Caravaggio: l’artista rivoluzionario del 1600

Caravaggio, ovvero Michelangelo Merisi, è uno dei più conosciuti pittori  del nostro Paese. Nasce il 29 settembre del 1571 a Milano. Considerato tutt’oggi il più grande artista dell’arte occidentale, Merisi,  si forma artisticamente nella sua città natale ma al contempo, tra il 1593 e il 1610, è operativo anche tra Roma, Napoli, Sicilia e Malta. Sin da subito molto  è stata molto apprezzata l’arte del Merisi,  anche se raggiunse grandissima fama dopo la sua morte. Una caratteristica della sua arte è il chiaroscuro; riusciva ad ottenere un eccezionale effetto grazie al suo modo di evidenziare diversi elementi alla luce e allo sfondo scuro.

I suoi dipinti raccontano il suo animo sensibile e attento soprattutto nell’osservare e percepire ogni stato d’animo e fisico di coloro che ritraeva. Paradossalmente, però, il suo spirito empatico era continuamente tormentato e irrequieto, e, infatti, da giovane venne condannato a morte accusato di omicidio durante una rissa il 28 maggio 1606.

L’artista scappò per il resto della sua vita. I genitori dell’artista, Lucia Aratori e Fermo Merisi, erano nativi di Caravaggio, ma si erano trasferiti a Milano poco dopo essersi sposati (14 gennaio 1571), ebbero anche altri due figli di cui una femmina di nome Caterina. L’intero nucleo familiare, però, fu costretto a scappare da Milano per tornare al loro paese a causa della peste. Ciò nonostante, malauguratamente, Fermo non riuscì a scampare e poco tempo dopo morì. Una volta terminato il periodo della pandemia Michelangelo, a soli 13 anni, iniziò a lavorare a Milano presso il laboratorio di Simone Peterzano (pittore del manierismo lombardo nonché allievo di Tiziano). Si trattava di un contratto di apprendistato (firmato dalla madre per poco più di quaranta scudi d’oro) col Peterzano, del 6 aprile 1584, che si prolungò per 4 anni, e dove soprattutto Merisi apprese la tecnica dei maestri della scuola pittorica lombarda e veneta.

Il giovane pittore, oramai non più alle prime armi, lasciò la Lombardia nel 1592 per raggiungere la capitale italiana. Secondo quanto riportano i documenti dall’Archivio di Stato di Roma, Caravaggio lasciò la città nel 1596 per recarsi presso la bottega del pittore siciliano Lorenzo Carli. Merisi a Roma, nel 1594, fu ospite di Monsignor Pandolfo Pucci da Recanati e per lui realizzava “copie di devozione” di cui, però, per il pittore non erano affatto soddisfacenti e decise quindi di andare via e procurarsi da vivere dipingendo ritratti.

Nel 1596 conobbe il pittore messinese Lorenzo Carli che gli offrì lavoro e soggiorno presso la sua bottega in via della scrofa. Qui l’artista, grazie a Carli, conobbe Mario Minniti che ben prestò diventò il suo più caro amico nonché suo modello. Poco dopo, Merisi, frequentò la bottega di Giuseppe Cesari. Ragazzo che monda un frutto, Bacchino malato (suo autoritratto) e Fanciullo con canestro di frutta sono i primi tre dipinti di un certo rilievo che Caravaggio realizzò in quel periodo.

Merisi Nel 1597 conobbe il cardinal Francesco Maria del Monte, che, rimasto affascinato dall’arte del pittore, volle acquistare alcuni dei suoi affreschi. Da quel momento il cardinale chiamò il giovane artista al suo servizio dove rimase per 3 anni.

Caravaggio conquistò l’ambiente della nobiltà romana con la sua pittura rivoluzionaria. In brevissimo tempo lo stile dell’artista mutò, abbandonò i singoli ritratti e le piccole tele e iniziò a dedicarsi ad opere più elaborate inserendo diversi personaggi all’interno dell’affresco e raccontando episodi specifici. Il riposo durante la fuga in Egitto è uno dei primi capolavori di quel periodo. Grazie al cardinal Francesco Maria del Monte, nel 1599, Caravaggio ottenne la prima commissione pubblica per due tele da collocare all’interno della Cappella Contarelli nella chiesa di san Luigi dei francesi a Roma (dipinti riguardavano tratti della vita di San Matteo: la vocazione e il martirio).

Non passò molto tempo e al giovane pittore furono commissionati altri importanti incarichi: dal commerciante Fabio Nuti la Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Palermo. Poi, per ordine del monsignor Tiberio Cerasi, la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. Nello stesso periodo da parte del figlio del cardinale Matteo Contarelli gli fu commissionato il dipinto di San Matteo e l’Angelo.  Questa tela diede l’opportunità al pittore di dimostrare le sue grandi capacità e di ottenere la commissione delle tele del ciclo di San Matteo.

Il marchese Giustiniani era un ricco banchiere genovese nel giro della corte pontificia, che riuscì a salvare Merisi dalle questioni legali in cui spesso si trovava a causa del suo essere impulsivo e aggressivo. Inoltre, il marchese, collezionò diverse opere di Caravaggio (compreso quello di San Matteo tolto via perché considerato senza decoro) contribuendo, per di più, alla sua formazione culturale.

In quel periodo l’artista viveva un periodo di sconforto per via delle sue opere rifiutate come quella della prima versione della Conversione di San Paolo (cappella Cerasi in Santa Maria del popolo), anche se, secondo la dimostrazione di Luigi Spazzaferro, l’opera non fu rifiutata ma sostituita con quella attuale in seguito ad un accordo con l’artista. Ancora, nel caso del dipinto La morte della Vergine, ritenuta indecente dai Carmelitani Scalzi che decisero di rifiutare il dipinto perché la figura della Vergine era rappresentata con il ventre gonfio e i piedi in vista, Merisi subì un vero e proprio momento di scoraggiamento. Pieter Paul Ruben era un celebre pittore fiammingo (pittore di corte al servizio di Vincenzo I Gonzaga) che ammirava molto l’opera di Merisi, tanto da convincere Vincenzo I ad acquistarla. Nell’aprile del 1607 il dipinto La morte della Vergine entrò a far parte della ricchissima quadreria dei Gonzaga. Da lì a poco il Duca Vincenzo I svendette la collezione di famiglia. Carlo I d’Inghilterra acquistò gran parte delle opere tra cui la Morte della vergine di Caravaggio ma, dopo la decapitazione di Carlo I, i dipinti furono acquistati dal collezionista e finanziere Everhard Jabach e poi in seguito da Luigi XIV. Ad oggi il dipinto di Caravaggio si trova a Parigi  al museo del Louvre. In quel periodo gli atti di violenza diventavano sempre più frequenti da parte del pittore che veniva, di conseguenza, spesso arrestato e portato nelle carceri. Girolamo Stampa da Montepulciano era un nobile ospite, come Caravaggio, presso la dimora del cardinal Del Monte (palazzo madama). Girolamo, dopo essere stato malmenato e rincorso con un bastone da Merisi, decise immediatamente di denunciarlo. Uscì dal carcere nel 1601 e tornò a dipingere; la Cattura di Cristo e Amor vincit omnia. Ma nel 1603, il pittore Giovanni Baglione denunciò Merisi per diffamazione (per aver scritto rime offensive nei confronti di Baglioni). Caravaggio fu liberato poco dopo e condannato agli arresti domiciliari. Era il 1604 quando, tra maggio e ottobre, il pittore fu trovato in possesso d’armi e non solo, fu spesso beccato a svolgere varie ingiurie alle guardie cittadine e per questo arrestato diverse volte.

L’animo del pittore era in continuo tormento; costretto a scappare a Genova (1605) per aver ferito un notaio. Quando tornò a Roma scoprì che aveva una querela da parte della padrona di casa dove lui soggiornava, a causa del mancato pagamento dell’affitto. Non solo,  Merisi venne doppiamente querelato perché, travolto dalla rabbia, lanciò sassi contro la finestra.

La sera del 28 maggio del 1606, a campo Marzio, il pittore fu ferito in seguito ad un fallo durante il gioco della pallacorda. Senza alcun scrupolo, Caravaggio ferì mortalmente il suo rivale Ranuccio Tommasoni da Terni.  Caravaggio fu condannato alla decapitazione in seguito all’omicidio di Tommasoni. Da quel momento l’artista dipingeva ossessivamente teste mozzate. Filippo I Colonna offrì al pittore asilo all’interno di uno dei suoi feudi laziali di Marino, Palestrina, Zagarolo, e Paliano. Merisi realizzò, per i Colonna, diversi dipinti tra cui la Cena in Emmaus, (Pinacoteca di Brera).

Alessandra Federico

La fotografia sociale di Jacob Riis

La fotografia sociale si impone come obiettivo quello di documentare, di raccontare, di portare alla luce tante verità omesse o dimenticate. Jacob Riis è ritenuto uno dei più grandi creatori della fotografia sociale, famoso soprattutto per aver documentato le condizioni di vita degli immigrati negli USA alla fine dell’ottocento.

Riis Nacque a Ribe, in Danimarca nel 1849. Era il terzo di quindici fratelli, lavorava come falegname e, nel 1870, all’età di  ventuno anni, emigrò negli Stati Uniti  con la speranza di vivere una vita migliore. Purtroppo, la vita che lo attendeva non era proprio quella che si aspettava: la guerra civile aveva provocato una forte crisi e questo spinse molte persone a partire verso New York. Riis, negli Stati Uniti, lavorava come minatore, venditore ambulante e carpentiere. Diventò giornalista di cronaca nera per il New York Tribune nel 1877 dimostrando, sin da subito, un particolare coinvolgimento per la situazione di miseria in cui vivevano le persone a Lower East side. Il giornalista si rese conto che scrivere delle vicende non era sufficiente per trasmettere ai lettori la sensazione di sofferenza che quelle persone erano costrette a vivere e decise, quindi, di aggiungere ai suoi racconti le immagini fotografiche. Solo in questo modo avrebbe catturato l’attenzione di chiunque. New York Sun e Scribner’s Magazine erano le due riviste all’interno delle quali riportavano gli articoli e le foto dei bassifondi newyorkesi scattate da Riis. Non solo, gli stessi articoli e fotografie, si trovano nel libro How the other Lives (Come vive l’altra metà, pubblicato nel 1890, dalla casa editrice Charles Scribner’s Sons). In soli 5 anni, vennero pubblicate undici edizioni del libro e la fama del giornalista cresceva ogni giorno di più, anche se, le tecniche di riproduzione tipografica delle fotografie erano ancora di bassissima qualità: solo sedici su trentacinque fotografie furono stampate a mezza tinta e le altre nove fotografie furono illustrate sotto forma di disegno. Da lì a poco, il Commissario della polizia di New York  Heodore Roosevelt, chiuse gli ospizi per poveri gestiti dalle forze di polizia.

I racconti di Riis non riguardavano solo gli avvenimenti tragici di coloro che vivevano nella povertà, nella disgrazia, lui eseguiva indagini anche sulla struttura architettonica ed urbana.  Grazie ai suoi racconti e alle sue fotografie, Jacob, ottenne ciò che si era prefissato: sottolineare le differenze di stili e condizioni di vita tra le classi più povere e quella borghese, in modo da ricevere assistenza e sostegno per poter finalmente cambiare la qualità di vita degli immigrati. Era, infatti, la prima volta che, grazie alla fotografia, le condizioni di vita degli immigrati avevano l’opportunità di emergere. Children of the Poor è il secondo libro scritto da Riis ed ebbe ugualmente un immenso successo.

Riis è stato anche il primo in America ad utilizzare un flash a polvere di magnesio; per renderla meno pericolosa aveva modificato, assieme al suo amico Henry G. Piffard, la formula inventata in Germania nel 1887. Così, le foto che scattava sia di notte che di giorno, potevano rendere bene l’idea di una situazione alquanto critica dei bisognosi. Le fotografie e gli articoli di Riis hanno aiutato  molte persone disagiate; con il suo operato è stato in grado di sensibilizzare il pubblico nei confronti di realtà che spesso non vengono contemplate.

Alessandra Federico

Non tutto il male. Cronache della terra inabitabile 

Non tutto il male. Cronache della terra inabitabile cita in esergo Amore e morte di Giacomo Leopardi. Ciclo di Aspasia e sguardi stranianti, allucinati e visionari.
Qual è il fil rouge che lega i due scritti in un’inusuale contaminatio fabulae?
È un filo che parte da molto lontano. Il titolo con cui Non tutto il male era nato, il suo working title per così dire, era proprio quella terra inabitabile che è confluita nel sottotitolo e che veniva da Amore e morte. E fa tutto parte di un percorso a più tappe, che comunicano fra loro. Mentre scrivevo il romanzo lavoravo anche a un saggio, insieme a Claudio Kulesko, che s’intitola Blackened – Frontiere del pessimismo nel XXI secolo e che è uscito anch’esso nel 2021, per Aguaplano. Per certi versi li vedo come testi gemelli, due lati di una stessa domanda. Il pessimismo è certamente il responsabile del linguaggio allucinato e visionario che lei nota, e che secondo me è proprio il linguaggio del dubbio, della sofferenza; ma del pessimismo non mi attrae l’aspetto alienante e caustico di un certo nichilismo, che in assenza di valori vorrebbe svuotare i significati, quanto appunto la visione dolente ma intensa di Leopardi, un’indagine piena e responsabile verso le ragioni del male. Amore e morte per me significa questo: sono i punti cardinali del nostro fato, le uniche due cose, in fondo, di cui vale la pena parlare – e di cui forse finiamo sempre per scrivere.
Leggere le sue pagine produce un effetto straniante tale per cui pare di essere uno spettatore della vicenda. Linguaggio e descrizioni deviano, soventemente, dal canone del romanzo di fantascienza e da aspirazioni di divulgazione scientifica. In che misura, invece, il suo romanzo recupera il sense of wonder della fantascienza classica?
Sono certamente un amante della fantascienza classica, ma ho avuto la fortuna (o almeno, io la reputo tale) di crescere, come lettore, senza porre particolare attenzione ai canoni. Mi sono sempre trovato in maggiore sintonia con un’idea di fantastico ampia e inclusiva, aperta alle contaminazioni, a tutto ciò che è strano e bizzarro. Mi pare che dialoghi molto bene con il presente, e del resto ho sempre pensato agli autori “fantastici” come a “realisti di una realtà diversa”, come diceva Ursula LeGuin. Il sense of wonder che lei nota in Non tutto il male risulta probabilmente da una confluenza che, nelle mie abitudini di fruitore, è la più naturale possibile fra fonti apparentemente anche molto diverse fra loro, dai poemi medievali ai videogiochi, passando per romanzi fantasy e manga giapponesi.
Chi è stato immaginato ha questo privilegio rispetto a chi è stato partorito, che può tornare a casa, nel territorio informe dell’increato, del mai esistito.” Il suo sguardo ha implicazioni morali?
Credo che ogni nostro sguardo o gesto ne abbia. Questo non significa che un romanzo debba essere una professione di fede o un’affermazione univoca. Mi pare che i protagonisti della storia siano anzi estremamente dubbiosi, confusi, e che l’intera vicenda sia un annaspare intorno a questo dubbio. Ma la radice di tale dubbio, certo, è basilare, e la domanda, il viaggio che compiamo insieme a essa, mi pare spesso più importante della risposta – specialmente in casi dove la risposta è per sua natura inconoscibile, perché in effetti anch’io penso spesso, con Albert Camus, che il suicidio sia l’unico problema filosofico davvero degno di riflessione, e questo è incarnato dal Cartografo alla ricerca del suicidio perfetto.
Quello che mi preme sottolineare, però, e che risuona anche con le precedenti riflessioni sul fantastico, è che una buona storia (parlo in senso generale perché non sono io a dover giudicare se Non tutto il male lo sia, ovviamente) non deve esclusivamente reggersi su simboli o allegorie, su significati nascosti. Vera o immaginata che sia, la storia parla con la propria voce e dialoga con chi la legge – senza per questo essere meno “morale”. Mi piace pensare ai concetti di “credenza secondaria” e “applicabilità” di J. R. R. Tolkien, in questo senso.
Zero, il Cartografo, la “ragazza in bianco” che diventa la “ragazza in nero”. Lei strotola un freakshow davvero virtuosistico: a quale personaggio è più legato?
Non è facile rispondere in modo netto perché gli elementi di questa triade sono strettamente legati fra loro, si compenetrano, sotto molti aspetti. Alcuni lettori li hanno interpretati come tre facce della medesima persona, ed è una lettura che trovo affascinante e del tutto legittima. Mi sbilancerei forse sul Cartografo, perché come suggerisce il nome è il vero “architetto” di Tula, la città dov’è ambientato il libro, è il primo nucleo a cui ho pensato e da cui sono nati gli altri personaggi. In questo senso agisce quasi da ambasciatore dell’autore all’interno della storia, è quello che mi ha aperto una finestra per poter guardare da dentro questo mondo fumoso, e districare gli eventi.
La sua formazione è classica. Ebbene, è così arduo convivere con la Natura in assenza di un Mito che ci accompagni nelle scelte?
Temo di sì. Ho pensato più volte a quello che accade a Tula come a un gigantesco rito funebre collettivo, un funerale in assenza di cadaveri, persone che hanno visto crollare la metafisica e cercano di costruirsi un mito con le proprie mani, perché in assenza di miti non riescono a interpretare la realtà. Da qui le fratture, la depressione, i fantasmi. È un bisogno di spiritualità, ma anche semplicemente di immaginazione, che trovo molto attuale. Quello che mi preme sottolineare, e che spero emerga anche dal libro, è che la questione della convivenza con la natura è asimmetrica. Sembrerà tautologico, ma per la natura è tutto naturale, anche gli incendi, le devastazioni, tutto ciò che accade in risposta ai nostri artifici. Ho recentemente visto il film The Green Knight, che nel linguaggio profondamente immerso nel mito del poema originale riflette in modo secondo me brillante proprio su questo tema: il verde è il colore della terra, della morte che ci digerisce e ci restituisce in vita, dei rampicanti che prima o poi avvolgeranno persino il castello più alto, di un’ascia che prima o poi taglierà il collo di ogni re. E se la fine del mondo è inevitabile, citando il titolo di un bel libro, io penso che “un’altra fine del mondo è possibile”, così come esistono altri miti per raccontarla e per convivere con la natura.
Andrea Cassini di formazione filologo medievale, è giornalista, traduttore e consulente editoriale. Scrive di sport per FiBa, «L’ultimo uomo» e altre testate. Scrive articoli per «L’Indiscreto» e ha pubblicato racconti su riviste letterarie e nelle antologie Prisma – Vol. 1 (Moscabianca, 2019) e Déjà vu – altre storie, altro presente (Alessandro Polidoro, 2020). Ha partecipato come autore a Tina. Storie della grande estinzione (Aguaplano, 2020).
Giuseppina Capone

Salvatore Conaci: Cosa accadde davvero a Evie Benson

Il percorso della protagonista, Evie, si dipana anche a ritroso nel tempo; si serve di ricordi ingialliti e via via emergenti. La sua personale analisi adopera flashback che compongono un puzzle psicologico di notevole suspense. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nella sua produzione? Si possono davvero chiudere i conti con il passato?
Amo raccontare la memoria. Siamo quello che siamo perché ricordiamo gli anni, i passi, le sensazioni. Ricordiamo le persone, e ciò che è stato tra noi e loro. E da questo flusso delle cose umane impariamo lezioni nella gioia e nella disperazione. La memoria è una maestra che non si può ignorare, e quanto più ci sforziamo di non darle retta, tanto più sta vincendo le correnti del tempo, in una battaglia che non finirà mai con una chiusura totale dei conti. Il passato trova sempre la strada per raggiungerci, in un modo o nell’altro.
Uno dei temi del romanzo è il dolore muliebre. Perché ha deciso d’illuminare un aspetto troppo spesso taciuto?
Veneravamo un Dio femmina qualcosa come 20 mila anni fa. Oggi, invece, la nostra società è fallocentrica. Al livello microsociologico resiste una misoginia che diventa ginecofobia al livello ‘macro’. Così, le donne portano sulle spalle il doppio del fardello: quello umano, e quello di una società per loro in salita. Questo mi fa orrore. La mia Evie – ma non solo lei – è stata un’occasione di confronto col mio lato femminile, con la mia empatia verso l’universo femmina. Un esercizio di ascolto, oltreché una denuncia. Se ci esercitassimo tutti all’ascolto, elimineremmo gli ostacoli, anziché fare mansplaining su come le donne dovrebbero schivarli.
Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller. Il suo romanzo in che misura diverge dal genere codificato?
È proprio col mistero che ho provato a conferire originalità al romanzo. Col suo galoppo spesso estremo, il thriller è abbastanza esaltante da non aver bisogno di incognite e punti interrogativi per accattivare. Spesso, nel thriller si conosce ogni elemento, e a tenerci incollati è una sola domanda: riusciranno, i protagonisti, a cavarsela? Io ho preso un thriller e ho tentato di dargli un taglio da giallo, con misteri che ottengono risposte poco a poco. Chi è stato? Perché? Cosa accadde davvero a Evie Benson?
Le sue righe suggeriscono l’amore come un sentimento che intrappola, che non dà scampo e non prevede vie di fuga: Elena e Paride infrangono ogni regola, ogni convenzione narra Omero. Ebbene, se non si sceglie d’amare né d’essere amati, in che misura si sceglie di scrivere?
L’amore costringe ad amare, per parafrasare e sintetizzare Dante. È un tiranno: non possiamo scegliere chi, né come. Per come la vedo, esiste una sola regola, che avvicina amore e scrittura a distanza minima, la distanza di una vocale: si ama quando si ha qualcosa da dare, e si scrive quando si ha qualcosa da dire. E sono due condizioni su cui non abbiamo alcun controllo.
La sua scrittura, scorrevole ed incisiva, diretta e frizzante, pare rinviare al linguaggio delle serie TV. Quanto risponde ad una sua precisa volontà la contaminazione dei linguaggi?
Sono un appassionato sostenitore del concetto di lingua come mezzo, mai come fine. Cosa accadde davvero a Evie Benson narra fatti di fantasia, ma dal potenziale di verosimiglianza elevato. Volevo che il romanzo potesse essere diretto, immediato come una serie TV, proprio perché là fuori le strade pullulano di Evie Benson. Volevo che il messaggio arrivasse. Finora, la scelta sembra darmi ragione.
Salvatore Conaci nasce a Catanzaro, nel ‘90. Tra il 2016 e il 2017, collabora con le riviste Luoghi Misteriosi e ‘900 Letterario. Nel 2015, pubblica Perle nere (Montedit), raccolta di novelle dell’orrore. Il suo primo romanzo è Ordo Mortis (Writers Editor, 2018), che ottiene la menzione di merito al III Premio Internazionale Cumani Quasimodo. Col racconto Odio i treni, a ottobre 2020 è finalista del Premio Letterario Internazionale Nautilus, e vincitore del Premio Speciale Litweb. Di maggio 2021 è il suo thriller psicologico Cosa accadde davvero a Evie Benson (bookabook), per mesi nella Top 100 di Amazon. A ottobre 2021, è tra i vincitori del Concorso Letterario Halloween all’italiana, col racconto Grazie a Dio!
Giuseppina Capone

Dopo” I Promessi sposi” tanti altri classici per “la mia prima biblioteca”

Una collana dedicata a far appassionare i piccoli ai grandi classici della letteratura quella che EMSE ha portato in edicola.

Libri riccamente illustrati che raccontano ai giovanissimi lettori le tante storie che hanno visto protagonisti personaggi diventati famosi grazie alla capacità creativa e letteraria dei loro autori, veri giganti della letteratura italiana e internazionale.

Dai Promessi Sposi che apre la collana ai Viaggi di Gulliver, a Moby Dick, all’Odissea, per proseguire con Alice nel paese delle meraviglie, Ventimila leghe sotto i mari, Zanna Bianca, L’isola del tesoro, Don Chisciotte della Mancia, I tre moschettieri, Le avventure di Pinocchio, Robinson Crusoe, Peter Pan, Le avventure di Tom Sawyer e ancora tante altre avventure e tanti altri personaggi.

La collana si compone di 50 volumi ed è destinata a dare un forte contributo a far avvicinare alla lettura i più piccini.

Antonio Desideri

 

Intervista a Laura Pezzino: A New York con Patti Smith. La sciamana del Chelsea Hotel 

Patti Smith è globalmente nota per l’immenso carisma interpretativo e la suggestiva intensità delle parole delle sue canzoni. Ciò le ha fatto guadagnare l’epiteto di “sacerdotessa maudite del rock”. Ebbene, perché  “La sciamana del Chelsea Hotel”?
Il termine “sciamana” indica colei che media tra due mondi, squello della cosiddetta “realtà” e quello “altro”, popolato dai morti, dagli spiriti, dalle anime. Ha una tradizione antichissima, e ha anche un suono bellissimo che richiama il vento, un vento che porta cambiamenti. Applicato a Patti Smith assume un significato laico e metaforico: i mondi altri con i quali è entrata in contatto sono quelli della poesia, della scrittura, della musica, luoghi in cui si è soggetti all’ispirazione e verso i quali si riceve una chiamata. E il Chelsea Hotel, che durante il secolo scorso ha ospitato almeno due generazione di personalità geniali, per lei ha funzionato come un vero e proprio stargate magico, attraversando il quale è potuta diventare ciò che sognava fin da bambina: un’artista che potesse esprimere se stessa.
La stazione di Port Authority,  il Greenwich Village, Washington Square, Brooklyn, il cbgb e gli Electric Lady Studios, la St. Mark’s Church: lei ripercorre le tappe dell’iter newyorkese di Patti Smith.
In che modo ha operato una selezione; a quale istanza ha risposto? La sua è una “geobiografia”?
È una geobiografia perché, fin da subito, mi è sembrato più “semplice” provare a ripercorrere la vita di un’altra persona, di per sé imperscrutabile, ripercorrendo i luoghi che aveva attraversato piuttosto che procedere senza dei veri e propri appigli. Dopo essermi a lungo documentata ho scelto i posti che, a mio parere, hanno lasciato un’impronta visibile ancora oggi sul suo percorso artistico. Ne avrei potuti scegliere molti altri, Patti non è certo una a cui piace restare ferma. Però alla fine, nell’economia di questo libro, mi è sembrato di avere operato delle scelte almeno secondo il mio giudizio coerenti.
La New York di  Patti Smith è ancora pulsante o ne è la pallida ombra?
Moltissimi dei luoghi che hanno segnato delle tappe fondamentali per la sua formazione non esistono più: il Chelsea Hotel, per esempio, e poi il CBGB, il Max’s, la libreria Scribner e la Brentano’s, l’ino Café. Neppure quel clima lì, il fermento degli anni Sessanta e Settanta, esiste più. Ma molto è rimasto, oppure si è trasformato. Non potrei mai definire pallida una città come New York: potrà essere brutta, sotto certi aspetti, crudele, respingente, oppure esaltante, scintillante, chiassosa, ma la tiepidezza non credo le si addica molto.
Il suo homo viaticor ha uno sguardo delicatamente carezzevole, accoratamente umile, soavemente poetico, fortemente empatico e mai profanatore dei luoghi newyorchési.
In quale accezione possiamo declinare il suo uso del termine “viaggio”?
Il mio viaggio nella New York di Patti Smith è un insieme di viaggi: la somma di quelli che, negli anni, ho fatto in quella città in momenti per me molto diversi, e quelli che ho intrapreso dentro la mia, di vita. Siamo tutti in viaggio, e con questo non dico nulla di nuovo. Anche scrivere un libro lo è, un viaggio faticosissimo ma che, come spesso accade, lascia anche molti spazi aperti alla gioia, alla scoperta. Fare di questo testo una recerche mi è sembrato il modo migliore per fissare una meta e, quindi, individuare le strade migliori per raggiungerla. Alcune si sono rivelate dei vicoli ciechi e sono state abbandonate. Altre mi si sono materializzate davanti ed erano giuste. E come in un vero viaggio la strada si è “fatta” durante il cammino.
Lei compie una ricerca in absentia. Oltre a Patti Smith, immensa protagonista del rock, del proto-punk e della New-wave, cosa la lega a New York?
Un senso di libertà che non ha nulla di romantico o di ideale. In quella città mi sono sentita più libera – che per me significa “me stessa” – che in qualsiasi altro luogo. I motivi possono essere tantissimi, ma anche nessuno. I luoghi hanno un loro spirito e credo che ciascuno di noi assorba molto dei posti in cui si trova se riesce a porsi dentro di essi in maniera aperta.
Laura Pezzino è una giornalista. Appassionata di letteratura e poesia da sempre, è stata a lungo book editor del settimanale Vanity Fair. Oggi collabora con varie testate e case editrici.
Giuseppina Capone

Procida ’22. Capitale italiana della Cultura

Una pubblicazione per presentare al pubblico la bella e suggestiva Procida che è stata designata capitale della Cultura per il 2022, quella realizzata in collaborazione con Guida editori,  che Repubblica ha voluto regalare ai suoi lettori. Il volume in 240 pagine ricche anche di immagini presenta l’sola con racconti di grandi scrittori e una guida agli eventi che si terranno nel corso del 2022 nell’isola di Arturo.

Procida ’22 si inserisce nella collana Novanta/ Venti, fondata nell’aprile di due anni fa, quando la redazione di Napoli di Repubblica, inaugurata il 18 aprile del 1990, festeggiò il trentesimo compleanno, in pieno lockdown. Il  volume è curato da Ottavio Ragone e Conchita Sannino. Le parole di Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, racchiudono il presente e il futuro della suggestiva isola “Procida può diventare il paradigma di una condizione contemporanea: stare dentro la globalizzazione ma con una propria essenza, riconoscibile e certa, che renda un luogo diverso da ogni altro, lo ponga al centro di relazioni forti e capillari ma al tempo stesso lo preservi con la propria  millenaria storia, bella tutela e valorizzazione dell’ambiente”.

Bianca Desideri

Studiare il latino, ponte tra passato e presente

Un’iniziativa editoriale che sicuramente non è passata e non può passare inosservata quella presa del Corriere della Sera che, oltre ad altre collane, ha lanciato nei mesi scorsi in edicola un’opera importante per la cultura del nostro Paese e dedicata ad una lingua che qualcuno potrebbe annoverare tra quelle morte: il latino.

Il latino è la lingua ma anche la cultura “alle radici dell’Occidente” e come tale la ritroviamo ogni giorno anche percorrendo le strade delle nostre città dove vediamo iscrizioni in una lingua, appunto il latino, che è stata la base di una civiltà che ha espanso i suoi confini, fisici e culturali, oltre quelli in cui il nostro Paese è oggi racchiusa. Molte delle nostre città si basano anche sulla struttura urbanistica che da quella civiltà hanno preso consistenza; comprendere la vita e la cultura romana di cui il latino era la lingua non significa solo studiare una fase della storia umana di una popolazione ma anche comprendere la cultura del nostro presente che prende l’avvio da quella.

Per meglio comprendere i diversi aspetti i  venti volumi prevedono una parte più strettamente storico-letteraria ed una dedicata invece alla lingua e alla sua grammatica. Il tutto corredato da esercizi e giochi per rendere più vicina una lingua bella da imparare o da riscoprire.

Bianca Desideri

Flora Fusarelli: Le deboli

Flora Fusarelli è autrice di numerose recensioni di libri, ha curato una collana di classici e varie raccolte di racconti. Con Le deboli si cimenta nel suo primo romanzo.
Marietta, Vincenzina e Annuccia: un caleidoscopio di universi femminili, dissimili quanto ad età ed esperienza esistenziale. Qual tratto le accomuna?
Il tratto principale che le accomuna è di sicuro il loro essere donne oltre che quello di appartenere alla stessa famiglia. Essere donne con una forza che non sanno di avere ma che sapranno tirare fuori al momento giusto.
“I luoghi in cui si nasce, anche se li abbandoni presto, rimangono comunque dentro per tutta la vita”. Quale valore attribuisce all’elemento della “memoria” nel suo romanzo?
La memoria è fondamentale, non sono nel mio romanzo ma in ogni aspetto della nostra vita. Dovremmo ricordare per capire e imparare. Dico in modo quasi qualunquista che senza lo sguardo al passato e alla memoria non potremmo vivere il presente.
Quelle descritte sono di certo donne emblematiche: le loro passioni, le scelte, la debolezza e l’impeto del loro essere, ma anche l’inarrendevolezza e la forza di volontà che le hanno connotate. Quale messaggio ci offrono?
Ad essere sincera nessun messaggio specifico. Forse semplicemente l’idea che ogni persona ha il suo modo di essere, le sue sfaccettature. Ogni persona reagisce alle cose secondo la propria forza e le proprie possibilità.
“Le deboli” ha, evidentemente, richiesto ricerche storiche accurate e meticolose. Quale metodo si è imposta di adottare per trattenere le informazioni e, poi, renderle narrativa?
In realtà la parte storica è piuttosto una cornice, inevitabile, che mi ha permesso di inquadrare la storia in un contesto adeguato. Negli anni ’40, il patriarcato e il fascismo hanno evidenziato degli aspetti già esistenti e nemmeno troppo latenti in relazione alla figura della donna. Non ho seguito metodi e, come sempre quando scrivo, sono andata molto a istinto elaborando informazioni che già avevo.
Le donne sono riuscite ad abbattere con fiera determinazione le gabbie concettuali in cui abbiamo abitato per lungo tempo. Ebbene in cosa si diversifica il punto di vista muliebre?
Nel mio sguardo c’è una diversità di genere che è soltanto quella naturale esistente tra uomo e donna. È per questo che non amo molto parlare di femminismi. Il femminismo è uno soltanto che si può sicuramente scindere creando diverse visioni, ma resta uno e unico ed è soltanto quello che ci appartiene in quanto donne. Quello insito, atavico, ancestrale e profondo.
Giuseppina Capone

Le  “Grandi imprese della storia” una collana per conoscere la storia dell’umanità

Una collana inedita quella del Corriere della Sera che sta portando in edicola da agosto 2021 una serie di monografie dedicate alle grandi imprese compiute da personaggi mossi da “coraggio, ambizione, istinto” e che aprendo i confini del pensiero e dell’orizzonte hanno cambiato la storia del mondo.

Partendo dalla ricerca di Troia che portò Heinrich Schliemann alla scoperta della gloriosa città tanto narrata e cercata con i suoi tesori di arte, ricordo e cultura, le monografie via via ripercorrono, attraverso la storia e la biografia di chi ha condotto l’impresa, la scoperta dell’America di Colombo, le spedizioni verso il Polo Sud di Amundsen. Per proseguire poi con la conquista dello spazio e il primo passo sulla Luna, i viaggi di Marco Polo, gli studi di Darwin,le scalate dell’Everest e del K2, e ancora tanti altri personaggi e tante altre storie che hanno alimentato sogni e fantasie della nostra umanità spesso fortunatamente concretizzatisi.

Alessandra Desideri

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