Mine viandanti: l’homo viaticor come ordigno inesploso

 “Mine viandanti” di Valentina Barile è la narrazione di un viaggio. Può costituire oggetto di riflessione il viaggio velato di un alone di mistero e concepito come spostamento in un luogo sconosciuto ed ignoto laddove la realtà tecnologica in cui siamo immersi ci impone di non passare inosservati, puntando proprio sul dato noto e visibile?

La sana relazione tra passato e presente può esistere. In questo e in molti altri casi, diventa una convivenza meravigliosa.

Quale mezzo migliore per veicolare la storia a un target anagrafico medio-basso, vale a dire giovanile. E non solo. Trovo che la cultura debba democraticizzarsi molto più di quanto non lo sia già (non è abbastanza!), e i social network – per fortuna – hanno reso questo possibile. Un monumento, un sito archeologico, il basolato di una vecchia via, un paesaggio remoto possono entrare nella Home page di uno spazio Web. Possono vederlo tutti, conoscerlo, incuriosirsi ad ammirarlo dal vivo.

Il viaggio come maieutica socratica, certamente un approccio originale. Perché ha inteso applicare siffatto criterio di ricerca della verità, sollecitando le protagoniste a ritrovarla in sé stesse e a trarla fuori dalle proprie anime, osservando tuttavia il fuori da sé?

Etimologicamente, maieutico dal greco vuol dire far nascere la verità.

E la verità può affermarsi solo quando la si indaga con i propri occhi. In luogo di ciò, il sé statico ha bisogno del sé dinamico per evolversi, e trovo che uscire dal proprio habitat per mescolarsi consapevolmente a quello più vicino o più estremo, sia l’essenza dell’Homo sapiens, che altrimenti non potrebbe definirsi tale.

Il suo homo viaticor ha uno sguardo delicatamente carezzevole, accoratamente umile, soavemente poetico, fortemente empatico ancorchè mai profanatore dei luoghi e delle genti. In quale accezione possiamo declinare il suo uso del termine “viaggio”.

Il viaggio è capire dove si vive, cosa esiste intorno a sé. Il viaggio è il motore che muove gli esseri umani – ho scritto in uno dei miei libri – o, almeno, dovrebbe esserlo. Viaggiare dovrebbe essere un diritto, come il diritto all’istruzione. Viaggiare è libertà. Conoscenza. Ma soprattutto, è l’unica soluzione a un’ulcera che fa ancora sanguinare il mondo: il razzismo.

Le sue viandanti s’inoltrano nel profondo Sud attraverso la Via Popilia-Annia. Quali riflessioni può offrirci rispetto anche alla scoperta di un passato indissolubilmente congiunto al presente?

In riferimento alla via Popilia, che da Capua portava a Reggio Calabria, guardo la strada – una pedemontana che taglia l’Appennino meridionale – e vedo l’identità delle persone che la vivono oggi. Gente di montagna, lontana dalle onde e dalla brezza marina, che vive la propria esistenza a ritmi più lenti. E talvolta, tra questa gente vi si annida la brutalità dell’ozio e dell’illegalità, che tenta di sopraffare quelle anime d’Appennino che con dignità sostengono le proprie lotte quotidiane.

Perché due viandanti sono da considerarsi mine?

La mina è un ordigno esplosivo. Nel linguaggio politico e giornalistico è usata, in senso figurato, l’espressione mina vagante per indicare un fatto, una situazione, un problema che rappresenta una minaccia latente, e che può improvvisamente acutizzarsi sconvolgendo gli equilibri esistenti.

Un individuo può fare lo stesso… per meglio dire, le sue emozioni, se tenute in silenzio per un periodo di tempo non controllato, possono produrre gli stessi effetti delle mine inesplose.

I viandanti sono ordigni inesplosi, per questa ragione hanno la necessità di partire, allontanarsi, conoscere, esplorare, evolversi in una mina di livello superiore, pronta a esplodere quando si ferma. Per poi, riprendere il processo con ciclicità.

 

Valentina Barile è narratrice di viaggio. Collabora, tra l’altro, per Donna Moderna, Confidenze e varie testate sudamericane: Convergencia Medios (Cile), Rede Brasil Atual e Alajuela Digital (Web tv di Costa Rica). Ha organizzato la Fiera del Libro di Napoli, Ricomincio dai libri. Finalista al Premio Passaggi 2015, Festival della Letteratura di Viaggio. Il suo primo diario di viaggio, #mineviandanti sull’Appia antica (2016), ottiene due riconoscimenti: il Premio “Peppino Orlando” di Borgo d’Autore, il Festival del libro di Venosa, e il Premio “Enea – Buone pratiche per l’Italia” di Come il vento nel mare, il Festival delle narrazioni e di cultura politica, di Latina.

Giuseppina Capone

Vivere a colori

Arianna Di Presa è una giovanissima ma già affermata poetessa nel panorama della lirica italiana.

Si racconti; ci spieghi la ragione per cui ha scelto proprio la Poesia come codice comunicativo.

Personalmente, reputo la poesia un linguaggio armonico, senza veli, che permette di ascoltare l’anima nei suoi battiti più profondi, navigando negli abissi, riemergendo alla luce. La massima più evocativa è riassunta in testuali parole: “Per scrivere con l’Anima è necessario un dialogo con il Dolore.” La poesia, dunque, si prefigura come un dialogo costante di analisi esistenziale in tutte le sue sfumature, persino le più dettagliate, un filo invisibile di immense intuizioni sul quale accorpare l’etimologia del mondo e dei vissuti altrui per poter arricchire il proprio.

Lei pare affrancare il linguaggio dalla necessità di riprodurre il reale e dall’obbligo di evocare, ritenuti vessilli di virtù poetica. Esemplifichi il suo rapporto con il verso e le maglie della texture che lo tessono.

Il verso è un’aulica sinfonia, un rivelatore di sfumature delicatamente forti e al contempo prepotentemente delicate che trasmette una profondità sensoriale idonea ad abbracciare il silenzio palpitante dell’anima. Il verso costituisce, dunque, note dipinte da un’interiorità dialogica complessa che desidera leggerezza in un’elevazione leggiadra verso la grandezza del senso umano.

Leggendo, ad esempio “Pelle permeabile”, pare che il suo proposito sia dare un calcio al tedio delle convenzioni, saltellando tra denotativo e connotativo. Lei parodizza il nesso linguaggio-verità a quale intento?

Il linguaggio poetico annuncia trasparenza poiché permette di sorvolare dalla mediocrità si avvale di pienezza per affermare la propria essenza e per accorpare con lungimiranza le esperienze esistenziali tra partenze ed arrivi e annunciando nuovamente altre ripartenze. Il linguaggio è il viaggio del Vero che scorre in un insieme di sguardi intrecciati verso autentici ed inaspettati orizzonti.

In “Due lune” pare che il suo proposito sia dare un calcio al tedio delle convenzioni, saltellando tra denotativo e connotativo. Lei parodizza il nesso linguaggio-verità a quale intento?

La verità è sempre stata un’esigenza dell’Anima che non ho mai rifiutato di assecondare. Il linguaggio è il mezzo più idoneo per essere costantemente alla ricerca del Vero per immergersi nell’ unicità dell’istante e coglierne la pienezza. In un mondo dove tutto muta e passa freneticamente in cui l’omologazione sembra essere l’unica soluzione ho optato per restare me stessa porgendo un’accurata attenzione verso tutte le sfumature esistenziali perché la vita stessa è un dipinto a colori, che volutamente racconto ogni giorno attraverso la musica sgorgante della Poesia.

Uno degli aspetti che colpisce del suo poetare è l’essenzialità senza sconti. Da dove deriva il bisogno di dare alle cose il proprio nome, evitando i tortuosi labirinti delle perifrasi?

Sì, confermo una delle fondanti caratteristiche del mio poetare è proprio mettere in atto la sintesi arrivando al fulcro del senso concettuale. Un binomio di parole per me esprime già l’essenziale. L’essenziale viene concepito come il viaggio di una piuma tra le nuvole, per trasportare quel candore di purezza rivelatrice che caratterizza l’essenza interiore resa volutamente esplicita nel canto poetico.

 

Arianna Di Presa è nata a San Marino il 10 Novembre 1993. Diplomata al liceo psicopedagogico nel 2013, nel 2017 si laurea presso l’Università di Bologna in Psicologia e Scienze della Formazione con un elaborato di carattere umanistico dal Titolo Michel Foucault e la valenza trasformativa dell’educazione di genere con particolare attenzione al fenomeno del femminicidio. Partecipa al Catalogo “Lo stato dell’arte ai tempi della 57ma Biennale di Venezia” con la lirica Profumo di primavera curato da Giorgio Gregorio Grasso ed è Autrice del libro Vivere a colori. Aderisce a due cataloghi promossi dalla Casa Editrice Pagine e al volume “Caro maschio che mi uccidi” poesie di donne ammazzate promosso da Fusibilia Edizioni. Il 21 Novembre 2019 presenta il primo percorso d’Arte intitolato “Profondità Universali” fornendo una conoscenza artistica ed un’esposizione critico-letteraria in merito alle opere pittoriche e scultoree di Anna Vasile.

Giuseppina Capone

Julia Mantero: Avevo fame!

La sua è un’autobiografia, un racconto retrospettivo della sua pur giovane esistenza, che mette in forte risalto la sua vita individuale ed aspetti salienti della sua crescita. La “fame” appare essere un elemento rilevante, considerando che è presente sin dal titolo: termine che può essere riferito letteralmente al bisogno di cibo ma può anche essere applicato metaforicamente a desideri di altra natura. Ci spiega l’accezione in cui l’adopera?

Come ha correttamente notato, il termine “Fame” è utilizzato nel reale significato del bisogno di cibo ma anche, simbolicamente, per dare l’idea, in primo luogo, di una fame di libertà e di una vita migliore, ed in secondo luogo, con riferimento ad oggi, fame di imparare sempre di più, di viaggiare, di scoprire il futuro giorno dopo giorno con intensità.

Lei ripercorre i giorni di una fanciullezza angosciante, dolorosa, oppressiva, asfittica. Quali sono le ragioni più intime che l’hanno indotta a rievocare un periodo tanto cupo?

Le ragioni per cui ho ripercorso un periodo cupo ma anche un periodo piuttosto positivo, diciamocelo, della mia infanzia/adolescenza è stata proprio la voglia di raccontare la storia al mondo per mettere a conoscenza le persone di realtà a loro sconosciute o poco raccontate. Per quanto l’idea di scriverne un libro girasse nella mia testa da molto tempo, ciò che mi ha dato l’input è stata proprio la mia gravidanza. Il diventare madre, capire cosa provi e cosa superi una donna per avere un figlio, mi ha fatto pensare moltissimo a mia madre. Ho voluto mettere nero su bianco il suo ricordo perché se non fosse stato per lei, nonostante le difficoltà, nonostante la tempesta, io non sarei qui a stringere mia figlia tra le braccia.

La storia è ambientata nella Russia post-sovietica, facendo intravedere la traccia della linea della transizione dalla caduta del comunismo a Putin. Può offrirci qualche dettaglio degno di curiosità?

Non torno in Russia da molto tempo, per cui, non riesco a rendermi effettivamente conto dei cambiamenti che ha subito il paese negli anni. Nel mio racconto, però, faccio notare come la Russia di allora e, molto probabilmente, anche l’attuale Federazione Russa, portino negli anni, gli effetti, i pensieri, i modi, le decisioni dell’epoca sovietica. Un esempio lampante potrebbe essere l’utilizzo del colore rosso in molti ambiti.

Lei è un’orfana, le è mancata la protezione ed il “nutrimento” dei suoi genitori; ha vissuto l’esperienza di attendere d’esser scelta per l’adozione. Quali emozioni ricorda e sente di voler condividere rispetto a quei momenti?

Le emozioni che sicuramente sono prevalse in quel momento erano la paura che qualcosa andasse storto nel processo adottivo che avevano intrapreso i miei attuali genitori (poiché il processo adottivo in Russia è davvero complicato) e la gioia di essere libera. Mi riferisco a una libertà non solo fisica ma liberta dall’imposizione delle rigide regole di convivenza all’interno dell’orfanotrofio. Direi, quindi, più una libertà mentale dalle imposizioni, forse necessarie, ma comunque troppo premature per un bambino.

Quali sono stati gli ostacoli, le difficoltà, gli inconvenienti che ha dovuto affrontare durante l’adozione e quali riverberi hanno tutt’oggi?

Questa domanda andrebbe decisamente fatta ai miei genitori. Le mie difficoltà erano solo i pensieri e l’interminabile attesa. La mia famiglia invece ha superato non pochi ostacoli per regalarmi una vita migliore.

Giusy Capone

Dark Web: contenuti e pericoli

Il dark web è quella porzione del Web ospitata dalle dark net, ma la parola dark fa subito pensare a criminali e vendite di droga e armi, mentre nelle dark net possiamo trovare di tutto, anche le versioni dark di famosi siti del Web, come il New York Times. Ne consegue che non tutti i contenuti del dark web sono illegali o pericolosi. Ne parliamo con Sara Magnoli.

Può spiegarci cosa sono le dark web, chi ci naviga e come accedervi?

Una premessa fondamentale che desidero fare, nel ringraziarla per avermi invitata a parlare del mio libro “Dark Web” pubblicato da Pelledoca Editore, è che il mio è stato ed è in generale un lavoro di tipo letterario. Ho scritto un romanzo, non un saggio. Nello scrivere questo libro ho avuto il supporto, la consulenza e la collaborazione di tecnici, come le informatiche forensi Maria Pia Izzo ed Eva Balzarotti, il vicequestore dalla polizia postale Rocco Nardulli, il sostituto procuratore della repubblica del tribunale dei minori Annamaria Fiorillo, la psicologa dell’età evolutiva Raffaella Pasquale, che, in base alle loro disponibilità, anche durante le presentazioni svolte sinora e che sono in programma del libro stesso mi hanno accompagnata proprio per rispondere alle domande come questa che sono considerazioni davvero di natura tecnica, così peculiari e non facili da spiegare.

In generale, il dark web si raggiunge attraverso software particolari. Ma, ripeto, per domande così tecniche credo sia più corretto interpellare tecnici. Io posso dire che nel mio romanzo la protagonista, Eva, non entra personalmente nel dark web, ma diventa vittima di personaggi senza scrupoli che lavorano sottotraccia nella parte “sporca” della rete.

Il dark web è uno spazio “protetto” in cui crimini orribili possono essere perpetrati ai danni degli adolescenti. Accanto alla difficoltà creata dall’anonimato, esso permette anche di scambiare materiale “a tempo”, che si autoelimina senza lasciare traccia, permettendo, quindi, di inviare e ricevere materiali che ritraggono anche violenze ai danni dei ragazzi. Lei concentra la sua narrazione proprio su una vicenda torbida inerente l’adescamento di una adolescente. Può fornirci dati in merito?

La vicenda meramente letteraria che racconto in “Dark Web” riguarda Eva, una quattordicenne che ha un sogno come tutti gli adolescenti in tutti i tempi. E lei, adolescente del 2020, sogna di fare l’influencer di moda, con un’idea però piuttosto superficiale e semplicistica per cui chiunque, basta postare una foto, può diventare, appunto, famoso e seguito. Eva insomma si muove un po’ nella logica in cui purtroppo spesso siamo bersagliati anche dai messaggi televisivi o social, la logica del tutto subito e tutto è facile, e nella sua ingenuità non si preoccupa minimamente di informarsi o acquisire consapevolezza e responsabilità nell’uso del “mezzo internet”, ma posta sue foto. Lei non visita il dark web, ma ne diventa vittima inconsapevole: è il personaggio che incontra e che le dice di essere un designer di moda che le carpisce informazioni e foto che poi fa girare nel web più profondo e nascosto come fosse merce di scambio. Eva resta comunque invischiata in questa ragnatela, si rende conto che le foto che ha mandato a questo personaggio possono finire nelle mani di chiunque, ma non riesce a uscire dalla trappola, si sente sola e persa. Il personaggio incontrato, che a Eva si presenta come Doom Lad, prima usa l’adulazione, poi il ricatto, la minaccia, l’intimidazione, che sono passaggi tipici dell’atteggiamento degli adescatori. Pur essendo opera letteraria, la storia risulta verosimile, in quanto le cronache sono piene di storie come queste, purtroppo spesso difficili da scoprire, e i dati ci dicono anche che chi resta invischiato in questi ricatti, giovani soprattutto, ma anche persone di una certa età, tenta il suicidio in una percentuale di circa il 50%. Sono dati che non possono lasciare indifferenti, così come credo non possa lasciare indifferente il fatto che i nostri ragazzi passano online moltissima parte del loro tempo. Chi legge “Dark Web” comprende sicuramente che non tutto il web e non tutto il mondo social sono pericolosi, anzi, io sono convinta che sia un mondo immenso e bellissimo, ma occorre secondo me creare una consapevolezza e una responsabilità nel suo utilizzo, occorre conoscerlo, noi adulti per primi, perché siamo poi noi adulti che possiamo aiutare i nostri ragazzi ad affrontarlo in maniera corretta e sicura.

Le pagine che ha scritto evidenziano le peculiarità delle dark web. La garanzia dell’anonimato è protetta da rigidi parametri d’ingresso. L’accesso è quasi sempre preservato da una registrazione: tuttavia bastano pochi dati ed è possibile accostarsi ad una quantità inimmaginabile di materiale fotografico e video. Ritiene che i giovani ne siano effettivamente consapevoli?

Dalla mia esperienza vissuta a contatto di moltissimi giovani nelle scuole come autrice direi che i nostri ragazzi sono pienamente consapevoli dei contenuti che possono trovare anche nel web nascosto e se non li hanno visti loro in prima persona ne hanno comunque sentito raccontare. Credo anche che spesso siano convinti di non poter mai essere loro prede e soprattutto non sono consapevoli delle conseguenze anche penali che ci possono essere dietro a un utilizzo del genere del web, ma anche dal far girare sulle chat di WhatsApp immagini rubate o video a sfondo pedopornografico che, ahimè, spesso arrivano e loro vivono come un momento “proibito”, “vietato” e dunque purtroppo spesso cercato proprio come tutti gli adolescenti che, sempre e da sempre, sono attratti da ciò che va oltre le regole. Materiale la cui detenzione e diffusione è reato, per cui si può essere indagati e perseguiti dalla legge. Quello che manca secondo me è piuttosto la consapevolezza di che cosa può accadere avendo a disposizione quel tipo di materiale, che cosa rappresenta, che non è semplicemente qualcosa di “proibito”, ma è qualcosa di pericoloso, che va denunciato.

Il protagonista del suo romanzo ha un’identità fasulla. Cosa può suggerire agli adolescenti per proteggersi dai “catfish” e, soprattutto, cosa, a suo parere, spinge una persona a creare un profilo falso, e, soprattutto, ad instaurare e mantenere relazioni nascondendosi dietro una falsa identità?

La falsa identità è un reato e questo deve essere ben chiaro anche ai ragazzi. Per accedere ai social occorre aver compiuto una determinata età e inserirne un’altra non si fa. Personalmente non mi fido di chi nasconde la propria identità dietro un nome fasullo: vero che qualcuno anagramma il proprio nome, o mette un nome che gli piace, ma questo potrebbe essere fatto nel nickname. Credo che non abbia senso frequentare un social nascondendo la propria identità a meno che tu non abbia davvero qualcosa da nascondere. Questo in generale, poi certo chiunque è libero di fare come crede e comunque spesso anche i nickname usati sono immediatamente riconducibili al profilo diretto e ben conosciuto di una persona. E questo non mi spaventa: se uso un soprannome o il nome del mio animale domestico e poi metto la mia foto o foto comunque dove sono riconoscibile, o posto commenti che mi rendono riconoscibile, da nascondere non ho proprio niente. No, è chi imbroglia su tutto che mi mette ansia e personalmente non do mai l’amicizia a chi non conosco anche di persona o a chi non è riconoscibile. E questa, credo, debba essere la prima regola da far seguire ai nostri ragazzi, oltre che seguire noi stessi.

Lei ha tessuto la trama di un romanzo young adult. Quali sono i tratti di riferimento di siffatto genere?

Sto leggendo proprio in questi giorni “Perché dovresti leggere libri per ragazzi anche se sei vecchio e saggio” di Katherine Rundell. Una frase, riportata anche sulla quarta di copertina, dice che i libri per ragazzi non sono un posto in cui nascondersi, ma sono un posto in cui cercare. “Dark Web” nasce come romanzo rivolto a un pubblico di adolescenti, per questo è definibile appunto come dice lei “young adult” che è un tipo di letteratura che si rivolge appunto a un pubblico non di bambini ma neppure di adulti, bensì di “teen”, tra gli 11/12 e 16/17 anni. I protagonisti sono ragazzi della loro età che affrontano le tappe della loro crescita, qualcosa insomma di “formazione”, ma con tematiche attuali, come vivono il rapporto con la famiglia, con la scuola, tra pari, con le tecnologie, con l’amore, con gli ostacoli o i problemi che incontrano nella vita quotidiana o che nella vita quotidiana incontrano i loro amici. E spesso questo percorso porta alla presa di coscienza della responsabilizzazione. Questo in generale, rispondendo alla sua domanda sulle caratteristiche del genere, ma se mi è permessa una sottolineatura io credo che non esistano romanzi, o comunque libri in generale, solo per adulti o solo per ragazzi o bambini. Molto dipende dalla persona che legge. Per esempio, in tanti pensano che i silent books, i libri fatti di sole immagini, possano essere dati in mano a bambini che non sanno leggere perché con le figure soltanto possono affrontarli da soli, invece il potere evocativo e le diverse interpretazioni delle immagini che questi libri hanno non solo necessitano dell’intermediazione dell’adulto, ma spesso possono farli considerare anche per un pubblico adulto. Tornando a “Dark Web” sicuramente è pensato per tematica, linguaggio, personaggi, per un pubblico di adolescenti e tocca un tema che li riguarda da vicino, ma mi auguro che possa essere una lettura utile anche per gli adulti, meno nativi digitali, più distanti dall’uso di determinate tecnologie, ma che sono i primi a dover proteggere i propri ragazzi da pericoli oggi ancor più sconosciuti.

 

Sara Magnoli vive in una casa ristrutturata che era il cinema di sua nonna. Giornalista professionista, è laureata in Lingue e letterature straniere moderne all’Università degli Studi di Milano.

Con i suoi romanzi per ragazzi e per adulti, principalmente gialli, ha vinto nu­merosi premi, tra cui la sezione ebook del Garfagnana in Giallo nel 2015, il premio della giuria culturale “L’Aringo” al premio Essere donna oggi di Gallicano (Lucca) del 2017 e il secondo premio del Milano International 2017 sezione letteratura edita.

Giusy Capone

Rocksofia. Filosofia dell’hard rock nel passaggio di millennio

Il saggio di Alessandro Alfieri  prende in esame le due differenti modalità di esperienza elettronica accolte dai Radiohead e dall’industrial rock dei Nine Inch Nails, per poi addentrarsi nella riattualizzazione di due esemplari sostanziali della storia del rock: nel Nu Metal la propensione innovativa e la rimonta dell’urto ribellistico scagionano la veemenza dei Rage Against the Machine, mentre lo spazio asfissiante e buio dei Tool non è che desiderio di disintegrazione totale; nel Neo Punk contrariamente, l’esperienza di cambiamento vissuta dai Green Day nel passaggio dai 90es agli Anni Zero si oppone al furore sfacciato e quasi spensierato del punk-hardcore dei NOFX.

 

Ebbene, quale ascendente assume la politica nel panorama del rock che ha osservato?

La politica, anche se in termini dialettici, ha un ruolo significativo all’interno della mia argomentazione, perché nell’hard rock del passaggio di millennio spesso l’intransigenza non esprime alcuna intenzionalità politica o ideologica, come nella musica dei Nirvana. Gli anni Ottanta, dopo le intense passioni politiche che avevano caratterizzato gli anni Sessanta e gli anni Settanta, hanno rappresentato in ambito sociale la piena realizzazione dell’utopia consumistico-edonistica: la violenza di ispirazione rivoluzionaria si è tradotta nell’eccesso della stravaganza, nell’abbigliamento quanto nel look, e all’impegno politico si sostituì una stagione basata sul principio della stilizzazione e della teatralità. I Rage Against the Machine invece recuperano la tradizione funk rock, attingono agli anni Sessanta per l’attivismo politico e ai Settanta per l’indole violenta e irruenta della loro musica, per ristabilire la dimensione politica come predominante nell’immaginario hard rock.

Nei Rage against the Machine la politica si presenta come tentativo di ristabilire un principio comunitario. L’impulso politico-vitalistico però è in qualche maniera inconciliato e contraddittorio: la violenza – dei testi e della musica – è impregnata dall’ideologia socialista rivoluzionaria, e tuttavia rispetto agli anni di Woodstock è quella stessa violenza che attesta come il vitalismo politico oggi sia condannato al fallimento, perché incapace di istituire un nuovo principio di comunità.

Anche i Green Day si sono prestati al tentativo di riscatto politico convertendo la loro proposta verso le esigenze della nuova generazione (sia da un punto di vista scenografico che di scrittura musicale), e anche le intenzioni dei NOFX negli ultimi anni sono state queste, ma ancora una volta la spirale dialettica porta il tentativo di attivismo in un ulteriore capovolgimento, dove mercato e impegno politico fanno paradossalmente tutt’uno.

Lei scrive che la nascita del rock costituisce “il paradosso del rock, alla luce del fatto che la sua nascita e la sua esistenza sono iscritte all’interno della cultura di massa e dell’industria culturale». Qual è, oggi, la funzione ed il messaggio del rock, valutando il fatto che esso sia stato sicuramente partorito da una società capitalistica nella prima fase del consumismo?

Quel paradosso si ripropone e si reitera nel corso dei decenni, ed oggi è quanto mai pregnante: nella fase globalizzata del consumo, l’impulso ribellistico connaturato al genere rock si accompagna sempre alla stimolazione commerciale. Niente funziona di più sul mercato che l’avversione al mercato stesso: pensi alle t-shirt dei Ramones, dei Nirvana e dei Sex Pistols in vendita sugli scaffali di store come H&M e Zara.

Lei evidenzia il resistere d’una fruizione della musica rock nonché dei concerti, principalmente da parte di chi venerava certuni artisti all’incirca venti o trenta anni fa e che attualmente si conforma al rito ed interviene ai medesimi concerti, sotto l’egida, chissà, della percezione di qualche cosa di scomparso ed unico. Quanto gioca la nostalgia?

La nostalgia è decisiva, in quanto sentimento ancestrale che il mercato sfrutta sagacemente. Questo fenomeno riguarda per esempio il trionfo dei Pearl Jam e dei Radiohead in quanto band longeve che hanno attraversato i decenni e l’abisso dell’autodistruzione per approdare all’oggi in maniere diverse; soprattutto per i primi, l’uscita del “nuovo disco” e il conseguente lancio del tour sono eventi che si fondano sull’attrazione nei confronti di un “passato immediato” poiché non si tratta del ritorno di una band di mezzo secolo fa, quanto di una carriera che non si è mai interrotta e che ha rinnovato in corso d’opera il suo potenziale nostalgico. La nostalgia è infatti ricerca di soccorso nella trasfigurazione narrativa della celebrazione del passato mitico e per questo ancora una volta impulso di morte più che di vita. Questa dimensione è stata investita dal sentimento diffuso nei confronti di quella “nostalgia del presente” che caratterizza gli attuali trenta-quarantenni: una visione perciò a metà strada tra nichilismo anedonico e vitalismo.

Il nichilismo, lo smarrimento, il senso di vuoto incolmabile, serpeggia tra le sue pagine. Il rock come illusione?

Il rock nella sua storia ha messo in evidenza tali interrogativi, e in una sua specifica tendenza è stato espressione di un impulso autodistruttivo (una tendenza che ha origine coi Velvet Underground nel cuore degli anni Sessanta). In molti casi il rock appare come illusione di una presunta liberazione, ma in molti altri non si è trattato di un’illusione ma di un effettivo propulsore vitalista, capace di opporsi allo status quo e alle convenzioni asfissianti. Non è un caso che i Foo Fighters si siano nettamente sganciati dal peso enorme di esprimere il vuoto anedonico, anche perché i tempi sono cambiati rispetto ai Nirvana: infatti, da un lato il mercato è stato talmente potente e astuto da aver assorbito le contemporanee forme di espressione di dolore dell’anima, dall’altro, le condizioni economiche globali oggi sono precipitate un po’ per tutti, e parlare di dolore esistenziale e di incapacità di comunicare in un’epoca in cui il benessere di vent’anni fa si sta progressivamente sbriciolando, non ha più molto senso.

Lei, riprendendo Reynolds, fa riferimento al vivere inserendo la marcia della “retromania”. Pensa che il ruolo “filosofico” del rock possa passare ad altri testimoni quanto a generi musicali?

Quello della retromania è un fenomeno culturale ampio, che non riguarda solo o soprattutto il rock; d’altronde, fare riferimento a molti generi vintage significa comunque proiettarsi nella dimensione retromaniaca. Credo che le considerazioni del mio volume, trattate in termini sempre dialettici e mai in tono risolutivo, dimostrino che la musica rock, ieri come oggi, sia ancora pregna di filosofia, perché in fondo meno nel fenomeno la filosofia compare in maniera didascalica, più in esso diventa rilevante la filosofia stessa come “contenuto di verità” da interpretate e scovare.

 

ALESSANDRO ALFIERI insegna Teoria e metodo dei mass media all’Accademia di Belle Arti di Roma e si occupa prevalentemente di cultura di massa; ha insegnato Fotografia e nuove tecnologie visuali presso l’Università di Macerata; è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università “Sapienza” di Roma; è giornalista. Tra i suoi libri Musica dei tempi bui. Nuove band italiane dinanzi alla catastrofe (Orthotes, 2015);  Il cinismo dei media. Desiderio, destino e religione dalla pubblicità alle serie tv (Villaggio Maori, 2017); Dal simulacro alla storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino (Le petite plaisance, 2018); Lady Gaga. La seduzione del mostro (Arcana, 2018); Galassia Netflix. L’estetica, i personaggi e i temi della nuova serialità (Villaggio Maori, 2019).

Giusy Capone

Osservatorio “Napoli Città Sicura”: lavoriamo sicuri, informati e formati

L’Osservatorio “Napoli Città Sicura” svolge la sua attività per favorire la cultura della sicurezza principalmente sui luoghi di lavoro. L’annuale appuntamento con la Città quest’anno al momento è stato rinviato in via prudenziale a causa di covid-19 vista l’adesione di numerose istituzioni scolastiche protagoniste del concorso “La sicurezza è… la scuola racconta”, ma le attività dell’Osservatorio non si fermano.

Ne parliamo con il presidente dell’Osservatorio Vincenzo Solombrino.

 Un impegno importante e continuo quello dell’Osservatorio…

Sì, la sicurezza è importante sui luoghi di lavoro, ma anche in ogni situazione della nostra vita quotidiana, a scuola, per strada, a casa… e tutti i partner dell’Osservatorio lavorano sia a livello istituzionale sia a livello pratico di prevenzione, tutela, formazione, informazione, per favorire sempre più la conoscenza delle norme di sicurezza e stimolare corretti comportamenti nei cittadini di qualunque età.

“Lavoriamo sicuri, informati e formati” questo lo slogan 2020…

Abbiamo voluto racchiudere in tre parole “sicuri, informati e formati” l’essenza di quello che deve essere  l’attività nel settore della sicurezza sul lavoro, in particolare. E’ proprio lì che abbiamo il maggior numero di vittime legate agli incidenti sui luoghi di lavoro.

Perché la stretta collaborazione con le istituzioni scolastiche?

E’ dalla scuola, oltre che dalla famiglia, che parte la conoscenza e la formazione continua sulla sicurezza. Crescere e formarsi “sicuri”. Riteniamo che sia fondamentale iniziare a seminare bene proprio presso le giovani generazioni la consapevolezza del rispetto della sicurezza non solo sui luoghi di lavoro. Conoscere i pericoli, conoscere le regole, conoscere i diritti, aiuta ad essere cittadine e cittadini consapevoli, datori di lavoro  rispettosi delle normative,  lavoratrici e lavoratori attenti ai loro diritti ma attenti anche al rispetto delle regole di sicurezza, persone responsabili.

Molte le iniziative dell’Osservatorio, ce ne ricorda qualcuna?

Innanzitutto il Bando del Premio “Azienda Sicura 2019”; il Bando di concorso INAIL “La Sicurezza è… la scuola racconta” promossa dall’Inail Direzione Regionale  Campania, dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Campania  e dall’Osservatorio per la Sicurezza sui luoghi di Lavoro “Napoli Città Sicura” del Comune di Napoli; il Progetto “Sicurezza stradale” per le scuole elementari, promosso dall’Ufficio Scolastico Regionale  per la Campania, dall’Osservatorio per la Sicurezza sui  luoghi di Lavoro “Napoli Città Sicura” del Comune di Napoli” e dal  Comando Polizia Locale Comune di Napoli in collaborazione con le Scuole I. C. Statale  Ferdinando Russo,  I. C. Statale Madre Claudia Russo,  I.C. 22° Statale  Alberto Mario Napoli.

Voglio ricordare anche il Progetto “A Scuola con la Sicurezza”  promosso dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Campania, dall’Osservatorio per la Sicurezza sui luoghi di  Lavoro  “Napoli Città Sicura” del Comune di Napoli, dall’Associazione Nazionale “Obiettivo Sicurezza” con la partecipazione delle Scuole I.C. Statale  Savio – Alfieri, I.C. Statale 51° Oriani – Guarino,  I. C. Statale  47° Sarria – Monti.

E  ancora il Bando  di Concorso  “Ri -Valutare la sicurezza” 8^ edizione  in collaborazione con Enti, Aziende e Associazioni impegnate e attive  sui temi della sicurezza e con l’Ispettorato Interregionale del Lavoro Area Sud.

Da non dimenticare, inoltre, tutte le numerose iniziative che i singoli partner hanno posto in campo nel corso del 2019 e in questi primi mesi del 2020.

Alessandra Desideri

Aldo Masullo: etica e politica dei giorni nostri

Oltre ai temi del “tempo” e della “solitudine”,  Lei ha sempre posto al centro della sua riflessione filosofica i temi della “comunità” e della “intersoggettività”.  Anzi, spesso Lei riprende nei suoi libri un’emblematica affermazione di Fichte secondo il quale “l’uomo diventa un uomo solo tra uomini”.  Che ne è oggi dell’uomo che resta indifferente, insensibile, di fronte ai suoi simili che annegano quotidianamente nel Mediterraneo?

La filosofia, che risulta dal pensiero non solo dei cosiddetti filosofi, ma pure degli artisti, degli scienziati, dei religiosi, e di tutti coloro che sia pure oscuramente elaborano la cultura di un’epoca, è come il sole: pur non cessando di emettere i suoi raggi, viene spesso oscurato da nubi tempestose e di notte diventa invisibile. Le notti della storia civile a volte sono intollerabilmente lunghe e popolate di spettri spaventosi. Allora gl’innumerevoli deboli diventano ancora più deboli, “scarti”, e i pochi forti diventano ancora più forti, rendendo sempre meno tollerabile il loro proprio prepotere.

Prima ancora che di un’emergenza politica, vi è oggi in Italia un’urgenza “etica”. Dopo gli anni bui della deriva partitocratica, culminata in tangentopoli, e il ventennio mediatico berlusconiano, abbiamo assistito ad una svalutazione sempre più marcata dell’idea di politica, intesa non come interesse alla “cosa pubblica”  (alla collettività), ma all’interesse personale (privato). Come si risana questa insanabile ferita? In che modo è possibile ricucire il tessuto di una “comunità”, oramai privata della propria identità?

Più che di ricucire il tessuto di una comunità, si tratta oggi di riattivare nessi o meglio attivarne di nuovi tra individui, società, continenti. In altre parole si tratta di darsi da fare per riscattare i più dal lasciarsi alienare dalla falsa comunicazione e così alla fine, senza accorgersene, ridursi in massa alla sottomissione.

Sempre riferendoci all’Italia, esistono delle questioni che si sono oramai incancrenite, divenendo un tutt’uno con la società. Questioni ataviche e irrisolte a cominciare dalla criminalità organizzata. Interi territori sono “formalmente” sotto il controllo dello Stato italiano, ma nei fatti, si verificano altre dinamiche, di soprusi e di ordinaria prevaricazione, che nulla hanno a che fare con la sfera del diritto. Perché questa immobilità o assenza dello Stato? Parafrasando il titolo di un suo libro del 2008, dedicato a Napoli, mi verrebbe da dire “Italia siccome immobile”.

Lo Stato è la sua forma costituzionale, ma la sua sostanza è la società. La società è la struttura degli scambi, ma la sua energia siamo tutti noi. Insomma tra lo Stato formale e le esistenze in carne ed ossa di tutti noi sta la struttura degli scambi sociali. Questa dall’unificazione d’Italia ad oggi non è stata corretta e rinnovata fino in fondo. Anzi le sue deformazioni sono state aggravate al punto che ora tendono a ripresentarsi due Italie, una sempre più funzionante e ricca, l’altra sempre più sgangherata e povera.

Parliamo di Europa. L’Europa che abbiamo conosciuto in questi anni non è certamente quella che sognava Stefan Zweig: un’Europa solidale forgiata da interessi “comuni” e intesa come un “organismo culturale unitario”. Come è stato possibile tradire questo sogno? Come è stato possibile assistere inermi, ad esempio, alla feroce pressione sulla Grecia, culla della nostra civiltà? In che modo è possibile liberarsi dai lacci della finanza e rilanciare l’ethos della nostra comune appartenenza spirituale?

Quella Europa era nata dalla dolente volontà di una generazione scottata dal fuoco delle stragi e delle distruzioni di due immani guerre. Questa invece è l’eredità gestita da generazioni senza memoria. Esse hanno creduto che bastasse un freddo sistema di regole, certo non perfette, a conservarne la funzione. Si è infine, peggio ancora, lasciato che le regole sovranazionali fossero forzate dalle variabili convenienze degli accordi tra i governi. Peraltro fino a qualche anno fa l’opinione pubblica non ne ha saputo nulla, mai informata da una stampa nazionale a tutt’altro interessata.

Lei è nato nel 1923. Ha attraversato il Novecento e ancora oggi rappresenta un’autorevole voce della cultura italiana. Cosa le hanno insegnato la vita e la storia?

Soprattutto che nella decisione dei destini collettivi quasi sempre l’illusoria ambizione di potenza di pochi tragicamente soffoca l’esperienza dell’inutile dolore dei più.

Un’ultima domanda: quali sono a suo avviso le principali sfide che ci attendono per costruire un mondo migliore?

È vitale che l’illimitato potenziale delle tecnologie elettroniche, soprattutto digitalizzazione e “intelligenza artificiale” si accordi con il bisogno di un’umanità migliore, innanzitutto con una vera democrazia delle persone e con un più forte senso di responsabilità diffuso.

Giusy Capone

 

Aldo Masullo è professore emerito di Filosofia morale nell’Università di Napoli Federico II. Il lungo percorso del suo pensiero si muove intorno a tre nodi teorici, fondamentali per una «genealogia» antropologica: il tempo, la paticità, la relazione intersoggettiva. La metafisica resta, sullo sfondo, il tragico della ragione: necessaria e insieme impossibile. Tra i suoi molti libri: Struttura soggetto prassi (1962, 1994), Fichte: l’intersoggettività e l’originario (1986), Filosofie del soggetto e diritto del senso (1990), Il tempo e la grazia(1995), La metafisica, storia di un’idea (1980, 1996), La potenza della scissione (1997), Paticità e indifferenza (2003), La libertà e le occasioni (2011), Piccolo teatro filosofico. Dialoghi (2012), Stati di nichilismo (2013), Giordano Bruno maestro d’anarchia (2016), L’Arcisenso. Dialettica della solitudine (2018).

 

Cold case: il mistero della morte di Arsinoe sorella di Cleopatra

Questa è la triste vicenda d’una giovane donna. Si gioca tutta sulle rive del Mediterraneo, tra Alessandria d’Egitto, dove comincia nel cupo contesto di una faida familiare; Roma, città che ne avrebbe vista la fine, non fosse stato che per un atto d’indulgenza; Efeso, dove si risolvé nel sangue. E’ la storia della morte di Arsinoe, sorella della celebre Cleopatra.

Le fonti riferiscono che morì per volontà di quest’ultima ed è risaputo che Efeso fu il luogo del suo seppellimento. Ed il suo corpo? Nessuna notizia pervenuta! Tentiamo di sbrogliare i fili di questa infelice storia, rincorrendola nei territori che ne costituirono il set. Mettiamoci alla ricerca del corpo perduto! Arsinoe e Cleopatra sono figlie di Tolomeo XII.

Cleopatra è insidiosa, affascinante, ammaliante per bellezza ed intelligenza; conquista Cesare, fatto visto come un tradimento da parte del popolo. Scoppia una guerra civile in cui sono coinvolte le due sorelle!

Arsinoe viene catturata e si ritrova imbarcata su una nave, diretta a Roma. E’poco più che una ragazza, a Cesare non conviene strangolarla davanti alla folla! Scampata alla morte, Arsinoe approda ad Efeso. Tra le sacre mura del tempio di Artemide, l’egizia gode del diritto di asilo; tuttavia, il destino le gioca contro! Dopo l’assassinio di Cesare e con il rafforzarsi del legame fra Antonio e Cleopatra, la sua vita è a rischio: Cleopatra, infatti, la vede come una possibile antagonista ed il suo sogno di eliminarla è rapidamente appagato. È il 41 a.C., quando Arsinoe incontra la morte per mano dei sicari di Antonio. Ad Efeso, nel corso d’indagini archeologiche all’interno di una tomba, vengono scoperte delle ossa: il sepolcro è imponente; le ossa vengono rimosse dall’acqua, fotografate, misurate e analizzate. In seguito, incomprensibilmente, mentre il resto del corpo viene ricollocato al suo posto, il cranio viene trasferito in Germania e lì sta, fintantoché non se ne perdono le orme per le devastazioni procurate dal secondo conflitto mondiale. Il sepolcro viene riaperto dopo quasi settant’anni, riportando di nuovo alla luce le ossa: è un corpo femminile, l’epoca a cui risale, indagata attraverso il carbonio 14, è compatibile con quella in cui Arsinoe visse; le fotografie e le misurazioni vengono adoperate per una ricostruzione tridimensionale del cranio, che mostra caratteristiche afro-caucasiche (testa allungata e naso somigliante a quello greco), conciliabili con quelle che dovevano essere proprio di Arsinoe. I programmi informatici, usati per le indagini forensi, ci restituiscono un volto che, probabilmente, è quello della sorella di Cleopatra.

Giusy Capone

Napoli è presenta Ultimi romantici, Claudio e Diana alla Casa dello Scugnizzo

Si terrà mercoledì 12 febbraio 2020 alle ore 17.30 presso la Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus, piazzetta San Gennaro a Materdei n. 3, Napoli, la presentazione del libro “Ultimi romantici. Claudio e Diana, trent’anni di Musica insieme”, organizzata dall’Associazione Culturale Napoli è, presieduta dal giornalista Giuseppe Desideri.
Il volume, scritto da Luigi Coppola, con la prefazione di Tony Esposito, vuole essere una piacevole chiacchierata con due importanti artisti italiani Claudio De Bartolomeis e Diana Ronca per scoprire i loro primi 30 anni di vita professionale e personale.
I due formano una coppia nella vita e nel lavoro. Claudio e Diana sono veri e propri ambasciatori della Posteggia Napoletana nel mondo. Un attento lavoro di ricerca ormai trentennale li ha portati a esprimersi musicalmente con i classici napoletani che portano in giro per l’Italia e fuori di essa “per dare ancora voce a versi classici così moderni da sentirseli propri, ogni volta, come se fosse la prima. La Bella Napoli è diventata per Diana e Claudio un’ossessione, un mantra da divulgare nella forma artistica a loro nota, la musica; lo fanno con il loro Cd “Napoli Era Ora” di Claudio e Diana & Compagnia Bella ricco di collaborazioni con alcuni tra i più importanti musicisti campani, con il loro spettacolo omonimo, nei teatri, scuole, piazze”.
A parlarne: Prof. Antonio Lanzaro, Presidente Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; dott.ssa Bianca Desideri, Giornalista – Vice Presidente Associazione Napoli è, Dott. Luigi Coppola, Giornalista – Autore del volume “Ultimi romantici” e i protagonisti dell’incontro Claudio De Bartolomeis e Diana Ronca.

1 52 53 54 55 56 81
seers cmp badge