Riforme fiscali Usa e EU

Molti si chiedono se la riforma fiscale di Trump avrà conseguenze anche in Europa. Diverse sono le misure che l’UE potrebbe adottare per mitigare/annullare il vantaggio competitivo USA, fatto che genererà di certo la concorrenza fiscale fra i Paesi.

La riforma fiscale americana prevede la deducibilità immediata, non in più periodi d’imposta, del costo di determinati beni strumentali per i prossimi cinque anni, con l’effetto di escludere da tassazione il rendimento normale del capitale investito; un’altra disposizione introduce anche un regime agevolativo di tassazione (il cosiddetto patent box) per i redditi derivanti dall’utilizzo di beni immateriali, al 13,125%. Conseguenza di questo è che la deduzione immediata dei componenti negativi di reddito può attrarre investimenti esteri in immobilizzazioni materiali negli Usa; d’altro canto, il patent box può incoraggiare lo spostamento dei profitti derivanti dallo sfruttamento delle opere di ingegno negli Stati Uniti. Ambedue le suddette disposizioni possono preoccupare i principali Paesi dell’UE, per la eventuale perdita di posti di lavoro e di gettito fiscale. A questo, una possibile reazione potrebbe essere un allineamento al ribasso, l’adozione di regole simili. Per esempio, il Regno Unito ha già annunciato la riduzione dell’aliquota dell’imposta sulle società dall’attuale 19 al 17 per cento entro l’aprile del 2020 e il patent box al 10 per cento.

Alcuni partner commerciali degli Stati Uniti, come Francia, Germania e Italia, potrebbero applicare la disciplina delle Controlled Foreign Companies alle controllate estere domiciliate negli Stati Uniti. Il regime statunitense prevede un sussidio (aliquota del 13,125 invece del 21%) che è direttamente legato al reddito dalle esportazioni ed è quindi incompatibile con le disposizioni dell’Organizzazione mondiale del commercio in materia di sussidi vincolati alle esportazioni. Come già avvenuto in passato, la UE impugnerà tali disposizioni in seno all’Omc e, probabilmente, vincerà. Di conseguenza, sotto la minaccia di sanzioni, gli Stati Uniti saranno costretti ad abbandonare il patent box e si inasprirà l’attuale livello di concorrenza fiscale internazionale, producendo il rimpatrio degli utili delle controllate estere esentasse delle multinazionali Usa, per spostarli in paesi con un’aliquota inferiore al 21%. A tutto questo potrebbe seguire un incentivo a localizzare investimenti e lavoro nei Paesi europei a bassa tassazione.

Danilo Turco

Migranti e lavoro

Negli ultimi anni si sta riaccendendo il dibattito sugli effetti sul mercato del lavoro che i flussi migratori incontrollati producono. Dibattito che si svolge soprattutto in Italia. Gli studi sono diversi, alcuni evidenziano altri no, differenze significative tra immigrati e nativi e sulla effettiva “pericolosità” degli immigrati per l’occupazione dei cittadini residenti. A riguardo un caso particolarmente interessante preso in esame è rappresentato in Italia dagli immigrati albanesi che, per la loro marcata specializzazione settoriale (settori edile e manifatturiero), assorbono oltre il 46 per cento della manodopera (contro il 26 per cento degli Italiani). Inoltre, la comunità albanese, più giovane di quella italiana (età media di 36 anni, contro i 42 anni  dell’altra), ha anche un basso livello di istruzione, mentre quasi un quarto degli Italiani ha una formazione universitaria.

Le statistiche sembrano però mostrare che, anche a parità di caratteristiche come l’età o il settore, l’ultima crisi economica abbia colpito di più gli immigrati albanesi degli italiani. Ci si chiede allora: si tratta di “discriminazione etnica” per gli immigrati albanesi nel mercato del lavoro italiano? L’analisi dei risultati relativi nel mercato del lavoro (ISTAT) mostra che, rispetto ai nativi, gli immigrati albanesi registrano una probabilità di occupazione di quasi 5 punti percentuali più bassa rispetto agli italiani e il divario è significativamente aumentato negli anni dal 2012 al 2014. A riguardo si è osservato che l’aumento del differenziale nel tasso di occupazione tra Albanesi e Italiani negli anni della crisi dipende dalle differenze nelle caratteristiche socio-demografiche osservabili nei dati (genere, coorte, età, livello di istruzione e regione), che hanno reso gli Albanesi più vulnerabili alla crisi rispetto ai lavoratori italiani. In conclusione si può considerare che lo status di immigrato albanese in sé non è stato causa penalizzante per l’inserimento nel mercato del lavoro italiano negli anni della crisi, secondo una equa interpretazione di quanto sia stato riportato nell’ultimo Rapporto annuale sulla presenza dei migranti, del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, che nel 2015 evidenzia per gli Albanesi un tasso di occupazione del 51 per cento, un valore inferiore a quello rilevato per tutti i gruppi studiati nel rapporto, e un tasso di disoccupazione relativamente alto (22,7%).

Danilo Turco

Istruzione e disuguaglianze

Il rapporto della Commissione europea “Education and Training Monitor 2017” esamina la posizione dei diversi paesi membri rispetto agli obiettivi di Europa 2020 su istruzione e formazione (ET2020). Quest’anno l’attenzione si è focalizzata sulla diseguaglianza nell’istruzione.   Anche se molti Paesi europei fanno progressi su alcuni importanti indicatori come l’abbandono scolastico, la riduzione della diseguaglianza non sembra realizzarsi concretamente,  ma solo formalmente. Questo si riscontra osservando la quota di alunni che non raggiungono il livello di base nel test Pisa in lettura, matematica o scienze. Tale test è riconosciuto necessario per misurare un adeguato inserimento sociale e culturale delle giovani generazioni. I dati rilevano che la maggior parte degli Stati membri ha registrato tassi di successo più bassi nel 2015 rispetto al 2012. La media UE relativa alla percentuale di studenti con risultati bassi nella lettura è cresciuta dal 17,8 nel 2012 al 19,7 nel 2015, annullando i progressi realizzati dal 2009. Per quanto riguarda l’Italia, dopo i miglioramenti ottenuti tra il 2006 e il 2009, nel 2015 si ha un aumento rispetto al 2012 nella percentuale di studenti con punteggi scarsi in scienze e lettura. Tutto questo si concentra tra le famiglie con background socio-economico più svantaggiato: in media nella UE il 33,8 per cento di questi alunni si colloca nel quartile più basso dell’indicatore di status socio-economico e culturale (Escs), mentre solo il 7,6 per cento appartiene al quartile più alto, con uno spread di 26,2 punti percentuali e per l’Italia, è di circa 27 punti percentuali.

Le disuguaglianze di reddito e di benessere generano queste differenze e quindi si apre un’importante questione di giustizia sociale. Ancora oggi, nonostante la scuola di massa diffusa nei diversi Paesi europei e nel mondo occidentale, solo le famiglie benestanti fanno grandi sforzi per aiutare i propri figli a sviluppare abilità cognitive e non cognitive, scegliendo le scuole migliori, assistendoli nello svolgimento dei compiti, pagando lezioni di recupero o vacanze studio (shadow education). Tutto questo implica la necessità che vengano effettuati importanti investimenti in istruzione in favore dei bambini con differente background socio-economico familiare. Infatti, i suddetti sforzi, insieme alla rete di conoscenze familiari, consentono a chi ha un background più vantaggioso, a parità di capacità, di giungere anche da adulto posizioni migliori sul mercato del lavoro, rispetto a chi proviene da una condizione più povera. Ovunque i genitori fanno del proprio meglio per aiutare i figli, ma poiché non tutti hanno le stesse possibilità, le politiche pubbliche dovrebbero cercare di compensare i bambini con background peggiore. Oggi, molto resta ancora da fare per migliorare la qualità delle scuole nelle aree più svantaggiate, incentivando anche i docenti professionalmente migliori a prestare in queste scuole la loro attività, agendo in favore dei meno fortunati.

Danilo Turco

Nigeria, tra petrolio e Boko Haram si muove la prima economia africana

I World Development Indicators della Banca Mondiale relativi alla Repubblica Federale della Nigeria certificano come con i suoi circa 180 milioni di abitanti essa sia lo Stato più popoloso del continente e, a partire dal 2014, a seguito della revisione del metodo di calcolo del PIL, ormai anche la prima economia superando il Sudafrica.

Una terra ricca di materie prime e realtà tra le più privilegiate in un continente, però, spesso vittima della maledizione delle risorse. La rapida industrializzazione e l’urbanizzazione realizzata negli ultimi decenni è stata garantita e finanziata principalmente dal petrolio, che rappresenta oltre i 2/3 delle entrate dello Stato, e dall’afflusso di investimenti diretti esteri. La scoperta dell’oro nero nel 1956 da parte di Shell nello stato di Bayelsa ha reso il Delta del Niger un’area strategica a livello globale, e la città di Port Harcourt il principale hub petrolifero del Paese. Mentre solo recentemente è stato annunciato l’avvio dell’estrazione di petrolio anche al largo della capitale economica nigeriana Lagos, megalopoli da oltre 16 milioni di abitanti e settima città al mondo per velocità di crescita demografica. Di rilievo è anche l’estrazione di gas naturale, di cui la Nigeria possiede i più ricchi giacimenti del continente.

Eppure le difficoltà dovute ai sabotaggi agli impianti petroliferi  e la minaccia intermittente di Boko Haram a nord del Paese, ne fanno una realtà economica ancora poco stabile.

L’Italia, però, è da anni tra i sostenitori della necessità di rafforzare le relazioni con il continente africano. In questo quadro la Nigeria rappresenta un interlocutore imprescindibile e l’azione diplomatica del governo italiano negli ultimi anni in Africa lo ha dimostrato.

Dal 2014, infatti, l’attività diplomatica italiana nel continente africano è stata intensa, con missioni in Angola, Mozambico, Congo-Brazaville, Kenya ed Etiopia. Mentre nel febbraio del 2016 la terza missione africana del governo è partita proprio da Abuja per fare tappa successivamente in Ghana e Senegal.

Questa nuova attenzione per l’Africa da parte dell’Italia risponde alla convinzione strategica che per il nostro Paese è di fondamentale importanza rafforzare la cooperazione economica e politica non solo con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, storicamente e culturalmente a noi più vicini, ma anche in quell’Africa Sub-Sahariana ricca di opportunità quanto di contraddizioni. Anche per far fronte a nuove ed incisive politiche migratorie.

I settori di interesse sono molteplici non solo nell’ottica dello sviluppo del know-how e dell’industria locale e nell’ammodernamento e ricostruzione delle infrastrutture (idrocarburi, industria estrattiva, meccanizzazione agricola, costruzioni, infrastrutture, servizi portuali e ingegneristica), ma opportunità interessanti esistono per l’esportazione di beni di consumo (arredamento, agroalimentare, abbigliamento) e di lusso. L’obiettivo è intercettare i tanti ricchi nigeriani. Basti pensare che in una città come Lagos, secondo le stime di un recente studio di SACE e ISPI, sono circa 10.000 i milionari che possono permettersi tutte le eccellenze del Made in Italy.

La sfida, in Nigeria così come in tutto il continente africano, passa dalla capacità di convertire un “boom economico” decennale, garantito dal super ciclo delle commodities e dai prezzi del petrolio lontani anni luce da quelli attuali, in una traiettoria di crescita di lungo termine sostenibile che ne dispieghi appieno il potenziale, dando a queste realtà i mezzi per affrontare un futuro sempre più complesso. Una sfida difficile ma indubbiamente giusta.

E l’Italia in questa sfida può, vuole e deve avere un ruolo.

Rossella Marchese

La tragedia dimenticata di Cap Arcona

Tra gli episodi più truci della Seconda Guerra Mondiale, quello della Cap Arcona è certamente uno dei più drammatici, nonché, forse, il meno conosciuto. Un disastro navale che ha fatto cinque volte più vittime del naufragio del Titanic, uno dei più incredibili casi di fuoco amico della storia. Il nome Cap Arcona è legato a molti, tristissimi record, ma è ancora una delle tragedie meno conosciute della storia del Novecento; si tratta di una vicenda controversa, per molti aspetti ancora oscura e destinata a lungo a rimanere tale, perché imbarazzante per tutte le parti in gioco.

Cap Arcona era una nave di lusso, disegnata per attraversare gli oceani, costruita nei cantieri di Amburgo alla fine degli anni Venti con le tecnologie ingegneristiche più moderne del tempo. Ma la sua storia inizia sulla terraferma, in mezzo alle baracche e alle fabbriche di mattoni di Neuengamme, il più grande lager della Germania settentrionale. Secondo recenti stime passarono dentro i suoi reticolati oltre 100mila persone: prigionieri politici ebrei, cristiani e comunisti, artisti e intellettuali, “devianti” di ogni tipo, secondo le classificazioni della folle ideologia nazista, provenienti dalla Germania, dal Belgio, dalla Francia, dalla Polonia.

Morirono in 60mila, decimati da lavori forzati, epidemie di tifo, esecuzioni arbitrarie, esperimenti medici a base di batteri della tubercolosi. Per molti sopravvissuti al lager, però, la fine fu solo rimandata.

Poco prima della fine della guerra, il 3 maggio 1945, più di 7mila deportati morirono sotto il tiro incrociato della Royal Air Force e delle truppe tedesche, nell’affondamento del piroscafo Cap Arcona e delle altre navi-prigione ormeggiate al largo della baia di Lubecca dove si trovavano rinchiusi. Il giorno successivo, il 4 maggio 1945, le truppe inglesi entrarono nel campo di concentramento di Neuengamme, trovandolo completamente vuoto.

Cosa era successo nel frattempo? A bordo di quella che fu costruita per essere la perla della flotta tedesca, c’erano migliaia di prigionieri sfollati da Neuengamme, stipati sulla nave senza cibo né acqua. Probabilmente l’intenzione era quella di affondare la Cap Arcona e altre due navi  portate appositamente nella baia di Lubecca in modo da eliminare le tracce dei crimini commessi nei campi di concentramento. Durante l’imbarco gli uomini delle SS chiusero tutte le possibili vie di fuga e bloccarono le scialuppe di salvataggio. Un particolare che viene interpretato dagli storici come l’indizio dell’intenzione di affondare la nave tramite un’esplosione. Furono bloccate le paratie antincendio e la nave venne provvista di una quantità moderata di carburante, il minimo necessario per il suo ultimo viaggio. Migliaia di deportati morirono nel rogo del piroscafo o annegati nelle acque del Baltico; tra chi riuscì a raggiungere la terraferma, molti furono raggiunti e uccisi dalle truppe tedesche.

La Croce rossa svizzera informò le truppe di terra alleate dell’esistenza delle navi e del tipo di carico da esse trasportato, ma l’informazione non arrivò ai piloti della Royal Air Force che, durante i voli di ricognizione, non riconobbero nei passeggeri dei prigionieri.

L’intera triste vicenda della Cap Arcona è stata di recente ricostruita in un bel libro, ricco di testimonianze e documenti autentici dell’epoca, a cura degli storici Pierre Vallaud e Mathilde Aycard: Le dernier camp de la mort. La tragédie du Cap Arcona.

Una pietra, almeno, a futura memoria.

Rossella Marchese

Moby Prince: l’intera ricostruzione nella relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta

La sera del 10 aprile 1991, nel porto di Livorno, mentre si consumava una strage a bordo del traghetto Moby Prince, non c’era nebbia. Questa è l’ultima dichiarazione rilasciata da Guido Frilli davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta, istituita nel 2015 proprio per fare luce sull’incidente accaduto 26 anni fa, quando per colpa della collisione tra la  petroliera Agip Abruzzo ed il traghetto Moby Prince morirono 140 persone.

Le parole di Frilli, testimone della tragedia, che quel 10 aprile dalla sua abitazione assistette all’accaduto, non sono mai cambiate in tutto questo tempo: egli ha sempre dichiarato che non v’era nebbia quella sera in rada che poteva impedire la visuale alla petroliera. Un particolare non da poco, dato che proprio sulla persistenza di una densa foschia si sono basate le giustificazioni di chi non ha soccorso tempestivamente i passeggeri a bordo del traghetto. Eppure la sua testimonianza non è mai entrata a far parte del fascicolo giudiziario.

Pertanto la Commissione parlamentare, costituita ad hoc e presieduta dall’esponente PD Silvio Lai, potrebbe fornire una chiave importante nella riapertura del caso in Tribunale, dopo due  processi che hanno visto tutti i possibili responsabili assolti.

La relazione della Commissione, approvata lo scorso dicembre all’unanimità, sarà presentata nel corso del mese di gennaio in un incontro con i famigliari delle vittime, al quale seguirà una conferenza stampa.

Dunque, è auspicabile che grazie al lavoro della Commissione le cause della tragedia saranno a tutti più chiare, soprattutto ai parenti delle vittime, che dopo 26 anni ancora aspettano di capire quale sia la verità e cosa sia realmente accaduto quella notte che ha fatto ritardare i soccorsi così a lungo da procurare tante vittime. Due, in particolare, i fatti che potrebbero essere reinterpretati: la disattenzione dell’equipaggio della Moby Prince, che sarebbe stata causata proprio dalla nebbia che invece pare non ci fosse; e la durata dell’incendio, che secondo quanto appurato in seguito all’audizione di circa 72 testimoni, avrebbe consumato la nave per ore e non in soli 20 minuti, come hanno concluso le due sentenze che nel corso degli anni hanno chiuso il caso senza colpevoli.

Rossella Marchese

L’onda di ghiaccio

L’eccezionale freddo polare che ha colpito la costa atlantica degli Stati Uniti nei giorni scorsi  ha davvero dell’incredibile. Mai si erano sentite temperature del genere a New York e le copiose nevicate dei primi giorni dell’anno trovano precedenti nei lontani anni Cinquanta.

Tuttavia, in mezzo a tanta apocalisse climatica non sono mancati fenomeni straordinari e suggestivi legati al così detto “polar vortex”. Tra tutti, le onde ghiacciate di Nantucket.

Certamente il nome del luogo rievoca avventure marinaresche leggendarie, come baleniere a caccia di bianchi cetacei..ed è proprio così; ma Nantucket non è famosa soltanto per essere stata il punto di imbarco più importante di tutti gli Stati Uniti nell’Ottocento segnato dalla caccia alle balene, né soltanto per essere stata parte dell’ambientazione di Moby Dick, Nantucket è famosa per le sue onde di ghiaccio.

Le chiamano “slurpee” e sono un fenomeno naturale e rarissimo dovuto alla cristallizzazione dell’acqua salata a causa della temperatura esterna di molto sotto lo zero.

A differenza delle grandi onde di ghiaccio comparse negli inverni scorsi, fra il Canada, l’Alaska e le coste della Siberia orientale, dove si sono generati dei veri e propri muri di ghiaccio alti fino a più di 4-5 metri, in questo caso il fenomeno non assume dimensioni talmente significative da arrecare danni a cose e persone, eppure, su queste onde congelate recentemente si è acceso un interessante dibattito scientifico. Molti glaciologi sostengono che non basta una temperatura estremamente bassa, sotto il punto di congelamento, per fare congelare le onde e, in effetti,  sembrerebbe più logico pensare che le onde rompano il ghiaccio marino, piuttosto che sia questo a congelare le onde. Tuttavia, nella formazione di questo fenomeno larga parte è da attribuire all’azione dei venti.

Le onde ghiacciate sono destinate a durare pochissimo per il continuo movimento subacqueo, così il surfista e fotografo Jonathan Nimerfroh ha potuto immortalarle per sole 3 ore in una serie di immagini e video divenuti subito virali sulla rete.

Già nel 2015, e prima ancora nel 2012, le onde ghiacciate si erano formate sulle coste di Nantucket, e già allora Nimerfroh per primo le aveva fotografate, rendendole un simbolo per la città.

Rossella Marchese

Flussi di visitatori nei musei e comportamento umano

 Quanto tempo occorre per visitare il museo più grande del mondo? Nel famoso film di Jean Luc Godard, Bande à part, i tre protagonisti attraversano il Louvre in 9 minuti e 43 secondi, all’epoca la visita più veloce mai effettuata, come ci informa la voce narrante. Quella corsa ha ispirato nel tempo numerosi imitatori, tanto che nel 2010 l’artista svizzero Beat Lippert ha battuto il precedente record in una performance di attraversamento del Louvre in 9 minuti e 14 secondi. Ma se Lippert corresse oggi il suo risultato potrebbe essere certificato da un recente esperimento recentemente portato a termine all’interno dello stesso Louvre. Utilizzando tecnologie innovative per monitorare i segnali Bluetooth e wifi provenienti dai telefoni cellulari, un gruppo di ricercatori ha mappato il flusso di visitatori del museo, analizzando l’esplorazione delle gallerie, i percorsi compiuti e il tempo trascorso di fronte ad ogni singola opera.

I risultati di questa indagine hanno rivelato particolari interessanti: la capacità di attrazione di un determinato spazio aumenta con l‘aumentare delle persone che stanno cercando di entrarvi; ed è proprio questo tratto distintivo della psicologia umana che può essere misurato in modo quantitativo e che ha ispirato i ricercatori di questo progetto. Si tratta, cioè, di un vecchio sogno dell’urbanistica moderna che punta alla massima funzionalità degli ambienti urbani studiando il flusso delle persone.

Dunque, domani, grazie ai dati sul comportamento delle persone in ambienti specifici (come il museo del Louvre), l’ambiente  costruito potrà adattarsi meglio alle abitudini delle persone che lo vivono, dando vita ad un’architettura flessibile, dinamica e modellata sulla vita che si svolge al suo interno.

Alcuni settori produttivi stanno già esplorando opportunità di questo tipo. Diversi gruppi bancari, ad esempio, stanno riducendo la propria presenza sul territorio, a seguito di una massiccia digitalizzazione dei servizi finanziari; per loro conoscere i livelli di occupazione degli edifici o le dinamiche degli spostamenti urbani può consentire un impiego più efficiente del patrimonio immobiliare.

Insomma, se messa in pratica correttamente, l’analisi dei flussi umani all’interno degli edifici e delle città promette di rivoluzionare l’approccio all’ambiente costruito. Nei prossimi anni i dati quantitativi raccolti consentiranno ai progettisti di capire come gli utenti usano lo spazio, e come quest’ultimo permette di rispondere al meglio alle esigenze degli utenti.

Rossella Marchese

La Napoli Velata di Ferzan Ozpetek nelle sale italiane

Alcuni parlano di come anche Ozpetek, ultimo solo in ordine di tempo, si sia lasciato contagiare dalla”napolimania” che sembra riguardare un po’ tutti: attori, registi, produttori, politici e grandi griffe.

La sua Napoli Velata, in questi giorni nelle sale cinematografiche, è la storia di una passione travolgente che incrocia un delitto inspiegabile e affonda le sue radici nella superstizione, nella leggenda e nel mistero. Insomma, pare che gli ingredienti per un noir d’effetto siano stati tutti onorati.

In aggiunta a ciò, l’occhio della macchina da presa indugia sui luoghi suggestivi della città, regalando allo spettatore tanta altra “grande bellezza” e, proprio come un gran tour, un po’ decadente un po’ cliché, ecco Cappella Sansevero, la Certosa di San Martino, i palazzi dei signori, la farmacia degli Incurabili e pure la metropolitana più bella del mondo.

Anche nel film di Ozpetek il richiamo della città è forte, come era forte quello della Roma matrona ed opulenta di Sorrentino, eppure, mentre Jep Gambardella (Tony Servillo) si perdeva beato nel suo viaggio in una città visionaria e quasi rassicurante, Adriana (Giovanna Mezzogiorno), medico legale e protagonista del film di Ozpetek, corre spaventata e in cerca di risposte in una Napoli che fa paura perché incomprensibile.

Luce ed ombra, la cadenza binaria dell’opera di Ozpetek è tutta qui. Come per la città; troppa storia, tanta arte, ma anche tante leggende e tanti miti ed un folklore talmente radicato da considerarsi parte della vita quotidiana.

Nessun richiamo letterario per la sceneggiatura di Napoli Velata, niente che possa far pensare a qualcosa nello stile Izzò-Marsiglia, bensì soltanto un racconto narrato dallo stesso Ozpetek alla base del soggetto del film: dopo un incontro avvenuto ad una cena, il regista si era intrattenuto a parlare con una ragazza, da lui definita molto interessante e molto sensuale, che a fine serata se ne era andata rivelando di essere un medico legale; sorpreso di quel contrasto così netto tra quella personalità così seduttiva e un lavoro così freddo, iniziò a costruire questa storia, meditando sul soggetto per dieci anni.

La colonna sonora del film è interamente curata dal compositore partenopeo Pasquale Catalano e vanta la presenza di Vasame, la canzone di Enzo Gragnaniello, interpretata per l’occasione da Arisa in lingua napoletana.

Rossella Marchese

Possibili cure per i francobolli macchiati

Ci siamo lasciati a fine 2017 tentando di capire come poter smacchiare quei francobolli colpiti dalle “muffe”. Le virgolette sono opportune perché racchiudono nella parola muffa tutta una gamma di alterazioni della carta dovuta a tutta una serie di microrganismi. Il tentativo principe per smacchiarli è quello di immergerli in un recipiente con una piccola quantità di acqua e versare nella stessa qualche goccia di varechina, candeggina o acqua ossigenata, ripeto “cum grano salis”. Se la muffa non ha intaccato in modo sostanziale la carta, la macchia tenterà di sparire e come tutte le malattie prese in tempo guarirà.

È opportuno sapere che l’acqua ossigenata sempre a gocce, una o due, può essere usata anche sul retro del francobollo, con questo sistema le macchie o alcuni tipi di macchie tenderanno a sparire.

Per completezza va ricordato che non tutte sono dovute alla muffa, altre vengono definite di “ruggine” e sono quelle dovute a fenomeni chimici, tra cui l’ossidazione della carta, o, in altri casi, da un insediamento di microrganismi che in conseguenza del loro stesso metabolismo producono sostanze complesse che a loro volta danno vita ad organismi ancora più complessi che nella maturazione, come spesso succede anche nel nostro mondo, assumono colorazioni sempre più intense e più marcate e l’ossidazione poi crea una gamma di colori dalla quale si può evincere anche lo stato di conservazione della carta.

Le colorazioni vanno dal rosa pallido al rosso purpureo, per arrivare poi a quel rosso mattone da noi definito “rosso ruggine”.

Va detto che un’altra concausa per l’accelerazione di questa colorazione è determinata da un altro aspetto che è quello relativo allo stato di umidità presente nell’aria dove sono conservati i francobolli. Per questo motivo, va anche detto che una particolare attenzione va posta da coloro che abitano in zone vicino al mare, ai laghi ed anche vicino ai corsi d’acqua dove l’umidità è spesso più che presente.

I collezionisti in queste condizioni climatiche devono porre molta cura alle loro collezioni facendole tra l’altro arieggiare e tenendole il più possibile aperte, come si può dire “godute e fatte godere” e non essere, come spesso avviene, chiuse in armadi o ancor di più in casseforti senza né luce né aria.

Altro consiglio è quello di controllare anche i classificatori, buona regola sarebbe quella di utilizzare classificatori nuovi per i francobolli nuovi ed usati per quelli usati, ciò consentirebbe di evitare che microrganismi annidati su “carta vecchia” possano essere trasportati da un contenitore all’altro.

Salvatore Adinolfi

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