I primi 50 anni di Led Zeppelin I

Cinquanta anni fa usciva il primo album della storica band capitanata dal virtuoso Jimmy Page: il debutto discografico dei “più maledetti del rock”.

Eppure, lo storico Led Zeppelin I, iconografico già dalla sua copertina, con l’Hindenburg in fiamme, un momento prima di schiantarsi al suolo, non ebbe il riconoscimento che, invece, gli diede la storia. “Difficile da interpretare”, questo il tiepido commento che dell’opera prima degli Zep fece Rolling Stone; non andò meglio tra gli illustri colleghi del gruppo, cioè Beatles e Rolling Stones, che stroncarono il disco, definito inascoltabile.

Led Zeppelin I nacque in fretta e furia, da un’esigenza insopprimibile di Page che aveva messo su quel suo nuovo gruppo in 6 mesi, dalle ceneri degli Yardbirds, e voleva partire subito con un tour che promuovesse la musica nuova che aveva in testa e che riusciva ad interpretare benissimo con i suoi nuovi compagni di viaggio: alla batteria il “picchiatore” John Bonham, alla voce l’“adone biondo” Robert Plant e, per tutto il resto, il “versatile polistrumentista” John Paul Jones.

Il disco vide la luce alla fine di quel tour fulmineo per farsi conoscere; era il 1969.

I Led Zeppelin chiudevano così, simbolicamente, gli anni ’60 e inauguravano la decade successiva che li avrebbe visti padroni assoluti del mondo.

Basta melensaggini, il volume saliva a livelli mai visti, il blues diventava lisergico nelle mani degli Zep, dilatandosi e mischiandosi a vecchie formule folk. Il tutto trasfigurato da quattro individualità imbattibili ognuna nel suo genere, come per poche altre band è mai successo.

Dal manifesto di Good Times Bad Times che apre l’album fino alla tarantolata How Many More Times è un susseguirsi di standard che trovano il loro acme in Dazed and Confused, cavalcata onirica che, come da titolo, stordisce e confonde l’ascoltatore, accompagnandolo agli inferi e facendolo poi ritornare di sopra, con delle accelerazioni che fino ad allora non si erano mai sentite e uno spropositato tempo di esecuzione di 28 minuti.

Il Dirigibile era partito. E nessuno l’avrebbe più fermato.

Rossella Marchese

 

Contro la Violenza sulle donne

Organizzato da Cinzia Del Giudice, Valentina Barberio, Anna Cigliano e Giorgio Cinquegrana, oggi, al Vomero, alle 10,30, nella Sala “Silvia Ruotolo” della Municipalità, convegno dal titolo “Violenza sulle donne: la rete territoriale e la costruzione di percorsi integrati”.
Copiosi gli interventi previsti, dal presidente della V Municipalità, Paolo De Luca, al direttore dell’Azienda Ospedaliera Cardarelli, Ciro Verdoliva, ad Elvira Reale, di Centro Dafne, Fiorella Palladino e Flora Verde, di Percorso Rosa, Simona Marino e Roberta Gaeta, del Comune di Napoli, il fondatore dell’associazione “Maschile Plurale”, Alberto Leiss, e, delle Forze dell’Ordine, il vice commissario Lidia Pastore ed i comandanti Luca Mercadante e Gaetano Frattini.

Sanremo 2019: Claudio Bisio e Virginia Raffaele conducono il Festival con Claudio Baglioni

Da Arisa a Nek, tutti i cantanti in gara

Le indiscrezioni circolavano ormai da tempo, ma sabato 5 gennaio è arrivata la conferma: saranno Claudio Bisio e Virginia Raffaele ad affiancare Claudio Baglioni nella conduzione del Festival di Sanremo 2019. Il 9 gennaio, Bisio e Raffaele hanno tenuto con Baglioni al Teatro Ariston la conferenza stampa di presentazione dell’evento. Lo scorso anno, ad affiancare il direttore artistico del Festival erano stati la showgirl Michelle Hunziker e l’attore Pierfrancesco Favino. Per Claudio Bisio e Virginia Raffaele non sarà la prima volta in assoluto sul palco dell’Ariston. Entrambi infatti sono stati invitati come ospiti in passato, la Raffaele anche durante l’edizione 2018.

Il Festival della canzone italiana andrà in onda, in prima serata, da martedì 5 febbraio a sabato 9 febbraio 2019. La kermesse verrà trasmessa, come sempre in diretta tv su Rai1 e in diretta radio su Rai Radio 2. Non è ancora stato precisato l’orario della messa in onda. Ogni anno però, anche a causa dell’alto numero di cantanti che devono esibirsi, Sanremo inizia sempre un po’ prima rispetto alle normali trasmissioni della sera.

Lo spettacolo di Sanremo non si ferma solo a quello che accade sul palco dell’Ariston. Subito dopo lo show, ogni anno c’è anche spazio per una cornice di puro divertimento e spensieratezza, utile a smorzare la tensione della kermesse musicale più importante d’Italia: il DopoFestival. Quest’anno, a condurlo sarà l’attore comico Rocco Papaleo.

Di seguito tutti i cantanti: Federica Carta e Shade – Senza farlo apposta, Patty Pravo e Briga – Un po’ come nella vita, Negrita – I ragazzi stanno bene, Daniele Silvestri – Argento vivo, Ex otago – Solo una canzone, Achille Lauro – RollsRoyce, Arisa – Mi sento bene, Francesco Renga – Aspetto che torni, Boomdabash – Per un milione, Enrico Nigiotti – Nonno Hollywood, Nino D’Angelo e Livio Cori – Un’altra luce, Paola Turci – L’ultimo ostacolo, Simone Cristicchi – Abbi cura di me, Zen Circus – L’amore è una dittatura, Anna Tatangelo – Le nostre anime di notte, Loredana Bertè – Cosa ti aspetti da me, Irama – La ragazza col cuore di latta, Ultimo – I tuoi particolari, Nek – Mi farò trovare pronto, Motta – Dov’è l’Italia, Il Volo – Musica che resta, Ghemon – Rose viola, Mahmood (vincitore di Sanremo Giovani 2018 – titolo da definire), Einar (vincitore di Sanremo Giovani 2018 – titolo da definire).

Nicola Massaro

 

 

 

Sassari, al via il premio “Gianni Massa”

A Sassari presentata alla stampa la prima edizione del Premio regionale sulla parità di genere e media “Gianni Massa”. La conferenza si è svolta nella mattinata dell’8 gennaio presso la sede della Fondazione di Sardegna in via Carlo Alberto. Al tavolo di presidenza ne hanno illustrati i contenuti, i promotori dell’iniziativa.

Mario Cabasino, presidente del Corecom (comitato regionale per le comunicazioni della Regione Autonoma Sardegna), ha introdotto le finalità del Premio dedicato ai temi della parità e della comunicazione in genere, articolato nelle tre sezioni Giornalismo, Università e Scuola.

Susi Ronchi, coordinatrice di Giulia giornaliste Sardegna, ha richiamato gli obiettivi della componente sarda di Giulia giornaliste (www.giulia.globalist-it), avviata il due maggio del 2017. Attualmente una realtà forte di cinquanta associate distribuite in tutti i territori dell’isola che ha stretto collaborazioni con gli organismi di categoria (Odg e Assostampa) e le istituzioni locali e culturali impegnate in una rappresentazione mediatica lontana dagli stereotipi e aderente alla realtà. Sono proprio il Corecom e Giulia giornaliste Sardegna ad aver ideato il premio intitolato all’autorevole Gianni Massa, innamorato della propria professione e punto di riferimento per tanti giovani avviati a questo particolare lavoro nel mondo dell’informazione.

Partner istituzionali che affiancano gli organizzatori nell’iniziativa, l’Università di Sassari, rappresentata in conferenza dal Rettore Massimo Carpinelli e dalla Fondazione di Sardegna con la vice presidente Angela Mameli.

Una rappresentazione importante del Premio “Gianni Massa” vive nello spettacolo “La conosci Giulia?”, una brillante pièce teatrale allestita con la produzione di Lucido Sottile e la regia di Tiziana Troja, presente in sala e autrice della drammaturgia insieme con Vito Biolchini.

La commedia ha registrato nelle due date cagliaritane al Teatro Massimo (ottobre e novembre 2018) il tutto esaurito con una lista di attesa di oltre duecento persone e il contributo in apertura di Maria Del Zoppo, Rettrice dell’Università di Cagliari.

La prosa scritta a più mani da undici giornaliste “Giulia” di Sardegna, affronta il complicato rapporto tra media, linguaggio e discriminazione di genere con un copione ricco di monologhi comici e drammatici. Strumenti per gli attori in ribalta decisivi a formare quella consapevolezza collettiva necessaria al diritto democratico della parità fra i generi.

“La conosci Giulia?” debutterà in prima assoluta a Sassari il prossimo dodici gennaio al teatro Verdi con inizio alle ore ventuno. Testimonial d’eccezione, scelta nell’unanime consenso dei promotori, sarà Daniela Scano, capo redattrice del quotidiano La Nuova Sardegna, storica firma del giornalismo sardo da sempre impegnata nei temi sociali, in prima linea nelle battaglie sulla tutela dei diritti civili e sull’uguaglianza dei generi.

La stessa giornalista ha offerto durante la conferenza una testimonianza diretta circa i suoi primi faticosi passi nella carriera giornalistica avviata come cronista presso la redazione di Nuoro.

Altri esponenti dell’informazione regionale, rappresentanti dell’Ordine dei Giornalisti (la vice presidente regionale Erika Pirina) e di Assostampa (Mario  Mossa) hanno contribuito all’articolazione della presentazione del Premio giornalistico in tutti i contenuti e modalità di adesione.

I premi per tutte le sezioni saranno attribuiti con una cerimonia dedicata il prossimo otto marzo da una giuria costituita dai Presidenti del Corecom, Ordine dei Giornalisti, dalla coordinatrice di Giulia giornaliste Sardegna o loro delegati, e dai rappresentanti delle Università di Cagliari e Sassari.

Il testo integrale del bando con la delibera della giuria sono reperibili sul sito istituzionale del Corecom Sardegna www.consregsardegna.it/corecom.

Napoli, nostalgia di una città immaginaria

“E tuttavia non posso dimenticare che Napoli è una città generosa. Se per solida consapevolezza o per qualche fragilità identitaria resta da capire, benché personalmente ritenga più credibile la seconda ipotesi.”  

Più che una dichiarazione d’amore l’analisi di Paolo Macry, racchiusa nel prologo al suo ultimo saggio, “Napoli. Nostalgia di domani”  (Il Mulino editore), consegna al lettore un compendio illuminante su un pianeta complesso e plurimillenario in perenne fermento.

Storico, docente universitario presso gli atenei di Salerno e Napoli (Istituto Universitario Orientale e Federico II), direttore del Centro studi per la storia comparata delle società rurali in età contemporanea, Macry ha contribuito in modo puntuale non solo sul versante accademico nell’esplorare gli aspetti più complessi attinenti la storia del Mezzogiorno italiano.

Questo lavoro di sintesi disegna un quadro esauriente di oltre duemilacinquecento anni di storia napoletana.  L’indagine svolta riesce con una prosa efficace a coniugare storia, cultura, stati d’animo d’intellettuali spesso contrastanti, smanie popolari apparentemente disimpegnate da una identità civica. Un dedalo di luoghi, conflitti spesso drammatici e intrisi di sangue e orrore che fanno il paio con altrettanti avvicendamenti di potere politico, straniero e dominante.

La “nostalgia di domani”, sottotitolo in copertina, non evoca un libro esclusiva dei napoletani in senso stretto. Il saggio illumina con dovizia storica un itinerario puntato “in uno di quei luoghi che ciascuno crede di conoscere anche se non li ha mai visti”. Proprio in questo principio cristallizzato da secoli di stereotipi o pregiudizi sulla capitale del Mezzogiorno, l’autore incide passaggi decisivi riportando alla luce notizie e vicende che tessono una tela composita, complessa che non riduce alcuna conclusione definitiva circa le prospettive future di un domani, intravisto oggi solo con nostalgia. In questa visione il saggio investe prospettive che coinvolgono la storia italiana nel suo insieme costruendo collegamenti antropologici utili a comprendere l’alternarsi delle fasi storiche politiche sino alla definizione di questa stagione contemporanea che risulta, dopo questa lettura, meno casuale e più comprensibile.

Lo sfondo storico è reso nitido nella narrazione dove s’innestano i comportamenti del popolo che, in una vulgata diffusa, sono stati quasi sempre percepiti come soccombenti e passivi rispetto al “sovrano di turno”.

Una cultura adeguatamente espressa dall’autore in quei “processi di gentifricazione”, protagonisti non secondari e riconoscibili in costumi antichi come il tufo delle vecchie mura cittadine. Uno stigma congenito il gioco del lotto, forte di un milione di giocate medie a fine Settecento con una popolazione di trecentocinquantamila abitanti.

L’itinerario storico attraversa le dinastie alternatesi passando per gli Angioini, i Borboni, sino alla nostra era contemporanea, avvalendosi anche di alcune affascinanti riproduzioni grafiche di archivio.

Dalla rivoluzione del 1799 sino ai moti del 1860 e alle Quattro giornate del Quarantatrè,

passando per l’accoglienza festosa riservata alle camicie rosse del Generale Garibaldi.   

Il tema del popolo suddito è declinato anche nel rapporto coni vari “sovrani repubblicani” che si alternano alla poltrona municipale di Palazzo San Giacomo.

L’iperbole monarchica, per certi versi irripetibile, del “Laurismo”, segna uno spartiacque nella crescita volumetrica e urbana della città, segnata dal dirigismo politico dell’armatore caudillo Achille Lauro. I profili dei sindaci successori, da Antonio Bassolino sino all’attuale Luigi De Magistris, risaltano lo sfondo di un consenso popolare apparentemente defilato e succube del governante di turno. Rispetto all’altra questione dirimente, il ruolo e i contributi della classe intellettuale, da Benedetto Croce sino a Roberto Saviano passando per Matilde Serao, Annamaria Ortese o Curzio Malaparte, il giudizio di Macry rimane neutro rispetto a posizioni diverse espresse nei confronti degli stessi autori, troppo spesso derubricati come denigratori o peggio.  Il “negazionismo identitario” è compensato in una napoletanità coinvolgente che accomuna ogni residente di qualsiasi origine nella città del golfo reale. Una cittadinanza che non è una confezione di superficie ma un paradigma che riunisce in una sorta di consapevolezza quotidiana l’intera comunità.

Una lettura illuminata della critica risulta quella di Piero Craveri pubblicata sulla Domenica del Sole 24 Ore dello scorso trenta dicembre.

Lo stesso ci ricorda la prima presentazione del libro a Napoli in programma nella mattinata del 5 gennaio alla Sala Assoli in vico Lungo Teatro Nuovo.

Con l’autore dialogherà Franco Moscato alla presenza del giornalista Rai Ettore De Lorenzo. Buona lettura.

Luigi Coppola

 

 

Scomparso il fotografo cinese Lu Guang

È dallo scorso 3 novembre che si sono perse le tracce del pluripremiato fotografo cinese Lu Guang.

A denunciarne la scomparsa, dagli Stati Uniti, è stata la moglie Xu Xiaoli.

Lu Guang è stato tre volte vincitore del premio fotografico World Press, vive a New York ma si occupa soprattutto di temi ambientali e sociali in Cina. Era stato invitato nello Xinjiang per una conferenza lo scorso ottobre, lì sarebbe stato fermato dalla polizia della regione e, secondo le pochissime indiscrezioni trapelate, lì detenuto per motivi di sicurezza.

Questa parte dell’estremo occidente della Cina è diventata tristemente famosa per la repressione e i programmi di de-radicalizzazione a cui sono stati sottoposti migliaia di cittadini della minoranza musulmana degli uiguri e non solo; i campi di re indottrinamento in cui sarebbero chiuse queste persone sono argomento top secret del governo cinese che impedisce qualsiasi filtro di notizie dal loro interno. Tuttavia, la severità del sistema di polizia del Xinjiang è conosciuta da tutta la comunità internazionale e da tutte le Organizzazioni per la tutela dei diritti umani; nelle sue maglie sono spesso finiti dissidenti e reporter intenti a documentare i problemi del Paese e Lu Guang è certamente un personaggio scomodo.

Lu Guang ha preso per la prima volta una macchina fotografica in mano nel 1980, quando lavorava come operaio nella sua città natale, nella regione cinese di Yongkang. Dieci anni dopo, si è iscritto all’Accademia delle Belle Arti dell’università di Tsinghua a Pechino; da allora ha fotografato i problemi sociali, sanitari e ambientali causati dall’industrializzazione nel suo Paese.

Le sue opere degli ultimi 25 anni sono state incentrate su temi delicati come l’AIDS, l’inquinamento e la povertà. Il fotografo è sempre stato consapevole che la sua attività lavorativa e a scopo umanitario lo esponessero a rischi nel suo Paese e, durante un’intervista, aveva dichiarato che proprio nel momento dell’apice del suo successo sarebbe stato maggiormente in pericolo se avesse continuato la sua attività di reportage dei problemi della Cina.

I suoi lavori, dalla serie di fotografie Il mio obiettivo non mente alla campagna per la lotta all’AIDS, gli hanno conferito ampia fama sia in patria che all’estero, così come lo hanno portato ad affrontare diversi scontri con le forze dell’ordine e le autorità cinesi.

In particolare, il reportage di Lu Guang sull’AIDS gli aveva causato uno scontro diretto con l’ufficio governativo della provincia dello Henan, allora guidato dall’attuale governatore del Xinjiang.

Che ci sia il rischio per Guang di rimanere vittima del proprio Paese, come è stato per Khashoggi, potrebbe attualmente essere un’ipotesi probabile ed inquietante. In altri casi, la pressione internazionale è riuscita ad evitare che detenuti scomparissero nel silenzio, per questo Il fotografo e videomaker Hugh Brownstone ha lanciato una petizione su Change.org.

Rossella Marchese

Il rap di denuncia che ha scosso la Thailandia

È stato un fenomeno che non ha precedenti quello della canzone di contestazione di un gruppo di rapper attivisti thailandesi che si fa chiamare “Rap Against Dictatorship”; il pezzo, “What my Country’s got”, ha colpito al cuore il regime militare di Bangkok che a seguito di un colpo di stato nel 2014, si è insediato nel Paese.

La sfida lanciata al governo è diretta. La canzone denuncia la rovente tensione sociale causata perlopiù dalle politiche repressive e dalle elezioni rinviate dopo il colpo di stato. Ma è una scena del videoclip in particolare a diventare simbolo di questa protesta. Si tratta della rielaborazione di un episodio tristemente emblematico nella storia della Thailandia: il linciaggio nell’ottobre del 1976 da parte della polizia e delle milizie di estrema destra di uno studente dell’Università Thammasat di Bangkok.

Le immagini di un corpo appeso ad un albero sono il simbolo di un Paese diviso in due.

Da un lato le proteste della gente nelle piazze, sempre più numerose, anche se caotiche e dominate da un senso di populismo troppo aspro, dall’altro l’élite accusata di essere corrotta, irresponsabile e poco trasparente, insomma, incapace di poter traghettare il Paese verso elezioni democratiche.

Questo sentimento antiregime così esplicito non era mai stato espresso prima ed è esploso con una forza incredibile, che ha oltrepassato i confini nazionali: oltre 50 milioni di visualizzazioni per un video fuori legge, girato e messo in rete in maniera rocambolesca, ma che in una settimana è diventato virale su web.

Le autorità hanno chiaramente reagito, minacciando con la reclusione fino a 5 anni, per vilipendio all’immagine del Paese e crimini informatici, chiunque avesse condiviso il video, ma, si sa, la rete è inarrestabile, tant’è che le intimidazioni non hanno fatto altro che rendere più popolare il video e, di conseguenza, il messaggio della canzone.

Così il regime ha deciso di cambiare totalmente registro, rispondendo con la produzione di altra canzone e altro video dai toni completamente differenti, un’apologia del governo in piena regola che mostra il progresso industriale e tecnologico della Thailandia degli ultimi anni, tra sorrisi e cieli azzurri.

Un tentativo mal riuscito, però, perché la canzone del governo non ha incontrato alcun favore da parte del pubblico, soprattutto delle giovani generazioni.

Tuttavia, da quando è esploso il caso di “What my Country’s Got” in Thailandia, dove sono ancora vietate le campagne politiche, nuovi raggruppamenti hanno ottenuto le autorizzazioni necessarie per potersi registrare come partiti ed è aumentato l’attivismo pro democrazia.

Questa canzone, dunque, potrebbe aver dato una scossa notevole al dissenso popolare che ormai serpeggia in Thailandia, anche se il processo di democratizzazione, pur se innescatosi, pare essere ancora saldamente nelle mani dei militari e l’ambiente delle future elezioni potrebbe essere da questi molto influenzato.

Rossella Marchese

La persecuzione degli africani “bianchi”

 Si tratta di una vera e propria mattanza quella che subiscono gli albini nel continente africano.

La tratta degli albini si concentra soprattutto nella fascia sub sahariana: cacciati come animali perché alcune parti del loro corpo vengono vendute e usate per compiere riti magici che si ritiene portino fortuna, ricchezza e salute; martirizzati ed emarginati dalle loro stesse comunità che in loro vedono solo un’anomalia da eliminare o oggetti preziosi da sfruttare.

All’origine di questo accanimento c’è un pericoloso cocktail d’ignoranza e superstizione. Numerose credenze popolari diffuse in varie zone dell’Africa, tra cui Malawi, Tanzania e Mozambico, vedono la nascita di un bambino bianco da una coppia di genitori neri come un segno divino da cui derivano una serie di conseguenze drammatiche. Il neonato, secondo un’interpretazione che varia a seconda delle regioni, viene considerato o un essere superiore o l’incarnazione di un demone. In entrambi i casi, il nuovo nato, è destinato ad una vita di persecuzione.

Ancora nel 2018 è questo il destino per molti albini.

Secondo un rapporto di Amnesty International, pubblicato lo scorso 13 giugno in occasione della Giornata Internazionale per l’Albinismo, contro ogni forma di discriminazione, in Malawi scompare un albino al mese, rapito e brutalizzato, spesso su commissione dei cosiddetti guaritori tradizionali che ne richiedono gambe, braccia capelli e ossa, per produrre pozioni magiche e portare fortuna ai clienti.

In realtà, in gran parte dell’Africa, ogni pezzo di un albino può valere molti soldi. Per questo il traffico umano che prende di mira bambini, adulti e anziani affetti dalla carenza di melanina nella pelle, non riesce ad essere estirpato. E persino da morti gli albini vengono presi di mira, i loro resti, infatti, vengono sistematicamente riesumati e razziati nei cimiteri.

Esiste un mercato nero che muove cifre da capogiro. In questo circuito commerciale le parti mutilate dei corpi delle persone albine vengono vendute per migliaia di dollari. Secondo la Croce Rossa, gli stregoni sono disposti a pagare addirittura 50mila dollari per un “set completo” di tutte le parti del corpo ritenute miracolose. Ed è per questo che in molti casi sono le stesse famiglie, soprattutto nei contesti rurali e più poveri, a consegnare le vittime nelle mani dei loro aguzzini in cambio di denaro.

Oltre al Malawi, i Paesi più esposti sono Tanzania, Mozambico e Zimbabwe. In Tanzania, ad esempio, si è cominciato a parlare con frequenza di questo drammatico fenomeno dal 2007, e ci sono numerose bande di criminali che alimentano il traffico di organi legato agli albini che stentano ad essere sventate. Stessa cosa succede in Mozambico, dove le persecuzioni contro gli albini non sono spesso neanche denunciate. In Zimbabwe, invece, è opinione diffusa che un uomo possa guarire dall’Aids facendo sesso con una donna albina. Questa diceria espone le donne albine a ripetute violenze sessuali e alla contrazione del virus.

Ad oggi nessun trafficante di questi esseri umani è mai stato fermato.

Rossella Marchese

Stilata la classifica delle migliori influencer del 2018 

 C’è anche la nostra italianissima Chiara Ferragni nella lista dei 10 migliori fashion influencer del 2018 che, fra la nascita del figlio ed il matrimonio in Sicilia, ha scalato molti posti in classifica. A stilare la Top10 delle influencer che hanno “influenzato maggiormente gli acquisti in questo 2018” è stata la piattaforma di ricerche di moda LYST, che ha usato come metodo di paragone Instagram, le ricerche sul web, i dati di vendita ed i post sui social. Fra le 10 migliori influencer dell’anno solo una effettivamente fa questo di mestiere, Chiara Ferragni, tutte le altre che hanno “influenzato gli acquisti” sono popstar, attrici, sportive ed anche delle esponenti della Royal Family. Al decimo posto c’è Ariana Grande, che ha generato una mole enorme di ricerche per un capo di abbigliamento in particolare, la felpa oversize: nel 2018 ha visto un aumento di click pari al 130%. Al nono posto c’è un’altra cantante, Rihanna, in classifica per la sua linea di cosmetici Fenty Beauty e per la linea di intimo Savage X Fenty.

All’ottavo posto c’è Blake Lively, in classifica grazie ai look sfoggiati durante il tour promozionale del film A Simple Favor, seguita da Chiara Ferragni che è stata menzionata grazie al suo abito da sposa: le ricerche di quel brand sono aumentate del 109%.

Al sesto posto c’è la tennista Serena Williams per la sua linea di moda ed al quinto la pop star Beyoncé per il video Apeshit, mentre al quarto posto c’è la rapper Cardi B grazie ai suoi look sfoggiati durante la settimana della moda di New York, tutti copiatissimi.

Sul terzo gradino del podio si trova Meghan Markle, considerata un vero ciclone mediatico, visto che ogni vestito da lei indossato fa boom di vendite e nell’arco di appena una settimana le ricerche del brand schizzano  fino al 200%. Secondo posto per Kim Kardashian, che ha ricevuto l’Influencer Award assegnato dal Council of Fashion Designers of America.

Al numero uno c’è Kylie Jenner che collabora con i brand più famosi al mondo, vanta due milioni di ricerche nel 2018 collegate al suo nome ed anche una copertina di Forbes secondo cui potrebbe diventare la miliardaria americana più giovane dai tempi di Mark Zuckerberg.

Nicola Massaro

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