo destino. Contrastata da sempre dalla sua stessa famiglia per il suo desiderio di voler diventare attrice, cresce con la delusione e il rimpianto di non poter realizzare il suo più grande sogno.  Decide così di scrivere poesie e suo cugino, critico d’arte, convince un editore a pubblicare con il titolo di Arethusa.  Ma il padre della futura stilista di moda decide, preso dalla rabbia per la disobbedienza della figlia, di mandarla in un convento in Svizzera tedesca. Ma da lì a poco, grazie all’incontro con un uomo inglese che si occupava di aiutare bambini orfani che Elsa decide di aiutare,  iniziano i suoi lunghi viaggi in cui incontra persone all’avanguardia. Il conte William De Wendt De Kerlor fu il primo amore di Elsa con il quale da alla luce la loro primogenita Gogo. Con lo scoppio della guerra si trasferiscono a Nizza ma nel 1919 ripartono per l’America. Poco dopo il padre di Elsa viene a mancare e nello stesso periodo William decide di abbandonare sia lei che Gogo. In seguito la bambina si ammala di poliomielite ma per una volta la fortuna gira dalla sua parte: Elsa conosce Blanche Hays la quale le propone di andare  a Parigi dove avrebbero ricoverato Gogo in una clinica mentre Elsa avrebbe lavorato in un negozio di antiquariato.

L’incredibile incontro con Poiret

Così avviene l’incontro che avrebbe segnato il suo destino: “un giorno accompagnai una ricca amica americana nella piccola coloratissima casa di moda che Paul Poiret aveva in Rue Saint-Honorè. Era la prima volta che entravo in una maison de couture. Mentre la mia amica sceglieva vestiti deliziosi, io mi guardavo intorno esaltata. Provavo gli abiti in silenzio e provavo un tale entusiasmo da dimenticarmi dov’ero e mettermi a camminare di fronte agli specchi non troppo scontenta di me stessa. Indossai un cappotto dal taglio largo, morbido che avrebbe potuto essere stato disegnato oggi. I vestiti davvero belli non passano mai di moda.  Quel capotto era fatto con una stoffa di velluto; era nero, con grandi strisce luminose, intervallato da grandi righe di crepe de Chine blu chiaro. Magnifico“. “Perché non lo prendete, mademoiselle? Sembra fatto apposta per voi.” Il grande Poiret in persona stava guardando.  Sentii lo scontro delle nostre personalità. “non posso permettermelo”- dissi – è senz’altro troppo caro e, inoltre, quando potrei indossarlo?”. “Non vi preoccupate per il denaro” disse Poiret – e voi potete indossare qualunque cosa in qualunque situazione.” Poi, con un delizioso inchino, mi diede il cappotto. Il complimento e il regalo mi turbarono. Nella mia stanza scura quel cappotto sembrava una luce proveniente dal paradiso.”

Verso il successo

Elsa diviene allieva di Poiret e da lì a poco il grande stilista le diede l’opportunità di  realizzare i suoi primi modelli che inizia a vendere a piccole case di moda e nel 1925 diviene la stilista di una di esse la maison Lambal. In quel periodo le donne iniziarono a praticare sport e avevano quindi l’esigenza di indossare un abbigliamento adeguato. Elsa inizia a creare abiti per quel tipo di occasione: gonna a pieghe senza sottoveste e una corta blusa, calze di seta e una fascia colorata tra i capelli.  La sua prima collezione fu ispirata al suo grande maestro Paul Poiret e al futurismo: realizzata in cachemire morbido ed elastico, in particolare un golf realizzato e decorato a mano da una donna Armena, diventa subito molto richiesto.  Nel 1925, sostenuta dal finanziamento della sua amica americana acquista la Maison Lambal, una piccola sartoria collocata fra Place Vendome e Faubourg Saint-Honorè, dove inizia a realizzare abiti importanti di alta moda come la gonna pantalone oppure pantaloni con giacca, e questo fa si che la clientela aumenti e non solo, le persone di un alto ceto sociale iniziano  a vestire Schiaparelli. Non potevano di certo mancare le sfilate di moda per mostrare alle clienti le sue creazioni. Intanto questo suo continuo viaggiare tra Londra, Parigi, Rama e New York  le fa capire che lo spirito della donna stava cambiando e con esso anche l’abbigliamento. Negli Anni ‘30 nasce la silhouette a grattacielo con linee dritte e squadrate, spalle larghe e seno coperto dai revers, imbottitura sulle spalle, tutto completamente decorato. Nel 1931 si sposta in una maison più ampia allargando anche lo staff. Nel 1933 apre la sua sede a Londra proponendo una  nuova linea: cappe che scendono dritte dalle spalle creando una scatola, che si trasforma a cono, pantaloni a pigiama e in fine linea ad uccello e fantastica con berretti alati con piume. Diventa, in breve tempo, punto di riferimento della moda parigina. Nel 1935 crea la collezione stagionale, tema di ispirazione con filo conduttore per tutti gli abiti. Nasce così la collezione per ogni stagione. È stata, inoltre, l’inventrice del colore rosa Shocking.  Purtroppo la maison chiude nel 1954 al suo ritorno da New York dopo la guerra. Anche Dalì si rifugia a New York durante la guerra. Malgrado fosse tutto finito, soprattutto la magica collaborazione, i due grandi artisti hanno lasciato un importane messaggio: tutto ciò che è arte è vita.

Alessandra Federico

Adozione: l’amore incondizionato tra genitori e figli adottivi

L’amore tra genitori e figli è sempre incondizionato, anche se non hanno lo stesso sangue. Ma nella maggior parte delle volte, non appena l’adottato viene messo al corrente del fatto di non essere il figlio di coloro che lo hanno cresciuto può entrare in una profonda confusione e in conflitto con i genitori adottivi e con sé stesso. Potrebbe facilmente mettersi alla ricerca dei genitori biologici: la voglia di conoscere chi ti ha messo al mondo diventa più forte di qualsiasi altra cosa. Potrebbe, inoltre, provare un senso di disorientamento e, in alcuni casi, nutrire un sentimento di odio nei confronti dei genitori adottivi pensando che lo abbiano strappato via da quelli naturali.

Al contrario, e con il passare del tempo e dopo aver conosciuto la madre e il padre biologici, chi  è adottato potrebbe provare dentro di sé  un sentimento di rancore nei loro confronti perché convinto che l’abbiano abbandonato. Non è semplice, per chi lo vive, rimanere impassibili di fronte a una delusione tale: scoprire che chi ti ha dato tanto amore da sempre non siano i tuoi veri genitori  può provocare traumi non poco dannosi per una serena crescita. In questi casi è bene rivolgersi ad uno psicanalista per affrontare al meglio la questione evitando problemi futuri.

Federico, 25 anni, napoletano racconta la sua storia.

Federico, come hai reagito quando hai saputo che sei stato adottato?

Ho sempre sospettato che non fossi il loro vero figlio, o meglio, che non fossi uscito dalla pancia di Marta. Marta è la mia madre adottiva. Tra noi c’è un amore incondizionato, che va oltre ogni legame di sangue ma quando ho scoperto di essere stato adottato non ho voluto sentire ragioni e ho voluto a tutti i costi cercare i miei genitori biologici e sapere da loro il motivo per cui non hanno voluto  tenermi.  Mio padre è morto quando io avevo 4 anni e mia madre è finita in un centro di recupero per tossicodipendenti. Il rapporto con i miei genitori adottivi è da sempre stato magnifico ma qualcosa in me era cambiato quando mi hanno detto che a 4 mesi sono stato affidato a loro. Tutto a un tratto il mio modo di vedere le cose è cambiato, di vedere loro, ero spaventato, ero scosso come se un pezzo della mia vita mi fosse stato strappato violentemente.

Qual è stata la tua reazione una volta conosciuta la tua madre biologica?

Ho pianto, tanto. Non riuscivo a capire il perché non mi avesse voluto. Poi, quando ha iniziato a raccontarmi la sua storia non potevo credere alle mie orecchie: all’età di ventidue anni ha partorito me, faceva abuso di stupefacenti e alcool dall’età di sedici anni.

“È un miracolo che tu sia cresciuto sano e in salute, figlio mio” ripeteva in continuazione avendo lo sguardo semiperso nel vuoto, come se qualcosa la ipnotizzasse. Suo padre, nonché mio nonno, non voleva che lei avesse un figlio soprattutto con Daniele, mio padre, anche lui tossicodipendente. Avrebbe allora voluto che lei avesse abortito. Sono andati a vivere da soli i miei genitori e una volta che sono venuto al mondo, i miei nonni hanno chiamato l’assistente sociale e immediatamente sono stato strappato via da loro e dato in adozione.

Hai voluto più vederla?

Sì, decisamente. Lei avrebbe voluto smettere di assumere quelle sostanze tossiche e occuparsi di me ma non glielo hanno permesso. Una volta che stava bene voleva cercarmi ma i miei genitori adottivi glielo hanno impedito in tutti i modi. Allora, una volta raggiunto la maggiore età, hanno deciso di dirmi tutto e ho voluto cercarli. Ho anche scoperto che ho una sorella poco più piccola di me: Diana, si chiama così ma non l’ho ancora incontrata. Dice mia madre (quella biologica) che quando ha partorito hanno fatto con mia sorella la stessa cosa.  Marta dice che è stata data in affidamento a una famiglia del Veneto. Mi voglio informare al più presto per andare a trovarla e abbracciarla.

Adesso come vivi il tuo rapporto con Marta e Marcello?

Adesso posso dire di aver trovato la mia pace interiore. Fino a quando non fossi stato al corrente di come fossero andate realmente le cose e del perché io fossi stato abbandonato non sarei riuscito a mettermi il cuore in pace. Anche se  Inizialmente ho provato una sensazione di odio nei confronti di

Marta e Marcello perché in quel momento per me è stato come se mi avessero portato via con la forza dai miei veri genitori, anche se so che potrebbe essere un pensiero superficiale perché  dal momento in cui vieni adottato è chiaro che i tuoi genitori biologici ti hanno dato in affidamento a qualcun altro, ma purtroppo fino a quando una circostanza non la vivi, non potrai mai dire come la affronteresti. Io mi sono sentito abbastanza disorientato e non sapevo davvero come comportarmi e come reagire di fronte a tutto ciò che mi stava accadendo. Ho deciso quindi di andare in terapia da uno psicanalista per vederci chiaro e riuscire a vivere la situazione con un po’ più di razionalità. Col passare del tempo ho capito che non  si possono ritenere genitori solo coloro che ti hanno messo al mondo, ma chi ti ha da sempre accolto tra le proprie braccia e amato incondizionatamente. Perché si, Marta e Marcello sono da sempre mia madre e mio padre e il mio amore per loro non muterà mai. Allo stesso tempo, però, ho anche capito che non posso e non voglio provare odio né rancore nei confronti dei miei genitori naturali poiché hanno vissuto una situazione particolare quando hanno dato alla luce sia me che mia sorella e non avrebbero potuto tenerci. Vorrei solo darmi una spiegazione a tutto ciò che è accaduto. Ad oggi, vivo ancora con i miei genitori adottivi ma spesso e appena posso trascorso del tempo con Maria, la mia vera madre. Stiamo recuperando tutto il tempo perso.

Alessandra Federico

La Municipalità 2 e il progetto Marinella e gli Aquiloni

Un progetto che sta riscuotendo grande interesse e partecipazione per la rilevanza dell’azione portata avanti in favore di persone in affidamento penale esterno. Grande la sinergia messa in atto tra enti pubblici e privati, associazioni, volontari, tutti impegnati a che questa seconda esperienza nella Municipalità 2 del progetto “Marinella e gli Aquiloni”, finanziato dall’UIEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) di Napoli possa diventare un’esperienza pilota per la realizzazione di molte altre iniziative. Da 4 affidati del 2019 si è passati a ben 12 in questo complesso 2020.

Ne parliamo con Francesco Chirico, presidente della Municipalità 2.

Presidente Chirico, la Municipalità 2 è uno dei partner istituzionali della seconda edizione del progetto Marinella e gli Aquiloni, in che modo si esplica questa partnership?

L’iniziativa ci è stata proposta dalla dottoressa Forte dell’UIEPE di Napoli e dai dirigenti del Ministero, ci ha accomunati la ferma volontà di coinvolgere il territorio creando così una rete persone, ognuna capace di mettere a disposizione le proprie competenze e le proprie esperienze.

Come è nato l’interesse per questa iniziativa?

Ciò che mi ha convinto è stato il percorso ipotizzato che prevedeva il coinvolgimento del territorio nell’esperienza di lavoro e collaborazione per le persone in esecuzione penale esterna. SI è immaginato che questi ultimi fossero protagonisti per fare del bene nel quartiere.

La grande partecipazione di enti pubblici, istituzioni e enti del terzo settore costituisce un momento fondamentale per il progetto, in che modo avviene la collaborazione?

Se non ci fosse stata la numerosa e attiva partecipazione di tante realtà associative ed istituzionali della Municipalità, sono convinto che il progetto, per quanto valido, non avrebbe avuto la stessa forza e lo stesso significato. La compartecipazione è fondamentale e numerosi sono stati gli incontri, sempre valide occasioni di confronto utili a migliorare le azioni del progetto.

Ha più volte  incontrato le persone in esecuzione penale esterna che partecipano al progetto e le ha viste in piena attività, cosa l’ha colpita di più?

Ho incontrato in più occasione i ragazzi, tra loro ho ritrovato anche un vecchio amico di infanzia, ed è stato molto significato confrontarmi con loro, cercare di capire quanto nelle possibilità, la loro storia personale, ma uno degli aspetti che ho colto immediatamente è la loro consapevolezza di aver commesso errori nella vita, dunque del dover pagare giustamente il proprio debito con la giustizia, ma questo sentimento è chiaramente accompagnato dalla consapevolezza che esiste una strada diversa dal crimine, fatta di impegno e di soddisfazioni valide. Spero sinceramente che questo progetto possa proseguire, che possa dare una nuova occasione a questi ragazzi, che li aiuti a trovare lavoro: è giusto che qualsiasi persona, dopo che ha pagato i propri errori, torni ad essere una persona libera e senza il peso di un pregiudizio.

In che modo questa esperienza rappresenta un momento significativo per le azioni poste in campo dalla Municipalità 2?

Per la Municipalità questo è un percorso straordinario sotto molti punti di vista, esso non lo è solo per i validissimi interventi realizzati, lo è soprattutto per il bagaglio umano che mette a disposizione delle istituzioni e della politica, pone  gli amministratori locali di fronte alla consapevolezza che creare sinergie sul territorio può portare a grandi risultati, crea consapevolezza nella politica che le visite ai carcerati sono utili solo se finalizzate alla realizzazione di progetti come questi che intendono rimettere al centro l’uomo. Personalmente sono convinto che nessuno nasca cattivo, quanto piuttosto è la vita che ci pone sempre dinanzi ad una scelta, il solo fatto di aver scelto male non significa essere condannati per sempre. Spetta però  alla politica fare in modo che l’essere umano sia messo nelle condizioni di poter scegliere, di dare un’alternativa al crimine e l’unica via è quella di creare occupazione.

Bianca Desideri

Senza arte né parte. Come evitare l’arte contemporanea e vivere felici

Dalmazio Frau è pittore, illustratore, scrittore e conferenziere. Con lui parliamo di arte e cultura.

Sembra che l’Italia abbia assunto modi e maniere di un irresponsabile anfitrione di numerosi obbrobri offerti come artistici ed urbanistici, abdicando al suo ruolo di Maestra del bello e dimenticando di perseguire il principio dell’Alto. Può indicarci qualche esempio di abiezione?

Gli esempi sono sotto lo sguardo di tutti noi, ogni giorno e in ogni luogo del nostro Paese. È che ci siamo talmente assuefatti a vederli che dopo un po’ non ci facciamo più caso, ma restano sempre obbrobri inaccettabili. Per esempio Roma ne è piena, a cominciare dalle cupole asimmetriche di vetro e metallo innalzate su pregevoli palazzi di via del Corso, per continuare con quel catafalco che è la teca di Richard Meier dell’Ara Pacis, oppure ancora con la rinomata Nuvola di Massimiliano Fuksas, ma ripeto, potremmo andare avanti ad libitum in ogni luogo d’Italia, perché la devastazione voluta e consapevole intervenuta dopo l’ultima guerra, un’anarchia scelta per distruggere tutto ciò che è Bellezza e Armonia, impera ovunque, dal Nord Italia, da Bolzano dove è stato previsto un cubo di cemento che andrà a sostituire l’antica funivia di S. Genesio del 1937 – e che magari poteva essere restaurata e conservata – sino al caldo Sud, massacrato da fila di pale eoliche e da altri incubi postmoderni.

Con un andamento dicotomico lei contrappone Eterno e Contemporaneo: non ravvede possibilità di sincretismo?

Premesso che ritengo l’arte, quella vera, che sia quella micenea o quella delle avanguardie del Novecento, tutta e sempre “contemporanea”; in quanto eternamente vivranno le pale d’altare del XV secolo come i dipinti notturni di Van Gogh. Il problema sorge piuttosto, quando l’arte è soltanto “contemporanea” ovvero, se si preferisce, postmoderna, e allora non è né arte né può essere definita eterna. Di certe “cose” non resterà traccia, fortunatamente.

Guardandosi intorno ritiene fattibile almeno il tentativo di riscattare la scienza e l’arte degli antichi, evitando di cadere in atteggiamenti di generica nostalgia?

Rispetto al passato, dove soprattutto tra Ottocento e primo Novecento, si è cercato di recuperare una tradizione sapienziale nel campo dell’arte, oggi questo avviene in modalità spesso più nascoste, quasi private e in maniera anche più difficile da realizzarsi.
La nostalgia potrebbe anche avere un valore positivo se psicotropa o comunque se fungesse da motore virtuoso per una conservazione attiva del nostro straordinario e unico passato artistico, culturale e – se me lo si consente – anche metafisico; invece troppo spesso assistiamo a deliri che sono dettati da un “nostalgismo” e che dunque ripetono in maniera sterile qualcosa che non è stato compreso. Non può oggi esistere, non creato a tavolino almeno, come vorrebbero alcuni, nessun “Rinascimento” né del resto, ancor meno, ci troviamo in un “nuovo Medio Evo”. Tutto muta, inesorabilmente in una caduta sempre più veloce alla fine di un ciclo e perché esista una vera e propria “rivoluzione” (dunque un ritorno all’origine) deve prima avvenire il crollo definitivo. E ci siamo vicini, forse lo vedranno le generazioni successive alla nostra, ma esso avverrà infallibilmente.

Può commentare l’aforisma di Ernst Jünger: «Il mondo diventa sempre più brutto e si riempie di musei»?

Condivido il pensiero di Jünger, è legato alla mia risposta precedente.
Il mondo peggiora, è nella natura delle cose, e di conseguenza il “brutto” un po’ come il Nulla de La Storia Infinita di Michael Ende, avanza.
Il brutto è Sauron con le sue orde di mostri, il brutto ormai è diffuso ovunque.
Per ciò che riguarda i musei invece il discorso è più complesso: spesso da luoghi di custodia e preservazione, di ricerca e di raccolta, sono diventati veri e propri cimiteri per l’arte, non visitati, negletti, abbandonati a loro stessi soprattutto i più piccoli, quelli che troviamo nella profonda provincia italiana e che a volte nascondono e rivelano, all’avventuroso viaggiatore che li visita, incredibili e stupefacenti sorprese. Dovrebbe essere modificata tutta la struttura legislativa relativa all’apparato museale italiano, ma sappiamo benissimo come è andata in questi anni, perciò godiamocelo così finché dura.

L’educazione e la cultura possono costituire una soluzione ancorché eroica per contrastare la volgarità, il pressapochismo ed aprirsi all’invisibile?

Voglio continuare a crederlo con ogni iota del mio essere. Sono intimamente e profondamente convinto che sia così, a patto che questo sia un vero atto generato da persone capaci, consapevoli e competenti e non da improvvisati millanatatori pieni di loro stessi – ovvero del niente – che ripetono in continuazione sterili e verbose formulette prive di senso ma pregne di arrogante presunzione. Sono per un’azione culturale generata dalle élite intellettuali che hanno la dignitas per fare questo. In senso platonico, dovrebbero essere i dotti e i sapienti ad indicare la direzione, anche e soprattutto nella politica, e non gli o le influencer o, forse ancor peggio, gl’improvvisati filosofi di una tuttologia frutto del pensiero altrui, peraltro mal compreso. L’apertura all’”invisibile” la si ottiene con un altro tipo di percorso, un cammino che si compie da soli, o se insieme a qualcuno, per Amore e nulla più. Un atto “eroico” allora sì, indubbiamente.

Dalmazio Frau è pittore, illustratore, scrittore e conferenziere. Studioso d’Arte, di Miti, Simboli ed Ermetismo nella Tradizione Europea, ha scritto: L’Arte Ermetica. Bosch, Brueghel, Dürer, Van Eyck (Edizioni Arkeios, Roma 2014), Senza arte né parte. Come evitare l’arte contemporanea e vivere felici (Edizioni Simmetria, Roma 2012 e Tabula Fati, Chieti 2020) e L’Arte spiegata a mia cugina. Pensieri sull’Arte nella Tradizione, nella Politica, nel Fantastico, in pieno Kali Yuga (Tabula Fati, Chieti 2015), Crociata contro l’Arte. Trecento anni di guerra contro il Sacro (Idrovolante, 2017), L’Angelo Inquieto. Scienza e magia in Leonardo da Vinci, (Iduna Ed., Milano 2020). Scrive tra gli altri per L’Opinione delle LibertàTotalitàLa Confederazione italianaPangeaIl FoglioLa Biblioteca di Via SenatoCultura e IdentitàIl Giornale OFF e Nazione Futura. Vive a Roma.

Giuseppina Capone

Asperger: la vita oltre la diversità

“Certe volte mi dimentico del resto del mondo. Vivere con Lucas ogni giorno è come stare in un universo parallelo con delle regole tutte sue”.

La sindrome di Asperger è più frequente nei bambini maschi dai 4 ai 10 anni. Questa sindrome comporta varie problematiche riguardo il comportamento e la socialità. “Piccoli professori” fu cosi che li definì il pediatra Hans Asperger agli inizi del Novecento (da cui appunto prendono il nome i bambini Asperger) per la loro grande volontà nell’approfondire la conoscenza riguardo qualsiasi interesse essi abbiano: musica, scienza, letteratura, matematica, collezionismo, animali.  Capaci di arrivare ad essere più preparati di un  loro stesso insegnante. Allo stesso tempo, però, questi bambini speciali, hanno un carattere solitario, hanno difficoltà a comunicare e a relazionarsi con gli altri, utilizzano un linguaggio di poche parole ma parlano a raffica. Il gruppo di malattia che riguarda il comportamento prende il nome di “Disordini dello sviluppo”.

È considerata, da molti studiosi, come una forma di autismo poiché coloro che hanno la sindrome di Asperger assumono comportamenti simili a coloro che sono autistici: comportamento ripetitivo e schematico anche se, a differenza del bambino autistico, il bambino Asperger riesce a manifestare tranquillamente i suoi sentimenti nei confronti dei suoi familiari. Inoltre, ha un’intelligenza e un linguaggio nella norma e i suoi sintomi non peggiorano col passare degli anni.

È facile che l’origine possa essere multifattoriale, ovvero tanti  fattori che entrano in gioco nel determinare questa sindrome: predisposizione genetica, in considerazione della ricorrenza dei casi al’interno di alcune famiglie. Per di più, l’assunzione di sostanze tossiche durante la gravidanza potrebbe alterare il normale sviluppo del sistema nervoso centrale del bambino e predisporre la sindrome. Allo stato, però, ancora oggi non esistono dati scientifici certi.

Le difficoltà e le agevolazioni di un bambino Asperger

I bambini Asperger hanno difficoltà nel ricambiare sorrisi o nel guardare negli occhi l’interlocutore. Hanno inoltre un’ossessiva attenzione verso determinati oggetti o interessi come la scienza o la musica. Allo stesso tempo, però, possiedono una maggiore facilità nel memorizzare numeri o date e sono velocissimi nei calcoli matematici. Per un bambino Asperger, i suoi interessi e le sue passioni, sono una vera e propria risorsa in quanto continui stimoli per lui e non solo, può diventare un maggiore input per relazionarsi con gli altri bambini. Il bambino Asperger va supportato adeguatamente non solo dai suoi genitori ma anche dai suoi insegnanti, altrimenti potrebbe andare incontro a depressione o disturbi d’ansia perché si renderà conto, durante la sua adolescenza, delle difficoltà che incontra nei rapporti con il prossimo. In ogni caso, possono condurre una vita pari a quella di qualsiasi altra persona.

“Con mio figlio è una continua avventura, ogni giorno sembra di stare in un film diverso da quello del giorno precedente. Non è semplice stare ai suoi ritmi ma ce la sto mettendo tutta. Adesso abbiamo trovato il nostro equilibrio”.

Celeste, madre di Lucas (bambino con sindrome di Asperger) racconta la loro storia.

Quando avete scoperto che Lucas è un bambino Asperger?

Lucas aveva 5 anni quando iniziò a essere ossessionato da una pallina di carta. La buttava contro il muro e poi la andava a riprendere. Questo accadeva almeno per la maggior parte della giornata poi passava da un’ossessione all’altra: conosce a memoria tutti i nomi degli animali in particolare i dinosauri e li ripeteva in continuazione. Abbiamo quindi deciso di portarlo dal pediatra che a sua volta ci ha consigliato di consultare un neuropsichiatra infantile che ha approfondito la questione attraverso alcuni test specifici per la diagnosi della sindrome di Asperger, basati sia sulla valutazione del comportamento sia sulle capacità cognitive.

Come l’avete presa quando vi hanno dato la certezza che Lucas è Asperger?

Io sono scoppiata a piangere anche avanti al bambino e lo psicologo mi ha consigliato di non farmi mai vedere da Lucas in lacrime perché altrimenti potrebbe avvertire questa situazione come un disagio, come una cosa che rende tristi. Il neuropsichiatra, ci ha poi regalato un libro contenente tutti i consigli per come relazionarsi con le persone Asperger e devo dire che anche se inizialmente è stata dura, adesso ce la stiamo cavando.

 Avete un’educatrice?

Sì e devo essere sincera ci è stata di grande aiuto perché riesce a gestire la situazione in modo tale da evitare qualsiasi crisi nervosa che Lucas possa avere, qualora non dovesse ottenere ciò che vuole e a dirla tutta è stata un’educatrice anche per me e per mio marito, perché ci ha insegnato non solo ad essere forti ma soprattutto a riuscire a gestire da soli la circostanza quando lei non c’è. Lucas ha tutti i libri sugli animali e ogni volta che fa i capricci o non vuole mangiare o non vuole lavarsi scendiamo a compromessi: 10 punti ogni pasto quindi 30 punti al giorno e arrivati a 200 punti vince un libro. Praticamente un libro alla settimana. Questo è un metodo molto efficace che ci ha insegnato Maria, l’educatrice di Lucas. In sostanza, Maria è stata una mano dal cielo. L’educazione di Maria con Lucas è stata anche di grande aiuto per quanto riguarda il suo rapporto con i suoi compagni di classe.

Adesso Lucas come vive il suo rapporto con i suoi coetanei?

Decisamente meglio, ma ha trascorso parecchi anni in solitudine giocando da solo e leggendo ogni tipo di libro sugli animali e non solo, è preparatissimo in letteratura e in matematica anche più dei suoi stessi insegnanti tanto che spesso li interroga, affermando poi che non hanno studiato abbastanza. All’età di 13 anni Lucas ha iniziato a farmi domande sul suo modo di essere e del perché fosse cosi tanto diverso dai suoi coetanei. È stato difficile ma adesso, anche grazie a Maria, (la sua educatrice) Lucas sta conducendo una vita pari a quella dei suoi coetanei. Con Lucas è un mondo diverso, è spesso anche emozionante.

Alessandra Federico

1 46 47 48 49 50 80
seers cmp badge