Lucrezia: desiderio di futuro nella Roma antica

È il febbraio del 509 a.C., una sera fatale in un’Urbe soffocata dalla sopraffazione politica. Governano i Tarquini, imprimendo un pesante dispotismo tirannico ed un notevole segno assolutistico. Il potere non è più trasmesso per elezione popolare bensì per via ereditaria. Le vie romane hanno già visto Tarquinio Prisco celebrare un trionfo vestito con una toga ricamata d’oro ed una tunica palmata, ovvero con tutte le decorazioni e le insegne per cui risplende l’autorità del comando assoluto.  Lucrezia, moglie di Collatino, matrona pacata, laboriosa, fedele, si trova a casa propria: accoglie Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo; viene stuprata; dopo poco si suicida. L’episodio è arcinoto con modiche e collaterali varianti. “Gara delle mogli” durante l’assedio di Ardea, o incontro casuale fra i giovani della famiglia reale e la moglie di Collatino? Richiesta d’accoglienza da parte di Sesto Tarquinio, in nome della parentela con lo stesso Collatino o congegna d’una fuorviante e falsa epistola in cui quest’ultimo chiede alla consorte di porgere ospitalità per la notte? Lucrezia chiama a sé, convocandoli a Collazia, il padre ed il marito o si reca lei stessa a Roma per esporre il vituperio di cui è stata vittima? Bruto, il futuro eversore della monarchia, è presente mentre Lucrezia si toglie la vita o sopraggiunge successivamente?

Non importa: quell’abuso scatena una sequenza di eventi che sfocia nel giro di pochi giorni alla rivolta popolare destinata a decretare la fine del regime monarchico ed alla cacciata dei Tarquini. Una storia di vibrante passione: vita e morte di Lucrezia. Eroina mitizzata dal fluire fantasioso del tempo. Icona lanifica, casta, pia, frux, domiseda.

L’evento è indubbiamente coinvolgente e pregno di stimoli alla riflessione. Mediante Lucrezia si può scrutare un affresco sociale estremamente affascinante e sicuramente illuminante per i molteplici riverberi che produce sulla storia delle istituzioni così come sulle attuali questioni di genere.

Tatuata da una cicatrice indelebile non cincischia in lagnanze e decide per sé, determina il suo avvenire. Vessillo di pudicitia, ripresa mentre tesse la lana con le sue ancelle, mentre le nuore del re si divertono in banchetti ed orge, sferra il colpo mortale ai Tarquini.

Afferrando il coltello e piantandoselo nel cuore, uccide se stessa e partorisce la Repubblica. Lucrezia mi piace assai: pone e dispone della propria esistenza. Mette al centro d’un fatto privato il suo corpo e lo usa per sovvertire le forze politiche in campo. È la prima onda di una marea: la sua mano é legata al divenire, il suo petto ammicca ad un futuro ancora da dipanare.

Lucrezia, irreprensibile matrona, dedita alla cura domestica, dona pace e spinge alla battaglia; è casta e si concede eternamente; terrorizza ed ammalia; fertilizza e sterilizza. Ogni suo aspetto possiede una funzione politico-sociale trasformatrice. Scandisce la lotta per il rinnovamento. Volge uno sguardo sistemico. Possiede una mentalità affatto fossile. Abbatte con fiera determinazione gabbie concettuali ancestrali. Mobilita la massa, scuote l’opinione pubblica e muta il corso della storia di Roma. Decostruisce l’idea di “donna” come categoria ontologica e la intende, invece, come “costrutto sociale”.

Qual è la lezione di Lucrezia? Reagire alle posizioni identitarie. Cura, appeal erotico, docilità? Non semplifichiamo!

“Lucrezia chiudi la bocca! Sono Sesto Tarquinio e ho una spada in mano. Una sola parola e sei morta!” scrive Livio. E Lucrezia ai suoi cari “Da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l’esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!”

Affrancata da gioghi vetusti e da costrizioni culturali, braccio armato nella lotta di liberazione, Lucrezia sa di non essere una monade: il suo personale è politico. Eh, no: la donna perfetta non è quella morta. Lucrezia desidera il futuro.

Giuseppina Capone

Isabella Bignozzi: Il segreto di Ippocrate

Ippocrate, autore del celebre giuramento e padre della medicina occidentale: perché ha scelto di srotolare i fili della vita del maestro di Kōs?

Ho svolto per molti anni la professione odontoiatrica, ho avuta una lunga frequentazione universitaria e ospedaliera, e un mio studio privato per lungo tempo. Nei miei anni di attività clinica ho avuto la fortuna di avere molte soddisfazioni e innumerevoli difficoltà, incontri più o meno positivi, riflessioni accorate sul mio lavoro. Ho attraversato a un certo punto della mia attività un momento difficile e confuso, non ero serena con la realtà che mi circondava, e trovavo che alcune situazioni cui il mio lavoro in quel momento mi induceva non fossero in sintonia con le mie pulsioni più profonde. Il nome di Ippocrate a volte riecheggiava nei miei pensieri, lo vivevo come un simbolo etico, avendo conosciuto le sue parole alte nel giuramento che ogni medico fa a inizio carriera; era dunque per me una specie di padre spirituale.

È stato allora che ho trovato le opere di arte medica di Ippocrate disponibili nel web, in particolare il Corpus Hippocraticum, compendio di tutte le opere attribuite a Ippocrate (a torto o a ragione) e raccolte da Émile Littré in: Hippocrate. Oeuvres Completes, Jean-Baptiste Baillière, 1839. All’inizio non avevo alcuna intenzione di scrittura, mi guidava solo la curiosità, e un’esigenza di ascolto, di pura lettura e meditazione. Cercavo forse conforto, e alcune risposte.

Dunque ho letto per esteso i suoi scritti e ho sviluppato, nei mesi, una strana amicizia a distanza con questo sapiente vissuto tanti secoli prima di me. Ho trovato sia il conforto sia le risposte che cercavo e in più l’ho sentito vicino, come se lo conoscessi personalmente. Volevo a quel punto cercare di trasmettere questa sensazione di protezione e di saggezza a chiunque altro ne sentisse la necessità. Per questo ho voluto dargli un volto, delle vicende, dei pensieri. È venuto tutto in modo molto naturale.

Va detto che i suoi trattati sono per la maggior parte di natura molto tecnica: parlano di febbri, di epidemie, di umori; di pozioni, unguenti, suffumigi; di antichi anestetici e manovre chirurgiche. Sono anche frammentari, spesso, e sibillini, per il gran numero di secoli che intercorrono tra noi e l’età greca classica durante la quale sono stati redatti.

Ma sentivo in essi una voce di fondo, riflessiva, attenta al paziente, rispettosa. Una voce che mi ha confortato e, infine, conquistato. Nel rispetto di un’ampia documentazione storica da me consultata, ma facendo uso – laddove possibile e necessario per mancanza di informazioni – della mia immaginazione, nel corso di circa un anno è nato il romanzo.

Ippocrate sfiora eventi storici grandiosi, penso alla politica periclea ed al conflitto peloponnesiaco: in che misura la Grecia del V sec. a.C. tange la sua narrazione?

L’età classica è un’epoca che mi è rimasta nel cuore fin dal liceo. La Grecia e Atene in quel momento storico rappresentavano il cuore della cultura occidentale. Ne ho sempre immaginato l’atmosfera, i mercati, i templi; i teatri, l’agorà. Il desiderio di partecipazione politica dei cittadini, di disquisizione filosofica, di condivisione delle conoscenze.

La bellezza era ovunque: l’architettura e le arti animavano le poleis; il Partenone era in costruzione sull’acropoli, un tempio inondato di luce; e poi il Pireo, le Lunghe Mura; e infine, il senso di pace: Atene e Sparta proprio allora avevano stipulato un trattato che auspicava trent’anni di non belligeranza e prosperità tra la Lega Delio-Attica e la Lega Peloponnesiaca.

Ippocrate da ragazzo ebbe modo di vedere la polis nel suo massimo splendore: vi era cultura, indagine, speculazione. Anche nelle zone più periferiche della civiltà ellenica vi era grande fermento culturale. Penso alle scuole filosofiche della Magna Grecia, ad esempio. Gli studiosi di quell’epoca osservavano la natura e il mondo animale, facevano congetture sull’essenza dell’universo, ma anche sulle malattie degli uomini. Alcmeone e Democede di Crotone, Empedocle e Acrone di Agrigento furono tra questi. Senza dimenticare Democrito, Parmenide di Elea, Zenone; la scuola Pitagorica tutta. Gli studiosi di Crotone e Agrigento dissezionavano gli animali, mentre i filosofi inserivano nelle nozioni mediche le loro ipotesi sugli elementi primordiali dell’universo: l’acqua, l’aria, il fuoco e la terra servivano a spiegare la composizione dei corpi così come quella del mondo.

È in questa temperie che si sviluppa la medicina di Ippocrate. Le vecchie cosmologie iniziavano a dare stimolo allo studio empirico dei fatti, a un atteggiamento che potremmo definire proto-scientifico.

È vero che Ippocrate ha vissuto la sua giovinezza agli antipodi di questa parte del mondo greco, e ha risentito soprattutto degli stimoli culturali della propria regione geografica, quella orientale: fu influenzato dalla scuola medica di Cnido, ad esempio, dove vi era un Asklepieion di grande tradizione, e queste furono le sue conoscenze iniziali, se pur reinterpretate e integrate in relazione alle pratiche della scuola di Kos, cui lui propriamente apparteneva; ma è vero anche che in un secondo momento della sua vita, Ippocrate iniziò a viaggiare. Dalle fonti è molto chiaro che fu un medico cosmopolita, se così si può dire, per i suoi tempi. Le basi della sua scienza erano profondamente correlate alla medicina egizia e medio-orientale, da cui ha traslato molte conoscenze; è ben noto che in età matura fosse divenuto un viaggiatore instancabile, e che fosse spesso ad Atene, in Magna Grecia, in Tracia, in Egitto. Viaggiò, curò gli infermi, insegnò e apprese in tutte le terre conosciute del bacino del mediterraneo; visitò regioni allora inospitali, come la Scizia, la Libia, le regioni interne all’Asia Minore. Dunque la sua cultura medico-scientifica era variegata, e frutto di numerosi contatti avuti anche ai margini o al di fuori del mondo greco.

Gli episodi storici di quel periodo sono molteplici, in quanto esso fu denso di avvenimenti e ricco di storiografi accurati, di cui conserviamo le cronache. Basti pensare a Erodoto e, meno fantasiosi e più essenziali, Tucidide e Senofonte.

Nel mio romanzo ho cercato di trasfondere molto di tutto ciò; il mio Ippocrate cresce nella sua piccola isola, apprendendo dal padre. Ma poi viaggia a lungo, incontra grandi personalità, ne assorbe i precetti e le riflessioni. La sua vita procede tra conquiste e grandi delusioni, come accade per ognuno di noi. Dalla sofferenza di alcuni eventi tragici forgerà la sua tenacia, il suo equilibrio, le sue incredibili capacità. Dal punto di vista della cornice storica, ho inserito molto di quell’epoca, sia come riferimenti alla situazione politica, sia a quella culturale; inoltre ho voluto introdurre anche un piccolo divertissement, un viaggio che Ippocrate ho immaginato abbia fatto al seguito dei Diecimila di Ciro. Questo episodio, di pura fantasia (benché nulla provi né vieti, per la coincidenza di tempi e luoghi), mi è stato funzionale per descrivere una svolta di pensiero cui il mio Ippocrate va incontro, in tarda età, smantellando l’ultimo pregiudizio che gli aveva impedito, fino ad allora, di realizzarsi appieno e divenire compiutamente sé stesso, come uomo e come medico.

Dunque nella narrazione ho evocato numerosi avvenimenti e circostanze dell’epoca, creando – questa è la mia speranza – un’ambientazione storica e filosofica il più possibile ricca e veritiera. Tutto questo però, ci tengo molto a dirlo, senza tediare il lettore con particolari nozionistici, bensì facendo sì che la temperie culturale, i fatti politici, l’architettura e la natura, gli eventi storici entrino come arabeschi a cornice di una favola.

Quali sono i testi che ha letto e consultato per redigere il suo romanzo?

La fonte principale che ho usato è il già citato Corpus Hippocraticum; in realtà, soltanto alcuni degli scritti in esso inclusi sono da ritenersi più certamente suoi, e su questi ho fatto una consultazione più serrata, basandovi l’intelaiatura filosofica del romanzo: Sull’antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il prognostico, Gli aforismi, Sul regime delle malattie acute, alcuni scritti di ortopedia (che trattano la riduzione delle fratture, delle lussazioni, la terapia delle ferite della testa), Il Giuramento.

Nella parte introduttiva di tale raccolta del Littré si tratta a lungo anche della vita di Ippocrate, delle sue teorie e dei suoi maestri, riportando in modo critico le informazioni a suo riguardo che ci vengono fornite dalle tre biografie esistenti: quella di Sorano di Efeso, risalente al II secolo d.C.; quella contenuta nella Suda, un’enciclopedia storica del X secolo d.C. scritta in greco bizantino e riguardante il mondo antico del bacino del mediterraneo; quella di Giovanni Tzetzes, un filologo bizantino vissuto nel XII secolo d.C.. Questi storici pongono le loro fonti in autori ancora precedenti: Eratostene, Ferecide, Apollodoro, Ario di Tarso, Sorano di Kos, Istomaco e Andreas.

Per la ricostruzione geografica e storica mi sono aiutata con i seguenti testi i quali, benché successivi, mi hanno dato un’idea abbastanza fedele della natura e delle vicende del periodo storico di cui dovevo narrare:

la Biblioteca storica di Diodoro Siculo (frammenti, I sec a.C.)

la Periegesi della Grecia di Pausania (II sec d.C.)

la Geografia di Strabone (14-23 d.C.)

Inoltre ho attinto informazioni da alcuni testi classici e intramontabili, ricchissimi di dettagli e di episodi, più o meno veritieri, che mi hanno aiutata a entrare pienamente nello spirito dell’epoca:

Esiodo: Le opere e i giorni

Erodoto: Le storie

Tucidide: La guerra del Peloponneso

Senofonte: Anabasi

Infine, vi è una parte finale del libro in cui Ippocrate giungerà in Egitto, in visita a un collega e maestro, un sacerdote di Sekhmet che dirige la Casa della vita di Memphis. Tutte le nozioni di medicina egizia cui si fa riferimento in questa parte e anche altrove le ho tratte dai Papiri di Smith e di Ebers.

In particolare ho consultato il testo integrale del papiro Edwin Smith, che ho trovato disponibile per intero, traslitterato e tradotto in inglese, ad opera della University of Chicago Oriental Institute Publication. Si tratta di un testo scritto in ieratico, datato al 1650 a.C., ma secondo alcuni storici trascritto e rielaborato da un documento più antico, risalente al 2500-3000 a.C., che sarebbe addirittura opera del leggendario Imhotep; tale papiro è di contenuto principalmente chirurgico, e le informazioni in esso contenute, davvero sorprendenti, includono l’esame obiettivo, la diagnosi, il trattamento e la prognosi di numerose patologie (ferite della testa e del massiccio facciale; fratture cervicali, vertebrali, clavicolari, omerali; lussazioni articolari; tumori al seno), con speciale interesse per diverse tecniche operative e descrizioni anatomiche, ottenute anche nel corso dei processi di imbalsamazione e mummificazione dei cadaveri.

Ho letto inoltre su alcuni testi di medicina egizia numerosi frammenti tratti dal Papiro di Ebers (datato al 1550 a.C.), uno scritto immenso: basti pensare che l’originale misura più di 20 metri di lunghezza e trenta centimetri di larghezza e contiene 877 commi che descrivono numerose malattie in vari campi della medicina come l’oftalmologia, la ginecologia, la gastroenterologia, e le loro corrispondenti prescrizioni. Questo papiro include la prima relazione scritta sui tumori.

Lei è un medico ed una scrittrice: quale riflessione può offrirci circa il nesso tra cultura umanistica e cultura scientifica?

Sia la parola medico sia la parola scrittore sono definizioni troppo grandi per me. In ogni caso, ho sempre avuto grande amore per la medicina e la scienza, ma anche per la letteratura in ogni sua forma, e in modo precipuo per la filosofia. Quest’ultima disciplina, di carattere eminentemente speculativo per definizione, penso sia l’ambito che più compiutamente esprime il nesso tra i due versanti del pensiero umano: le discipline cosiddette umanistiche e quelle scientifiche.

Nell’antichità questi due regni erano molto più vicini tra loro. Ai tempi di Ippocrate – e così per lunghi secoli, fino a tutto il medioevo – lo stesso studioso era spesso medico, filosofo, poeta; a volte pittore, narratore, musicista. I numerosi Perí Physeos (Sulla natura) dei filosofi naturalisti presocratici erano opere che cercavano di cogliere l’essenza dell’universo, del mondo vegetale e animale, del corpo umano e delle sue malattie; l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco erano i quattro elementi primordiali che servivano a spiegare la composizione dei corpi così come quella del mondo; opere eminentemente proto-scientifiche, che però erano scritte spesso in versi, avevano un’attitudine lirica dichiarata, a dimostrazione del sacro e del poetico che pervade l’esistenza di ogni essere vivente.

Leonardo da Vinci viene spesso citato per la sua genialità onnicomprensiva e circonferenziale (era inventore, ingegnere, esperto di anatomia ma anche scrittore e pittore) ma il suo non è un caso isolato. Le attitudini speculativa e creativa nell’antichità si mischiavano, traevano forza l’una dall’altra.

Poi è accaduto qualcosa, in particolare a partire dall’illuminismo e a seguire con la rivoluzione industriale e l’avvento della tecnologia, che ci ha abituati a pensare che la scienza e le materie umanistiche siano universi lontani, e che presuppongano atteggiamenti di pensiero opposti, tra loro inconciliabili. Il metodo scientifico proposto per primo da Galileo nel sedicesimo secolo introdusse la sperimentazione e il risultato ripetibile come unici elementi adatti a convalidare o confutare l’ipotesi dello scienziato, senza che nessuna sua opinione o pregiudizio potessero andarne a contaminare i risultati. E questo è senz’altro giusto e desiderabile, ma non esclude che lo scienziato possa far tesoro delle sue conoscenze e spingersi oltre, in altro ambito. Lo scienziato è tale solo se ha solide conoscenze acquisite, ma questa è condizione necessaria e non sufficiente per attuare nuove scoperte, per le quali serve un atto artistico d’intuizione. Albert Einstein ha saputo immaginare, quasi sognare dimensioni diverse spazio-temporali, prima di cercare le formule matematiche per dimostrarne la possibile esistenza. E così Stephen Hawking nelle sue teorie cosmologiche.

Il pregiudizio colpisce allo stesso modo le discipline umanistiche, e si pensa che per poter essere narratore o poeta basti la fantasia, o una presunta attitudine artistica o sensibilità specifica, allestita con qualche improvvisata nozione di espressione verbale che possa stupire il lettore. Ma questa, secondo la mia personale opinione chiaramente, trovo sia una grande bugia. Nelle discipline umanistiche la base dell’evolversi del letterato o del poeta risiede nell’applicazione, nella lettura, nella meditazione profonda di ciò che già è stato scritto e pensato; solo così un autore può ambire a dare a chi legge un messaggio ancora degno di questo nome. Non esiste creazione senza istruzione, senza familiarità intensa e affettuosa con i letterati e i poeti che ancora risuonano nell’aria; e, a saperla ascoltare, l’aria risuona di molte grida. Allo stesso modo in cui non esiste scoperta basata sul solo arido studio, senza essere benedetti dalla meraviglia dell’intuizione.

Anche per chi si avvicina come fruitore al prodotto culturale – sia esso letterario, filosofico, o scientifico – la condizione principe è quella dell’accoglienza: essere pronti a una frequentazione intima, prolungata, a un’intensa contemplazione dei contenuti, finché non si senta quello sgomento che si prova di fronte all’opera d’arte: sia essa la perfezione di una fuga di Bach o l’immagine delle interconnessioni tra masse stellari (che appaiono incredibilmente simili a quelle neuronali); sia essa un’immagine endocellulare presa al microscopio elettronico, o il verso di un poeta che scandagli i recessi dell’animo umano.

Ogni musicista è un grande matematico; ogni poeta frequenta quotidianamente l’infinito e l’eterno, ogni medico o biologo conosce il pulsare del miracolo della vita. È necessario poter essere pronti alla fatica, a un’intima ascesi, allo spavento della comprensione, prima di essere illuminati dall’intuizione.

Qual è il messaggio etico ippocrateo?

Ippocrate ha avuto molti meriti, primo tra tutti quello di essersi distaccato da una visione sacerdotale della medicina, e di aver dato origine alla scienza medica razionale dei popoli d’occidente; di aver perseguito la speculazione guidata dall’osservazione, dallo studio, dal ragionamento, di aver messo da parte rituali e superstizioni, di aver posto le basi di un seppure rudimentale metodo scientifico; di aver elaborato la teoria degli umori, della salute come equilibrio, della forza rigeneratrice della natura come prima alleata del terapeuta.

Entrando nello specifico dei suoi scritti, sicuramente le nozioni che ci ha trasmesso riguardo l’ortopedia, la riduzione delle fratture, la risoluzione delle lussazioni articolari hanno rivestito grande importanza per i medici che sono venuti dopo di lui; assolutamente innovativa inoltre la sua abitudine di tenere quello che ora definiremmo un diario clinico dove appuntava anamnesi, segni e sintomi alla prima visita, terapie somministrate, osservazioni nei giorni delle successive visite, che svolgeva con attenta sollecitudine; è così che nasce il primo abbozzo di cartella clinica, che è ancora oggi lo strumento base di osservazione e monitoraggio del paziente, di formulazione di diagnosi integrate, di monitoraggi puntuali dell’andamento terapeutico, di prognosi ragionate, di raccolta dati a scopo statistico e di ricerca.

Ippocrate inoltre fu tra i primi a considerare lo stile di vita del malato come uno degli elementi chiave per comprendere la causa del malanno e per sconfiggerlo. Fu il primo a osservare, accanto agli elementi dietetici, anche quelli atmosferici, psicologici e persino sociali del paziente, con un’ampiezza di vedute che ci ha lasciato intuizioni moderne e grandi insegnamenti.

Ma quello che più sorprende ed emoziona, a mio avviso, sono proprio gli scritti etici di Ippocrate, in cui egli dà disposizioni di comportamento. Nel romanzo le sue parole vengono a volte riportate testualmente:

«Quando voi dovete visitate il malato … sappiate prima di entrare cosa si deve fare; poiché molti casi necessitano non di ragionamento, ma di un intervento caritatevole […] Entrando, ricordatevi la maniera di sedersi, la riservatezza, l’abbigliamento, l’austerità, la brevità del linguaggio, il sangue freddo che non si confonde, la diligenza verso il malato, la cura, la risposta alle obiezioni, il mantenimento della calma nelle confusioni che sopraggiungono…».

Tali precetti di condotta toccano la punta più elevata nel Giuramento, con cui il libro si chiude e sul quale ogni medico ancora oggi fa la sua dichiarazione d’intenti a inizio professione: un testo profondo, intriso di un rispetto per la persona e di un amore per la vita che somigliano ai migliori afflati etici e principi deontologici dell’epoca moderna.

Ippocrate dai suoi testi appare un ricercatore implacabile, ma anche un grande umanista, pieno d’ideali: è ben documentata l’avversione che Ippocrate avesse per la furbizia, la sua refrattarietà agli insegnamenti dei sofisti, alle superstizioni e ai rituali che inquinassero il rigore scientifico e la morale integrità.

In questo momento storico di pandemia, in questo clima ansioso, surreale, in cui alcuni minimizzano e altri vedono l’apocalisse, dalle parole alte di Ippocrate non può che venire un senso di equilibrio e di speranza, insieme alla sensazione che le difficoltà dell’essere umano di fronte a queste calamità siano sempre state molto simili. Non è difficile immaginare che lo stato d’animo di Ippocrate ad Atene, durante l’epidemia di peste contro la quale si trovò a combattere, e durante la quale morì lo stesso Pericle, fosse molto somigliante a quello dei nostri medici e infermieri in questo momento storico.

Gli scritti di Ippocrate ci restituiscono uno studioso ostinato, strenuo nel combattere il male degli altri, fino a mettere in pericolo la sua stessa incolumità; un guaritore tormentato dalla purezza, non disposto a barattare in alcun modo la propria integrità.

I principi etici di Ippocrate che ho potuto riscontrare nel giuramento e in alcuni passaggi di altri suoi scritti sono espressi senza retorica ma in semplici precetti che egli rivolge ai colleghi per aiutarli ad avvicinarsi all’arte medica: lo studio implacabile, l’umiltà nell’apprendimento, l’ascolto attento – privo di alterigia o di presunzione – dei sintomi e delle sofferenze del paziente; la fedeltà alla propria causa, la difesa della vita, la dignità di ogni essere umano. La generosità e precisione nel trasmettere le proprie acquisizioni agli altri studiosi.

Un grande insegnamento, valido ancora oggi, e da molti applicato quotidianamente senza troppi clamori: i medici e i ricercatori che in questo momento particolare della storia umana si stanno adoperando, spesso ponendosi a rischio in prima persona, per contenere e sconfiggere la pandemia, a beneficio di noi tutti.

 

Isabella Bignozzi ha esercitato la professione di medico Odontoiatra per 22 anni. Ha studiato a Bologna (Laurea presso la facoltà di Medicina e Chirurgia), a Roma (Specializzazione e Dottorato di ricerca internazionale), a Torino (Master internazionale). Ha scritto innumerevoli lavori scientifici indicizzati e impattati. Ha svolto consulenze editoriali di tipo medico-scientifico per Springer Healthcare. Appassionata di lettura ha scritto per AltriAnimali, exLibris, Spore, Risme, Offline, Narrandom, Futura, L’Irrequieto, CrackRivista, Sulla quarta corda, Pangea.

Collabora stabilmente con PulpLibri e Formicaleone rivista.

Alcune sue poesie sono state pubblicate sul sito «Inverso – Giornale di Poesia», e una silloge poetica è in pubblicazione per la casa editrice Transeuropa.

Si è formata come redattore editoriale presso Oblique (www.oblique.it) frequentando il Corso Principe per redattori editoriali, edizione ottobre 2019 – gennaio 2020.

Giuseppina Capone

Benedetta Carrara: Una cosa bella

Una cosa bella: può esemplificare se e quanto il titolo dell’opera teatrale aderiscono all’elegante edizione realizzata con copertina bianca in Fedrigoni Old Mill 300, cartoncino naturale di pura cellulosa ecologica, certificato FSC e marcato a feltro, le cui pagine interne sono in carta Arena Ivory Bulk extralusso a grammatura 140?

Non sono mai stata brava a giudicare da sola il valore di quello che scrivo. Per riuscire a capire se quello che scrive è valido mi affido ai miei amici, a cui sottopongo ogni stesura di quello che scrivo, col serio rischio di annoiarli a morte: dedico molto tempo alla ricerca stilistica, quindi spesso i cambiamenti tra una stesura e l’altra sono minimi, e raramente rivolti alla trama. Il fatto che Divergenze abbia creduto in me mi ha lusingato e mi ha dato un po’ di sicurezza circa la qualità di Una cosa bella: i loro libri sono sempre di grande qualità,  audaci, capaci di scuotere l’anima, di portarla a riflettere su temi universali. Inoltre hanno grande cura per il lato materiale delle loro pubblicazioni, come giustamente hai notato: tali materiali di pregio non solo rendono i loro testi gradevoli nell’estetica, ma anche resistenti al tempo. Io spero che la mia opera meriti tutto questo, che ne sia all’altezza, ma non sono io a doverlo stabilire… I lettori sono i migliori giudici di un’opera: mi rimetto al loro giudizio!

John Keats e la fidanzata Fanny Brawne: quali sono gli spunti a cui ha attinto per redigere il suo Atto unico?

Gran parte della mia ispirazione deriva dall’opera di Keats, in particolare dalla poesia La belle dame sans merci. Ballata costruita sul modello delle ballate medievali (come ad esempio Lord Randall), descrive l’incontro tra un giovane cavaliere e una bellissima dama, figlia di una fata, che lo seduce e lo annienta. L’immagine del cavaliere che, pallido e malinconico, guarda nel vuoto, incapace di smuoversi e di agire, mi ha molto colpito, e mi ha aiutato a modellare la figura di Keats. L’immagine della giovane seducente, invece, ha contribuito solo in parte alla creazione del personaggio di Fanny: sarebbe del tutto errato, infatti, farla coincidere con la belle dame. Fanny era sì giovane, graziosa, affascinante, a tratti un po’ civetta, ma era anche dolce e capace di una grande profondità di sentimento.

Le lettere, poi, sono state una grande fonte di ispirazione. Esse coprono quasi tutta la relazione: i primi, timidi, approcci di Keats, che le scrive una lettera, la butta perché troppo ricca di pathos e allora ne scrive un’altra, nella quale comunque scrive parole dolcissime, come “Vorrei solo che fossimo farfalle, e vivessimo tre soli giorni d’estate; tre simili giorni con voi li colmerei di tali delizie che cinquant’anni comuni non potrebbero mai contenere”; i brevi bigliettini scritti quando vivevano nella stessa casa; le ultime lettere – quelle scritte col peggiorarsi della malattia e poco prima del viaggio verso Roma –  cariche di angoscia, di gelosia, di disperazione, ma dentro alle quali continua a vibrare il suo amore per lei.

Da un punto di vista teatrale, invece, una probabile influenza è derivata dalla lettura di L’odore assordante del bianco di Stefano Massini, testo che ho letto intorno al periodo in cui ho iniziato a lavorare a Una cosa bella. Lì, Van Gogh dialoga con il fratello, solo per poi scoprire che non è realmente… Ma non facciamo troppi spoiler!

L’opera è un lampo per la sua brevità: quali sono i concetti su cui ha inteso veicolare la focalizzazione dei lettori?

Bisogna distinguere due piani: quello particolare e quello universale.

Per quanto riguarda il piano individuale, cioè la biografia di Keats, ho voluto porre l’attenzione su quelli che ritengo i punti fondamentali nella sua vita: la relazione con la sua musa, Fanny Brawne; il difficile rapporto con la critica, che aveva a più riprese massacrato le sue opere, accusate di essere acerbe; la morte prematura per tubercolosi.

Sul piano universale, mediato ovviamente da quello particolare, ho cercato di invitare il lettore/spettatore a riflettere su diversi temi: l’amore e il suo persistere nonostante le avversità, la lontananza e addirittura la morte della persona amata; il rapporto con l’arte pura, svincolata dal successo critico ed editoriale; l’incessante scorrere del tempo e l’angoscia dell’oblio.  Ecco, soprattutto su quest’ultimo punto mi sono concentrata parecchio. Al momento della sua morte, John Keats aveva solo 25 anni, e si era dedicato totalmente alla scrittura solo tre anni: la sua produzione – abbastanza estesa, considerato il breve periodo di attività – non era stata particolarmente apprezzata, e rischiava quindi di cadere ben presto nel dimenticatoio. Keats riconosceva i limiti delle sue opere, come l’Endimione, e al contempo sapeva di poter fare di più, di poter scrivere qualcosa degno di essere ricordato. Ma non ne aveva il tempo. Aveva 25, e già si stava spegnendo, tormentato dalla tosse, coi polmoni distrutti dalla tubercolose e il fisico provato dalla dieta restrittiva che il medico gli aveva imposto. E non aveva nemmeno la consolazione di poter passare i suoi ultimi giorni con la sua amata: non potendosi sposare, Fanny era dovuta rimanere a casa, in Inghilterra.  La scelta di insistere sulla paura dell’oblio, però, è stata particolarmente influenzata dall’epigrafe che Keats chiese di incidere sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua.”.

Nel testo sono presenti numerose citazioni. Perché ha reputato necessario dare voce a  Keats?

Ogni personaggio, in un testo, ha una propria voce, un proprio peculiare modo di parlare e di porsi. Prima di iniziare a scrivere, cerco di conoscere i personaggi come se fossero degli amici di vecchia data, di quelli che si conoscono come le proprie tasche o quasi. Per questo, prima di scrivere di Keats ho letto (o meglio, riletto) le sue poesie e le sue lettere a Fanny; nel farlo, ho sottolineato le frasi che più mi piacevano, e mi son detta “perché non usarle?”. Sarebbe stato assurdo non usare le parole di Keats per descrivere i suoi sentimenti: da poeta, aveva una grande comprensione del peso di ogni parola, di ogni figura e di ogni riferimento letterario. Non sarebbe stato possibile rappresentarlo in modo completo, o anche solo soddisfacente, senza fare riferimento alla sua produzione.

Ci sarà una messa in scena de “Una cosa bella”?

Sì, e ci stiamo lavorando proprio ora! Nel 2019, il mio amico Alberto Camanni mi aveva contattato chiedendomi di scrivere un testo per lui e per due suoi colleghi attori, Giorgia Fasce e Matteo Dagnino. Il testo, quindi, è nato per la scena, e la pubblicazione è stata un evento tanto bello quanto inaspettato: già pubblicare è difficile, pubblicare teatro lo è anche di più…  Ovviamente l’epidemia ci ha rallentati un po’, soprattutto perché ha fatto slittare di qualche mese la fine degli studi degli attori. Ma già da dicembre 2020 abbiamo iniziato, tra una videochiamata e l’altra, a lavorare alla messa in scena, e al nostro gruppo si è aggiunto Davide De Togni, che si occupa della regia.  Da un paio di settimane siamo chiusi in teatro: analizziamo il testo, i personaggi, proviamo le scene… Trovo affascinante e stimolante vedere sensibilità diverse dalla mia rielaborare il mio testo, portarlo in direzioni che io non avevo nemmeno pensato: trasforma un processo solitario, come lo è la scrittura, in un processo collettivo, un’occasione di crescita artistica ma anche personale. Sono certa che il risultato finale sarà meraviglioso (anche se passerà di certo un po’ di tempo prima di poter andare in scena), ma questa esperienza mi sta lasciando molto di più di un singolo spettacolo.

Benedetta Carrara frequenta Lettere all’Università di Pavia. Autrice di articoli e racconti, ed editor per la rivista Efemera, ha esordito con il testo teatrale “Una cosa bella” (Divergenze, 2020).

Giuseppina Capone

Audrey Mestre, la storia della famosa apneista

Audrey Mestre è stata un’apneista francese di fama mondiale. Nata a Saint-Denis in Francia l’11 agosto del 1974, Audrey, ebbe presto la possibilità di dimostrare le sue doti quando, nel 1977, all’età di soli 3 anni, vinse la sua prima gara di nuoto contro i suoi coetanei. L’immensa dedizione per l’apnea nacque grazie al forte interesse che la sua mamma, insieme con suo padre, (nonno materno), aveva per la pesca subacquea in apnea, una passione che esercitava quasi ogni giorno; fu proprio nel corso di quelle occasioni che la piccola Audrey ebbe l’opportunità di entrare in intimità con il mare e rendersi conto di quanto si sentisse a suo agio in acqua. Da lì a poco, la Mestre, capì quale sarebbe stato il suo destino: diventare la più brava apneista. Se sin da bambini si è consapevoli di qual è il proprio posto nel mondo si parte con un piccolo vantaggio: non perdere mai di vista sé stessi andando dritti verso l’obiettivo che ci si prefigge per concretizzare i propri sogni e, difatti, la piccola aspirante apneista non smise un solo giorno di lottare per realizzare le sue aspirazioni e per divenire una delle più brave apneiste al mondo. Tuttavia ogni anno, Audrey, raggiungeva un nuovo traguardo: a soli 13 anni riuscì ad immergersi con l’autorespiratore d’aria nelle acque del Mediterraneo ottenendo il brevetto di immersione della Federazione francese dopo soli 3 anni. Poco tempo dopo l’intero nucleo familiare si trasferì nel Messico e, nel 1993, Audrey scelse di frequentare l’università della Baja California (Sur di la Paz) per seguire la sua grande passione per la Biologia Marina. Il percorso universitario proseguiva a gonfie vele; Audrey fu in grado di terminare gli esami nei tempi richiesti fino a conseguire la laurea. Nella tesi di laurea, la Mestre parlò di Fisiologia marina e, per approfondire l’argomento, chiese consiglio e supporto al grande profondista Francisco Pipin Ferreras con il quale, sin da subito, instaurò un sincero rapporto di amicizia.

Un anno dopo la laurea, nel 1996, per eseguire dei video durante uno dei record di Pipin, Audrey scese con l’autorespiratore a -135 metri. Nello stesso periodo la campionessa dell’apnea entrò a far parte del team di Pipin e per lei fu motivo di grande soddisfazione. Nel 1997 riuscì a scendere a -80 metri stabilendo il record francese di immersione in apnea assetto variabile assoluto a Grand Cayman. Nel 1998 scese con Francisco Pipin a -115 metri stabilendo il mondiale in coppia.

L’amicizia tra Audrey e Francisco diventava sempre più forte e il fatto di essere l’uno accanto all’altro durante ogni esperienza, soprattutto in quella lavorativa, fu di grande giovamento per i loro sentimenti che, in brevissimo tempo, si mutarono in amore puro fino a coronare il loro sogno unendosi in matrimonio. Furono anni felici quelli tra la Mestre e Pipin; quest’ultimo era sempre pronto a sostenere sua moglie nel bene e nel male, per spronarla a migliorare sempre più nel campo degli apneisti, e questo per Audrey era fondamentale per crescere nella sua carriera e, infatti, la giovane apneista maturava di giorno in giorno e, nell’ottobre del 2002, scese a -166 metri. Anche se la Mestre tentava di scendere sempre più in profondità marina, sottovalutando, purtroppo, ogni eventuale pericolo: il 12 ottobre del 2002 Audrey cercò di superare i -171 metri di profondità, ma diversi problemi sorsero al meccanismo di risalita nel momento in cui la donna sarebbe dovuta risalire in superficie. Audrey rimase sott’acqua per 8 minuti e mezzo in più e, al suo ritorno, ogni tentativo di salvarla fu invano perché aveva già perso i sensi una volta arrivata in ospedale. Fu solo questione di attimi e il suo cuore cessò di battere. Innumerevoli le accuse a Pipin per la morte di sua moglie per averla incoraggiata a spingersi oltre ogni limite, ma nonostante le diverse supposizioni al riguardo, non si è mai indagato a fondo sulla questione, non si è mai arrivato al vero colpevole.

Audrey ci ha lasciati quando era solo una giovane donna, ma con la fierezza di chi aveva raggiunto tanti importanti traguardi e di aver lottato  da sempre per conquistarli, ottenendo tutto ciò che desiderava, senza alcun rimpianto, nella carriera come nell’amore.

Alessandra Federico

Come coloravano il mondo i romani?

I romani attribuivano un significato diverso dal contemporaneo a taluni pigmenti. Ciò si traduceva, chiaramente, in un uso differente dall’attuale. Il blu e l’azzurro, a mo’ d’esempio, non erano particolarmente apprezzati. Ad onor del vero, stentavano ad esser riconosciuti come colori decisi e definiti. Del resto, essi venivano bollati come i colori tipici dei popoli germanici. Si pensi, andando alla ricerca di prove lessicali, che la lingua latina non possedeva termini atti a designare i già citati pigmenti. Essi, infatti, derivano, rispettivamente dal germanico blau e dall’arabo azraq.

Nascere con gli occhi azzurri, poi, era reputato come un segno di sfortuna per le donne e di buffo per gli uomini.

C’è anche da valutare una ragione pratica: il blu e l’azzurro erano notevolmente macchinosi da ottenere e derivavano dalla lavorazione di vegetali, conseguentemente meno permanenti nel tempo.

A Pompei sono stati reperiti blocchi di color azzurro, un composto cristallino contenente silice, ossido di calcio ed ossido di rame, ottenuto con quarzo fuso, carbonati di rame e di calcio, oltre a carbonato di sodio e potassio, usato come fondente.

Il rosso porpora ed il rosso scarlatto, invece, erano di certo di gran lunga più amati. Simboli d’opulenza ed autorità. Si pensi che, durante l’età di Cesare, un minuscolo panno della dimensione di un foulard poteva costare quanto l’onorario mensile di un funzionario di livello medio! D’altro canto, la produzione di siffatta tonalità permetteva un impiego ininterrotto dei vestimenti, essendo il colore di origine animale. Marziale attribuisce alla chioma di una sua amica il rosso: “Quae crine vincit vellus”.

Il giallo, dato dall’orpimento, reperibile in natura nelle miniere d’oro e d’argento dell’Asia Minore, era molto apprezzato tanto da esser adoperato dalle esigentissime donne, in special modo durante le cerimonie pubbliche. Ovidio dipinge l’aurora di color zafferano, corrispondente al giallo: “Croceo velatur amictu.”

Il bianco ed il nero venivano indicati con più termini: “albus” e “candidus” per il bianco acceso; “niger” per il nero lucente  ed “ater” per il nero opaco. Ed ancora, ahinoi, il color laridus, pallidissimo, tanto che Orazio scriveva  “Laridus orcus”.

Giuseppina Capone

 

Pure gli eroi bevono vino!

In Grecia, affinché una festa iniziasse, era essenziale che fosse dispensato il vino. “Perché attendere le lampade? Di luce, oramai, resta soltanto un dito: prendi le grandi coppe decorate. Dioniso, il figlio di Semele e di Zeus, ha fatto dono agli uomini del vino, oblio di mali. Mischia una parte d’acquae due di vino, riempi le coppe, brinda…”. Ciò scrive Alceo di Mitilene.

Più tardi, nella seconda metà del VI secolo a.C., Anacreonte di Teo rammenta l’importanza del vino nei fatti di cuore: “Porta l’acqua, ragazzo, porta il vino, porta i fiori in ghirlanda, porta tutto. Io voglio fare a pugni con Amore.” Anacreonte, sapientemente, dimostra consapevolezza che del vino si può fare cattivo uso. Infatti, colui che esagera, rischia di risultare osceno, fastidioso, sgradevole.

Non bisogna eccedere: “Su, ragazzo, presto, porta una coppa: unisci dieci mestoli d’acqua, cinque di vino. Desidero fare un baccanale ma con misura. Non voglio rumori né schiamazzi. Non facciamo una bevuta alla maniera degli Sciti! Piccoli sorsi in mezzo a canti belli.

Esisteva, orbene, un galateo del vino in terra greca: misure, dismisure, cerimoniali ed etichette da seguire, compresa la codifica della sregolatezza.

Asserisce Teognide: “E’ così buono il vino ma chi si ubriaca non mi piace.” Il che non significa, ovviamente, che si debba rinunciare al piacere di bere: “Chi nel bere ha misura non è cattivo, è buono.” Teognide ne desume una morale: “Per gli uomini sta tra due brutti estremi il Bene: sete che spossa e sgradevole ubriachezza. Starò nel mezzo: non mi convincerai a bere troppo ma neppure a non bere.

Per i greci il focus è la misura… Del resto, pure oggi, la raccomandazione è: bere con moderazione!

Per gli antichi bisogna saper bere: keránnumi vino con acqua, condividerlo con gli altri, centellinarlo e giammai ingollarlo, consci che sia il mezzo con cui calibrare la propria capacità di self control.

I protagonisti dei poemi omerici e, successivamente, la lirica simposiale si inebriano della dolcezza del frutto della vite. Dioniso con baccanti e satiri girovaga, eccitando con il vino.

Con il vino si invocavano le divinità, connettendo l’uomo con il soprannaturale, si assumevano deliberazioni, si ratificavano accordi, si solennizzava un evento di gran peso, si accoglievano gli ospiti.

I romani trasformano il sym-posion in convivium: dalla “bevuta collettiva” ad un momento beato di vita comune, abbattendo la rigida cesura tra il momento del bere e del mangiare. Analogie e differenze che l’autrice evidenzia con abilità stilistica e competenza storico-cronologica.

Certo è che pure a Roma le circostanze ed i frangenti per brindare al meglio venturo erano innumerevoli; quest’oggi come secoli fa, magari accompagnando l’auspicio con un sorso di vino. Le cenae creavano l’occasione e rappresentavano l’attimo in cui si gradiva alzare i calici in onore di una persona presente al rendez-vous. In Latino, le bollicine si esaltavano con Vivas, “Che tu viva!” od anche Bene tibi, “Bene a te!”.

Di prammatica, il brindisi, quale segno di rispetto ancorché atto di deferenza per la padrona di casa, echeggiava così: Bene dominae, “Ogni bene alla padrona!”.

Sono noti, grazie a Marziale, anche brindisi più complessi ed elaborati, vagamente enigmistici ed oltremodo galanti: alle donne corteggiate si ergeva il calice tante volte quante fossero le lettere del nome.

Cinque bicchieri si bevano per Levia

otto per Giustina

quattro per Lica

e quattro anche per Lide

e per Ida tre.

Tanti bicchieri siano per ciascuna,

quante sono le lettere del nome.

Marziale, Satire, 1, 71

Per nomi come Agrippina o Messalina l’omaggio certamente diveniva più impegnativo da sostenere!

Libro gradevolissimo, la cui conclusione cita quell’ars amatoria in cui il vino è “complice ideale degli amori clandestini”.

Giuseppina Capone

Fino al 17 settembre mostra San Gennaro e La Napoli dei Sedili

Per rievocare la storica sottoscrizione del voto del 1527 e a sostegno della candidatura Unesco come bene immateriale dell’Umanità del Culto e della devozione di San Gennaro a Napoli e nel mondo, dal 7 al 17 settembre si terrà nella Chiesa S. Maria del Rifugio  in via Tribunali n. 188 la Mostra Architettonica-Iconografica “San Gennaro e La Napoli dei Sedili” a cura di Gianmaria Lembo e dell’Associazione Culturale “Napoli è” e dal Museo dei Sedili di Napoli aperta al pubblico gratuitamente dalle 10.30 alle 13.00 e dalle 16.00 alle 18.00, il sabato e la domenica solo dalle 10.30 alle 13.00.

Napoli: la mostra di Bill Viola, il padre della videoarte

Uno dei capolavori architettonici della città partenopea torna a far sognare gli appassionati di arte; la meravigliosa chiesa del Carminiello di Napoli in via Toledo,  (via Carlo de Cesare 30, Quartieri Spagnoli) riapre per accogliere le opere dell’artista statunitense Bill Viola.

La mostra, intitolata “Bill Viola, ritorno alla vita”, é curata da Bill Viola Studio, VanitasClub e con Asso. Gio. Ca. (Associazione Gioventù Cattolica) ed è in esposizione dal 2 settembre 2022 fino al giorno 8 gennaio 2023.

Le opere di Bill Viola, che si potranno ammirare durante la sua mostra, comprendono cinque video-opere dell’artista e sono state scelte, quelle considerate pertinenti al tipo di location, volutamente dal Bill Viola Studio. Il tema della mostra è molto stimolante, emozionante, coinvolgente poiché è dedicata alla riflessione sul passare del tempo e sul processo attraverso il quale si trasforma l’interiorità di una persona; ogni quadro racconta le difficoltà che si incontrano durante la vita e, soprattutto, il timore che l’uomo ha di non poterle superare, al contempo, però, Bill Viola, attraverso le immagini, ha voluto inviare un messaggio per incoraggiare e dare forza al prossimo e, difatti, il concetto arriva forte e chiaro allo spettatore: tutto, tranne la morte, si può superare per tornare a vivere intensamente.

“Siamo orgogliosi di portare un grande Artista internazionale a riaprire al pubblico un luogo di così inestimabile valore – La parola greca martire originariamente significava ‘testimone’. Così come i martiri rappresentati da Bill Viola, oggi anche noi siamo chiamati ad essere testimoni della sofferenza degli altri, in un mondo in cui ogni forma di distanza spazio-temporale è ormai annullata dall’azione dei mezzi di comunicazione. Così l’Artista vuole spronarci, prendendo esempio dalle vite passate di azione dei martiri, a reagire alle nostre vite moderne di inazione”, afferma Francesca Orlandini di VanitasClub.

Ancora, “La chiesa, che rimarrà sempre destinata al culto, si configura come un vero e proprio gioiello che l’Associazione ha ritenuto doveroso riportare alla luce con la mostra –  dichiara Gianfranco Wurzburger, Presidente di Asso. Gio. Ca. (Associazione Gioventù Cattolica) -. Quest’ultima contribuirà, in parte, alla raccolta dei fondi necessari per completare i lavori di restauro. L’obiettivo è quello di realizzare il centro di aggregazione giovanile “Fratelli tutti”, in collaborazione anche con la Pastorale giovanile della Diocesi di Napoli”.“

Anche per la suggestiva Chiesa della Congregazione dei 63 Sacerdoti è un ritorno alla vita incuneata in quella che oggi è la facciata di un palazzo storico di Napoli, quasi nascosta, questo piccolo edificio di culto sorge a ridosso di Via Toledo, nel cuore di quei Quartieri Spagnoli che, da area a rischio, insita della sua natura di “quartiere” militare che ospitava per lo più alloggi delle guarnigioni spagnole di Pedro de Toledo, ha saputo anch’essa rinascere negli anni come luogo di interesse turistico”. Continuano dall’Arciconfraternita.

Qualche notizia su Bill Viola: nato il 25 gennaio nel 1951 a New York. Bill è stimato soprattutto per essere stato di grande contributo al miglioramento del livello di tecnologia per quanto riguarda i video, contenuto e storia. Come strumento per la conoscenza di sé utilizza proprio i video per andare a fondo ed approfondire la ricerca sui fenomeni della percezione sensoriale. Difatti, le installazioni video di Bill Viola, sono considerate uniche, inimitabili ed originalissime proprio perché utilizza tecnologie all’avanguardia.

Alessandra Federico

Peter Pan, un classico per tutte le età

Il personaggio letterario di Peter Pan, creato dallo scrittore britannico James Matthew Barrie nel 1902, ha accompagnato ed accompagna da allora intere generazioni. Il fantastico ragazzo compare a inizio secolo XX nel romanzo L’uccellino bianco e poi come protagonista di una piece teatrale dal titolo Peter Pan, il ragazzo che non voleva crescere, per diventare definitivamente protagonista del romanzo omonimo nel 1911.

Barrie nel 1929 cedette i diritti del personaggio all’ospedale pediatrico londinese Great Ormond Street Hospital nel quartiere di Bloomsbury, dove si troverebbe la casa della famiglia Darling la cui figlia Wendy è la dolce bambina che segue Peter Pan a Neverland, l’isola che non c’è dove abita Peter insieme ai ragazzi perduti.

Dalla nascita del personaggio di questo “ragazzo che non voleva crescere”, storia che ha fatto sognare e fa sognare grandi e piccini, è stato un susseguirsi di edizioni dedicate a tutte le età. Peter Pan e i suoi amici sono stati protagonisti di film, opere di narrativa, teatro, cinema, serie televisive, musica, fumetti, oltre a gadget, ecc.

RBA ha scelto Peter Pan per la prima uscita della collana “Storie meravigliose”, disponibile in edicola e per abbonamento.  La collana propone una serie di classici di grandi autori, nell’elegante veste editoriale che recupera e reinterpreta “alcune delle edizioni più belle dell’Inghilterra di epoca vittoriana”, riccamente integrate da tavole degli artisti più famosi “dell’età dell’oro” dei libri illustrati.

Antonio Desideri

Cristina Amato: Avenida Libertador

Avenida Libertador è il nome di una via di Buenos Aires.

Qual è la ragione per cui costituisce il titolo del suo romanzo?

Avenida del Libertador è una via di Buenos Aires, emblematica quando si parla di desaparecidos, perché proprio in questa via risiede la Escuela de Mecánica de la Armada (prima Escuela Superior de Mecánica de la Armada da cui ESMA) conosciuta internazionalmente come ESMA, era la scuola per la formazione degli ufficiali della marina argentina di Buenos Aires, soprattutto per quanto riguardava la preparazione tecnica in ingegneria e navigazione. La ESMA cominciò la sua attività di centro di detenzione e tortura il giorno stesso del colpo di Stato argentino, vale a dire 24 marzo 1976. Già in quell’occasione vennero imprigionate le prime persone scomode, sequestrate dalle forze armate. Il mio romanzo è ambientato proprio all’interno di questa struttura, ho pensato quindi che non potesse esserci nome più emblematico per titolare il mio romanzo.

Pagarono, salutarono Esteban e si diressero verso il commissariato di Buenos Aires per cercare notizie di Lucas Tizak, un nome, un cognome e un volto che loro non volevano dimenticare”

Lei affronta il tema spinoso e drammatico dei desaparecidos. Avenida Libertador ha, evidentemente, richiesto ricerche storiche accurate e meticolose. Quale metodo si è imposta di adottare per trattenere le informazioni e, poi, renderle narrativa?

Materialmente ho iniziato il libro un’estate di qualche anno fa. Poi ho sentito l’esigenza di fermarmi. Ho pensato che pur essendo il romanzo un’opera di finzione volevo essere quanto più precisa e realistica nella narrazione di ciò che i protagonisti del libro avevano vissuto nel piano immaginario e in quello reale/storico riferendomi a persone esistite fuori dalla finzione. Allora ho posato il quaderno, ricordo di averlo poggiato nella parte bassa del comodino, sopra un libro di Roberto Arlt «El juguete rabioso» e ho ripreso in mano un libro pubblicato dalla Conadep (Informe de la comisión Nacional sobre la Desaparición de personas) «Nunca más» (Mai più).

Sera dopo sera, grazie a questo prezioso documento, con prefazione di Ernesto Sábato,  mi sono documentata sui centri clandestini di detenzione, ho studiato le planimetrie degli edifici, mi sono a lungo soffermata sulle procedure di sequestro. Ho  inoltre letto le testimonianze dei sopravvissuti, fascicolo per fascicolo, storie dell’orrore di chi era riuscito a uscire dall’inferno. Alla fine del libro ho deciso di fare delle ricerche mirate sul web e sono riuscita a visionare alcuni processi su YouTube. Ho ascoltato più di ottanta ore di testimonianze. Solo dopo aver approfondito tutte le questioni ho ripreso il mio taccuino e quindi la stesura del romanzo. Per descrivere gli ambienti, le case, le strade ho fatto riferimento alla mia esperienza personale. Ho vissuto a Buenos Aires nel quartiere Olivos per diversi anni e ho voluto citare le zone a me più care. In calle José Maria Paz abitavo con la mia famiglia.

La «trasformazione in narrativa» è avvenuta in maniera del tutto naturale, ho abbandonato i dati e mi sono concentrata sulle sensazioni, sulle relazioni tra i protagonisti, sulla loro caratterizzazione. Si è parlato di Avenida Libertador come testimonianza letteraria, in cui l’elemento fittivo ricrea un vissuto estraneo a molti ricorrendo all’immaginazione. Ed è proprio così, nel romanzo la realtà e la finzione si fondono continuamente . Così come succede all’inizio quando racconto dell’incontro di Eva (madre di Tamar) con Enrique. Eva è un personaggio inventato, Enrique esiste davvero è uno scrittore contemporaneo spagnolo Enrique Vila-Matas, maestro indiscusso dell’autofinzione iberica. Lo scrittore ha soggiornato davvero nella mansarda di Margherite Duras, così come è vero che in diverse interviste ha dichiarato di voler fare lo scrittore dopo aver visto Mastroianni che sposa Jean Moreau nel film «La notte» di Antonioni. Ho voluto rendere omaggio a Enrique Vila-Matas perché sono convinta che sia uno dei pochi maestri viventi di quella letteratura che Borges chiamava universale.
Ho voluto altresì omaggiare Aldo Moro, ed è per questo che lo cito in sovrapposizione con il protagonista del romanzo Lucas, credo che sia importante denunciare qualsiasi tipo di estremismo che esso sia di destra o di sinistra, ed è quello che ho voluto fare citando il famoso statista italiano.

A pensarci bene quando scrivo realtà e finzione si fondono a tal punto che spesso persone in carne e ossa diventano personaggi e i personaggi a loro volta sembrano essere miei amici fisici, veri.

La sparizione forzata è un fenomeno che si è verificato anche in numerosi paesi e in differenti momenti storici, situazioni per le quali il termine desaparecidos è divenuto una “parola mantello” d’uso comune.

Ebbene, la lotta politica, l’adesione ad una causa: i nostri tempi possono ospitare, a suo avviso, siffatti propositi di cambiamento sociale?

Questi tempi sono profondamente diversi da quelli in cui è ambientato il romanzo ovvero la dittatura argentina. È vero che il termine desaparecido è ormai parola mantello, ma nonostante abbia assunto un valore universale quando pronunciato ricorda subito il «processo di riorganizzazione nazionale» voluto da Videla. Un progetto che aveva come obiettivo quello di mettere a tacere con la sparizione forzata qualsiasi individuo si opponesse al regime. Un piano programmato per annientare il nemico con delle pratiche che ricordano molto quelle adottate dal regime nazista da cui i militari argentini presero ampi spunti. L’Argentina come il Cile all’epoca erano terre di accoglienza per gli ex nazisti fuggiti dalla Germania subito dopo la caduta di Hitler. Basti pensare che Eichmann è stato arrestato dalla polizia israeliana proprio a Buenos Aires nel ’60 e l’angelo della morte Josef Mengele ha vagato per tantissimi anni tra il Brasile e l’Argentina. Il processo di riorganizzazione nazionale seguiva la stessa logica hitleriana, l’annientamento dell’individuo che veniva da subito privato del nome e della propria identità e dignità, seguiva un periodo di prigionia che si concludeva o con la liberazione o con la sparizione.

I forni crematori vennero sostituiti dai voli della morte…

Ancora oggi sono 30 mila i desaparecidos e altrettante le famiglie in attesa di un impossibile ritorno. Diceva un testimone della dittatura che la cosa più difficile è questa: Non sei morto, non sei vivo: sei desaperecido. Per cui non puoi anelare alla pace dell’anima così come non possono farlo i tuoi cari.

Se vogliamo parlare dell’oggi e fare un esempio che possa toccarci da vicino, i genitori di Giulio Regeni per alcuni giorni hanno cercato il proprio figlio, desaparecido anch’esso e non in un Paese in dittatura, ma nel Paese in cui il giovane dottorando portava avanti i propri studi. Una sparizione forzata quella di Giulio per cui tanti si sono mobilitati, fino alla scoperta del suo corpo. La madre vide nel volto malconcio del figlio «tutto il male del mondo». Giulio cadavere è tornato a casa, i desaperecidos no, continuano a vagare senza la possibilità di un ritorno.

A tenere alta l’attenzione sul tema le tantissime associazioni capitanate dalla più antica Madri di Plaza de Mayo.

Il cambiamento risiede nella capacità dell’individuo di denunciare questi soprusi, nel fare in modo che sin nessuna parte del mondo si debba assistere ancora a questo tipo di fenomeni, isolati come nel caso di Giulio, collettivi come nel caso dei desaparecidos argentini.

Le forze vennero meno e cadde. Calci e pugni lo raggiunsero da ogni parte. Uno dei due uomini lo prese per i capelli, costringendolo a mettersi in piedi e gli spense una sigaretta sulla palpebra destra.”

Com’è riuscita a descrivere l’inferno?

Devo essere sincera, non lo so ancora. Era forte in me la volontà di scrivere un libro che potesse dare voce ai 30 mila desaparecidos e volevo che il racconto fosse quanto più vicino alla realtà che hanno vissuto. Sono stata ore in silenzio immaginando le scene prima di trasporle su carta. Le faccio un esempio: per descrivere il parto di Luz mi sono sdraiata a terra facendo finta di avere mani e piedi legati, ho chiuso gli occhi e ho fatto un viaggio nelle sensazioni della protagonista.

Le pagine che ha scritto grattano il fondo del realismo senza alcuna edulcorazione.

Quale messaggio etico, morale, politico ha inteso veicolare?

Soltanto con durezza si può descrivere quel periodo storico.

Il romanzo non intende veicolare nessun messaggio politico. L’ho scritto per un dovere etico nei confronti di me stessa. L’ho scritto per non dimenticare, per dare voce ai 30 mila desaparecidos, perché fin quando ci sarà memoria si potrà chiedere verità, giustizia e si potrà gridare con forza «Mai più.»

 

Cristina Amato nasce a Catania il 21 Agosto del 1980.

Figlia di un funzionario dell’ambasciata italiana, dall’età di 4 anni è in viaggio con la famiglia soggiornando, anche diversi anni, nei luoghi dove il padre viene trasferito. Sarà così che Cristina vive l’intero arco della giovinezza toccando diverse culture, dall’Australia all’Argentina fino in Svizzera, sviluppando una personalità profonda ed eclettica che la porta ad appassionarsi in modo particolare alla lettura e alla scrittura.

Nel 1995 rientra in Sicilia dove frequenta il liceo linguistico Sant’Orsola, dopo il diploma si traferisce in Svizzera dove frequenta l’università di Neuchâtel nella quale, nel 2006, consegue la Laurea in Lettere e Scienze Umane con una tesi in lingua spagnola sullo scrittore Enrique Vila-Matas dal titolo «Patologías literarias en la biblioteca infinita de Enrique Vila-Matas».
Nel 2013, dopo essere rientrata a Catania, pubblica il suo primo romanzo «Ogni tanto mi tolgo gli occhiali» (Inkwell edizioni, 2013), romanzo molto fortunato che le permette di conquistare la vetta dei best-seller di Amazon per ben 26 ore.
Nel 2014 pubblica anche la raccolta «Fogli Sparsi» (Inkwell edizioni, 2014) dall’omonima pagina Facebook.

Nel 2016 la 13lab editore ripubblica nuovamente «Ogni tanto mi tolgo gli occhiali» presentato al Teatrino delle Beffe di Palermo a marzo dello stesso anno e a Ginevra in occasione del Festival International d’Italie di Carouge.

Avenida Libertador (Divergenze, 2020) è alla sua quarta ristampa.

Attualmente lavora come Direttore Creativo presso un’agenzia pubblicitaria di Catania. Cristina è appassionata di letteratura e di cinema. Affetta da patologie letterarie, sta ancora contando i propri sogni nel cassetto ed è attualmente al lavoro sul suo terzo romanzo.

Giuseppina Capone

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