Istituto Italiano dei Castelli, conoscere “Le parole del castello”

Parlare di castelli richiama immediatamente alla mente le fiabe della nostra infanzia con principi e principesse, luoghi incantati, ponti levatoi, cavalieri e dame. Quante volte avremmo voluto meglio conoscere il significato delle parole che descrivono le varie parti dei castelli, quelli veri, che arricchiscono l’Italia e molti altri Paesi, in particolare in Europa, e che sono famosi nel mondo intero. Grazie ad un’interessante testo pubblicato da Giannini editore e curata da Luigi Maglio e Domenico Taddei dell’Istituto Italiano dei Castelli è possibile conoscere nel dettaglio la nomenclatura castellana.

“Le parole del castello” questo è il titolo del volume ricco di illustrazioni che accompagna il lettore a conoscere il mondo della nomenclatura castellana. E sono proprio i curatori a evidenziare lo scopo di questo lavoro, uscito in seconda edizione nel 2018, “La decisione di riproporre questa piccola pubblicazione, edita per la prima volta nel 2004, scaturisce dal successo che essa ha all’epoca riscontrato, ma anche affinché essa possa essere di stimolo per un crescente e rinnovato impegno culturale e scientifico sia nell’ambito dell’Associazione sia per altri Ricercatori, e per promuovere ancor più la conoscenza di questa architettura specialistica sulla quale finalmente in questi ultimi anni, con molta soddisfazione di tutti (abbiamo iniziato a parlare di “castelli” nel 1964 – quando il tema era dai molti disatteso), è cresciuta progressivamente l’attenzione delle amministrazioni pubbliche in tante parti d’Italia, circa il recupero e la conservazione di questo straordinario patrimonio architettonico (e culturale)”. L’auspicio per tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione del volume è che “questa “Nomenclatura castellana” possa essere un utile strumento a disposizione di chiunque voglia avvicinarsi alla corretta comprensione dell’affascinante universo della storia dell’Architettura militare”.

E nella presentazione alla seconda edizione Fabio Pignatelli della Leonessa, l’allora Presidente nazionale dell’Istituto Italiano dei Castelli, evidenzia che “Gli sforzi prodotti per sensibilizzare sempre più il mondo civile sulle tematiche della salvaguardia e conservazione dei castelli e delle opere difensive si sono intensificati negli ultimi anni cercando di rendere più incisive alcune iniziative che sistematicamente l’Associazione promuove: le Giornate Nazionali dei Castelli, con aperture straordinarie di strutture fortificate in ogni parte d’Italia, il premio di laurea sull’architettura castellana, il concorso rivolto alle scuole “I castelli…raccontano”. Infatti c’è un bisogno costante di diffondere la conoscenza di queste testimonianze del nostro passato, che costituiscono uno dei fondamenti della nostra identità storica e culturale, e ciò può avvenire sia evidenziandone l’importanza nell’opinione pubblica che stimolando le nuove generazioni ad una migliore comprensione di questo patrimonio così straordinario, affascinante e suggestivo, la cui entità, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è seconda soltanto a quella dell’architettura religiosa”. E ancora la sua sottolineatura che “c’è un forte fermento ed interesse da parte delle istituzioni e del mondo civile intorno ai castelli ed ai borghi fortificati, ma appare doveroso ricordare che l’Istituto Italiano dei Castelli ha iniziato ad occuparsi di essi dal lontano 1964, riconoscendo l’importanza della loro salvaguardia e valorizzazione e le loro straordinarie potenzialità nella vita del nostro Paese quando pochissimi, se non nessuno, aveva rivolto il minimo sguardo su di essi”.

All’interno del volume contributi di Vittorio Foramitti, Flavio Conti, Marino Viganò, Domenico Taddei, Pietro Cardellino, Massimiliano Righini, Piero Marchesi, Roberto Corazzi, Luigi Maglio, Dino Palloni, Gianni Perbellini, Massimo Dringoli, Giusi Villari.

Un libro che non può mancare nelle biblioteche degli amanti di castelli e delle fortezze, degli studiosi d’arte e architettura, di tutti coloro che vogliono meglio conoscere l’architettura fortificata.

Antonio Desideri

Bioetica e diritti civili. Focus sullo scenario italiano.

Nell’Ateneo sassarese un convegno sul fine vita.

“Sembra che il mondo sia popolato da persone che vogliono morire e invece vogliono vivere il più lungo possibile.”

La chiosa di Mario Oppes evoca una citazione di Giovanni Berlinguer per chiudere la sua relazione, l’ultima, nella scaletta degli interventi, in un interessante convegno.

“Riflessioni sul fine vita. Aspetti etici e giuridici”, il titolo del seminario promosso dall’istituto Camillo Bellieni, con il contributo dell’Università di Sassari e della Regione Sardegna.

I lavori sono iniziati nel pomeriggio del sedici dicembre presso l’Aula magna dell’Ateneo sassarese, con il saluto dell’avvocato Attilio Pinna, rappresentante l’Istituto Bellieni.

All’incontro hanno partecipato una nutrita selezione di studenti del Dipartimento di Giurisprudenza e avvocati sassaresi.

Sin dalle prime battute è emersa la dimensione multiculturale e multidisciplinare delle questioni afferenti il tema.

Un dato saliente che si replica nell’ambito di ogni disciplina e ambiente coinvolto, con osservatori e posizioni non omogenee nelle rispettive aree concorrenti nella definizione di un approccio sostenibile.

Un punto di partenza necessario per affrontarlo correttamente è chiarire cosa s’intenda per “fine della vita”, definendo correttamente il momento cruciale in cui interviene la morte.

Al riguardo la professoressa Anna Alberti – docente di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università di Sassari – nel descrivere gli strumenti che realizzano il “trattamento di sostegno vitale” non ha tralasciato il peso specifico delle contingenze politiche capaci di ancorare il Parlamento in uno stato inerme sino alla scorsa primavera, quando le disposizioni sulla morte assistita sono state trattate essenzialmente con due sentenze della Corte costituzionale (la numero  242/2019: depenalizzazione, a determinate condizioni, dell’art. 580 del codice penale relativo all’aiuto o all’istigazione al suicidio e la numero  50/2022: inammissibilità del referendum popolare con cui si richiedeva l’abrogazione parziale dell’art. 579 del codice penale riguardante l’omicidio del consenziente).

Il disegno di legge sulle disposizioni in materia di morte assistita approvato alla Camera è all’esame del Senato.  Emerge chiara la “presa d’atto fisiologica di trovare un accordo”.

I principali poli divergenti nel dibattito possono semplificarsi, nel ragionamento della costituzionalista, con la composizione di una  supposta “bioetica cattolica” bilanciata da una “bioetica laica”.

Una impostazione di pensiero ortodosso che nel primo caso riconosce la vita “un dono sacro disceso dall’alto”, rispetto a una visione laica che determina la vita “un bene di cui si disponga liberamente”.

Se la vita per la Costituzione italiana è un bene di cui si possa disporre in maniera autonoma, la stessa Carta costituzionale si preoccupa di conservarla.

Gli articoli relativi sono stati visitati dalla relatrice in quella “cintura protettiva” normativa pensata dal legislatore che nell’articolo 32 tutela il consenso del paziente per il trattamento sanitario.

Sulla volontà del paziente al rifiuto dei trattamenti sanitari vitali per condursi alla morte, è intervenuto l’avvocato Giovanni Colli, presidente della Camera Penale di Nuoro.

Un percorso lungo, opportunamente puntualizzato dal giurista con una serie di casi noti alle cronache. Dalla vicenda complessa, anche mediaticamente, di Eluana Englaro a quella di Piergiorgio Welby,  sino ai casi più recenti con Fabiano Antoniani (Dj Fabo) e le iniziative di Marco Cappato con i reiterati viaggi in Svizzera per assecondare la scelta del paziente di porre fine alla vita con la pratica dell’eutanasia.

L’evoluzione  del dibattito politico nazionale, con la crescente attenzione ai ripetuti casi realizzatisi negli ultimi anni, ha depenalizzato l’assistenza medica al suicidio che in ogni caso dovrebbe svolgersi, con i dovuti protocolli, all’interno delle strutture del servizio sanitario nazionale.

Il fenomeno è in rapida e crescente ascesa. Colli ha ricordato l’importante numero di sentenze emesse al riguardo. Soprattutto la decisione di recarsi in Svizzera, anche in presenza di una sola diagnosi clinica irreversibile. Capace di prevedere sofferenze estreme, ancora non manifeste nello stato del candidato al fine vita.

Il professor Giovanni Maria Uda, docente di Diritto Privato all’Università di Sassari, ha moderato gli interventi.

Il processo di coniugare il trattamento sanitario con la reale volontà del paziente in coerenza con la dignità della vita dello stesso, assume dinamiche esclusive nel caso dei minori.

E’ stato il professor Massimo Foglia, ordinario di Diritto Privato all’Università di Bergamo, collegatosi telematicamente dal suo studio privato a illustrare il perimetro giuridico dell’argomento.

In questo ambito si manifesta una doppia presenza da assistere. Il malato con tutte le particolari emotività della giovanissima personalità. Da tutelare nella sua integrità, rispetto alle aspettative del genitore o tutore non sempre allineato sulle sensibilità del giovane paziente.

La relazione che ha concluso i lavori è stata l’unica al di fuori delle competenze propriamente giuridiche.

Il professor Mario Oppes, docente di Bioetica presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Sassari, già Direttore U.O.C. Medicina d’Accettazione e d’Urgenza presso AOU Sassari,

ha avviato l’intervento chiarendo l’obiettivo della Bioetica: “favorire la composizione di posizioni diverse. Tendendo ad una convergenza”.

Una vera sfida che, in un sistema multiculturale di linguaggi diversi, recepisca l’esigenza di uniformare questi linguaggi approntando un metodo per questo progetto.

Un metodo che non può prescindere dal dialogo.

“Una parola semplice che necessita di una interpretazione”.

Il dialogo si esplica fra posizioni laiche e religiose. Posizioni come già anticipato nei primi interventi, non allineate, neppure all’interno delle stesse confessioni religiose.

L’articolata trattazione riassume alcuni passaggi salienti favoriti col Magistero della Chiesa cattolica per raggiungere sul tema in discussione, un dialogo interreligioso e interculturale.

Lo stesso Oppes, partendo dalla necessità di mettere in discussione i paradigmi posti dalle diverse posizioni, non tralascia la distanza esistente – già ricordata nel primo intervento – fra una bioetica religiosa e una bioetica laica.

Sul versante religioso, distinto in più autorevoli voci di esperti, nonostante il diniego cattolico, ribadito circa il ricorso all’eutanasia, aperture importanti nella composizione del dialogo, riferiscono a dichiarazioni dello stesso Papa Francesco quando comunica che “la Chiesa non rivendica (sul fine vita ndr) alcun spazio privilegiato”.

Sono pertanto sbagliati gli atteggiamenti di tipo dogmatico “Dove i cattolici rappresentano una minoranza è necessario superare questa impostazione dogmatica”.

Le proposte nell’etica medica provenienti da altri Paesi europei, inducono a non affidarsi a principi di caratteri generale. E’ necessario tenere conto delle soggettività di tutte le sensibilità coinvolte nei casi da affrontare. Oppes riconosce i molti passi in avanti operati nella Chiesa cattolica unitamente alle altre principali confessioni monoteistiche.

Il cammino da realizzare per approdare a un impianto normativo diverso da quello attuale, caratterizzato da evidenti vuoti, è ancora lungo.

Se le “discussioni accademiche rischiano di essere improduttive” semplificare le questioni su statistiche e numeri potrebbe essere anche peggio.

Permangono lacune su un coinvolgimento intellettualmente maturo di ampie fasce della pubblica opinione dove i timori legittimi di allentare un rigoroso processo ostativo a una degenerazione sulla discrezionalità di sopprimere la vita umana non enfatizzino reminiscenze pseudo religiose non ancora sdoganate sulle supposte premialità in una dimensione ultra terrena, legate al prolungarsi delle sofferenze psico-fisiche nell’ultimo miglio del passaggio terreno.

Maggiore sarà la possibilità d’immedesimarsi con lo “stato” del paziente, con la conoscenza pregressa della sua determinazione circa la personale volontà di custodirne l’espressione della propria vita. Maggiore sarà la possibilità di preservarne la dignità rispetto ad una manifesta assenza dei requisiti vitali.

L’eventuale cessazione della vita terrena, potrà avvicinare maggiormente una condivisione di esperienze per cambiamenti innovativi e apprezzabili.

Luigi Coppola

 

 

(Foto di Luigi Coppola)

E se ci invitasse a cena un imperatore romano?

I media brulicano di cuochi e pullulano di ricette. Le restrizioni dovute alla pandemia da COVID-19, poi, hanno tramutato tutti in abilissimi pasticcieri e provetti panificatori a favore d’obiettivo. E’ possibile, tuttavia, concepire una cucina priva della morbida scioglievolezza del cioccolato, del profumato aromatico del cacao, della freschezza dei pomodori o della croccantezza delle patate, della dolcezza delle banane o  della gradevolezza dell’ananas, del potere ubriacante dei superacolici e della delizia dei dessert?

Cosa mangiavano ed in qual modo realizzavano le pietanze duemila anni or sono i nostri maiores Romani?

Tuffiamoci nella cucina repubblicana ed imperiale, magari leggendo sontuose raccolte di passi letterario seguendo le autentiche ricette desunte dalle opere di Catone, Columella, e, particolarmente, di Apicio, sotto il cui nome è pervenuto il più celebre corpus gastronomico.

Sicuramente, il gusto era differente: salse e condimenti erano parecchio sofisticati, ricchi di spezie, dal sapore deciso; inoltre, dalle ricette si può congetturare che l’agrodolce fosse tanto apprezzato.

Pavoni e lingue di fenicotteri non erano alla portata di tutti, ça va sans dire.

Talune ricette erano riservate ad occasioni esclusive per avventori d’élite ma è necessario, altresì, riflettere sul fatto che, soventemente, la stravaganza, la leziosaggine, la gola, l’eccentricità, le spese smodate e folli per l’allestimento dei banchetti sono elementi fruttuosi per la storiografia.

Si rievochi alla memoria la volontà evidente di Svetonio di contrassegnare sfavorevolmente Vitellio oppure, anche, la Historia Augusta nel definire la personalità di Eliogabalo.  Laddove, al contrario, il “buon imperatore” è per definizione parco, misurato e non servo del vizio della gola: Marco Aurelio o Settimio Severo ne sono una dimostrazione palese.

Alcune ricette, viceversa, quelle più essenziali, sono ancora oggi non fattibili eppur praticate: il  laganum di cui cui discorre Orazio in sat. 1, 6, davvero simile ad una portata salentina di pasta e legumi; alcuni dolci rustici riferiti da Catone, diretti progenitori degli struffoli napoletani; il garum, che non era il mefitico intruglio di cui ci riferisce una certa vulgata ma che doveva essere simile, nella sua forma migliorata ed elaborata (il flos gari, “fiore di garum”,) alla gustosa colatura di alici; il moretum dell’Appendix Vergiliana e di cui Columella nel I sec. d C. ci fornisce alcune varianti nella preparazione era una specie di pesto rustico con cui condire una focaccia; la patina, di cui ci rende edotti Apicio ovverossia una omelette.

Del resto, alcuni ingredienti sono, di fatto, estinti: il silfio, componente basilare e condimento di innumerevoli preparazioni, coltivato soltanto in una ristretta fascia territoriale attorno alla città di Cirene.

Nel mondo antico, in fondo, anche nei conviti più pomposi, l’idea di base era che il banchetto, per venire ben accolto, dovesse porsi sotto l’egida non solo della ricercatezza e della pregevolezza dei cibi ma anche della loro abbondanza: l’abbondanza costituiva, ergo, segno di agiatezza in un mondo ancora denotato, per la stragrande maggioranza della popolazione, dalla penuria alimentare: i cibi raffinati, squisitamente presentati ma dalle porzioni minuscole della nouvelle cuisine o di alcuni chef pluristellati contemporani, non avrebbero ottenuto particolare successo.

Certo, va non fortuitamente ricordato che un’ingente discordanza tra la nostra maniera di decodificare il cibo rispetto a quello che accadeva nel mondo antico è il potere dei “fuori pasto”, degli snack, degli spezzafame, dei caffé al distributore con supercaloricissimo dolce, che vengono, soventemente, gustati con disinvoltura sul luogo di lavoro: usanze, abitudini e costumi, evidentemente, sconosciuti ai Romani.

E la dieta? Nota dolentissima! Plinio il Giovane lo accosterebbe al nostro concetto di “medicina olistica”, “in quanto la dieta, etimologicamente indica il “regime di vita” corretto ed equilibrato, che tenga conto, quindi, non solo della quantità, qualità e varietà dei cibi ma anche del ritmo di vita, dell’alternanza, fra gli impegni (gli officia) e il tempo libero (otium, che può essere inteso come otium litteratum), da trascorrere in luoghi tranquilli e dal clima favorevole nonchè inframmezzato dalla cura del corpo e da una leggera attività fisica.”

Il cibo è vettore per rivelare altro: Orazio e la polisemia del termine ius, “diritto” ma anche “sugo”, “condimento”, o la presentazione della cena dell’arricchito Nasidieno, confrontata con il racconto del semplice pasto dell’autore stesso.

Quando Cicerone descrive i suoi rinnovati gusti e vezzi per l’alimentazione ricercata, nelle lettere successive a Farsalo, sta comunicando ben altro, sta discorrendo di politica e del suo accomodamento, arduo, ma non inattuabile, ai tempi nuovi.

E sarebbe molto ingenuo e non coglierebbe il senso del testo chi reputasse che la “Cena di Trimalchione” di Petronio sia la rappresentazione di un banchetto reale e quindi ripetibile, al di là di qualche divertente esperimento en travesti.

Giuseppina Capone

Napoli è con il M° Rosario Ruggiero  insieme con “Percorsi alla scoperta della Musica”

Il 29 dicembre 2022 alle ore 17.30 si terrà il prossimo incontro di “Percorsi alla scoperta della Musica” iniziativa voluta dall’Associazione Culturale “Napoli è”, presieduta dal giornalista Giuseppe Desideri  in collaborazione con il Centro Studi e Ricerche “Mario Borrelli” – Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus, presieduta dal prof. Antonio Lanzaro.

Il ciclo di incontri didattico-seminariali è giunto alla sua quinta edizione.

Appuntamento presso la Sala espositiva del Centro Studi e Ricerche “Mario Borrelli” – Fondazione Casa dello Scugnizzo in piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3, Napoli.

“La musica è un linguaggio universale in grado di coinvolgere e affascinare persone di differenti lingue e culture, senza distinzioni sociali o di età, di superare le barriere della comunicazione, di creare legami oltre le frontiere, di creare atmosfere e stemperare tensioni – ricordano i giornalisti Giuseppe Desideri, presidente dell’Associazione Culturale “Napoli è” e Bianca Desideri curatrice dell’iniziativa.

A volte, però, le persone utilizzano termini musicali senza conoscerne l’autentico significato (armonia, ritmo, sincope, canzone, sinfonia, ecc.).

Il seminario con il pianista Rosario Ruggiero – proseguono gli organizzatori – si propone di rendere fruibili anche ai non esperti termini, curiosità, elementi della storia della musica, spaziando nel tempo e nei vari generi, spiegandoli e facendo scoprire i loro autori”, da Bach ad Haydn, Mozart, Beethoven, Chopin, Brahms fino a Rachmaninoff, Debussy, Kachaturian e più”.

I miti allo specchio. Riscritture femminili liberamente ispirate al mito

Intervista alle curatrici Sara Manuela Cacioppo, Giovanna Di Marco, Ivana Margarese.

Penelope, Calipso, Nausicaa, Circe: Omero rende tali figure funzionali al suo percorso umano, emotivo, emozionale. Lei, invece, dà loro voce; le rende protagoniste, mutando la prospettiva circa il genere. Perché?

Giovanna Di Marco: Penelope e Calipso non sono personaggi che fanno parte della nostra antologia; Circe sì. Non c’è stata una linea programmatica nell’accettare un personaggio femminile del mito piuttosto che un altro: abbiamo accolto le figure che più si confacevano alle inclinazioni delle autrici che hanno aderito al progetto. In linea di massima, le figure femminili di cui ci siamo occupate sono state quelle più demonizzate nell’arco della storia occidentale. E perché? Perché ritenute pericolose e destabilizzanti rispetto a un mondo dominato dall’uomo. Ribaltare la prospettiva è dare voce e spazio a chi per troppo tempo è stato zittito e condannato dal potere dominante, dalla razionalità di Atena, dea nata dalla testa del padre, come se avesse dimenticato l’aspetto il corpo e le emozioni. L’intelligenza emotiva, la capacità generativa ben oltre la maternità e il fatto che questi aspetti avessero la luce: questi sono alcuni dei motivi che ci hanno condotte alla genesi di quest’opera.

Sara Manuela Cacioppo: Abbiamo voluto restituire la parola a personaggi femminili del mito spesso occultati o marginalizzati, attraverso una pluralità di voci e di esperienze. Si tratta di figure trasportate verso la modernità, donne che sanno guardare allo specchio la loro essenza impavida, non intaccata dal patriarcato. Alcune vi cercano una forma che sia consona alla loro soggettività, per superare l’ibridismo a cui sono state condannate, dichiarandosi iniziatrici della fluidità di genere; altre vi colgono una natura ribelle che non può essere confinata dentro un sistema di regole respingenti nei confronti dei loro desideri.

La vostra apprezzata opera ha protagoniste femminili. Quali differenze o analogie è possibile cogliere tra le ninfe, le dee, le vergini, le maghe, le spose omeriche e le eroine della modernità?

Ivana Margarese: Ciò che ci stava a cuore mostrare, al di là delle differenze, era l’occultamento o il silenzio a cui sono state nel tempo confinate le figure femminili e dare loro spazio e possibilità di parola, al di là del ruolo di mogli, seduttrici, madri o temibili mostri. Ci interessava contattare queste figure e dare loro una voce contemporanea, sottraendole alla consunzione ( penso alla ninfa Eco e a Euridice) o a un destino di colpa o sacrificio, che ha finito col mortificare le loro potenzialità  creative e generative.

Le opere greche si confermano quali testi archetipici del pensiero occidentale, contemporanee ad ogni epoca.

Quali ragioni ravvede nella specifica proprietà della letteratura greca di porsi sempre in maniera speculare alle fratture epocali?

Ivana Margarese: Elémire Zolla, autore che ha a lungo riflettuto sul concetto di archetipo, ci ricorda che l’esplorazione  discorsiva delle possibilità semantiche d’un simbolo, essendo inesauribile, spezza la dominazione esclusiva della conoscenza discorsiva, poiché la mostra incapace di cogliere tutte le potenzialità d’un simbolo. L’archetipo è di per sé fecondo, porta quindi alla possibilità di molteplici riletture e riscritture, a innesti che come in un percorso rizomatico si muovono su molteplici livelli e direzioni.

“Alterità”, “metamorfosi” e “pluralità” sono le “parole chiave” attraverso cui leggere di donne, di diversa età e provenienza, che raccontano di donne. Quanto incide la molteplicità di linguaggi adottati nella piena comprensione del mito?

Ivana Margarese: Il progetto de I miti allo specchio è nato dalla esperienza di rete della rivista “Morel voci dall’isola”, un luogo dove si raccolgono voci e opinioni, che si collocano non al centro ma piuttosto ai margini, così da ricercare nelle piccole cose sproni in grado di animare un dialogo vivace e attento a ciò che stiamo vivendo. Il nostro libro propone una polifonia di voci, un intreccio fluido di posizioni e figure femminili differenti. I racconti, nonostante siano riscritture, restano fedeli al carattere originario del mito che sempre racconta di esperienze di trasformazione. C’è inoltre un appello alla pluralità e al fare comunità come risorsa del pensiero. Un approccio questo per me prezioso, che ho conservato anche nel nuovo progetto editoriale che sto portando avanti con Ginevra Amadio e che è incentrato sul valore generativo dell’amicizia.

Giovanna Di Marco: Di ogni mito ci arrivano spesso più versioni, da cui derivano numerose letture su vari piani; altro aspetto del mito è quello della metamorfosi: spesso i suoi personaggi vengono mutati in altre forme. Il mito di per sé si apre a molteplicità formali e contenutistiche. Era dunque interessante per noi in questo esperimento – che non voleva essere solo letterario, ma di ricerca sul femminile – cercare di capire quante versioni e nuove visioni del mito potessero scaturire, per replicarlo nella nostra contemporaneità, in un’ottica non sono di molteplicità, ma anche e soprattutto di pluralità. Non a caso, la nostra antologia accoglie due racconti ispirati al mito di Medusa e ben quattro ispirati alle Sirene.

Sara Manuela Cacioppo: L’intento sociale dell’opera è dunque la rimozione della cristallizzazione del femminile nel mito. Donne che raccontano di donne liberandole dallo sguardo maschile opprimente e manipolatore, che le rilega a una condizione di subalternità e immobilismo, servendosi di nuovi linguaggi che rischiarano significati “altri”, riassunti nelle parole chiave “alterità”, “metamorfosi” e  “pluralità” sensoriale percettiva.

Dicotomie persistenti, ibridazioni e pluralità storico-identitarie. Perché l’isola di Sicilia è il luogo d’elezione per rappresentare la femminilità del mito nelle sue magnifiche contraddizioni?

Ivana Margarese: Il mito si rivela come risorsa inesauribile perché va oltre le dicotomie. La metamorfosi, che è carattere proprio di ogni mito, si oppone alla fissità di un modello e diviene elemento creativo, elemento pegasèo che, nato dal superamento dell’immobile si misura con nuovi contesti e visione di orizzonti.

Perché l’isola di Sicilia è il luogo d’elezione per rappresentare la femminilità del mito nelle sue magnifiche contraddizioni?

Giovanna Di Marco: L’insularità è uno stato esistenziale di confinamento circolare, che nasce certamente dal limite geografico e spaziale. Questa terra bellissima è tanto luminosa quanto tetra, come ci insegna la storia. Ci sono tante isole nel Mediterraneo, ma è difficile trovarne una così complessa e stratificata come la Sicilia: granaio di Roma, ma terra di povertà; luogo di approdo e luogo da cui voler fuggire. Questa Grande Madre ha spesso divorato i suoi figli migliori o magari li trattiene ancora incatenati ad alcuni retaggi. L’isola fornisce però gli strumenti per guardare il mondo dall’isola, per immaginarlo. E per immaginarne altre forme e formule che non siano solo grandiose e roboanti, ma che diano voce a ciò che non è consueto intravedere. Anche a una femminilità che non sia dominata e irreggimentata o che, a sua volta, non domini o, peggio, divori.

Sara Manuela Cacioppo: l’Isola di Sicilia, con le sue dicotomie persistenti, le sue ibridazioni e pluralità storico-identitarie, ben rappresenta la femminilità del mito nelle sue fulgide contraddizioni.

Giuseppina Capone

Il Giornalismo che cambia. Professione e regole. Deontologia e nuovi profili

A Cagliari la conferenza con il presidente nazionale dell’Ordine, Carlo Bartoli.

Pronta la “Carta di Olbia” di Gi.U.Li.A  Giornaliste.

“Un futuro fatto per la professionalità, lo studio, le conoscenze. Per questo c’è l’Ordine.”

Lo stralcio di un passaggio saliente nel prologo, offerto a Cagliari da Carlo Bartoli, può significare una sintesi condivisibile nei contenuti di un importante incontro formativo con i giornalisti sardi.

Bartoli, presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti, in carica da un anno, è intervenuto lo scorso 2 dicembre all’evento organizzato da Odg Sardegna dal titolo: “Giornalismo: professione e deontologia nella società che cambia”.

I lavori sono stati introdotti dai saluti del presidente dell’Ordine dei giornalisti sardi Francesco Birocchi, nella gremita Sala Vittoria presso l’Hotel Regina Margherita.

Le opportune osservazioni istituzionali del Presidente Birocchi.“L’Ordine ha mantenuto il ruolo di ente pubblico. Nato per tutelare diritti di natura pubblica. Eliminare l’ordine significherebbe impoverire la società civile.” – avviano i contributi dei relatori al tavolo di presidenza. “Se sei bravo, continueranno a sfruttarti…” – la realistica esternazione di Celestino Tabasso, giornalista de L’Unione Sarda, già presidente di Assostampa sarda, esprime l’attuale drammatico quadro che raffigura il precariato lavorativo nel settore giornalistico nazionale e regionale. La consonanza che ha distinto i percorsi e le finalità di Odg Sardegna e dell’Associazione stampa sarda non è stata la norma, rispetto alle non isolate divergenze a livello nazionale fra i rispettivi enti di garanzia. Un fenomeno – ha ricordato Tabasso – che con “nessun governo amico”, non ha risolto i nodi cruciali, quanto drammatici: l’equo compenso e le querele bavaglio, argomenti strettamente legati per l’accesso alla professione, obiettivo o utopia per la selva di giovani over quaranta che ancora frequentano le redazioni giornalistiche, nell’accezione tradizionale del termine. In sintonia l’intervento di Simonetta Selloni neo presidente di Assostampa Sardegna. La giornalista de La Nuova Sardegna ha tradotto la metafora dal comparto edile per il discusso pacchetto 110%, applicandolo alle ristrutturazioni in essere nelle redazioni giornalistiche. Un turn over che non garantisce la qualità del lavoro di chi dovrebbe raccontare la verità. L’assise cagliaritana ha espresso una importante proposta innovativa per il consiglio nazionale dell’ordine. Le relazioni di Susi Ronchi (cofondatrice Gi.U.Li.A giornaliste) e Francesca Arcadu (vicepresidente Uildm Sassari) hanno illustrato i contenuti di una bozza programmatica per una Carta deontologica sulla rappresentazione nei media delle persone con disabilità. La suddetta Carta di Olbia trae origine da un corso tematico organizzato da Odg Sardegna e Gi.U.Li.A giornaliste in collaborazione con le associazioni Sensibilmente Odv e Uildm, tenutosi nel centro gallurese nel dicembre 2019. L’evento dedicato al contrasto sulla narrazione del dolore e all’enfasi del pietismo sui casi disabilità, ha avuto un seguito nel secondo corso (posticipato per l’emergenza sanitaria) tenutosi a Cagliari nello scorso mese di giugno. Il documento ha preso forma volgendo uno sguardo all’estero con “studi e ricerche accademiche che hanno messo al centro le persone” ha spiegato Susy Ronchi. Il lavoro corale, firmato da Caterina De Roberto, Vannalisa Manca e Susi Ronchi (Gi.U.Li.A giornaliste Sardegna) con Veronica Asara (Sensibilmente Odv), Francesca Arcadu (Uildm Sassari) e Sara Carnovali, avvocata, phd in Diritto costituzionale, hanno redatto “la Carta che non c’è”.Il testo s’ispira alla convenzione ONU che riconosce nella disabilità, un concetto in evoluzione: “il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali e ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di eguaglianza con gli altri”. Per questo la Carta è corredata da un glossario capace di correggere tutte quelle espressioni che nelle cronache dei media enfatizzano la patologia o il disturbo rispetto alla centralità della persona. Titoli ricorrenti come “costretto sulla sedia a rotelle” dovranno estinguersi non per un precetto tecnico quanto per radicale cambio di prospettiva. Dove quella sedia è una “opportunità per una vita normale, non uno strumento di condanna. ”Come ribadito da Francesca Arcadu nel suo intervento, così sarà opportuno eliminare “quel di più” riferito al sensazionalismo della disabilità che non è essenziali nel contesto della notizia trattata.  Il seminario termina con le conclusioni del presidente Bartoli, pragmatico nella presa d’atto delle sollecitazioni emerse nei lavori. Il futuro prossimo vede l’Ordine nazionale impegnato sulla stesura di un testo unico della deontologia che rappresenti in modo conciso e puntuale la complessità dei cambiamenti in atto. Un processo decisivo che faccia i conti una informazione indipendente seriamente compromessa dalle problematiche esposte. La priorità di difendere una professione rispetto ad antichi privilegi di corporazione anacronistici nella società digitale dei media dove le nuove competenze assunte dai social media manager sino ai web master, con l’adozione delle intelligenze artificiali, s’incontrino con una riconoscibilità professionale del giornalista. Sono necessarie aperture sui termini della comunicazione che non sviliscano i codici etici del giornalista. E’ chiaro che la sfida continua in una società globale e nazionale dove la narrazione della verità è un bene irrinunciabile per una convivenza democratica.

Luigi Coppola

 

(Foto Luigi Coppola – da sinistra Francesco Birocchi presidente Odg Sardegna, Carlo Bartoli presidente nazionale Odg, Simonetta Selloni Presidente Assostampa Sardegna)

FoCS: inaugurata la Mostra presepiale

Si è inaugurata ieri mattina 29 novembre alla presenza del presidente della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus, prof. Antonio Lanzaro, una nuova iniziativa che vede protagonista il presepe napoletano artigianale.

“Il Presepe Napoletano simbolo dell’espressione artigianale ed artistica, nelle sue varie forme, è un pilastro della tradizione partenopea. Si presenta in forma modesta anche nella Fondazione di Mario Borrelli, in occasione del centenario della sua nascita, per riscoprire l’estro creativo del suo popolo e per farne a lui omaggio”. Così ha evidenziato il dott. Vincenzo Surrianelli curatore della Prima edizione della Mostra Presepiale organizzata nelle sale della sede della Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus in piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3.

Un momento di incontro di diversi autori che hanno voluto raccogliere l’invito ad mettere in mostra alcune loro creazioni in occasione delle prossime festività natalizie.

L’esposizione resterà aperta fino al 5 gennaio 2023.

Per informazioni sugli orari di apertura contattare la segreteria della Fondazione allo 081-5641419 e-mail casadelloscugnizzo@libero.it.

Antonio Desideri

Come conquistare una donna in semplici 10 mosse!

La conquista della persona amata è impresa oltremodo ardua; la via è costellata di insidie; la strada è disseminata di trappole. È complesso conservarsi in equilibrio fra l’occultare il proprio coinvolgimento, con il concreto pericolo che l’oggetto dei desideri espatri verso altri appetibili lidi ed il dichiararsi in modo esageratamente sfrontato, il che cosa potrebbe seccare piuttosto che allettare. Come ispirare attrattiva? È un serissimo grattacapo che, indubitabilmente, ha accomunato gli uomini d’ogni tempo, se Ovidio, già nel I secolo d.C., ha nutrito il bisogno di consigliare una soluzione.

La spiritosa risposta del poeta all’annosa controversia è un libro: Ars amatoria.

Ecco, il Decalogo!

Regola n. 1 Afferrare la donna giusta. Come il cacciatore così chi ambisce ad amare non può certo esigere che la cacciagione gli si schianti dinnanzi agli occhi; deve impegnarsi con certosina  pazienza. Il soggetto giusto va cercato nei posti popolati dalle femmine: feste e teatri. L’ispirazione non è da ignorare: l’oggetto del desiderio va selezionato con estrema attenzione.

Regola n. 2 Cercare d’entrare in contattato. È essenziale cercare un aggancio fisico con la persona amata, ovviamente con garbo. È adeguato sederle accanto (il teatro è il luogo ideale, secondo Ovidio), recuperarle il foulard caduto, sventolarla con il ventaglio, se manifesta di avvertire caldo. Può andar bene pure intavolare una chiacchierata con una scusa comune. A quel punto l’uomo di cultura potrà stregarla, soddisfacendo qualsivoglia sua curiosità.

Regola n. 3 Il vino agevola. Un’accennata ubriachezza può servire a rompere il ghiaccio senza eccedere! Occorre scongiurare a qualsiasi costo l’ebbrezza totale per non compromettere, irrimediabilmente, l’esito dell’amoreggiamento. L’eccessiva euforia, per di più, associata con la semioscurità serale, può far riuscire desiderabile addirittura una donna brutta e nessuno desidererebbe una rivelazione sgradita il giorno successivo! In definitiva, se non si sostiene l’alcool, per abbandonarsi a qualche libertà in più, è preferibile bluffare.

Regola n.4 Stringere un’amicizia con la migliore amica della donna amata.  Il favoreggiamento di un’ancella può rivelarsi prezioso per ritrovarsi, clandestinamente, con la donna amata, inviarle missive, sorvegliare i suoi spostamenti. Ovidio, nondimeno, caldeggia circospezione: una donna che si sente rifiutata per un’altra può divenire oltremodo fatale!

Regola n. 5 Promettere mari e monti. Le promesse rivolte all’amata, secondo Ovidio, non debbono, necessariamente, essere mantenute! A queste vanno accompagnati i doni, purché non in misura esorbitante, così che la donna non possa svignarsela una volta ottenuto ciò che desidera.

Regola n. 6 Prendersi cura della propria igiene personale. Nulla, per una donna, è peggiore di un uomo che non si curi. È idonea una composta eleganza: abiti lavati e profumati, barba e capelli tagliati. Una speciale attenzione va prestata all’alito!

Regola n. 7 Comunicare passione. Colmare la donna di elogi ed attenzioni è un’ottima tattica. Il seduttore perfetto deve far sentire la donna adorata e, per pervenire a questo fine, non deve lesinare, giungendo, laddove necessario, anche a versare calde lacrime. Le lettere d’amore costituiscono un dovere, a condizione che non siano sofisticate o sembreranno fraudolente.

Regola n. 8 Giammai costringere la donna. Oggidì, ciò sarebbe un reato. E’ encomiabile l’ammonimento di Ovidio: tutto ciò che un uomo desidera può essere ottenuto con le lodi, gli encomi, i baci rubati con tenerezza.

Regola n. 9 Capire quando issare bandiera bianca. “Hai mai visto qualche donna corteggiare Giove?” domanda il poeta. È conveniente intraprendere un’amicizia con la donna; solamente in seguito accostarvisi. Se, tuttavia, l’amata non intende capitolare, è sterile perseverare fino all’esaurimento.

Regola n. 10 Mai glorificare la donna amata con l’amico. Aprirsi con gli amici va bene, sempre senza calcare la mano o qualcuno, stuzzicato dalla gradevolezza e dalle doti dell’amata, potrebbe pensare di proporsi.

Seduttori non si nasce, si diventa!

Giuseppina Capone

Prima Conferenza Regionale di FIAF Campania 

Si è tenuta a Napoli domenica 27 novembre  2022 la Prima Conferenza Regionale di FIAF Campania alla quale  sono intervenuti Presidenti e Referenti dei diversi Circoli Campani, Delegati Provinciali e singoli Soci e, in particolare, hanno presentato proposte, riflessioni e suggerimenti i soci Luigi Cipriano, Valentino Petrosino, Bianca Desideri, Giovanni Ruggiero, Mariana Battista, Oscar Geremia, Pino Codispoti, Enza Sola, indicazioni che saranno ulteriormente discusse e formalmente decise in un prossimo incontro on-line. I lavori sono stati introdotti e coordinati dal Delegato Regionale FIAF Campania Francesco Soranno.

I soci della FIAF potranno seguire la serata di incontro on-line con il Presidente Roberto Rossi e Consiglio Nazionale FIAF  lunedì 12 dicembre ore 21:00 con tutti i Circoli e Soci di Campania, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna.

Quietare gli dei con nastri agli alberi

Girovagando in campagna, può capitare di scorgere, legati ai rami degli alberi, nastri, cenci o brandelli di stoffa.

Qualche volta, ciò suscita fastidio, disturbo, come se la natura fosse stata violata ed offesa.

Proviamo ad osservare i lembi di stoffa da uno speciale e diverso punto di vista: trasformiamo lo straccio in un oggetto magico, dal potere prodigioso.

Appena qualche secolo fa, nella Roma pagana vigeva una ritualità propiziatoria e scaramantica: fissare ai rami degli alberi fiocchi, stracci, fili di lana, bamboline o qualsivoglia figura ritagliata in un materiale delicato che oscillasse, dondolasse, fluttuasse all’aria.

L’oscillum, sventolando, decontaminava e depurava l’aria, allontanando e spingendo via i mali. Era necessaria siffatta pratica? Ebbene, sì, oltre che frequente.

I Romani reputavano che fatti e condotte fossero in grado di scatenare eventi luttuosi e letali: epidemie, conflitti, guerre, calamità come carestie ed inondazioni.

Talvolta, supponevano di aver ingiuriato, offeso ed oltraggiato una divinità: gli dei erano, per opinione comune, rancorosi, vendicativi, astiosi, ostili ed implacabili. Talora, ci si trovava a dover fronteggiare accadimenti considerati maledetti e dannati, ad esempio un’impiccagione.

Secondo i Romani, gli spiriti degli impiccati ritornavano fra i vivi come fantasmi, enti smisuratamente temuti. L’albero era infestato ad opera dell’impiccamento.

In qual maniera correre ai ripari? Appendendo un  oscillum.

Gli dei, in tal modo, si mitigavano; le inquietudini si allontanavano; i rischi si dissipavano. Oggi, gli atteggiamenti, le riflessioni sono ben differenti.

Che importa? E’ così evocativo e suggestivo osservare l’incanto di un fiocco al vento.

Giuseppina Capone

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