Draghi e il G30

La delicata questione sollevata dall’inchiesta della Mediatrice europea Emily O’Reilly riguarda Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea (BCE), forse troppo vicino alle banche.

Emily O’Reilly, eletta Mediatrice europea nel luglio 2013, è stata riconfermata nel 2014 per un mandato quinquennale. Una lettera di venerdì 20 gennaio annuncia l’avvio di un’inchiesta sull’appartenenza dell’italiano al Gruppo dei Trenta (G30), un forum internazionale che comprende i dirigenti del settore finanziario pubblico e privato, ma anche sul coinvolgimento degli alti responsabili della BCE nei lavori di questo gruppo di esperti del settore bancario.

L’inchiesta parte da una denuncia presentata dalla ONG Corporate Europe Observatory di Bruxelles (CEO) sui legami tra lobby e istituzioni europee. Il G30 riunisce i governatori delle banche centrali di vari Paesi, economisti di alto livello (come K. Rogoff) e presidenti di istituzioni private (come JP Morgan e UBS). In questo gruppo e con poca trasparenza, banchieri e membri della BCE si incontrano con il rischio che un potenziale conflitto di interessi possa minacciare l’indipendenza dell’istituzione.

La BCE è diventata il supervisore delle 126 più grandi banche dell’eurozona ed è anomalo – secondo K. Haar ricercatore di CEO –  che in un tale contesto il personale dell’istituzione possa, senza alcun controllo, scambiare informazioni con gli istituti che supervisiona. Secondo Haar il G30, nato nel 1978, da gruppo di esperti si è trasformato in una lobby bancaria.

Pertanto, due concezioni di politica monetaria si scontrano:

– la linea dura (di CEO), secondo cui tra banchieri centrali e stakeholder esterni non dovrebbe esistere alcun rapporto, al fine di eliminare qualsiasi potenziale conflitto di interessi;

– la visione più morbida e pragmatica che vede essenziale un dialogo, poiché la BCE necessita  di misurare l’impatto delle sue misure monetarie per migliorarne il funzionamento.

Anche se il Mediatore europeo non ha un potere vincolante, i suoi pareri sono spesso seguiti e CEO spera in una maggiore trasparenza durante le riunioni del G30.

Danilo Turco

Il “secolo asiatico”, dalle conquiste spaziali al pop, l’Oriente espugna anche l’industria musicale

L’era del dragone non riguarda soltanto la Cina, con il suo sviluppo economico e tecnologico, la crescita esponenziale del pil o i piani per conquistare un preciso ruolo nello spazio e nella storia, anche Paesi come Malesia, Thailandia, Corea del Sud o la città stato di Singapore si stanno ritagliando un proprio ruolo, affacciandosi sul panorama mondiale tenendo la scia del grande drago asiatico.

Per fare un esempio, a proposito di oriental style, se negli anni ‘90 lo stile italiano cambiò il gusto e le abitudini culturali di quello che poteva essere definito il “secolo americano”, attraverso la lingua della moda, del design, della cucina e della cultura del Bel Paese, oggi, mentre l’italian style appare un po’ troppo assimilato all’interno della cultura globalizzata del XXI secolo, il korean style o K-Style sta prendendo il sopravvento in Asia e non nasconde le sue ambizioni di confrontarsi direttamente con le grandi industrie culturali europee e nordamericane.

Dopo il successo, nel 2012, del tormentone “gangnam style” del cantante sudcoreano Psy (il singolo più ascoltato di tutti i tempi, con più di 2 miliardi di visualizzazioni su Youtube), quello che poteva sembrare un fenomeno passeggero, si è trasformato nel marchio di fabbrica della così detta K-wave, o onda K-pop: un progetto lautamente finanziato dal governo di Seoul che coinvolge decine di migliaia di giovani coreani, che studiano e si impegnano seriamente per diventare idoli del Pop. Un’utopia che spesso si trasforma in realtà, anche grazie all’aiuto delle case discografiche ed alle sovvenzioni pubbliche.

Negli ultimi anni, infatti, il progetto della K-wave si è sviluppato dalla musica alla televisione,  passando per il design e la cucina e, dopo il successo ottenuto in Cina e Giappone, si è  velocemente espanso in tutta l’Asia, arrivando nelle Americhe e in alcuni paesi dell’Unione Europea; c’è, inoltre, un’altra componente del korean style che lo rende tanto affascinante agli occhi di una moltitudine di ragazzi occidentali ed è la capacità di unire innovazione e tradizione.

Attraverso prodotti artistici orecchiabili e ben confezionati, i cantanti come gli attori, così intriganti ed appariscenti, portano, nella loro espressione, un messaggio facile da comprendere, anche per una cultura straniera, tanto da giocare un ruolo chiave per la promozione della cultura sudcoreana nel mondo.

Insomma, prodotti di super elettronica a parte, l’attenzione che la Corea del Sud sta ottenendo in questi ultimi anni sembrerebbe dovuta alla capacità tutta coreana di realizzare il prodotto culturale più adatto al pubblico globale, una vera e propria catena di montaggio, ad altissimi livelli, di beni culturali, nei campi strategici dei media e dell’intrattenimento.

Con queste premesse resta solo da capire quanto spazio verrà lasciato alla cultura di un paese relativamente piccolo come la Corea del Sud, in un secolo che potrebbe vedere un’unica grande dominazione, quella cinese; speriamo in una diversificazione culturale.

Rossella Marchese

Quantitative easing: BCE estende il programma fino a dicembre 2017

 

La Banca Centrale Europea (BCE) continua a rassicurare i mercati mediante il prolungamento fino alla fine del 2017 del suo vasto programma (iniziato nel 2015) di acquisto di asset. Con questa manovra finanziaria, il cui termine era previsto per marzo, l’istituto di Francoforte si impegna ad acquistare ogni mese l’equivalente di 80 miliardi di euro di debito, principalmente sotto forma di titoli di stato.04

Nonostante la persistente debolezza nella crescita in Europa e i rischi specialmente politici, il Presidente della BCE Mario Draghi non ha mutato le sue previsioni di crescita contando su una crescita pari all’1,7% contro l’1,6% stimato in precedenza. Per alimentare il suo programma di riacquisto ed evitare una penuria di titoli da riscattare, la BCE ha ampliato il deposito di titoli da cui attingere, lasciando i tassi invariati (così come atteso). Il tasso di rifinanziamento, quello principale della BCE, rimane a zero, il tasso di deposito a -0,4% e quello di prestito marginale a 0,25%.

L’inflazione è ancora lontana dalla soglia del 2% stabilita per il mantenimento della stabilità dei prezzi BCE. L’istituto di Francoforte prevede, entro il 2020, un lento incremento dei prezzi, ma al disotto del 2%. Un periodo molto lungo per i mercati che vivono secondo prospettive giornaliere.

Secondo alcuni specialisti come Andrea Iannelli specialista dei mercati obbligazionari presso la Fidelity International, la vittoria del “no” al referendum italiano e le dimissioni del premier Matteo Renzi potrebbero rappresentare un fattore di incertezza per i mercati nel 2017, un anno già caratterizzato da un denso calendario elettorale. Infatti, nella prima metà del 2017, sono previste le elezioni in Francia e nei Paesi Bassi e ciò avverrà in una situazione già contrassegnata dal populismo.

Danilo Turco

Strategie monetarie divergenti

Le Banche centrali dei Paesi industrializzati sembravano condannate a una politica di tassi bassi di lungo periodo. La Federal Reserve statunitense (Fed) dopo aver incrementato i tassi nel dicembre 2015 ha avuto dei dubbi. Il consenso non è più stabile e molti economisti e investitori credono che la Fed, non solo alzerà i tassi di interesse durante la riunione di dicembre, ma che nel 2017 ne velocizzerà il ritmo di crescita.

Dopo le promesse di Trump di rilanciare le spese in infrastrutture e di diminuire le imposte, la Commissione europea pronostica un allentamento della pressione sui deficit. Secondo alcuni osservatori, la BCE potrebbe seguire l’esempio americano sospendendo il riacquisto dei debiti e incrementando i tassi. Tuttavia, questo scenario sembrerebbe prematuro in Europa data la debolezza dell’unione monetaria e la prudenza dell’Istituto di Francoforte.

A dispetto delle ambiziose misure di rilancio promesse da Trump, è probabile che la Fed continuerà a incrementare i tassi, mentre la BCE seguiterà a supportare l’economia. Le conseguenze di una divergenza monetaria tra le due sponde dell’Atlantico potrebbero non solo far approdare più capitale negli Stati Uniti (grazie alla prospettiva di rendimenti più elevati), ma anche spingere il dollaro più in alto. Ciò costituirebbe uno svantaggio per i prodotti americani, che diventerebbero meno competitivi, bensì un vantaggio per gli esportatori europei.

Tuttavia, la BCE rischia una difficile situazione dovuta al deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro. L’incremento dell’inflazione importata andrebbe a discapito dei consumi delle famiglie soprattutto in Francia, Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, dove il costante livello elevato della disoccupazione limita gli aumenti salariali.

Danilo Turco

 

“The Bank of England”: l’opposizione di Mark Carney

I sostenitori del Brexit chiedono la destituzione, a partire dal 2018, del Governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney, ritenuto politicamente troppo coinvolto. Carney resterà fino al 2019.

Il Governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney, è stato criticato dai sostenitori del Brexit per aver svolto un ruolo politico e non di alto funzionario, supportando la causa della permanenza del Regno Unito nell’Unione europea.

I critici ambiscono alla sua destituzione da governatore della Bank of England (BoE)a partire dal 2018, tuttavia i sostenitori di Carney, tra i quali vi è anche Philip Hammond il Cancelliere dello Scacchiere, desiderano la sua permanenza fino al limite massimo del 2021.

Un compromesso è stato raggiunto lunedì 31 ottobre: il Governatore ha annunciato che lascerà l’incarico nel 2019. Carney ha avanzato delle motivazioni personali per giustificare la sua decisione. Teoricamente, questa data dovrebbe consentire la permanenza di Carney fino all’uscita effettiva del Regno Unito dall’Ue prevista per la primavera del 2019, permettendo una transazione strutturata verso le nuove relazioni tre Regno Unito e Unione europea.

Janan Ganesh, editorialista Financial Times, ritiene che le problematiche riguardanti la BoE – la cui indipendenza risale agli Anni ‘90 – e il suo Governatore rappresentano solo un colpo di avvertimento esploso dalla diffamazione euroscettica dei sostenitori del Brexit. Secondo l’editorialista il prossimo obiettivo potrebbe essere il Cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond, deciso sostenitore di un Brexit dolce.

 

Danilo Turco

COP21:  Stati Uniti e Cina insieme per il clima

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Per Pechino e Washington la ratifica dell’accordo firmato a Parigi il 12 dicembre 2015 in occasione della conferenza COP21 per la lotta contro riscaldamento globale è un dato di fatto.

La crescita verde è stato uno dei temi principali dell’incontro e la Cina vuole dare una buona impressione e trainare le altre 19 potenze mentre la maggioranza resta indietro. Almeno 55 paesi, che rappresentano il 55% delle emissioni globali di gas serra devono ratificare l’accordo per l’entrata in vigore come previsto nel 2020. Un obiettivo non facile da realizzare. La Cina, estremamente dipendente dal carbone, da sola produce un quarto delle emissioni globali e pertanto la sua comunicazione appare di grande peso.

Pechino ha sorpreso Washington. Il Presidente statunitense Barack Obama e quello cinese Xi Jinping, leader dei due maggiori paesi inquinanti del mondo, insieme hanno consegnato al Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon gli strumenti di ratifica della convenzione di Parigi.

L’accordo marcherà un punto di svolta per gli Stati Uniti secondo Obama. La posizione di Ban Ki-moon è di generale ottimismo.

 

Danilo Turco

Grecia: su 2,8 miliardi di euro di aiuti, Eurogruppo ne ha sbloccati 1,1

I ministri delle finanze dell’eurozona, riunitisi a Lussemburgo lo scorso 10 ottobre, hanno accettato di versare alla Grecia solo una parte del totale di 2,8 miliardi di euro di aiuti previsti, rinviando a fine mese il pagamento del saldo.

L’Eurogruppo ha elogiato l’attuazione da parte delle autorità greche delle azioni premessa (riforme prioritarie essenziali per ottenere l’ennesima tranche di finanziamenti da parte dei partner internazionali) poste come condizione per il versamento degli 1,1 miliardi di euro destinati a pagare gli interessi del debito. Inoltre l’Eurogruppo ha apprezzato i pregressi relativi al pagamento degli arretrati da parte dello Stato greco e informa che la scadenza richiesta per completare la trasmissione dei dati necessari cade alla fine del mese. La quota di 2,8 miliardi di euro doveva completare una prima tranche di 7,5 miliardi, già versata a giugno per consentire alla Grecia di onorare i prestiti precedenti. Oltre al versamento di tale somma, l’adempimento delle azioni premessa dovrebbe consentire l’apertura di un nuovo capitolo del piano di aiuti di 86 miliardi di euro conclusosi nel 2015.

Per il Fondo Monetario Internazionale (FMI) la questione di una ristrutturazione del debito greco è di fondamentale importanza, pertanto, ha nuovamente domandato all’Ue un alleggerimento. Una tale ristrutturazione è propedeutica per il supporto finanziario di FMI al piano di aiuti per la Grecia.

Appesantita da rigorose politiche di austerità, lo Stato ellenico ha difficoltà ad uscire dalla recessione nonostante il miglioramento della sua situazione finanziaria.

 

Danilo Turco

 

 

Trump e lo “spettro della deglobalizzazione”

L’editoriale “Le fantasme de la démondialisation” pubblicato il 14 novembre dal quotidiano francese Le Monde, evidenzia come la rivoluzione tecnologica e il fenomeno della delocalizzazione del lavoro continueranno indipendentemente da chi considera il successo elettorale di Donald Trump un segnale premonitore della fine della globalizzazione.

Il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha denunciato gli svantaggi della globalizzazione. Brexit ha vinto grazie ai voti delle regioni della Gran Bretagna colpite dalla deindustrializzazione in parte imputabile alla delocalizzazione. Pertanto, i partiti europei di estrema destra (come Front National in Francia) interpretano la vittoria di Trump come un segnale della fine della globalizzazione.

La propaganda del nuovo presidente USA ha sfruttato una realtà già nota da diversi anni: la globalizzazione ha ridotto le ineguaglianze tra il Nord e il Sud del globo, ma con le delocalizzazioni – soprattutto in Cina divenuta l’atelier del mondo – ha depauperato molti territori europei e americani. Tuttavia anche la rivoluzione tecnologica ha contribuito allo smantellamento dei vecchi bacini d’impiego. Infatti, il progresso tecnologico favorisce la delocalizzazione più dell’ideologia della globalizzazione.

L’impatto della vittoria di Trump produrrà negoziazioni più dure tra gli Stati del Nord e quelli del Sud e più acri battaglie sulle condizioni di concorrenza. Probabilmente Trump non sosterrà i due principali trattati di liberalizzazione commerciale – quello con l’Asia e con l’Europa – proposti da Obama. Tuttavia, l’idea di un ritorno al passato basato sul rimpatrio del lavoro rappresenta un’illusione. L’incremento di tariffe proibitive sulle importazioni cinesi e messicane verso gli Stati Uniti scatenerebbe una guerra commerciale e la perdita milioni di posti di lavoro in America e in Europa. Ancor più devastanti potrebbero essere gli effetti di una deglobalizzazione.

 

Danilo Turco

 

 

Refugee Facility: uno strumento per la cooperazione tra Unione europea e Turchia

 

La Turchia, data la sua posizione geografica, è un Paese particolarmente interessato dalle attuali dinamiche dei flussi migratori. Questo Stato ospita più di 2.5 milioni di persone tra rifugiati e richiedenti asilo e ha già speso più di 7 miliardi di euro delle sue risorse per far fronte a questa problematica. Il 15 ottobre la Commissione europea ha raggiunto con la Turchia un’intesa per un Joint Action Plan al fine di costruire una cooperazione nella gestione dei flussi migratori sulla base di sforzi coordinati e per affrontare in modo più adeguato la questione della crisi dei rifugiati. Al Consiglio europeo del 15 ottobre 2015, i Capi di Stato e di Governo dei 28 Stati Ue supportarono l’accordo e il Piano d’azione congiunto. L’Action Plan individua una serie di condotte prioritarie e urgenti che l’Ue e la Turchia devono attuare mediante azioni congiunte e coordinate al fine di gestire l’ampio numero di persone che, sul suolo turco, richiedono protezione.

La Commissione europea il 3 febbraio 2016 ha accolto l’intesa tra gli Stati Ue sui dettagli relativi ai 3 miliardi di euro del Refugee Facility per la Turchia, un supporto che la Commissione suggerì il 24 novembre sulla base di una proposta di cooperazione Ue – Turchia per la gestione dei rifugiati. La Commissione ha concordato di aumentare il suo contributo a 1 miliardo di euro, rispetto ai 500 milioni in origine proposti a novembre. L’Ue ora sarà in grado di stanziare velocemente nuove risorse finanziarie a sostegno delle comunità ospitanti per far fronte alla presenza in Turchia di rifugiati siriani sotto protezione temporanea.

Lo strumento del Refugee Facility per la Turchia è la risposta alla richiesta del Consiglio europeo di un significativo finanziamento addizionale per supportare i rifugiati presenti sul suolo turco. Un meccanismo di coordinamento congiunto è previsto per le azioni finanziate con il budget dell’Ue e con i contributi nazionali degli Stati Ue al fine di garantire una gestione coordinata ed esaustiva delle necessità dei rifugiati e delle comunità ospitanti. Al fine di garantire il coordinamento, la complementarietà e l’efficacia dal punto di vista del finanziamento, il Comitato direttivo del Refugee Facility fornirà una guida strategica e deciderà quali tipi di azioni saranno supportate e mediante quali strumenti finanziari. Il Comitato direttivo sarà composto da rappresentanze della Turchia, degli Stati membri e della Commissione. Inoltre tale Comitato eseguirà il monitoraggio e la valutazione sull’implementazione del Refugee Facility.

L’assistenza fornita con il Refugee Facility sarà subordinata alla conformità da parte della Turchia dello Ue-Turkey Joint Action Plan, che mira a strutturare la gestione dei flussi migratori e ad arginare il fenomeno dell’immigrazione irregolare e, allo EU-Turkey Statement del 29 novembre 2015.

 

Danilo Turco

Deflazione: uno spettro sull’eurozona

Un ritorno della deflazione, se prolungata nel tempo, potrebbe arrecare degli effetti negativi su tutta l’economia europea.  In seguito a un debole tasso d’inflazione pari a +0.3% in gennaio, l’eurozona, secondo l’Eurostat, ha raggiunto -0.2% a febbraio. Per la prima volta da settembre 2015, il tasso di inflazione della zona euro è approdato a un valore negativo.

Le cause di questa diminuzione dipendono in gran parte da una debole crescita economica e dal nuovo assestamento del prezzo del petrolio che spiega la caduta dei prezzi dell’energia, con una diminuzione dell’8% in febbraio rispetto al 5.4% del mese di gennaio. Tuttavia anche altri settori, oltre a quello energetico, sono interessati da una diminuzione dei prezzi. Secondo l’Eurostat i settori dell’alimentazione, dell’alcol e del tabacco hanno visto i loro prezzi aumentare dello 0.7% il mese scorso invece dell’1% di gennaio. I prezzi dei beni industriali non energetici hanno subito un incremento pari allo 0.3% in febbraio, comparato allo 0.7% di gennaio, quelli dei servizi a febbraio sono aumentati dell’1% rispetto all’1.2% di gennaio.

La debole inflazione sottostante preoccupa molti economisti. Essa potrebbe avere un impatto negativo sui salari. La diminuzione dell’inflazione è una preoccupazione prioritaria di lunga data per la Banca Centrale Europea. “L’inflazione debole o lievemente negativa è una porta d’ingresso verso una logica deflattiva in cui la diminuzione dei prezzi si autoalimenta. […] Per incrementare le vendite le imprese devono lanciarsi in una guerra dei prezzi e tagliare i loro margini” (afferma il giornalista Romaric Godin nell’articolo “Zone euro: la menace déflationniste toujours d’actualité”, pubblicato da La Tribune, il 29/02/2016).

La deflazione, essendo uno scenario da cui è difficile uscire, preoccupa molto la BCE. In un tale contesto, è atteso un ulteriore impiego del dispositivo di Quantitative Easing da parte di Mario Draghi. Questa strategia, che ha già mostrato i suoi limiti in materia di inflazione, mediante il suo flusso di denaro potrebbe anche arrecare dei danni nella misura in cui una politica accomodante comprenda varie componenti di una miscela pericolosa in grado di promuovere bolle speculative (opinione espressa dal canale d’informazione tedesco Deutsche Welle nell’articolo “Kommentar: Don Marios Kampf gegen die Windmühlen” pubblicato il 29/02/2016).

Secondo l’economista Anatoli Annenkov, senza riforme economiche più sostanziali, l’obiettivo di un tasso d’inflazione pari al 2% non può essere raggiunto prima di 4 anni (“ECB under mounting pressure to step up eurozone support”, pubblicato il 29/02/2016 da The Guardian). Riforme economiche più sostanziali tuttavia, appaiono poco probabili nel breve periodo.

Danilo Turco

 

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