Samantha Colombo: Polvere e cenere

Samantha Colombo ha studiato etnomusicologia e lavora tra editoria, musica e comunicazione. È appassionata di letteratura inglese e americana, espressionismo tedesco e avanguardie russe. Ha scritto racconti in numerose antologie collettive. “Polvere e cenere” è il suo primo romanzo.
“Polvere e cenere” ha, evidentemente, richiesto ricerche storiche accurate e meticolose. Quale metodo si è imposta di adottare per trattenere le informazioni e, poi, renderle narrativa?
La ricerca storica è stata, per me, la fase più coinvolgente nella stesura del romanzo. Dopo aver abbozzato la trama, ho deciso di inserire gli eventi in un contesto il più possibile verosimile. Ad esempio, si parla di una rappresentazione della “Bohème” a Londra: lo spettacolo è andato davvero in scena nel giorno e nel teatro che sono descritti. Il metodo che ho adottato, e che mi è più congeniale, è stato di avere una padronanza il più possibile completa del periodo storico di riferimento, iniziando con ricerche su libri e archivi online, prendendo appunti. Studiando sono poi arrivate ulteriori idee per arricchire la trama e costruire meglio i personaggi. Inoltre, ho passato parecchio tempo ai Metropolitan Archives di Londra, dove ho potuto consultare documenti originali, mappe e altro materiale. Costruire una scenografia il più possibile accurata è stato indispensabile, anche perché Londra è una dei protagonisti principali.
Gloria vive nell’Ottocento in modo spregiudicato e consapevole. “Spingersi oltre i propri limiti e scardinare le proprie convinzioni, a dispetto di tutto, era ciò che la sua natura meglio rispecchiava” Quali sono le peculiarità che la rendono contemporanea?
Gloria è un personaggio abbastanza sopra le righe per la sua epoca, tuttavia non così atipico. Studiando la società tardo-vittoriana, ho trovato infatti molte somiglianze con la nostra epoca, sia nella spinta all’innovazione sia nelle criticità sociali e politiche. È una donna che, da sempre, si è trovata a badare a sé stessa, facendo scelte complesse, affrontando rinunce, costruendo una professione, gestendo la propria indipendenza economica, tutti aspetti molto difficili per le donne dell’epoca e, mi viene da dire, ancora oggi oggetto di rivendicazioni. Credo che la narrazione delle donne di ogni tempo, anche nella contemporaneità, abbia dei tratti comuni: uno di questi è senza dubbio il legittimo bisogno di affrancarsi da uno stato  di subordinazione, vivere appieno la propria vita, per quanto ciò comporti difficoltà e sofferenze.
Il percorso dei protagonisti si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale indagine adopera flashback che compongono un puzzle di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?
L’elemento della memoria è essenziale, nel romanzo così come nella vita di ogni giorno. Per me è naturale scrivere racconti di ambientazione storica, mi trovo a mio agio con il passato nella misura in cui mi aiuta a mettere ordine nel caos del presente. Per usare un’immagine che amo molto, direi che non ho paura dei fantasmi, anzi: mi trovo a mio agio con loro, hanno molto da dire e, spesso, dei consigli da non sottovalutare. Per quanto riguarda il chiudere i conti col passato, non vedo le nostre vite come suddivise in compartimenti stagni. Credo che ogni decisione presa, che porti poi a soddisfazioni o rimpianti, sia stata dettata da emozioni e influenze che ci hanno portato ad agire in un determinato modo, questo non si può cambiare. Sono però davvero convinta che il passato ci dia una grande possibilità: quella di migliorare, di non commettere gli stessi errori, di lasciare andare ciò che ci fa stare male. Ci dà anche una grande speranza: che la felicità, spesso, è accanto a noi e dobbiamo riuscire a vederla, raccogliere le forze e lottare, se necessario, per lei.
Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: questi sono ingredienti essenziali del giallo. Il suo romanzo, tuttavia, indossa una veste storica. Ebbene, in che misura diverge dal genere codificato?
Ci sono esempi stupendi di giallo storico, mi vengono in mente, ad esempio, Caleb Carr con “L’alienista” oppure la stessa Agatha Christie, con lo spesso trascurato “C’era una volta”, per non parlare di una pietra miliare del genere, “Il nome della Rosa” di Umberto Eco. Ho immaginato “Polvere e cenere” quando ero un’adolescente e l’ho ripresa alcuni anni fa, trovandomi quasi spiazzata per la presenza di tutti gli elementi appena citati, ma non credosi possa definire un  giallo nel senso stretto del termine. Forse è un racconto d’avventura con venature noir, soprattutto per le sfumature nei caratteri dei protagonisti, che prendono decisioni spesso opportuniste, trovandosi ad abbracciare il male in luogo del bene. Il giallo, come si diceva giustamente, ha delle regole ben codificate e credo che l’ambientazione storica presenti molti aspetti interessanti, uno su tutti quello di consentire a chi scrive di dare uno sguardo inedito a ciò che vuole raccontare, magari inserendo dei parallelismi con l’attualità.
Londra è da sempre una città caleidoscopio, multiple, imprevedibile, variabile?
Quali sono le ragioni che l’hanno indotta a sceglierla come ambiente che “accoglieva nel suo ventre universi tanto dissimili, uniti nel nome di una speranza più forte della povertà e persino della morte”?
Londra è proprio così e, come accennavo, è forse la protagonista principale del romanzo. L’ho scelta proprio perché, in origine, il mio desiderio era di scrivere una storia ambientata tra le sue strade. Anzi, l’intero racconto nasce proprio prendendo ispirazione da una vecchia cartina della città, pubblicata negli anni in cui è ambientato il libro. In particolare, quando si parla della Londra vittoriana, spesso si generalizza, pensando da un lato alle atmosfere orrorifiche dei quartieri poveri, dall’altro al perbenismo e alle luci degli ambienti nobili. Ciò che ho scoperto, approfondendo gli studi, è una città con somiglianze incredibili con il nostro mondo: mi ha colpito, ad esempio, l’estrema attenzione alla questione ambientale, con la progettazione di parchi, lo spostamento di fabbriche dal centro cittadino per ridurre le emissioni delle ciminiere, il potenziamento della rete fognaria e molti, molti altri interventi. Inoltre, la presenza della tecnologia inizia a farsi sentire, mi vengono in mente il telegrafo e i raggi X, oppure i movimenti politici progressisti, in grado di unire donne, operai, classe media. Londra è diventata una sorta di specchio del mondo, sono rimasta affascinata dalla tenacia di quanti combattevano, e combattono tuttora, per renderlo un posto migliore.
Giuseppina Capone

Di là dal mare

L’economia blu del mare nostrum. La ripresa sostenibile premia un canto universale.

“Di là dal mare. Dove piove fortuna, dov’è libertà. E l’acqua è più pura di un canto…”.

I versi toccanti del brano di Massimo Ranieri “Lettera di là dal mare”, presentato all’ultimo Festival di Sanremo, evocano sentimenti importanti, sopiti forse, mai estinti nel gusto dei suoi numerosissimi fan e del pubblico italiano. A quello più adulto negli anni, ancor più nelle comuni radici partenopee, non sarà sfuggita l’associazione con un altro brano, culto nella scuola dei classici napoletani: “Santa Lucia lontana”, scritto nel 1919 da E. A . Mario.

Un testo da brividi quello scritto, per il ritorno del cantattore sul palco del teatro Ariston, da Fabio Illacqua.

Moti ondosi che richiamano lustri di storia e migrazioni di troppi connazionali fra i flutti e i muri d’acqua oceanici. L’interpretazione struggente dello stesso scugnizzo settantenne del Pallonetto (il popolare quartiere partenopeo a Santa Lucia) trasuda l’emozione  vissuta sulla sua pelle a soli tredici anni. Quando, come ha raccontato in più interviste nel dopo festival, trascorse quindici giorni barricato nella cabina del transatlantico Cristoforo Colombo (una ammiraglia della Società di Navigazione Italia, gemella dell’Andrea Doria), a vomitare per raggiungere anche lui l’America, salpando dall’Italia.

Il canto e il mare, la canzone italiana e il Mare Nostrum.

Un rapporto inscindibile nel corso del secolo scorso. Una osmosi, culla del genio artistico culturale al centro del Mediterraneo.

Nel 1987 Eduardo De Crescenzo cantava le proprietà terapeutiche del mare. Capace di indurre una conversione sentimentale nella rotta solipsistica umana:

“L’odore del mare mi calmerà. La mia rabbia diventerà. Amore, amore è l’unica per me.”

“e tutto questo cambiare che amore poi diventerà…”.

Negli stessi anni è Pino Daniele con“Qualcosa arriverà”, a evocare nella presenza ancestrale del mare, un moto di cambiamento: “Voglio ‘o mare, cù ‘e mmura antiche e cchiù carnalea vita ‘o ssaje ce pò fa male
e per sognare poi qualcosa arriverà.”

Senza dimenticare un baluardo del repertorio classico partenopeo come “O’ Marenariello”, scritta nel 1893 da Gennaro Ottaviano, musicata da Salvatore Gambardella.

Resa un culto popolare nel 1992 nella struggente interpretazione del Maestro Roberto Murolo. Accompagnato, nel brano e nell’album che festeggiò i suoi ottanta anni, dall’irripetibile voce di Mia Martini.

L’iconografia sonora del mare non è esclusiva degli autori partenopei, va da sé.

Certamente coinvolge sensibilità di culture diverse, contaminate dal comune orizzonte esteso. Azzurro. Illimitato tra cielo e mare.

“Ed a casa io voglio tornare. Dal mare, dal mare, dal mare.”

I versi di Lucio Dalla in “Itaca” ritornano sul Capitano con gli occhi dal “nobile destino”. Senza rimestare oltre nelle visioni solitarie di “Com’è profondo il mare”, brano scritto interamente da Dalla, che titolò il suo settimo album pubblicato nel 1977.

Emersi dalle memorie oniriche del Maestro Battiato i versi di “Summer on a Solitary Beach”:

Mare voglio annegare. Portami lontano a naufragare. Via via via da queste sponde.
Portami lontano sulle onde.

Un altro autore bolognese, fra i top nella canzone d’autore italiana, uscì nel gennaio del novantadue con il brano “Mare mare”, sempreverde, anche dopo trent’anni:

“Mare, mare, mare sai che ognuno c’ha il suo mare dentro al cuore, sì.
E che ogni tanto gli fa sentire l’onda. Mare, mare, mare.

Ma sai che ognuno c’ha i suoi sogni da inseguire, sì. Per stare a galla e non affondare no, no, yeah, yeah…”.

Un tormentone triste per la ricerca vana di un amore. Il brano scritto da Luca Carboni con Mauro Malavasi, vinse a mani basse il Festivalbar nello stesso anno.

Sino a essere incluso, nell’anno nero della pandemia, dopo un remake nel 2013 inciso con Cesare Cremonini, fra quarantacinque brani più belli della musica italiana.

Secondo il contest radiofonico I Love My Radio.

In questa succinta epopea sonora del Mare Nostrum, non si possono trascurare alcuni pezzi di quella così detta musica leggera. Capace di conquistare l’empatia, il consenso di ampie fasce di pubblico. Pronto a incarnarne il refrain popolare. Legandolo indissolubilmente a stagioni indimenticabili della propria vita.

Ne sa qualcosa Raoul Casadei: con “Ciao Mare”, scritta nel 1973, esplose la febbre del “liscio”. Il suo conio entrò a pieno titolo nel vocabolario italiano. Segnò l’avvio di una prosperosa filiera di successi per l’omonima Orchestra. Lanciati da memorabili edizioni canore ultra popolari: Festivalbar, Festival di Sanremo, Un disco per l’estate.  

Ancora vacanziera e spensierata la Giuni Russo del 1982 con ”Un’estate al mare”:

“Un’estate al mare. Voglia di remare. Fare il bagno al largo.
Per vedere da lontano gli ombrelloni, -oni, -oni.
Un’estate al mare. Stile balneare. Con il salvagente. Per paura di affogare…”.

Il suo più grande successo discografico le fu consegnato ancora dal Maestro conterraneo Franco Battiato. Un tormentone sempreverde intergenerazionale che a distanza di quaranta anni risveglia legittime aspettative ludiche di un’agognata vacanza. Contaminata dai colori estivi del mare.

Di là dal mare, rimane simbiotico il legame musicale del Bel Paese con l’abbrivio della stagione estiva.

Auspici di ripristino della socialità dopo le ultime stagioni azzerate dalla pandemia vedono impegnate al meglio soprattutto le compagnie di trasporto marittimo. Nel tentativo di riordinare i flussi turistici nel Mediterraneo, in particolare nel nostro Tirreno.

Le due maggiori isole italiane si confermano mete importanti per la ripresa del turismo nazionale ed europeo. Gli sforzi su questo ambizioso obiettivo sono imponenti in termini di politiche promozionali e tariffarie. Che incentivano e premiano le prenotazioni estive, proteggendole da revoche dell’ultima ora. Senza dimenticare l’allestimento di nuovi traghetti con nuove linee pronte a servire e rafforzare i collegamenti con la Sardegna.

Tutto questo virtuoso fermento, integrato nel più ampio dibattito del processo di transizione ecologica (per l’introduzione irrevocabile dei nuovi carburanti sostenibili nel rinnovamento delle flotte tradizionali); rischia di essere fagocitato nelle ultime drammatiche evoluzioni della guerra scoppiata con i bombardamenti sul fronte russo ucraino.

Una tragica fase d’incertezza dagli esiti non immaginabili per la continuità della nostra civile convivenza globale. Ancora più folle nell’attuale era post pandemica.

Sarebbe davvero bello poter archiviare questa buia parentesi di orrore e morte che fa tremare l’Europa e il mondo intero con le note felici del 1970, cantate dall’Orietta nazionale:

Fin che la barca va lasciala andare. Fin che la barca va tu non remare. Fin che la barca stai a guardare…”.

Con lo sguardo in alto, per un orizzonte diverso, di là dal mare.

Luigi Coppola

Salvatore Sblando: Dalla stessa parte. Uomini contro la violenza sulle donne 

La questione di genere investe la sfera culturale italiana da tanto. Qual è la specificità del suo intervento?
La questione di genere, è una delle problematiche sociali e culturali che mi stanno più a cuore.
La seguo, mi documento, mi confronto in ogni ambito; da quello lavorativo, a quello del territorio in cui vivo, a quello culturale.
Non è certo l’unica questione e nemmeno la prima. Sicuramente è tra le situazioni che definisco d’emergenza e per le quali ciascuno deve sapere trovare il proprio punto di caduta per sapersi confrontare, crescere e maturare.
L’argomento bruciante del sessismo e della discriminazione di genere è, soventemente, trattato da un punto di vista squisitamente muliebre.
Ebbene, qual è la visione complementare, ovvero maschile del vivere in una società patriarcale e sessista?
Credo fortemente nell’impegno maschile, culturale e sociale, verso questa tematica che riguarda sempre più direttamente l’uomo, in quanto la donna pur se vista ancora e soltanto come figura complementare e non come essere indipendente di una società comunque ancora sessista, sia stata in grado di sapersi emancipare attraverso decenni di battaglie, lotte e rivendicazioni,
Giunto è dunque il tempo per l’uomo di doversi impegnare in questo percorso di crescita umana che passa innegabilmente nel riconoscere la violenza sulle donne, una questione da sapere combattere e sconfiggere, attraverso azioni concrete di lotte e azioni, sociali e culturali.
La polisemia di accezioni (genere linguistico, biologico e sociale) che sviluppa, dimostra quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti. Reputa che modi di dire, proverbi e battute possano costituire l’anticamera di forme di violenza?
Non sono di certo porte chiuse a queste situazioni; il nostro linguaggio, i modi di dire, le mai apparentemente innocue battute, i proverbi, sono anticipatori fino quasi ad autorizzare certi atteggiamenti, azioni e comportamenti nei confronti delle donne.
Suggerisco la lettura del libro “Razzisti a parole” dove l’autore Federico Faloppa ci racconta e dimostra come si possa essere intolleranti e razzisti verso il diverso, verso l’altro, anche con il linguaggio. Come ad esempio il dare del “tu” ad un immigrato anche se non lo si conosce. O come il classico “Non sono razzista ma…” che tanto ricorda il “Però anche lei vestita in quel modo, un po’ se l’è cercata…”.
Nel mio ruolo di operatore culturale e proprio per dare testimonianza attiva a quanto fin qui detto, ho recentemente curato insieme all’amico scrittore Salvatore Contessini, un’antologia poetica di soli uomini dal titolo “Dalla stessa parte – Uomini contro la violenza sulle donne”, edito dalla casa editrice La Vita Felice.
Un impegno culturale che se da un lato ha visto noi curatori crescere nel confronto e nella visione della questione, ha dovuto scontrarsi durante la fase di ricerca, con alcune dinamiche sociali riguardanti la situazione femminile, che si sono riflesse a modo loro anche in poesia.
Dagli anni ’60 del Novecento il corpo delle donne diviene l’interprete della discussione politica, il movimento femminista esplora i paradigmi ed i ruoli stereotipati delle donne mentre l’azione dei collettivi arricchisce le meditazioni sulla differenza di genere.
Oggidì, il corpo messo al centro del dibattito nella società contemporanea è quello muliebre. Quali forze diverse ed in contrapposizione si combattono su questo campo?
Manca un soggetto forte in questa discussione. La politica è assente. E su questo sono molto crudo e tendente alla condanna di qualunque schieramento.
Se pensiamo infatti che fino al 1981 in Italia (e non dall’altro capo del mondo) era normato nel codice penale il delitto d’onore e che è solo del 2013 una legge contro la violenza sulle donne, allora facciamo presto a capire che molta strada è da fare ancora.
Nulla si è fatto in ambito culturale, nelle scuole, nelle famiglie. E nulla pare si voglia fare, al di là di meri impegni verbali.
La politica risponde con carcere (che arriva sempre dopo che la tragedia si è consumata) e costosi braccialetti elettronici anziché finanziare centri anti-violenza che sempre più si poggiano sull’esclusivo impegno volontario.
Salvatore, l’Antologia dedicata al tema della violenza sulle donne ha stentato a trovare poesie.
Siamo stati consapevoli fin da subito di aver chiesto un “impegno” poetico sui generis.
Avessimo proposto un’antologia poetica d’amore, ne siamo convinti, saremmo stati sommersi dai testi.
Nonostante ciò siamo riusciti a “costruire” un’antologia che rispecchia sia geograficamente che anagraficamente la popolazione maschile italiana.
Ma è stata nostra precisa convinzione, quella di voler chiedere un contributo volto alla costruzione di un cammino che possa andare oltre le celebrazioni di giornate internazionali. Vogliamo poterci confrontare, andare a dibattere a proporre tesi, a scontrarci con antitesi.
Concludo lasciando un ulteriore spunto di riflessione per il lettore; nell’antologia “Dalla stessa parte – Uomini contro la violenza sulle donne” edito da La Vita Felice, è minoritaria la partecipazione di giovani poeti. Ecco, questa scarsa presenza potrebbe essere un buon argomento di discussione.
Salvatore Sblando: sue liriche sono pubblicate in antologie e blog letterari. Le sue pubblicazioni sono state oggetto di segnalazioni in importanti Premi. Membro del Comitato di lettura della casa editrice La Vita Felice, partecipa attivamente a reading e manifestazioni poetiche. Attivo nel panorama letterario torinese, è fondatore dell’Associazione culturale Periferia Letteraria. Fra i curatori di diversi festival letterari, a gennaio 2015 inaugura “Aperipo-Etica”, rassegna di cultura, poesia e letteratura contemporanea. All’interno del proprio LIT(tle) Blog (www.larosainpiu.org) è solito ospitare le migliori voci del panorama poetico italiano.
Pubblicazioni: Due granelli nella clessidra (LietoColle, 2009) giunta alla 2^edizione;
Ogni volta che pronuncio te (La Vita Felice, 2014); Lo strano diario di un tramviere (La Vita Felice, 2020).
Giuseppina Capone

Trema la Terra: la poesia di Armando Fusaro dedicata ai conflitti

Armando Fusaro, promotore di molteplici attività  sociali, scrive versi e poesie in  lingua e in vernacolo, con tematiche sociali. Nella sua produzione poetica, con occhio attento osserva  quello che accade attorno a lui e riesce a trasporlo in versi con grande capacità evocativa.
Proponiamo alle nostre Lettrici e ai nostri Lettori “Trema la Terra” una poesia intensa e pregnante che il poeta Armando Fusaro ha dedicato a questi giorni terribili di guerra. Una guerra, anzi tante guerre, combattute nella nostra Europa e in tutto il mondo che vedono impegnati donne, bambini, uomini, anziani nella battaglia per la sopravvivenza.
“Trema la Terra” sconquassata dal dolore, “E trema la questa Terra/e si dice: Signore perché?…”. Una domanda che ci stiamo ponendo tutti e alla quale dare una risposta è difficile. Una poesia forte e densa di significato che porta ad una profonda riflessione.
Il poeta afferma: “in una società dove prevale il materialismo, difficilmente regna la pace”. Nonostante questo la speranza in noi è viva perché i focolai che insanguinano qua e là il nostro pianeta vengano annientati e la poesia rappresenta insieme alla cultura un canale positivo e costruttivo per essere vicino ai popoli che soffrono e contemporaneamente un incitamento al dialogo.
Forte l’invocazione al Signore per la fine delle guerre e il trionfo della pace e della libertà.
La libertà, forse solo “sogno” senza scadenza temporale agognata dalle donne e dagli uomini e da tutti i popoli.
Una poesia che invita alla riflessione, attenta e partecipata per stimolare la cultura della pace affinché non si debba soffrire e morire per la guerra.
Bianca Desideri
Trema la Terra
Il vento di tempesta infuria
e la storia si ripete.
E trema la questa Terra
e si dice: Signore perché?…
L’uomo in emergenza
non è indifferente,
ha paura e prega
il Trascendente.
Il Mondo è in rivolta
e i potenti… si comprano
l’amore e la morte.
Sono secoli che si
cerca la pace e,
per la pace si fanno guerre.
Il Padrone del Creato
è morto in croce
per amore dell’altro.
E trema questa Terra
e si dice:
Signore, Signore, perché?…
Armando Fusaro

Tommaso Urselli: Oggi ti sono passato vicino

C’è solo l’andare senza fermarsi:/ se i piedi il sonno volesse mangiarseli/
è permesso cadere, non addormentarsi.
Lei scrive versi che narrano una quotidianità quasi atemporale, in cui si stenta a riconoscere il contesto storico in cui la vita si svolge. La vita umana vive una costante condizione di anonimato?
Non ne farei una questione di anonimato, se con questo si intende una condizione in cui sia dominante una passività di fondo o l’inutilità di ogni ricerca di senso.
L’assenza di coordinate storiche e una certa atemporalità possono suggerire a mio avviso un’altra possibilità: quella di rendersi conto che ogni essere vivente, non solo umano, indipendentemente dal contesto in cui vive e dalla sua specifica identità, è parte di un “tutto” di cui, questo sì, spesso ci sfugge l’enorme complessità. Ma non mi sembra un dato sminuente o avvilente, anzi… dovrebbe contribuire ad accendere curiosità, senso di reciprocità…
Per venire al nostro ambito, credo nella possibilità della poesia come fotografia di un processo in continuo divenire, più che come affermazione dell’io che la produce. Del resto, per dirla con Rimbaud, “Io è un altro. Se l’ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua…”
Lei sta spendendo il suo tempo quale autore di teatro. In un tempo politico, sociale ed economico che grida l’impellente bisogno di tessere un dialogo con sé stessi, la conflittualità interiore può essere lenita dalla Poesia?
Qualche mese fa, lo scorso maggio, una compagnia teatrale con cui avevo precedentemente collaborato come drammaturgo mi ha proposto di tenere una giornata di laboratorio di scrittura poetica rivolto agli allievi di un corso di formazione teatrale.
Si trattava per me della prima volta dopo tempo, di un incontro di lavoro in presenza, e non ho saputo fare di meglio che pensare di dare lo stesso titolo del libro che avevo composto durante il lockdown, “Oggi ti sono passato vicino”; non per mania di autoreferenzialità (durante il lavoro non sono stati utilizzati testi dal libro) ma perché nelle mie intenzioni esso contiene e racconta di un desiderio, una necessità che tutti abbiamo avvertito in questo periodo, sia pure in maniere e declinazioni differenti: quello di stringersi, di fare fronte comune dinanzi a qualcosa di sconosciuto, in una situazione in cui proprio la possibilità di essere uniti veniva per forza di cose a mancare. Come tradurre allora questa necessità in una pratica realizzabile?
Da circa venti anni mi occupo di drammaturgia. Scrivere per il teatro significa scrivere per degli attori che porteranno sulla scena il tuo lavoro… niente di più impensabile durante il lockdown, in cui come autore teatrale sono stato decisamente in lutto… mi era del tutto impossibile pensare di scrivere qualcosa che sarebbe andato in scena “dopo”, in un momento in cui i teatri erano chiusi, morti… il teatro non è fatto di “dopo”, è fatto di “adesso”, un adesso da condividere corpo a corpo: corpo del drammaturgo, corpo del regista, i corpi degli attori, i corpi degli spettatori… Così la mia scrittura ha cercato altre strade, già frequentate in passato anche se non in maniera sistematica: dalla rivisitazione di quegli sporadici tentativi in versi e dalla composizione di testi ex-novo, ha così pian piano preso forma questo libro, che porta in sé le tracce di una necessità evidente fin dal titolo (anche se quasi mai nei testi c’è esplicito riferimento al tema del virus e della pandemia, tranne che in una composizione).
Dunque, tornando al laboratorio, la cosa che ho sentito più sensata e organica, è stata quella di trasformare in oggetto di lavoro di gruppo la pratica di scrittura in versi che mi aveva accompagnato durante il lockdown – badando di non cedere alla tentazione di farne una ricetta o un manifesto, ma di restare sempre nell’ambito dell’interrogativo, a sé e al gruppo – da cui il sottotitolo:
“Nella distanza dei corpi, può la poesia avvicinare? Un laboratorio di incontro attraverso la scrittura.”
Quale “lenimento” migliore della condivisione?
Ti sento, è la tua voce, il tuo/ articolare lento e cadenzato. /Oggi ti sono passato vicino.
La sua versificazione è lucida, nitida, disincantata, priva di edulcorazioni, scevra da vergogne. C’è un limite a ciò che si può narrare?
È una domanda a cui credo sia possibile dare risposte anche molto differenti, e tutte legittime. Quello che conta, a mio parere, è che questa risposta scaturisca da un percorso, una pratica di lavoro che l’autore avverte come necessaria. È questa necessità, forse, a disegnare il limite tra ciò cui è importante dare forma e ciò che può essere tenuto per sé.
I morti, onde del mare/bianca spuma che a lungo ha viaggiato/ e a casa ritorna,/alla madre infinita.
Le parole che inanella in versi appaiono sensibilmente refrattarie al rispetto ovvio ed ossequioso delle norme grammaticali, compromettendo irrimediabilmente la logica connessione lettura-comprensione.
Qual è la chiave d’accesso per discriminare i suoi intenti comunicativi?
Non credo che un autore debba fornire chiavi d’accesso… caso mai, forse, fabbricare porte… Sta poi al lettore la scelta di aprirle o meno, per visitare i luoghi su cui si affacciano; questo a prescindere dalla comprensibilità o meno dei suoi testi e da quelli che potrebbero essere i suoi intenti comunicativi. Ma a proposito di comunicazione, vorrei qui citare la poesia e le parole di Antonio Neiwiller, uomo di teatro che ci ha lasciato nel secolo scorso; in particolare queste righe da un frammento del 1993 (stesso anno della sua scomparsa) dedicato a un altro grande uomo di teatro, Tadeusz Kantor:
“…È tempo che l’arte
trovi altre forme
per comunicare in un universo
in cui tutto è comunicazione…”
(da “l’altro sguardo: per un teatro clandestino, dedicato a t. kantor”)
Ad ogni modo, tornando ai testi della raccolta e ad eventuali strumenti di comprensione, mi riconosco nello sguardo di Franca Alaimo, di cui riporto qui un estratto da una sua nota di lettura:
“… l’autore fa uso di altre esperienze artistiche a lungo praticate, essendosi cimentato con il teatro (si ritrovano, infatti, in molti testi l’estro drammatico, l’impianto dialogico, ma anche l’asciuttezza di un autore grandissimo quale Beckett), e con la musica, specialmente il jazz (da cui provengono il ritmo sincopato di certi testi) … Né escluderei la meditazione buddhista e per l’epigrammatica sapienza di certi versi e per la concezione dell’Uno come inizio e ritorno di ogni cosa in una perenne ciclicità…”
La sua silloge potrebbe scomporsi in quattro momenti: memoria, contemporaneità, teatro, dolore. C’è un filo rosso che le congiunge?
Giocando un po’ a parafrasare Artaud: la vita, e il suo doppio.
Tommaso Urselli è autore di teatro. In passato alcuni suoi componimenti poetici sono stati pubblicati e positivamente recensiti da Maurizio Cucchi su Lo Specchio de La Stampa. Oggi ti sono passato vicino, da poco pubblicata per Ensemble, è la sua prima silloge poetica; la sezione “Parole alle formiche”, particolarmente apprezzata dal poeta Giuseppe Conte (sue le parole in quarta di copertina), è giunta finalista al Premio InediTO – Colline di Torino 2019. Tra i suoi testi teatrali rappresentati e pubblicati: Un vecchio gioco (La Mongolfiera Editrice; premio Fersen, Piccolo Teatro di Milano); Boccaperta (La Mongolfiera Ed.) commissionato da Teatro Periferico; Ipazia. La nota più alta (pubblicato da Sedizioni, e in e-book da Ledizioni nella versione inglese) su commissione di PactaDeiTeatri; Il Tiglio. Foto di famiglia senza madre, prodotto dall’autore in collaborazione con l’attore-regista Massimiliano Speziani (il testo, tra i vincitori del premio Borrello per la drammaturgia – e premio Fersen alla regia – è pubblicato sul n. 727 della rivista Sipario, in volume per La Mongolfiera Editrice, in e-book per Morellini Editore); su commissione del Festival Connections – Teatro Litta, Milano, scrive In-equilibrio; viene prodotto dal Teatro Litta il suo testo Esercizi di distruzione. L’importanza di chiamarsi Erostrato (pubblicato in volume per Edizioni Corsare e sul n. 758 della rivista Sipario; vincitore del premio Lago Gerundo); Ma che ci faccio io qua (Edizioni Corsare); cura con Renata Molinari e Renato Gabrielli la pubblicazione di A proposito di menzogne – testi per Città in condominio, L’Alfabeto urbano, Napoli; scrive inoltre Canto errante di un uomo flessibile, tra i vincitori del Premio Fersen per la drammaturgia e pubblicato da Editoria&Spettacolo; vince la prima edizione del premio Parole in scena per il teatro-ragazzi con il testo La città racconta (Edizioni Corsare); Piccole danze quotidiane (messo in scena al PimOff e presso la Triennale di Milano per il Festival Tramedautore, Outis); La porta (Festival Tramedautore, Outis; pubblicato da La Mongolfiera Editrice). Blog: https://tommasourselli.wordpress.com/
Giuseppina Capone

Caravaggio a Napoli 

Caravaggio si recò a Napoli alla fine del 1606. Visse nei quartieri spagnoli per circa un anno. Durante il suo soggiorno a Napoli l’artista dipinse molti affreschi come la Giuditta che decapita Oloferne (scomparsa). Una prima versione della Flagellazione di Cristo (1607- Musée des Beaux di Rouen), la Salomè con la testa di Golia (1607 – Kunsthistorisches Museum di Vienna), la Crocifissione di sant’Andrea (1607 – Cleveland Museum of Art).
La sua opera più importante eseguita a Napoli fu la Madonna del Rosario (1606-1607 – Kunsthistorisches Museum di Vienna). Quest’opera gli fu commissionata dai Carafa Colonna (ramo della famiglia dei Colonna) per la cappella di famiglia nella basilica di San Domenico di sant’Andrea.
Senza dubbio questo periodo per Caravaggio fu molto entusiasmante, felice e proficuo. Solo due opere del pittore sono rimaste a Napoli: Sette opere di Misericordia corporali (lo stile di Merisi usato per questo affresco fu di grande incoraggiamento per la pittura barocca partenopea, dando così vita a molti esponenti caravaggeschi tra i pittori della città. E inoltre stile di questo affresco  presentava una scena drammatica rispetto alla pittura romana). La Flagellazione di Cristo è l’altro dipinto rimasto a Napoli. (1607-1608 basilica di San Domenico Maggiore) spostato in seguito al museo di Capodimonte.
Caravaggio a Malta e in Sicilia
Nel 1607 Caravaggio lasciò Napoli e si recò a Malta grazie all’appoggio dei Colonna. Il pittore, a Malta, conobbe il maestro dell’ordine dei cavalieri di San Giovanni, Alof de Wignacourt (al quale eseguì un ritratto). L’intento di Merisi era quello di diventare cavaliere per avere l’immunità per evitare la condanna di decapitazione. Firmò, dunque, un documento nuovo che attestava che la sua città natale fosse Caravaggio (provincia di Bergamo).
Nel 1608 realizzò la decollazione di San Giovanni Battista (Concattedrale di san Giovanni di La Valletta.) Il 14 luglio del 1608 gli fu data la carica di cavaliere di grazia. Poco dopo fu arrestato in seguito ad un litigio con un cavaliere del rango superiore. (soprattutto perché si venne a sapere della sua condanna a morte). Il 6 ottobre fu rinchiuso nel carcere di Sant’Angelo a La Valletta ma grazie all’aiuto dei Colonna riuscì a scappare  e a rifugiarsi in Sicilia (Siracusa) dove fu ospitato da Mario Minniti (suo caro amico romano). Durante il soggiorno in Sicilia, l’artista studiò i reperti ellenistici e romani; l’archeologia l’aveva particolarmente affascinato. Dipinse una pala d’altare raffigurante il seppellimenti di Santa Lucia per la chiesa di Santa Lucia al sepolcro. Mentre la Resurrezione di Lazzaro e l’Adozione dei pastori li eseguì a Messina.
Il ritorno di Caravaggio a Napoli
Caravaggio tornò a Napoli alla fine dell’estate del 1609. Poco tempo dopo, sempre a Napoli, alcuni uomini (mandati dal suo rivale maltese) lo aggredirono con violenza lasciando il suo volto sfigurato.
Durante il suo secondo soggiorno napoletano dipinse il San Giovanni Battista disteso (1610), la Negazione di San Pietro, il San Giovanni Battista, il Davide con la testa di Golia.  La Salomè con la testa del Battista (per i cavalieri dell’ordine) e La Salomè con la testa del Battista destinato a Madrid. Tre tele per la chiesa di Sant’Anna dei lombardi di Napoli: il San Francesco che riceve le Stimmate, il San Francesco in meditazione e una resurrezione (perdute tutte e tre le tele durante il terremoto del 1805). L’ultimo dipinto di Caravaggio fu il Martirio di sant’Orsola (1610).
A Napoli Caravaggio viveva nel palazzo Castellammare presso la marchesa Costanza Colonna, ma dopo la notizia ricevuta della sua condanna a morte che papa paolo V stava preparando, partì subito verso Roma sul traghetto diretto a porto Ercole che sarebbe passato (segretamente) per lo scalo portuale di Palo di Ladispoli (circa 40 km da Roma). Il pittore sarebbe dovuto scendere  a Porto Ercole ma a Ladispoli fu fermato per degli accertamenti, mentre il traghetto continuò il viaggio portando via il bagaglio del pittore dove all’interno si trovavano le tre tele (Maria Maddalena in estasi, San Giovanni Battista, San Giovanni Battista disteso) e, soprattutto, all’interno della valigia c’era il prezzo concordato dal Merisi col cardinale Scipione Borghese per la sua definitiva libertà.
Merisi raggiunse Porto Ercole via mare ma era ormai troppo stanco, affaticato, e malato di febbre alta a causa di un’infiammazione intestinale trascurata. L’artista rimase a Porto Ercole e fu curato nel sanatorio Santa Maria Ausiliatrice della allora Confraternita locale di Santa Croce, (presso il retro della chiesetta di Sant’Erasmo situata nel borgo alto). Caravaggio morì proprio lì, nella chiesetta di Sant’Erasmo, il 18 luglio del 1610 a solo trentotto anni
Alessandra Federico

Caravaggio: l’artista rivoluzionario del 1600

Caravaggio, ovvero Michelangelo Merisi, è uno dei più conosciuti pittori  del nostro Paese. Nasce il 29 settembre del 1571 a Milano. Considerato tutt’oggi il più grande artista dell’arte occidentale, Merisi,  si forma artisticamente nella sua città natale ma al contempo, tra il 1593 e il 1610, è operativo anche tra Roma, Napoli, Sicilia e Malta. Sin da subito molto  è stata molto apprezzata l’arte del Merisi,  anche se raggiunse grandissima fama dopo la sua morte. Una caratteristica della sua arte è il chiaroscuro; riusciva ad ottenere un eccezionale effetto grazie al suo modo di evidenziare diversi elementi alla luce e allo sfondo scuro.

I suoi dipinti raccontano il suo animo sensibile e attento soprattutto nell’osservare e percepire ogni stato d’animo e fisico di coloro che ritraeva. Paradossalmente, però, il suo spirito empatico era continuamente tormentato e irrequieto, e, infatti, da giovane venne condannato a morte accusato di omicidio durante una rissa il 28 maggio 1606.

L’artista scappò per il resto della sua vita. I genitori dell’artista, Lucia Aratori e Fermo Merisi, erano nativi di Caravaggio, ma si erano trasferiti a Milano poco dopo essersi sposati (14 gennaio 1571), ebbero anche altri due figli di cui una femmina di nome Caterina. L’intero nucleo familiare, però, fu costretto a scappare da Milano per tornare al loro paese a causa della peste. Ciò nonostante, malauguratamente, Fermo non riuscì a scampare e poco tempo dopo morì. Una volta terminato il periodo della pandemia Michelangelo, a soli 13 anni, iniziò a lavorare a Milano presso il laboratorio di Simone Peterzano (pittore del manierismo lombardo nonché allievo di Tiziano). Si trattava di un contratto di apprendistato (firmato dalla madre per poco più di quaranta scudi d’oro) col Peterzano, del 6 aprile 1584, che si prolungò per 4 anni, e dove soprattutto Merisi apprese la tecnica dei maestri della scuola pittorica lombarda e veneta.

Il giovane pittore, oramai non più alle prime armi, lasciò la Lombardia nel 1592 per raggiungere la capitale italiana. Secondo quanto riportano i documenti dall’Archivio di Stato di Roma, Caravaggio lasciò la città nel 1596 per recarsi presso la bottega del pittore siciliano Lorenzo Carli. Merisi a Roma, nel 1594, fu ospite di Monsignor Pandolfo Pucci da Recanati e per lui realizzava “copie di devozione” di cui, però, per il pittore non erano affatto soddisfacenti e decise quindi di andare via e procurarsi da vivere dipingendo ritratti.

Nel 1596 conobbe il pittore messinese Lorenzo Carli che gli offrì lavoro e soggiorno presso la sua bottega in via della scrofa. Qui l’artista, grazie a Carli, conobbe Mario Minniti che ben prestò diventò il suo più caro amico nonché suo modello. Poco dopo, Merisi, frequentò la bottega di Giuseppe Cesari. Ragazzo che monda un frutto, Bacchino malato (suo autoritratto) e Fanciullo con canestro di frutta sono i primi tre dipinti di un certo rilievo che Caravaggio realizzò in quel periodo.

Merisi Nel 1597 conobbe il cardinal Francesco Maria del Monte, che, rimasto affascinato dall’arte del pittore, volle acquistare alcuni dei suoi affreschi. Da quel momento il cardinale chiamò il giovane artista al suo servizio dove rimase per 3 anni.

Caravaggio conquistò l’ambiente della nobiltà romana con la sua pittura rivoluzionaria. In brevissimo tempo lo stile dell’artista mutò, abbandonò i singoli ritratti e le piccole tele e iniziò a dedicarsi ad opere più elaborate inserendo diversi personaggi all’interno dell’affresco e raccontando episodi specifici. Il riposo durante la fuga in Egitto è uno dei primi capolavori di quel periodo. Grazie al cardinal Francesco Maria del Monte, nel 1599, Caravaggio ottenne la prima commissione pubblica per due tele da collocare all’interno della Cappella Contarelli nella chiesa di san Luigi dei francesi a Roma (dipinti riguardavano tratti della vita di San Matteo: la vocazione e il martirio).

Non passò molto tempo e al giovane pittore furono commissionati altri importanti incarichi: dal commerciante Fabio Nuti la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Palermo. Poi, per ordine del monsignor Tiberio Cerasi, la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. Nello stesso periodo da parte del figlio del cardinale Matteo Contarelli gli fu commissionato il dipinto di San Matteo e l’Angelo.  Questa tela diede l’opportunità al pittore di dimostrare le sue grandi capacità e di ottenere la commissione delle tele del ciclo di San Matteo.

Il marchese Giustiniani era un ricco banchiere genovese nel giro della corte pontificia, che riuscì a salvare Merisi dalle questioni legali in cui spesso si trovava a causa del suo essere impulsivo e aggressivo. Inoltre, il marchese, collezionò diverse opere di Caravaggio (compreso quello di San Matteo tolto via perché considerato senza decoro) contribuendo, per di più, alla sua formazione culturale.

In quel periodo l’artista viveva un periodo di sconforto per via delle sue opere rifiutate come quella della prima versione della Conversione di San Paolo (cappella Cerasi in Santa Maria del popolo), anche se, secondo la dimostrazione di Luigi Spazzaferro, l’opera non fu rifiutata ma sostituita con quella attuale in seguito ad un accordo con l’artista. Ancora, nel caso del dipinto La morte della Vergine, ritenuta indecente dai Carmelitani Scalzi che decisero di rifiutare il dipinto perché la figura della Vergine era rappresentata con il ventre gonfio e i piedi in vista, Merisi subì un vero e proprio momento di scoraggiamento. Pieter Paul Ruben era un celebre pittore fiammingo (pittore di corte al servizio di Vincenzo I Gonzaga) che ammirava molto l’opera di Merisi, tanto da convincere Vincenzo I ad acquistarla. Nell’aprile del 1607 il dipinto La morte della Vergine entrò a far parte della ricchissima quadreria dei Gonzaga. Da lì a poco il Duca Vincenzo I svendette la collezione di famiglia. Carlo I d’Inghilterra acquistò gran parte delle opere tra cui la Morte della vergine di Caravaggio ma, dopo la decapitazione di Carlo I, i dipinti furono acquistati dal collezionista e finanziere Everhard Jabach e poi in seguito da Luigi XIV. Ad oggi il dipinto di Caravaggio si trova a Parigi  al museo del Louvre. In quel periodo gli atti di violenza diventavano sempre più frequenti da parte del pittore che veniva, di conseguenza, spesso arrestato e portato nelle carceri. Girolamo Stampa da Montepulciano era un nobile ospite, come Caravaggio, presso la dimora del cardinal Del Monte (palazzo madama). Girolamo, dopo essere stato malmenato e rincorso con un bastone da Merisi, decise immediatamente di denunciarlo. Uscì dal carcere nel 1601 e tornò a dipingere; la Cattura di Cristo e Amor vincit omnia. Ma nel 1603, il pittore Giovanni Baglione denunciò Merisi per diffamazione (per aver scritto rime offensive nei confronti di Baglioni). Caravaggio fu liberato poco dopo e condannato agli arresti domiciliari. Era il 1604 quando, tra maggio e ottobre, il pittore fu trovato in possesso d’armi e non solo, fu spesso beccato a svolgere varie ingiurie alle guardie cittadine e per questo arrestato diverse volte.

L’animo del pittore era in continuo tormento; costretto a scappare a Genova (1605) per aver ferito un notaio. Quando tornò a Roma scoprì che aveva una querela da parte della padrona di casa dove lui soggiornava, a causa del mancato pagamento dell’affitto. Non solo,  Merisi venne doppiamente querelato perché, travolto dalla rabbia, lanciò sassi contro la finestra.

La sera del 28 maggio del 1606, a campo Marzio, il pittore fu ferito in seguito ad un fallo durante il gioco della pallacorda. Senza alcun scrupolo, Caravaggio ferì mortalmente il suo rivale Ranuccio Tommasoni da Terni.  Caravaggio fu condannato alla decapitazione in seguito all’omicidio di Tommasoni. Da quel momento l’artista dipingeva ossessivamente teste mozzate. Filippo I Colonna offrì al pittore asilo all’interno di uno dei suoi feudi laziali di Marino, Palestrina, Zagarolo, e Paliano. Merisi realizzò, per i Colonna, diversi dipinti tra cui la Cena in Emmaus, (Pinacoteca di Brera).

Alessandra Federico

La fotografia sociale di Jacob Riis

La fotografia sociale si impone come obiettivo quello di documentare, di raccontare, di portare alla luce tante verità omesse o dimenticate. Jacob Riis è ritenuto uno dei più grandi creatori della fotografia sociale, famoso soprattutto per aver documentato le condizioni di vita degli immigrati negli USA alla fine dell’ottocento.

Riis Nacque a Ribe, in Danimarca nel 1849. Era il terzo di quindici fratelli, lavorava come falegname e, nel 1870, all’età di  ventuno anni, emigrò negli Stati Uniti  con la speranza di vivere una vita migliore. Purtroppo, la vita che lo attendeva non era proprio quella che si aspettava: la guerra civile aveva provocato una forte crisi e questo spinse molte persone a partire verso New York. Riis, negli Stati Uniti, lavorava come minatore, venditore ambulante e carpentiere. Diventò giornalista di cronaca nera per il New York Tribune nel 1877 dimostrando, sin da subito, un particolare coinvolgimento per la situazione di miseria in cui vivevano le persone a Lower East side. Il giornalista si rese conto che scrivere delle vicende non era sufficiente per trasmettere ai lettori la sensazione di sofferenza che quelle persone erano costrette a vivere e decise, quindi, di aggiungere ai suoi racconti le immagini fotografiche. Solo in questo modo avrebbe catturato l’attenzione di chiunque. New York Sun e Scribner’s Magazine erano le due riviste all’interno delle quali riportavano gli articoli e le foto dei bassifondi newyorkesi scattate da Riis. Non solo, gli stessi articoli e fotografie, si trovano nel libro How the other Lives (Come vive l’altra metà, pubblicato nel 1890, dalla casa editrice Charles Scribner’s Sons). In soli 5 anni, vennero pubblicate undici edizioni del libro e la fama del giornalista cresceva ogni giorno di più, anche se, le tecniche di riproduzione tipografica delle fotografie erano ancora di bassissima qualità: solo sedici su trentacinque fotografie furono stampate a mezza tinta e le altre nove fotografie furono illustrate sotto forma di disegno. Da lì a poco, il Commissario della polizia di New York  Heodore Roosevelt, chiuse gli ospizi per poveri gestiti dalle forze di polizia.

I racconti di Riis non riguardavano solo gli avvenimenti tragici di coloro che vivevano nella povertà, nella disgrazia, lui eseguiva indagini anche sulla struttura architettonica ed urbana.  Grazie ai suoi racconti e alle sue fotografie, Jacob, ottenne ciò che si era prefissato: sottolineare le differenze di stili e condizioni di vita tra le classi più povere e quella borghese, in modo da ricevere assistenza e sostegno per poter finalmente cambiare la qualità di vita degli immigrati. Era, infatti, la prima volta che, grazie alla fotografia, le condizioni di vita degli immigrati avevano l’opportunità di emergere. Children of the Poor è il secondo libro scritto da Riis ed ebbe ugualmente un immenso successo.

Riis è stato anche il primo in America ad utilizzare un flash a polvere di magnesio; per renderla meno pericolosa aveva modificato, assieme al suo amico Henry G. Piffard, la formula inventata in Germania nel 1887. Così, le foto che scattava sia di notte che di giorno, potevano rendere bene l’idea di una situazione alquanto critica dei bisognosi. Le fotografie e gli articoli di Riis hanno aiutato  molte persone disagiate; con il suo operato è stato in grado di sensibilizzare il pubblico nei confronti di realtà che spesso non vengono contemplate.

Alessandra Federico

Non tutto il male. Cronache della terra inabitabile 

Non tutto il male. Cronache della terra inabitabile cita in esergo Amore e morte di Giacomo Leopardi. Ciclo di Aspasia e sguardi stranianti, allucinati e visionari.
Qual è il fil rouge che lega i due scritti in un’inusuale contaminatio fabulae?
È un filo che parte da molto lontano. Il titolo con cui Non tutto il male era nato, il suo working title per così dire, era proprio quella terra inabitabile che è confluita nel sottotitolo e che veniva da Amore e morte. E fa tutto parte di un percorso a più tappe, che comunicano fra loro. Mentre scrivevo il romanzo lavoravo anche a un saggio, insieme a Claudio Kulesko, che s’intitola Blackened – Frontiere del pessimismo nel XXI secolo e che è uscito anch’esso nel 2021, per Aguaplano. Per certi versi li vedo come testi gemelli, due lati di una stessa domanda. Il pessimismo è certamente il responsabile del linguaggio allucinato e visionario che lei nota, e che secondo me è proprio il linguaggio del dubbio, della sofferenza; ma del pessimismo non mi attrae l’aspetto alienante e caustico di un certo nichilismo, che in assenza di valori vorrebbe svuotare i significati, quanto appunto la visione dolente ma intensa di Leopardi, un’indagine piena e responsabile verso le ragioni del male. Amore e morte per me significa questo: sono i punti cardinali del nostro fato, le uniche due cose, in fondo, di cui vale la pena parlare – e di cui forse finiamo sempre per scrivere.
Leggere le sue pagine produce un effetto straniante tale per cui pare di essere uno spettatore della vicenda. Linguaggio e descrizioni deviano, soventemente, dal canone del romanzo di fantascienza e da aspirazioni di divulgazione scientifica. In che misura, invece, il suo romanzo recupera il sense of wonder della fantascienza classica?
Sono certamente un amante della fantascienza classica, ma ho avuto la fortuna (o almeno, io la reputo tale) di crescere, come lettore, senza porre particolare attenzione ai canoni. Mi sono sempre trovato in maggiore sintonia con un’idea di fantastico ampia e inclusiva, aperta alle contaminazioni, a tutto ciò che è strano e bizzarro. Mi pare che dialoghi molto bene con il presente, e del resto ho sempre pensato agli autori “fantastici” come a “realisti di una realtà diversa”, come diceva Ursula LeGuin. Il sense of wonder che lei nota in Non tutto il male risulta probabilmente da una confluenza che, nelle mie abitudini di fruitore, è la più naturale possibile fra fonti apparentemente anche molto diverse fra loro, dai poemi medievali ai videogiochi, passando per romanzi fantasy e manga giapponesi.
Chi è stato immaginato ha questo privilegio rispetto a chi è stato partorito, che può tornare a casa, nel territorio informe dell’increato, del mai esistito.” Il suo sguardo ha implicazioni morali?
Credo che ogni nostro sguardo o gesto ne abbia. Questo non significa che un romanzo debba essere una professione di fede o un’affermazione univoca. Mi pare che i protagonisti della storia siano anzi estremamente dubbiosi, confusi, e che l’intera vicenda sia un annaspare intorno a questo dubbio. Ma la radice di tale dubbio, certo, è basilare, e la domanda, il viaggio che compiamo insieme a essa, mi pare spesso più importante della risposta – specialmente in casi dove la risposta è per sua natura inconoscibile, perché in effetti anch’io penso spesso, con Albert Camus, che il suicidio sia l’unico problema filosofico davvero degno di riflessione, e questo è incarnato dal Cartografo alla ricerca del suicidio perfetto.
Quello che mi preme sottolineare, però, e che risuona anche con le precedenti riflessioni sul fantastico, è che una buona storia (parlo in senso generale perché non sono io a dover giudicare se Non tutto il male lo sia, ovviamente) non deve esclusivamente reggersi su simboli o allegorie, su significati nascosti. Vera o immaginata che sia, la storia parla con la propria voce e dialoga con chi la legge – senza per questo essere meno “morale”. Mi piace pensare ai concetti di “credenza secondaria” e “applicabilità” di J. R. R. Tolkien, in questo senso.
Zero, il Cartografo, la “ragazza in bianco” che diventa la “ragazza in nero”. Lei strotola un freakshow davvero virtuosistico: a quale personaggio è più legato?
Non è facile rispondere in modo netto perché gli elementi di questa triade sono strettamente legati fra loro, si compenetrano, sotto molti aspetti. Alcuni lettori li hanno interpretati come tre facce della medesima persona, ed è una lettura che trovo affascinante e del tutto legittima. Mi sbilancerei forse sul Cartografo, perché come suggerisce il nome è il vero “architetto” di Tula, la città dov’è ambientato il libro, è il primo nucleo a cui ho pensato e da cui sono nati gli altri personaggi. In questo senso agisce quasi da ambasciatore dell’autore all’interno della storia, è quello che mi ha aperto una finestra per poter guardare da dentro questo mondo fumoso, e districare gli eventi.
La sua formazione è classica. Ebbene, è così arduo convivere con la Natura in assenza di un Mito che ci accompagni nelle scelte?
Temo di sì. Ho pensato più volte a quello che accade a Tula come a un gigantesco rito funebre collettivo, un funerale in assenza di cadaveri, persone che hanno visto crollare la metafisica e cercano di costruirsi un mito con le proprie mani, perché in assenza di miti non riescono a interpretare la realtà. Da qui le fratture, la depressione, i fantasmi. È un bisogno di spiritualità, ma anche semplicemente di immaginazione, che trovo molto attuale. Quello che mi preme sottolineare, e che spero emerga anche dal libro, è che la questione della convivenza con la natura è asimmetrica. Sembrerà tautologico, ma per la natura è tutto naturale, anche gli incendi, le devastazioni, tutto ciò che accade in risposta ai nostri artifici. Ho recentemente visto il film The Green Knight, che nel linguaggio profondamente immerso nel mito del poema originale riflette in modo secondo me brillante proprio su questo tema: il verde è il colore della terra, della morte che ci digerisce e ci restituisce in vita, dei rampicanti che prima o poi avvolgeranno persino il castello più alto, di un’ascia che prima o poi taglierà il collo di ogni re. E se la fine del mondo è inevitabile, citando il titolo di un bel libro, io penso che “un’altra fine del mondo è possibile”, così come esistono altri miti per raccontarla e per convivere con la natura.
Andrea Cassini di formazione filologo medievale, è giornalista, traduttore e consulente editoriale. Scrive di sport per FiBa, «L’ultimo uomo» e altre testate. Scrive articoli per «L’Indiscreto» e ha pubblicato racconti su riviste letterarie e nelle antologie Prisma – Vol. 1 (Moscabianca, 2019) e Déjà vu – altre storie, altro presente (Alessandro Polidoro, 2020). Ha partecipato come autore a Tina. Storie della grande estinzione (Aguaplano, 2020).
Giuseppina Capone

Salvatore Conaci: Cosa accadde davvero a Evie Benson

Il percorso della protagonista, Evie, si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale analisi adopera flashback che compongono un puzzle psicologico di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?
Amo raccontare la memoria. Siamo quello che siamo perché ricordiamo gli anni, i passi, le sensazioni. Ricordiamo le persone, e ciò che è stato tra noi e loro. E da questo flusso delle cose umane impariamo lezioni nella gioia e nella disperazione. La memoria è una maestra che non si può ignorare, e quanto più ci sforziamo di non darle retta, tanto più sta vincendo le correnti del tempo, in una battaglia che non finirà mai con una chiusura totale dei conti. Il passato trova sempre la strada per raggiungerci, in un modo o nell’altro.
Uno dei temi del romanzo è il dolore muliebre. Perché ha deciso d’illuminare un aspetto troppo spesso taciuto?
Veneravamo un Dio femmina qualcosa come 20 mila anni fa. Oggi, invece, la nostra società è fallocentrica. Al livello microsociologico resiste una misoginia che diventa ginecofobia al livello ‘macro’. Così, le donne portano sulle spalle il doppio del fardello: quello umano, e quello di una società per loro in salita. Questo mi fa orrore. La mia Evie – ma non solo lei – è stata un’occasione di confronto col mio lato femminile, con la mia empatia verso l’universo femmina. Un esercizio di ascolto, oltreché una denuncia. Se ci esercitassimo tutti all’ascolto, elimineremmo gli ostacoli, anziché fare mansplaining su come le donne dovrebbero schivarli.
Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?
È proprio col mistero che ho provato a conferire originalità al romanzo. Col suo galoppo spesso estremo, il thriller è abbastanza esaltante da non aver bisogno di incognite e punti interrogativi per accattivare. Spesso, nel thriller si conosce ogni elemento, e a tenerci incollati è una sola domanda: riusciranno, i protagonisti, a cavarsela? Io ho preso un thriller e ho tentato di dargli un taglio da giallo, con misteri che ottengono risposte poco a poco. Chi è stato? Perché? Cosa accadde davvero a Evie Benson?
Le sue righe suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, se non si sceglie d’amare né d’essere amati, in che misura si sceglie di scrivere?
L’amore costringe ad amare, per parafrasare e sintetizzare Dante. È un tiranno: non possiamo scegliere chi, né come. Per come la vedo, esiste una sola regola, che avvicina amore e scrittura a distanza minima, la distanza di una vocale: si ama quando si ha qualcosa da dare, e si scrive quando si ha qualcosa da dire. E sono due condizioni su cui non abbiamo alcun controllo.
La sua scrittura, scorrevole ed incisiva, diretta e frizzante, pare rinviare al linguaggio delle serie TV. Quanto risponde ad una sua precisa volontà la contaminazione dei linguaggi?
Sono un appassionato sostenitore del concetto di lingua come mezzo, mai come fine. Cosa accadde davvero a Evie Benson narra fatti di fantasia, ma dal potenziale di verosimiglianza elevato. Volevo che il romanzo potesse essere diretto, immediato come una serie TV, proprio perché là fuori le strade pullulano di Evie Benson. Volevo che il messaggio arrivasse. Finora, la scelta sembra darmi ragione.
Salvatore Conaci nasce a Catanzaro, nel ‘90. Tra il 2016 e il 2017, collabora con le riviste Luoghi Misteriosi e ‘900 Letterario. Nel 2015, pubblica Perle nere (Montedit), raccolta di novelle dell’orrore. Il suo primo romanzo è Ordo Mortis (Writers Editor, 2018), che ottiene la menzione di merito al III Premio Internazionale Cumani Quasimodo. Col racconto Odio i treni, a ottobre 2020 è finalista del Premio Letterario Internazionale Nautilus, e vincitore del Premio Speciale Litweb. Di maggio 2021 è il suo thriller psicologico Cosa accadde davvero a Evie Benson (bookabook), per mesi nella Top 100 di Amazon. A ottobre 2021, è tra i vincitori del Concorso Letterario Halloween all’italiana, col racconto Grazie a Dio!
Giuseppina Capone
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