La “questione Rohingya”, donne utilizzate come arma di guerra

I sistematici soprusi sopportati dalla minoranza etnica Rohingya si perdono nelle nebbie polverose della storia, tant’è che forse l’inizio della spinosa questione può farsi retroagire a  quando lo Stato di Rakhine, dove i Rohingya vivono da secoli, fu conquistato e annesso al Myanmar nel 1784, diventando prima  dominio dell’impero britannico e rimanendo, poi, parte dell’allora Birmania dopo l’indipendenza del 1948. E pure le origini del popolo Rohingya  sono piuttosto incerte così che la teoria più accreditata, di paternità birmana, li vuole discendenti di un gruppo di mercanti musulmani originari dell’allora Bengala emigrati in loco durante il periodo coloniale e, pertanto, sostanzialmente, stranieri senza possibilità di integrazione.

Sulla fragile base di questa presunta estraneità della popolazione Rohingya al territorio birmano si poggia da sempre la politica del governo di Naypyidaw, oggi guidato dal Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi: mai riconosciuti cittadini birmani, i Rohingya sono stati confinati in Rakhine, non fanno parte dei 135 gruppi etnici che vivono all’interno del paese e sono soggetti di campagne persecutorie dal carattere di pulizia etnica, con moschee distrutte, terre confiscate, stupri etnici e omicidi di massa; tutto ciò ha costretto la popolazione ad abbandonare il paese e rifugiarsi all’estero, per lo più in Bangladesh, già dalla fine degli anni Settanta.

Ed è proprio in Bangladesh, nella inumana miseria degli sconfinati e fangosi campi profughi, che Onu ed alcune associazioni umanitarie, tra cui Amnesty International, dal 2011 raccolgono le testimonianze delle donne musulmane rohingya, vittime delle violenze sistematiche da parte dell’esercito buddista birmano. Ultimo, solo in ordine di tempo, il rapporto di novembre della Associated Press, che ha dato voce a 29 donne e ragazzine tra i 13 ed i 55 anni, tutte scampate non senza danno, alla rappresaglia posta in atto dal governo birmano dopo l’attacco ad un posto di blocco dell’esercito, lo scorso ottobre, da parte del gruppo estremista jihadista locale Arsa.

Quei racconti dell’orrore parlano di stupri di gruppo, ripetuti sistematicamente più volte tra ufficiali e soldati semplici, di percosse fino alla morte su donne incinte e di esposizione dei poveri corpi vituperati e dati alle fiamme come monito nei villaggi di Rakhine dove, ormai da mesi, è impossibile entrare sia per le organizzazioni umanitarie che per i media.

Le parole di queste sopravvissute sono tutto ciò di cui la Comunità Internazionale ha bisogno per fare pressione ed esigere spiegazioni da Naypyidaw  e, affinché la campagna di violenze contro le donne e più in generale contro la minoranza Rohingya possa condurre al riconoscimento di crimine contro l’umanità.

Rossella Marchese

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