Intitolata la biblioteca di San Giorgio a Cremano

villa-brunoA San Giorgio a Cremano intitolata la biblioteca comunale di Villa Bruno al sacerdote Giovanni Alagi, storico ed autore di svariate pubblicazioni sulla città, come “Bernardo Tanucci a San Giorgio a Cremano, “In breve…”, “Salvatore Punzo e i suoi tempi”, “Il cardinal Massaia a San Giorgio a Cremano”, “La processione di San Giorgio a Cremano” o “La chiesa di San Giorgio vecchio e il cimitero comunale”.

Presente alla cerimonia il sindaco Giorgio Zinno, con lui l’assessore Pietro De Martino, membro del comitato promotore dell’iniziativa insieme a Giuseppe Improta, anche artefice della piccola pubblicazione “Giovanni Alagi e le origini della più antica chiesa di San Giorgio a Cremano”, edita dal Comune e gratuitamente distribuita in quell’occasione, Aldo Vella, direttore della rivista “Quaderni Vesuviani”, Pompeo Centanni, autore di libri di storia locale, il giornalista Pino Simonetti e Giacinto Fioretti, attuale direttore onorario di quella raccolta libraria nonché fondamentale istitutore  con la generosa donazione, nel 1995, degli ottomila volumi della sua biblioteca privata, ma di pubblica consultazione, intitolata ad Edoardo Nicolardi, l’attuale, infaticabile e mai interrotta, opera di catalogatore ed, in virtù del suo chiaro prestigio di bibliofilo, motivo di attrazione di donazioni, anche di rilevante pregio, come dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, dall’allora presidente della repubblica Giorgio Napolitano o dalla Presidenza del Consiglio, che hanno portato la collezione all’attuale ammontare di oltre ventiseimila volumi più una nutrita emeroteca.

Peccato che l’attenzione dell’amministrazione comunale non abbia pensato ancora a meglio doverosamente ringraziarlo e ricordarlo alla memoria dei cittadini, attuali e specialmente futuri, se non affidandogli un ruolo certo ponderoso ed assolutamente non retribuito. Ci si augura almeno che, malgrado l’interruzione delle acquisizioni di giornali per l’emeroteca, l’ente, avendo deciso di caratterizzare la biblioteca indirizzandola principalmente alla cultura vesuviana, non lesini anche sull’acquisto di opportuni testi, oggi, lì, in numero ancora decisamente esiguo ed insufficiente, che ne possano giustificare coerentemente la stretta specificità.

Rosario Ruggiero

Il Ventre di Napoli nelle mura di Palazzokimbo

Le atmosfere forti di Palazzokimbo, si realizzano con una insolita e preziosa cadenza dei casi letterari che, per la speciale combinazione fra il contesto ambientale, la trama contemporanea incardinata in avvenimenti realmente accaduti con le comparse di noti personaggi pubblici protagonisti della storia repubblicana italiana (un romanzo storico o di formazione secondo la vulgata corrente), integrati in una speciale potenza narrativa; raggiungono un rapporto di intima condivisione fra la voce narrante dell’autore e l’ascolto orante del lettore. Conquistano una sovrapposizione di comuni esperienze e nitidi ricordi quasi perfetta, una osmosi impressionante fra i diversi stati d’animo come se il testo esprimesse una rappresentazione tridimensionale, interattiva. Capace d’includere lo stesso lettore nello scorrere delle pagine con una sorta di magica macchina del tempo che simuli con straordinaria resa una trasposizione fisica e sensoriale.

Si prova questo e altro vivendo le atmosfere forti di “Palazzokimbo”, romanzo finalista al Premio Neri Pozza 2015 scritto da Piera Ventre, edito dalla omonima casa editrice nell’autunno dello scorso anno.  Napoletana d’origine l’autrice vive e lavora a Livorno sin dal 1987 come logopedista e assistente alla comunicazione nei progetti dedicati al “mondo della sordità” realizzati con l’Associazione Comunico.  La sua passione per la scrittura, sin dalla prima infanzia, trova un riscontro importante nel 2015, quando su 1293 candidati si classifica al terzo posto con questa perla nel concorso letterario bandito da Neri Pozza.

Raggiungiamo l’Autrice in un breve intervallo della sua lunga giornata lavorativa.

Il suo primo romanzo esprime uno spaccato storico del nostro passato recente ambientato nella Napoli operaia di fine Novecento. Quanto incide in questo testo la cultura del suo vissuto privato?

“Palazzokimbo” è un luogo fisico, realmente esistito, situato a Napoli Est, nella periferia industriale della città. E’  in quel palazzo, abitato per lo più da operai della Saint Gobain e dalle loro famiglie, che ho vissuto la mia infanzia. Entrambi i miei genitori sono stati operai: mio padre in vetreria e mia madre in una fabbrica di vernici. Volevo partire da un dato autobiografico che mi permettesse di parlare di una realtà che rischia di scomparire: quella del ceto operaio napoletano, ricco di relazioni solidali e di dignità. Il romanzo inizia nel 1973, quando a Napoli scoppiò lo scandalo del Colera e termina nel 1980, col terremoto dell’Irpinia, due avvenimenti che segnarono la città in modo indelebile. Nel mezzo, si dipana la Storia di quel decennio difficile per l’Italia intera. Sono stati quelli gli anni della mia formazione. Ho attinto a tutto ciò cercando di rendere vero il verosimile dei personaggi che compongono il romanzo. Nell’invenzione letteraria di ciascuno di essi c’è sicuramente un frammento di me. Del resto è questa l’alchimia che opera la scrittura: partire da una vicinanza per discostarsene e tramutarla in altro.

La narrativa potente, i contrasti forti estrapolati in un contesto popolare dove bene e male sono valori distinti, contaminati in un perbenismo piccolo borghese, mostrano una scrittura adulta e di spessore, tipica di un blasone con tanti successi alle spalle. Come spiega questa lunga gestazione per un primo esordio sulla ribalta editoriale nazionale?   

“Scrivere è cercare la calma e qualche volta trovarla. È tornare a casa”, disse Anna Maria Ortese, una scrittrice che amo moltissimo, in un’intervista. Palazzokimbo ha una genesi lontana e si è organizzato in una forma che possiamo definire “romanzo” attraverso stratificazioni alternate a potature in un tempo lungo. Probabilmente tutte le volte che mi sedevo alla scrivania cercavo di tornare un poco “a casa”. Sono stata la prima ad accordarmi lentezza. L’ho inviato in lettura solo quando ho compreso che era arrivato il momento del distacco. La scrittura l’ho allenata nei racconti, che sono stati pubblicati in raccolta da Erasmo, una piccola casa editrice di Livorno e tenendo diari fin da bambina. Sono convinta che, alla fine, le cose accadono quando arriva il momento che debbano accadere. E che la scrittura sia un processo in divenire, che ha bisogno di una buona dose di umiltà.

Diversamente da alcuni suoi colleghi scrittori, le storie che narra, non derivano in modo evidente dalle tematiche che affronta nella sua professione. Quali sono i bisogni prioritari che la inducono a scrivere un romanzo o dei saggi da pubblicare?

Non escludo di scrivere, prima o poi, qualcosa che attinga alla mia esperienza di educatrice e logopedista. Ma non ho risposte esatte riguardo al meccanismo dell’argomento narrativo. L’unica cosa della quale ho certezza è che necessito di un coinvolgimento emotivo rispetto a ciò che intendo raccontare. Devo percepire un’urgenza per avere la necessità di passare tante ore al chiuso, davanti a uno schermo. In caso contrario sentirei di esercitare esclusivamente un mero esercizio di stile. E, se così fosse, ci sarebbero così tante cose da fare per occupare meglio il tempo, non trova? Il tempo è l’unica cosa preziosa di cui dovremmo imparare a disporre con rispetto.

Da molti anni vive a Livorno. In comune con la sua città d’origine probabilmente c’è solo il mare, il porto e probabilmente la presenza di molti conterranei che hanno lasciato il golfo reale per motivi di lavoro. Cosa vorrebbe portare sempre con sé della cultura napoletana, a Livorno come in altri luoghi italiani?  

Non sono una napoletana nostalgica, tuttavia so che essere nata a Napoli, e averci vissuto gli anni che indubbiamente sono formativi nel processo di crescita, mi ha portato ad essere ciò che ora sono, sebbene il fatto di essermene allontanata mi spinga a definirmi “napòlide”, per dirla alla Erri De Luca, e a non riconoscermi più né a Livorno né nella mia città d’origine. Credo, però, che ogni luogo abbia la capacità di plasmare il nostro sguardo sul mondo in maniera esclusiva. Ed è questo che porto con me di Napoli: il modo che la città mi ha insegnato a guardarmi attorno. Non saprei dirlo diversamente.

Nella nostra società contemporanea, preda di tante criticità e paure, quale sentimento espresso in Palazzokimbo riterrebbe indispensabile, di quale personaggio sente la maggiore mancanza?

Innanzitutto la dignità dei due genitori di Stella e di tutti gli abitanti del palazzo. Poi la forza della madre, la sua capacità di resistenza, di rimboccarsi le maniche e di battere i coperchi di fronte ai soprusi della vita. Infine, lo sguardo “marginale” di Stella, quel suo desiderio di cercare il bello anche nella desolazione, l’albero stento che cresce ai bordi dell’autostrada che le dice che, a ben guardare, un ritaglio di speranza è la sola opportunità che possiamo darci per cercare di essere persone migliori. È proprio Stella è il personaggio che mi manca di più, il suo mettersi in un angolo per riuscire a vedere le cose da un’ottica decentrata, da una prospettiva periferica. Oggi, assieme a paure e criticità, assistiamo a una smania di protagonismo che rischia di snaturare la visione del mondo in cambio di una miopia egocentrica, che può sfociare in un individualismo cannibale. Allargare lo sguardo, spostarsi dal “centro”, ci fa vedere l’altro. Ed è quello che Stella prova a fare.

Il 30° Salone del Libro di Torino è una edizione molto attesa e discussa dopo le recenti evoluzioni del mercato editoriale nazionale che hanno acceso nuovi riflettori su altre piazze con nuovi soggetti, Milano e la Nave di Teseo per non fare nomi. Cosa prova una amante artigiana delle parole come lei rispetto a queste dinamiche?  

Credo che non sia utile avere questa sorta di “dispersione di energie”. Sarebbe stato meglio puntare su un evento unico, convergere tutte le risorse per potenziarlo al pari di altre Fiere Internazionali, e io, al Salone del libro di Torino, sono affezionata. In quanto alle dinamiche editoriali, queste dovrebbero essere volte, piuttosto, a portare alla luce una buona letteratura, a condurre il lettore alla qualità. Gli editori, insomma, dovrebbero riappropriarsi del ruolo che ben hanno ricoperto nel passato e porsi domande importanti rispetto a ciò che vorrebbero porgere ai lettori. Temo che però i libri si stiano trasformando per lo più in “prodotti” e, attorno a essi, ci sia un proliferare di spettacolarizzazione un po’ svilente. Non ho grande esperienza rispetto a questo. Ciò che dovrebbe fare uno scrittore è mettere le proprie energie, il proprio cuore e la propria onestà in ciò che scrive, occuparsi di questo, sostanzialmente. “Cercare la calma, e qualche volta trovarla”.

Luigi Coppola

Omaggio a Giuseppe Antonello Leone

“Il maestro più completo del nostro secolo”, secondo l’autorevole giudizio del critico d’arte Philippe Daverio, Giuseppe Antonello Leone, pittore, scultore, mosaicista, incisore, poeta e didatta, sarà ricordato martedì 23 maggio, alle 17,30, nel Palazzo Reale di Napoli, nel corso di una serata organizzata dalla Fondazione Premio Napoli e dall’Associazione Lucana “Giustino Fortunato”. A parlare del poliedrico artista, allievo di Emilio Notte e amico di Carlo Levi, Rocco Scotellaro e Leonardo Sinisgalli, ad un anno circa dalla scomparsa, Aldo Masullo, Isabella Valente, Dora Celeste Amato e Francesco Lucrezi, introdotti da Marisa Tortorelli Ghidini

Il futuro è più di un’ipotesi… le risposte in un algoritmo

L’uomo ha sempre ambito a prevedere ciò che lo aspetta e oggi il traguardo sembra più vicino grazie all’impegno di un Istituto dell’Università di Oxford, il Future of Humanity Institute, diretto dal più importante teorico del transumanesimo, Nick Bostrom, e al social network Metaculus, che raccolgono pareri di esperti delle varie discipline e ne traggono risposte attraverso un algoritmo.
Ma cosa significa studiare o addirittura prevedere il futuro? Innanzitutto comprendere che esistono fenomeni prevedibili con scarso margine di errore, come il Pil di uno Stato da un anno all’altro, o la temperatura media della Terra dei prossimi dieci anni. Ma non basta, alcune grandi questioni percepite come irrisolvibili potrebbero già avere risposte dai contorni ben delineati. Non stupisce, dunque, l’interesse che sia il Future of Humanity Institute, sia un altro istituto, il Future of Life di Boston, hanno dedicato al social network Metaculus- Mapping the future.
Pur essendo a registrazione libera, il progetto di Metaculus è un luogo di incontro e dibattito tra scienziati (soprattutto fisici) e filosofi che, una volta aperta una pagina per rispondere ad una domanda, cominciano a raccogliere informazioni e pareri che, poi, sarà possibile commutare attraverso un algoritmo volto a fornire la risposta statisticamente più probabile.
Metaculus orienta, così, i progetti di ricerca scientifica e politica del futuro prossimo sulla base più probabile che la forma di questo stesso futuro potrebbe assumere.
Sin dai tempi di Aristotele i filosofi si interrogano sulle possibilità di assegnare un valore di verità certo ad enunciati rivolti al futuro: come si può fare se la risposta non è verificabile? Metaculus cerca di ovviare a questa difficoltà. Naturalmente alcune previsioni contano più di altre: il parere di un matematico in favore della soluzione della congettura dei numeri primi gemelli conterà più di quello di un filosofo, ma meno sarà chiamato ad esprimersi sui dipartimenti umanistici.
Se non si può prevedere il futuro, almeno lo si può immaginare e, magari, dargli un margine di realità concreto, perciò il progetto lavora in questa direzione, tentando di trasformare l’incertezza in progresso.

Rossella Marchese

Quando l’Italia si tinse di giallo… un secolo di polizieschi

Circa un secolo fa gli “strilli” per la narrativa di suspance recitavano tutti più o meno: “si legge tutto di un fiato. Questo libro non vi lascerà dormire. Ogni pagina un’emozione!” e, a distanza di tanto tempo, non sono cambiati molto. Più che slogan, oggi le chiameremmo dichiarazioni di intenti, e non era un caso vedere quelle scritte campeggiare sulle copertine dei volumetti in sedicesimo lanciati da Arnoldo Mondadori sul mercato nel settembre del 1929, mentre la grande crisi non risparmiava le librerie.
Si sentiva il bisogno di una narrativa di evasione e il romanzo “poliziesco”aveva tutte le carte in regola per essere quella lettura non troppo impegnativa, adatta ad un pubblico borghese desideroso di distrazioni, ancora lontano dall’intrattenimento dei moderni mass media (la tv non esisteva e le trasmissioni radiofoniche avevano circa 1 anno di vita).
Grazie al colore vivace della copertina, scelto per la subitanea riconoscibilità del prodotto, i polizieschi mondadoriani divennero subito per tutti i “libri gialli”; l’accostamento fu spontaneo, dato che già esistevano i “libri verdi” di storia romanzata e quelli “azzurri” dedicati alla narrativa italiana, mentre qualche anno più tardi, nel 1932, con la stessa logica vennero dati alle stampe i “libri neri”, che comprendevano la serie di romanzi di Simenon con protagonista l’ispettore Maigret.
La scelta dei primi quattro titoli fu significativamente variegata: La strana morte del signor Benson, di Van Dine; L’uomo dei due corpi di Edgar Wallace; Il club dei suicidi, raccolta di racconti neri di Robert Luis Stevenson comprendente il celebre Lo strano caso del dottor Jekill e del signor Hyde; Il mistero delle due cugine di Anna K. Green, inventrice dell’espressione detective story.
Il target a cui si rivolgeva il nuovo genere era chiaramente individuato nel lettore di città, frequentatore abituale di librerie ed edicole, in cerca di suspance e brivido, ma soprattutto, della soddisfazione di assistere alla vittoria del detective, incarnazione dell’ordine e del metodo razionale.
L’iniziativa editoriale riscosse un favore immediato, 50mila copie vendute in un solo mese, tanto che nel 1930, alla collana madre dal prezzo di 5 lire a volume cartonato venne affiancata una serie “economica” di gialli, composta di fascicoli dal costo di 2 lire.
Specchio di cotanto successo fu lo stesso termine “giallo”, entrato di diritto nella lingua italiana ad indicare il romanzo poliziesco; e così, mentre in Gran Bretagna ci si appassiona alla detective novel, alla thriller story o al mystery, in Francia si legge il roman judiciaire e il roman policier, nelle librerie tedesche si trovano i kriminalroman e i detectivroman, chiamare il giallo..giallo, per merito di quei libricini di quasi 90 anni fa, rimane un piacere tutto italiano.

Rossella Marchese

Giuliana, la balenottera materana vissuta circa 2 milioni di anni fa

Durante il periodo del Pleistocene, quando la Lucania era completamente sommersa dalle acque del Mediterraneo, e della Puglia non v’erano che piccoli arcipelaghi emersi, la balenottera Giuliana doveva nuotare indisturbata in quel suo habitat e tanto si sa sul suo conto visto che dal suo ritrovamento, avvenuto casualmente nell’agosto del 2006 ad opera di un agricoltore, alcuno studio è stato compiuto su di lei. Di Giuliana conosciamo ben poco, il suo fossile, rinvenuto sulle pietrose rive del lago artificiale di San Giuliano, vicino Matera, fu trovato ormai 10 anni or sono, recuperato in 3 apposite campagne tra il 2007 e il 2011 e successivamente deposto in grosse e robuste casse dimenticate al Museo Archeologico Nazionale “Domenico Ridola”.

A tirare fuori questa storia dal dimenticatoio ci ha pensato un documentario a firma di Renato Sartini, giornalista scientifico del Venerdì di Repubblica e film maker, dal titolo: Giallo Ocra. Il mistero del fossile di Matera.

Il ritrovamento di Giuliana è unico al mondo; in concreto della balenottera sono state rinvenute 12 vertebre toraciche, diverse costole, di cui una lunga 3 metri, e la pinna pettorale, rappresentata da scapola, omero, radio, ulna e diverse falangi; del cranio, invece, che è la parte più importante dello scheletro della balena, è stata ritrovata la porzione posteriore, cioè quella parte che includeva il cervello, e una parte del rostro. E proprio il recupero del cranio ha permesso di stimare la lunghezza della balenottera, che doveva superare i 25 metri, misure attualmente raggiunte solo dalla balenottera azzurra e dalla balenottera comune, che vantano il titolo di animali più grandi del pianeta; sorprendentemente, sono state rinvenute anche le bulle timpaniche dell’esemplare, cioè la struttura ossea cava che racchiude parti del sistema uditivo dei mammiferi placentati, elemento fondamentale che ha permesso l’assegnazione dello scheletro al genere balenottera. Questo spiegano nel documentario i paleontologi Giovanni Bianucci, Angelo Varola e Walter Landini, ordinari delle Università di Pisa e del Salento che si sono occupati del cetaceo fin dall’estate della sua scoperta.

Per le sue dimensioni, la balenottera potrebbe racchiudere in sé racconti interessanti, legati alle grandi transizioni climatiche o ai movimenti endogeni del nostro pianeta, che avrebbero portato ad uno sconvolgimento della vita sulla Terra, sia nella struttura degli esseri viventi che in quella delle terre stesse a causa del movimento delle placche.

In termini di ricerca, dunque, le premesse sarebbero promettenti, ma nonostante ciò il restauro, lo studio e la musealizzazione del fossile non sono mai partiti. Le ragioni del ritardo si sono legate ad una più che problematica reperibilità di fondi e, forse, anche nella mancata comprensione dell’importanza del reperto, complice una sensibilità istituzionale tradizionalmente più legata alla conservazione del patrimonio archeologico del luogo: il lascito storico ed artistico della Magna Grecia.

Tuttavia, grazie alla pressione esercitata dall’efficace mossa comunicativa di un documentario dedicato, che si è avvalso dei patrocini (pur non onerosi) delle più importanti istituzioni scientifiche pubbliche e private su scala nazionale, la ricchezza paleontologica eclissata di Matera ha seguito un percorso di divulgazione pubblica davvero importante, dalla presentazione al Festival Futuro Remoto di Napoli, nell’ottobre 2016, ad un’interrogazione parlamentare al Ministro dei Beni, delle Attività culturali e del Turismo, a febbraio di quest’anno e ad aprile è arrivata al Quirinale.

Si spera che con questa movimentazione di animi e di mass media la situazione di Giuliana migliori drasticamente, dall’abbandono alle prime pagine delle riviste di settore e non solo, lì dove dovrebbe stare, studiato ed ammirato, il fossile più grande del mondo.

Rossella Marchese

Aurora Giglio canta Capodimonte

Da tempo impegnata nella tutela del repertorio canoro classico napoletano e dell’antica modalità della “posteggia”, organizzatrice di un interessante  salotto culturale ed in procinto di profondere la sua grande carica vitale per la valorizzazione culturale dell’area di Capodimonte, Aurora Giglio, con tutta la sua straripante simpatia e lo splendore della sua voce, sarà sabato 20 maggio, alle 20,30, in occasione della “Notte dei Musei”, proprio sulla collina di Capodimonte, nel cortile della monumentale Reggia, per uno spettacolo, ad ingresso libero, tutto di canzoni classiche napoletane, tra cui “Munastero ’e Santa Chiara”, “Suspiro ’e Capemonte”,. “Capemonte!”, “Verde, celeste e rosa”, e “’E rrose parlano”, ma pure, e soprattutto, nel pieno rispetto della modalità della “posteggia”, con brani a richiesta. Con lei, i musicisti Vittorio Cataldi, Francesco Ponzo ed Antonello Gagliulli.

Mostra all’Istituto Francese di Napoli

 

E’ stata inaugurata il 18 maggio la mostra “Cognizioni Misteriche tra Napoli e Parigi”, con opere recenti dell’artista napoletana Maria Pia Daidone e della collega d’oltralpe Tatiana Chafcouloff, presso l’Istituto Francese di Napoli, dove resterà visibile fino al 3 giugno prossimo dal lunedì al venerdì, dalle 9 alle 20, il sabato, dalle 8,30 alle 19. Curatore dell’esposizione, il critico d’arte Maurizio Vitiello.

I Guns’n’Roses tornano insieme dopo 23 anni

A giugno la data italiana del tour europeo

Sarebbe proprio il caso di dire “Appetite for reunion”, parafrasando il titolo di un famoso album della band losangelina “Appetite for destruction” ed in effetti, quello che è successo il 17 aprile dello scorso anno sul palco del Coachella Festival ha dello storico. La reunion più attesa del secolo si è finalmente compiuta. Axl Rose, Slash e Duff McKagan, i tre membri storici della line up originale dei Guns’n’Roses, hanno sepolto l’ascia di guerra e sono tornati insieme a suonare, e non solo per un singolo evento.

Dopo il Coachella la band ha annunciato un tour mondiale dal titolo evocativo e certamente autoironico: “Not in this lifetime tour” che, iniziato lo scorso settembre in Nord America, è già record di incassi e sold out in tutte le date.

Dopo l’Asia e il Sud America, toccate nei primi mesi del 2017, i Guns’n’Roses arriveranno in Europa tra primavera ed estate, e faranno anche tappa in Italia per un unica data all’Autodromo Enzo e Dino Ferrari di Imola, il prossimo 10 giugno. Ovviamente, biglietti esauriti da tempo.

La guerra dei Roses è durata decenni, di inimicizie, cause legali, minacce e una serie di line up cambiate in maniera incessante dal 2000 ad oggi ad opera di Axl Rose, frontman della band, nonché legale proprietario del nome Guns’n’Roses. E tuttavia, nonostante tutti questi attriti, la richiesta per la reunion più attesa di sempre non si è mai smorzata tra i fan.

In effetti, Axl Rose non è riuscito, malgrado gli eccessi e il temperamento eccessivo, a creare problemi al nome della band al punto di perdere ogni attrattiva; tutt’altro, i Guns rimangono una delle band più grandi di tutti i tempi, macinatrice di record, dai video più costosi agli album più venduti e, adesso, ai biglietti staccati.

Oltre 1 milione di biglietti solo per il tour nordamericano, per un ricavo di 100 milioni di dollari: come ai tempi d’oro i Guns’n’Roses sono una macchina per fare soldi e successo e, magari, anche buona musica rock.

Rossella Marchese

Claudio Scarano e i Sedili di Napoli

Claudio Scarano, erede della Scuola Napoletana dell’Ottocento, così definito dagli addetti ai lavori, ha realizzato alcune opere che riproducono pittoricamente i luoghi dei Sedili di Napoli per la mostra fotografico – documentaria – pittorica inserita nel Maggio dei Monumenti e organizzata dall’Associazione Culturale “Napoli è”, presieduta dal giornalista Giuseppe Desideri,  in esposizione dal 15 maggio al 15 giugno 2017 a Palazzo Serra di Cassano nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
L’artista, che ha al suo attivo mostre personali e collettive, prestigiosi premi e riconoscimenti nazionali e internazionali, ha ricevuto lusinghiere segnalazioni di critici e giornalisti che hanno più volte sottolineato la sua capacità artistica di rendere immediatamente percepibile ed emozionante la pittura rendendo vivi e pulsanti luoghi, persone, ambienti, protagonisti delle sue opere. Ha esposto a New York, Londra, Parigi, San Pietroburgo.
La sua pittura è stata definita “disarmante e semplice emozione” e l’artista è, secondo critici e giornalisti, “l’erede legittimo di una scuola di alta qualità artistica” con una grande capacità di valorizzare al meglio i colori suggeriti da “madre natura” facendo immergere chi osserva le sue opere in piccoli gioielli di pittura e magici spaccati paesaggistici della nostra meravigliosa Italia.

Claudio Scarano, però, continua ad amar definirsi, solo… modestamente pittore.
Salvatore Adinolfi

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