Il rimbalzo incontrollato

Marco Squarcia nel 2014 pubblica L’Attimo in più. A questo si aggiunge nel dicembre 2018, Quasi Grandi altra raccolta di novelle dai Monti Sibillini fino al Mare Adriatico, pubblicato dalle Mezzelane Editore. L’ultimo lavoro è “Ti racconto una storia”, raccolta di storie ambientate nella provincia di Fermo, editato da Simple Edizioni nel Gennaio 2021. Nell’inverno 2021, pubblico il libro “Il rimbalzo incontrollato”.
Jean Paul Sartre scrive: «Il calcio è la metafora della vita».
Questo luogo comune può essere rovesciato in: «La vita è la metafora del calcio»?
Il calcio o nel mio caso il calcio a 5, è vita  a tutti gli effetti. All’interno del gioco ci sono tantissime dinamiche che si ripropongono in altrettanti aspetti della vita di tutti i giorni. Socializzare è già di per sé la prima forzata causa che spinge molta gente a fare sport. E’ vero quel che dice José Mourinho: “Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”, perché il gioco del pallone è filosofia, studio, competenza, vittoria  o sconfitta, è vita, per l’appunto in tutta la sua totalità.
Nel Novecento il calcio ha sconfitto i totalitarismi di Hitler e di Stalin. Quale funzione politico-sociale-antropologica assume oggi il football rispetto alla sua esperienza? 
Come descrivo nel mio libro lo sport, più che il calcio io direi, riveste una funzione estremamente importante.  Dopo la famiglia e la scuola, è la terza agenzia educativa di accompagnamento nella crescita dell’uomo. I bambini che praticano regolarmente attività fisica o sport acquisiscono maggior fiducia e maggior autostima verso se stessi. Lo sport è fondamentale anche per l’eliminazione di ogni forma di stress o depressione, aiuta a svagarsi. Il calcio è lo sport più popolare anche perché molto semplice da praticare: un pallone fatto in qualunque modo, anche arrotolando dei fogli di carta e due porte inventate (due aste, due zaini, due secchi…). Questa semplicità secondo me, permette di superare molte barriere. Di qui anche il calcio a 5, ha avuto una notevole importanza per lo sviluppo sociale di tanti ragazzi che hanno visto nelle palestre, un “rifugio” dal fuori che a volte, spaventa.
Il suo racconto lascia intendere che calcio sia il modello cognitivo del controllo e dell’abbandono, sostitutivo del “sistema di sicurezza” della storia del pensiero occidentale. Il calcio come idea di libertà, appunto un rimbalzo incontrollato e pieno di gioia?
Nel mio volume racconto l’avventura di una banda di “folli”, come ci piaceva e piace tutt’ora chiamarci. Il calcio a 5, se va affrontato con i giusti valori, permette a mio avviso, di trovare una grande libertà che ogni persona dovrebbe prima o poi, raggiungere: consapevolezza dei propri mezzi. Questa è una libertà che inibisce, fa diventare grandi e può regalare assolutamente tanti attimi di felicità. D’altronde come cito nel mio libro: “Il libro è scritto pensando alla possibilità che sempre più bambini e ragazzi incontrino allenatori che li facciano innamorare dello sport. La teologa Dorothee Solle rispose a chi le chiedeva, alla luce dei suoi studi teologici e religiosi, come avrebbe spiegato a un bambino il concetto religioso di felicità: “Gli darei una palla e lo farei giocare”. E’ il compito di ogni allenatore: mostrare che anche una palla può regalare brevi ma intensissimi momenti di felicità.”
La Var possiede una pretesa: controllare il gioco ed eliminare l’errore.
Ciò non stride con il carattere “hayekiano” di siffatto sport, che si profila come l’esito delle azioni dei giocatori e non di una volontà pianificatrice calata dall’alto? L’errore non è una variabile da accettare?
L’errore è la variabile per eccellenza dello sport: senza di esso qualsiasi partita finirebbe 0-0. nessuna emozione, nessun sentimento, il nulla. La var che nel futsal non esiste, ha la funzione di regolarizzare non tante l’errore umano del giocatore, quando quello dell’arbitro. Un fallo non visto in area è punibile con un rigore, un fuorigioco che non c’è, può essere rivisto al monitor. Certo il romanticismo dell’imprevedibilità sicuramente viene meno, ma ne guadagna la regolarità del gioco. Personalmente insisto molto sull’errore coi ragazzi giovani che alleno, perché è da lì che si può migliorare, osservandosi. E in allenamento per fortuna, non c’è comunque la var.
Considerati i frequenti fatti di cronaca, anche bui, quale connubio ritiene possa essere stabilito tra sport e civiltà?
Purtroppo gli episodi di violenza o inciviltà, sono uno specchio della società confusa e menefreghista che in parte si è sviluppata. Il problema più grande però, secondo me, sta nell’esempio. La civiltà di una persona nello sport, si misura da come questa accetta ad esempio, la sconfitta. Da come questa non cerchi alibi, non punti il dito, non alzi la voce, ma faccia semmai, autocritica. E invece troppo spesso anche nelle palestre di calcio a 5, si vedono “pseudo allenatori”, essere maleducatori invece che educatori, che dovrebbe essere la primissima obiettivi che dovremmo porci di fronte ad un gruppo di adolescenti. Miglioriamo le conoscenze, miglioriamo il nostro background e comprendiamo il vero valore della sconfitta; solo così accetteremo noi stessi e di conseguenza anche gli altri. Con orgoglio ho inserito episodi simili in cui mi sono trovato in campo, e non solo, nei due anni alla Futsal Fermo. Non un elogio al sottoscritto, ma un racconto di come ho interpretato ciò che mi capitava.
Giuseppina Capone

La  Bibbia dei Piccoli

45 uscite in edicola per raccontare con linguaggio semplice e ricche illustrazioni la Bibbia ai piccoli lettori. Una pubblicazione edita da RBA Italia per far conoscere il vecchio e il nuovo testamento attraverso le più belle storie dei libri della Genesi, dell’Esodo, dei Giudici, di Samuele, di Re e da altri libri. Dal nuovo testamento i piccoli lettori potranno seguire il racconto della vita di Gesù.

Un’interessante iniziativa editoriale dedicata ai bambini da leggere piacevolmente da soli o con gli adulti.

Orsola Grimaldi

L’ultima nota. Musica e musicisti nei lager nazisti

Roberto Franchini è giornalista, scrittore e saggista, si occupa da anni di storia della musica. È stato direttore dell’Agenzia di informazione e comunicazione della Regione Emilia-Romagna, presidente della Fondazione Collegio San Carlo di Modena e del Festival filosofia.
Pare surreale che ad Auschwitz, Terezin, Buchenwald e Dachau risuonassero note; eppure, anche i campi di sterminio nazisti possedevano una loro colonna sonora.  
Quali scopi ha potuto ravvedere nella produzione musicale all’interno dei lager?
Occorre distinguere tra produzione musicale volontaria dei prigionieri e “musica obbligata”. I brani eseguiti dalle bande davanti ai cancelli, quando i prigionieri uscivano la mattina per andare al lavoro e quando rientravano, erano una sofferenza psicologica sia per chi li eseguiva e, soprattutto, per chi era costretto ad ascoltarli. La musica scandiva la giornata, i tempi di lavoro e i momenti della vita nei lager: la musica era funzionale alla organizzazione dei lager, modellati in parte sul sistema militare e in parte su quello burocratico tedeschi.
In alcuni lager, come Terezin per esempio, vennero reclusi anche compositori importanti, che non smisero di comporre e di presentare la loro musica, come Victor Ullmann, Pavel Haas e Hans Krasa. Nei lager vennero composte canti di resistenza e canzoni che esprimevano dolore, angoscia, smarrimento.
Le SS imponevano ai prigionieri di accompagnare le torture, le marce verso il lavoro o le camere a gas con brani strumentali. Per quale ragione?
Dal punto di vista pratico la musica copriva le urla dei torturati e il rumore delle pallottole con le quali le guardie mettevano fine alla vita di chi aveva tentato di fuggire o di chi si era ribellato. Allo stesso tempo, la musica aumentava la paura e il dolore di chi era imprigionato.
Lei scrive “Quello che veniva chiamato il modello Dachau comprendeva l’uso degli altoparlanti e della musica come strumenti di propaganda”. E’ verosimile ipotizzare che la musica avesse lo scopo di affermare, ulteriormente, la forza e la sicurezza del regime nazista?
Direi che è non solo verosimile ma anche certo. Dagli altoparlanti i nazisti diffondevano musiche militari, brani patriottici e i discorsi di Hitler, in particolare in occasione dei congressi del partito.
Undici trascinanti capitoli per non dimenticare. Da quali personalità erano costituite orchestre e complessi?
Nei lager nazisti vennero formate bande musicali, vere e proprie orchestre sinfoniche, jazz band, orchestrine per il cabaret, cori di ogni genere. Anche se, talvolta, quelle formazioni musicali si avvalevano di musicisti dilettanti, in molti casi ebbero l’opportunità di aggregare musicisti professionisti e di buon valore. Gli artisti del cabaret di Westerbork erano alcuni dei migliori professionisti tedeschi, i jazzisti di Terezin erano trombettisti o chitarristi di buon livello dell’Europa centrale, in particolare cechi. Ad Auschwitz o a Terezin vennero reclusi pianiste di notevole livello, l’orchestra femminile di Birkenau, unica nel suo genere, venne diretta da Alma Rosè, violinista viennese brillante e di notevole fama.
L’Arte come forma di resistenza?
Questa è la domanda alla quale è più difficile rispondere, forse impossibile. I canti composti dai prigionieri politici dal 1933 fino allo scoppio della guerra erano quasi sempre canti di resistenza: alla musica veniva affidato il compito di esprimere la volontà di ,lottare fino alla liberazione, al ritorno a casa, al recupero di una vita normale, per quanto possibile. Anche alcuni testi del cabaret di Westerbork e le composizioni più complesse di Terezin celavano critiche al nazismo e a Hitler ma anche squarci di speranza.
La musica era lo strumento che i musicisti utilizzavano per mantenere in vita la speranza, via necessaria per non morire psicologicamente prima della morte fisica. Anche se poi, al momento di tirare le somme, erano i comandanti nazisti che avevano nelle loro mani il potere di decidere chi spedire a morire nelle camere a gas di Auschwitz o di Treblinka.
Giuseppina Capone

La mitologia raccontata ai bambini

“Mitologia per bambini”, protagonisti gli eroi della mitologia greca e romana: Ercole con le sue fatiche, la guerra di Troia, il labirinto del Minotauro, Ulisse e le sue avventure, e tanti altri miti in grado sempre di affascinare bambini ed adulti.

La collana di libri illustrati proposta in edicola da Hachette si compone di 70 uscite con cadenza settimanale e con la mitologia “apre le porte di un mondo di fantasia e di avventure”.

Un articolato e piacevole viaggio per conoscere le origini della nostra cultura.

Antonio Desideri

Lutto per il mondo del cinema: Gaspard Ulliel muore in un incidente sugli sci

Il mondo del cinema è sconvolto per  la morte di Gaspard Ulliel. Erano le quattro del pomeriggio quando, lo scorso diciannove gennaio, l’attore francese Gaspard Ulliel (trentasette anni) è morto a causa di un incidente durante una sessione di sci sulle piste di Rosières nel Sud-est della Francia. Le sue condizioni, secondo quanto riportato dal canale tv BFMTV, erano evidentemente gravi già dal momento in cui è stato portato in elicottero presso l’ospedale universitario di Grenoble. Tuttavia potremo, ancora una volta, vedere Gaspard in Tv su Disney+ dal 30 marzo; avevano recentemente terminato le riprese della nuova serie Marvel Moon Knight in cui Ulliel indossa i panni di Midnight Man (antagonista). Il primo film in cui Ulliel recita la sua prima parte risale al 1999 – Alias (un cortometraggio Alias). Dopo aver recitato in diversi telefilm come “Juliette e Julien L’apprenti”. Ma la sua prima esperienza nel mondo del cinema è stato durante il periodo del liceo quando partecipò alla serie televisiva “Une femme en blanc”. In seguito decise di studiare cinematografia presso l’Università di Saint-Denis.

Raggiunse la fama quando, nel 2007, interpretò il ruolo del criminologo cannibale nel film “Hannibal Lecter – Le origini del male”. Ancora, l’anno dopo recitò nel film “Una diga sul Pacifico”. Nel 2014 interpretò l’illustre stilista Yves Saint Laurent nel film “Saint Laurent”, ricevendo il premio César come migliore attore protagonista. Mentre nel 2016, grazie alla sua eccellente interpretazione nel film “E’ solo la fine del mondo” (diretto da Xavier Dolan) vinse ancora una volta il premio César come migliore attore protagonista. Ulliel non è stato solo un memorabile attore. E’ stato, per dodici anni, modello protagonista della campagna pubblicitaria del profumo maschile Bleu de Chanel, diretta da Martin Scozzese.

La vita privata

Gaspard nasce il venticinque novembre del 1984 in Francia a Bulogne-Billancourt. Sua sorella si chiama Elizabeth Camille Ulliel e i loro genitori sono entrambi stilisti di moda. Indefinibile e impossibile descrivere il dolore che in questo momento stanno provando i suoi familiari. Nella sua vita, Ulliel, ha avuto diverse storie affettive: Cécile Cassel fu il suo primo amore (dal 2005 al 2007) . Sempre nel 2007 la sua compagna è stata Charlotte Casiraghi. Mentre dal 2008 al 2013 pare sia stato molto legato sentimentalmente alla modella Jordan Crasselle. Da fine anno 2013,  invece,  fino alla sua scomparsa, è stato fidanzato con la modella Gaelle Pietri, con la quale ha avuto un bambino nel 2016. Sin da piccolo Gaspard ha amato gli animali, lo dimostrava la cicatrice che aveva in volto; morso di un cane con il quale giocava quando aveva 6 anni. Tanti sono stati i film in cui Ulliel ha recitato: “Il patto dei lupi” (2001), “Baciate chi vi pare” (2002), “The tulse Luper Suitcases” (2004), “Una lunga domenica di passioni” (2004), “Le Dernier Jour” (2004), “La maison de Nina” (2005), “Paris je t’aime” (2006), “L’inconnu” (2007), “La legge del crimine” (2009), “La princesse de Montpensier” (2010), “L’art d’aimer” (2011), “Le 5 leggende” (2012), “E’ solo la fine del mondo” (2016), “Io danzerò” (2016), “Eva” (2018), “I confini del mondo” (2018), “Sybil” (2019).

Per la famiglia Ulliel è, immancabilmente, un momento di immensa sofferenza, ma non solo, anche per il mondo del cinema è stata una grande sconfitta quella di perdere uno degli attori più preziosi del cinema francese.

Alessandra Federico

Firenze: tassista aggredisce una giovane donna, per ora sospensione della licenza

E’ diventato istantaneamente  virale sui social network il video girato da un passante  a Firenze  la notte tra il 13 e il 14 gennaio. Nel video appare in modo chiaro la reazione violenta del tassista fiorentino (53enne) contro una giovane turista 33enne di origine americana: un calcio e poi uno schiaffo forte.  La motivazione sarebbe, secondo la giustificazione del 53enne, l’assurda pretesa della turista di ottenere un prezzo più basso sulla corsa. Una pattuglia della polizia è arrivata poco dopo in via Tornabuoni in seguito alla richiesta della turista, fatta alle persone presenti, di chiamare subito la polizia alla quale la ragazza ha raccontato che la lite era iniziata quando i due erano in automobile e che il tassista le avrebbe sputato in viso dopo aver spaccato con tanta violenza il divisore Anti- Covid.

“Senza riserve il comportamento del collega, qualunque siano gli accadimenti in precedenza occorsi” sono state queste le severe parole dei membri della società cooperativa tassisti dopo essere venuti al corrente del video.  “Pur comprendendo lo stato di frustrazione del collega, tra crisi lavorativa e la gravità dei fatti subìti l’altra notte, non possiamo che condannarne la reazione, sia come cittadino che come esercente di un pubblico servizio, ricordandogli che soprattutto chi lavora la notte, questi fatti li subisce con drammatica frequenza, ma senza scadere in reazioni di quel tipo” dichiara uritaxi.   Mentre il Comune di Firenze ha già preso provvedimenti: “pur in attesa delle procedure di accertamento dei fatti da parte delle autorità, ha già attivato i propri uffici competenti in materia di taxi ed ha convocato d’urgenza la commissione comunale taxi per esaminare l’accaduto e adottare i necessari provvedimenti”.  Per adesso è stata disposta l’immediata sospensione della licenza del tassista in attesa della riunione della commissione che è stata convocata per il prossimo mercoledì 19 gennaio. Mentre il sindaco di Firenze  Dario Nardella ha annunciato che la questione è stata segnalata al Questore del capoluogo toscano e che si aspetta un’indagine approfondita e una pena esemplare per il tassista non degno di svolgere un servizio pubblico. “Questa non è Firenze” ha scritto poi su twitter Nardella, definendo la vicenda inaudita e deprecabile. Intanto la giovane donna ha evitato per ora la denuncia ma ha  raccontato  la vicenda sui social network descrivendo Firenze come una città poco sicura, ha inoltre lanciato un appello per fermare la violenza sulle donne.

Alessandra Federico

Fotografia sociale: il primo fotografo sociologo

La fotografia è un vero e proprio mezzo di comunicazione. Il  messaggio che si può inviare tramite una fotografia può variare a seconda dell’obiettivo che si prefigge e, di conseguenza, il suo valore si valuta attraverso l’informazione che fornisce a coloro che la osservano. La fotografia sociale, ad esempio, si concentra non solo sulla ricerca di un’immagine perfetta dal punto di vista tecnico ma la sua priorità è dare spazio al tema sociale; la peculiarità della fotografia sociale (che si impone l’obiettivo di raccontare), quindi, è la ricerca tra estetica, stile personale, racconto, e, soprattutto, documentazione. Difatti, la fotografia sociale, viene utilizzata per raccontare storie di persone che spesso vengono trascurate ed è proprio attraverso quest’ultima che gli osservatori sono invogliati ad iniziare un cambiamento sociale. In sostanza, questo tipo di fotografia si impone, come requisito fondamentale, la ricerca di una verità e di un’obiettività, mediante l’uso dell’immagine soprattutto riguardo le realtà sociali e critiche che la maggior parte delle volte si preferisce ignorare. La prima fotografia sociale fu scattata la Lewis Hine.

 La prima fotografia sociale

“Se sapessi raccontare una storia con le parole, non avrei bisogno di trascinarmi dietro una macchina fotografica”  Lewis Hine

L’intento di Hine, infatti, era proprio quello di raccontare, attraverso la fotografia,  storie che a parole non si riuscivano a descrivere e che venivano, quindi, prese poco in considerazione. Lewis W.Hine nacque a Oshkosh (Wisconsin) nel 1874. Era figlio di un’insegnante e di un veterano della guerra civile. Quest’ultimo perse la vita nel 1892 e Hine fu costretto a prendersi cura della sua famiglia sin da quando era molto giovane, iniziando a lavorare in una fabbrica di tappezziere per mobili e guadagnando poco più di 4 dollari alla settimana, eseguendo 13 ore di lavoro al giorno. In seguito lavorò in una compagnia di filtri per l’acqua e in banca poi. Solo nel 1900 e dopo enormi sacrifici, riuscì finalmente a frequentare l’Università di Chicago seguendo la facoltà di Scienze dell’Educazione. Continuò gli studi presso la New York University e la Columbia.

Hine fu il primo fotografo capace di dare un’importanza ulteriore alla fotografia utilizzandola  per promuovere nuove riforme sociali, come ad esempio mandare informazioni riguardo il lavoro minorile.

Dopo la laurea ottenne il ruolo di insegnante di Sociologia presso la Ethical Culture School di New York e da lì a poco iniziò a realizzare i suoi primi reportage, mirati principalmente sulle grandi città come New York.

Hine credeva che l’educazione fosse un ottimo strumento di trasformazione sociale, anche se non bastava per comprendere a fondo ciò che stava succedendo. Decise così di accompagnare l’insegnamento con la fotografia in modo da orientare i giovani verso una consapevole percezione della realtà. Sentiva il bisogno di dare valore al tema dell’immigrazione dell’America del primo Novecento, optando per la fotografia come  unico mezzo efficace per far essere tutti al corrente di ciò che stava avvenendo. Nacque così il reportage ad Ellis Island. Tantissimi erano gli immigrati che raggiungevano New York nel primo decennio del Novecento. Così, insieme ai suoi alunni, Hine decise di attraversare le strade dell’isolotto newyorkese, il principale punto d’ingresso per gli immigranti che sbarcavano negli Stati Uniti. E attraverso la fotografia, Hine, racconta lo stile di vita degli immigrati, ritraendo queste persone durante le ore di lavoro (sottopagate) persino nelle loro baracche poco pulite, umide e senza luce. Nel 1908, il National Child Labor Committee (NCLC) gli commissiona  un’inchiesta sul lavoro minorile. Decide di dedicarsi del tutto alla fotografia. Il lavoro minorile, nel primo Novecento, era considerato normale in America, ma per Hine non era assolutamente accettabile. Intraprese così lunghi viaggi, (percorrendo oltre ottantamila chilomentri, tra Florida e Chicago) della durata di 10 lunghi anni, per documentare le condizioni lavorative dei bambini nelle miniere, nelle piantagioni e nelle fabbriche.

Le foto di Hine ritraggono bambini che lavorano, con vestiti consumati e sporchi, le lacrime agli occhi e i volti stanchi, nelle industrie, per strada, nelle campagne, e nelle miniere. Per riuscire a documentare le condizioni di questi bambini, però, era costretto a fingersi fotografo industriale o un venditore di bibbie; chi gestiva le miniere o le fabbriche voleva tenere nascosto il lavoro minorile.

Fotografie che hanno girato il mondo intero quelle di Lewis Hine con l’intento di dare voce a chi la voce era stata rubata, per far conoscere la cruda e triste realtà che si ignorava o di cui addirittura non si era a conoscenza.

Le fotografie di Hine sono state fondamentali per scoprire tante crude realtà e riuscire in tempo a soccorrere tante persone in difficoltà, sono state, le fotografie di Lewis, di grande contributo ai fini dell’abolizione del lavoro minorile nel 1916.

“Poeta della fotografia” così è stato definito Lewis Hine  grazie alla sua grande facoltà di comunicare l’animo di un critico tempo storico.

Alessandra Federico

Il mi nonno. Storie e storielle del mio paese

Uno sguardo alle storie e alle leggende del suo paese d’origine, Ponte Buggianese, in provincia di Pistoia, è il leit motif ispiratore de Il mi Nonno. Storie e storielle del mio paese, pubblicato nel 2010, poco prima della scomparsa del suo Autore Antonio Desideri.

Il volume è stato ripubblicato dall’Associazione Culturale “Napoli è” nel 2021 per ricordare la scomparsa dello scrittore e collaboratore di varie testate giornalistiche e della stessa Associazione, raccoglie gli scritti dell’Autore dal 2002 al 20024.

Verità e non-verità (estetica e sociale) della cultura popular

Professor Marino, Theodor W. Adorno è un esponente di spicco della teoria della critica della società legata alla Scuola di Francoforte. Ebbene, quale ruolo ha giocato il confronto con l’industria culturale e con l’esperienza estetica che la caratterizza?
Per prima cosa, ci tengo a esprimere un sincero ringraziamento per il suo interesse per il mio lavoro filosofico: è una cosa che apprezzo molto, che non va mai data per scontata, e per la quale dunque la ringrazio. Poi, rispondendo alla sua domanda, direi che, a differenza di quanto si tende spesso a credere, quello che lei ha appropriatamente chiamato il confronto con l’industria culturale e con l’esperienza estetica che la caratterizza ha giocato un ruolo molto importante (e, quindi, niente affatto trascurabile o “secondario” rispetto ad altre occupazioni tipicamente considerate “primarie” o più serie) all’interno dell’itinerario di pensiero di Adorno come filosofo, sociologo e musicologo – dato che il pensatore francofortese, com’è noto, sapeva coniugare e intrecciare fra loro queste tre dimensioni della sua attività di teorico critico della società. In altre parole, in base all’interpretazione che ho offerto nel mio ultimo libro (Verità e non-verità del popular. Saggio su Adorno, dimensione estetica e critica della società, 2021), nel momento in cui Adorno dedica il proprio tempo e le proprie energie alla stesura di saggi come Sulla situazione sociale della musica (1932), Sul jazz (1936), Il carattere di feticcio della musica e la regressione nell’ascolto (1938) e 16 (1941), non concepisce questa attività di confronto con la musica leggera e la sua fruizione spesso distratta come una “distrazione” rispetto ad attività a prima vista più serie e importanti come la decifrazione filosofico-sociologica della musica d’avanguardia di Schönberg, Berg, Webern e Stravinskij, alla quale non a caso si dedica con attenzione e passione esattamente negli stessi anni. Se, come scrive Adorno in modo molto enfatico nel suo capolavoro di “musicologia filosofica”, Filosofia della musica moderna (1949), “le forme dell’arte registrano la storia dell’umanità più esattamente dei documenti”, ciò implica, per il teorico critico che voglia sviluppare una teoria estetica davvero completa e adeguata (come Adorno cercherà di fare fino alla fine della sua vita, approdando all’incompiuta e postuma Teoria estetica uscita nel 1970), di confrontarsi seriamente con entrambe le sfere della cultura, ovvero sia quella “seria” che quella “leggera”, intese da Adorno come “le due metà, strappate l’una dall’altra, della libertà integrale, che però non si lascia ridurre alla loro mera somma” (lettera di Adorno a Benjamin del 18 marzo 1936). Naturalmente, ciò non toglie che nella stragrande maggioranza dei casi, a partire dai saggi dei primi anni Trenta per arrivare all’Introduzione alla sociologia della musica (1962) e altri scritti, il confronto di Adorno con la popular music, l’industria culturale e l’esperienza estetica che la caratterizza, sia stato un confronto critico, spesso molto duro e talvolta, a mio avviso, persino un po’ eccessivo nella riconduzione di tutta la musica leggera a un’implacabile standardizzazione. Tuttavia, ciò non toglie in alcun modo che gli strumenti analitici e concettuali forniti da Adorno per un’analisi della cultura popular in chiave di teoria critica della società siano ancora molto preziosi e utili, per non dire in alcuni casi indispensabili, soprattutto ai fini di una comprensione non meramente acritico-descrittiva, bensì critico-normativa, di tali fenomeni.
Il pensiero di Adorno possiede una natura dinamica, aperta e plurale volta ad investigare la tematica della verità del non-vero e della non-verità che spesso inerisce al vero. Quali riflessioni scaturiscono dal confronto critico con la popular music novecentesca?
In primo luogo, come ho cercato di mostrare nel mio precedente libro (Le verità del non-vero. Tre studi su Adorno, teoria critica ed estetica, 2019), nonostante Adorno, a differenza di molti altri filosofi a lui contemporanei, non abbia mai scritto un’opera specificamente dedicata al tema della verità in quanto tale, cionondimeno questa tematica è fortemente presente nella sua opera a tutti i livelli, cioè ad esempio a livello sia filosofico che sociologico che musicologico. Inoltre, in un modo che è caratteristico in generale del suo approccio dialettico al pensiero, tale tematica è presente in Adorno soprattutto nella forma di un’indagine sull’intreccio di verità e non-verità: “la filosofia si attua come tale nella permanente disgiunzione del vero e del falso”, scrive Adorno nei Tre studi su Hegel (1963), ma sempre con la consapevolezza che un certo fenomeno o evento (filosofico, musicale, sociale, culturale, storico), anche quando è dotato di ciò che egli chiamava “contenuto di verità”, non per questo può considerarsi del tutto esente da tratti di non-verità se osservato da una prospettiva più ampia e approfondita. Nel mio libro del 2019 ho provato a verificare la portata di questa idea soprattutto tramite un’analisi delle interpretazioni critiche di Adorno della filosofia di autori come Kant, Hegel, Nietzsche e Spengler, nonché della musica di Stravinskij, laddove nel mio libro del 2021 il tema del rapporto dialettico fra vero e non-vero è stato messo alla prova sul terreno della cultura di massa, con un focus specifico sulla popular music (intesa come musica “leggera”, “di massa” e “di consumo”, più che come musica “popolare” nel senso del richiamo alle tradizioni popolari). Per rispondere quindi alla seconda parte della sua domanda, direi che, in primo luogo, è sempre bene tenere presente che oggi, nel 2021, quando leggiamo i saggi di Adorno sul jazz, la popular music, il feticismo in musica e la regressione dell’ascolto, le nostre fonti sonore e i nostri riferimenti musicali e culturali sono parzialmente (sebbene non per forza interamente) diversi da quelli di Adorno. Ciò è stato oggetto di studi specifici, spesso molto accurati a livello storiografico-musicale, fra i quali mi limito a citare quelli di J. Bradford Robinson, R. Leppert, M. Paddison e altri ancora. Solo sulla base di questo dato di fatto, relativo alla formazione di Adorno sia a contatto con le poetiche d’avanguardia primo-novecentesche, sia a contatto con un certo “pseudo-jazz” tedesco degli anni ’20-’30 e poi con un certo jazz ballabile negli U.S.A. negli anni ’30-’40, si spiegano alcune posizioni molto critiche del filosofo di Francoforte nei confronti di tutta la popular music (compreso tutto il jazz), talvolta chiaramente denotanti un’incomprensione verso certi fenomeni, nonché una mancanza di feeling per l’improvvisazione e altro ancora. D’altra parte, ciò non toglie che, anche qualora vengano applicate alla comprensione di fenomeni musicali più recenti, molte categorie introdotte da Adorno nella sua “musicologia filosofica” (come le categorie di standardizzazione e pseudo-individualizzazione, nel caso della sua teoria della popular music) rivelino ancora oggi una straordinaria pregnanza, attualità e capacità di dischiudere nuovi orizzonti interpretativi, soprattutto se ripensate, rimodellate a contatto con fenomeni diversi da quelli a lui noti, e se adottate con flessibilità anziché con rigidità. Sia i saggi dei miei colleghi Alessandro Alfieri, Colin Campbell, Giacomo Fronzi e Marco Maurizi raccolti nel libro Adorno and Popular Music che ho curato nel 2019, sia le analisi che ho svolto con la mia tesista Eleonora Guzzi nel libro La filosofia dei Radiohead (2021), vanno un po’ in questa direzione.
Lei, talvolta, marcia contro Adorno, analizzando i rapporti tra arte e società. Quale potenziale politico possiede, a suo avviso, la popular culture?
Come dicevo, la scelta, in diversi miei articoli e libri recenti, di approcciare la popular culture con gli strumenti di una teoria estetica, come quella di Adorno, declinata in chiave di teoria critica della società, deriva dalla convinzione che perlomeno alcuni fra i numerosi strumenti di analisi forniti a suo tempo da questo autore conservino ancora oggi una straordinaria capacità di penetrazione intellettuale nel campo di questi fenomeni. Chiaramente, però, tutto ciò è valido solo a patto di non assumere un atteggiamento di adesione immediata e acritica nei confronti di ciò che Adorno ha pensato e scritto (perlopiù in modo pessimistico e polemico, com’è noto) a proposito dell’industria culturale e della popular music, bensì di assumere un atteggiamento vigile e critico nei confronti delle sue stesse categorie interpretative. A mio avviso, del resto, ciò è altrettanto vero nel caso dello studio del pensiero di altri autori o altre autrici, nel senso che se c’è una cosa che in filosofia non andrebbe mai fatta, questa è proprio l’adozione di un atteggiamento acritico o persino dogmatico nei confronti della dottrina filosofica che si sta studiando e approfondendo: la filosofia va sempre studiata in modo critico, seppure a partire da un senso di grande rispetto (e talvolta persino di gratitudine) nei confronti dell’autore o l’autrice con cui ci si confronta, e dunque evitando assolutamente che ciò che sto provando a definire in termini di atteggiamento o approccio critico degeneri in presunzione, arroganza e sciocca hybris intellettuale. Detto altrimenti, se mi occupo del pensiero di Kant, che è per certi versi il filosofo critico par excellence, è bene che io lo faccia essendo animato da un sano e magari anche intransigente atteggiamento critico nei confronti del suo stesso criticismo, ma senza mai perdere l’umiltà e la ragionevolezza di riconoscere che, in ogni caso, il mio autore è il grande Immanuel Kant e io, anche qualora scorgessi delle “fratture” (come amava chiamarle Adorno) nel suo sistema, in confronto a lui rimango comunque un piccolo Stefano Marino. Tornando alla sua domanda, in alcuni miei contributi recenti su Adorno mi sono servito a volte per comodità di formule sintetiche (e indubbiamente un po’ semplificative, ma dotate in compenso del pregio della chiarezza) come “approccio adorniano ortodosso/eterodosso” per indicare l’atteggiamento metodologico e interpretativo che sto provando qui a chiarire. Anche in Verità e non-verità del popular ho cercato di mantenermi fedele a tali presupposti nell’approcciare i fenomeni dell’industria culturale e della popular music, procedendo quindi “con Adorno” e però, ove necessario, al contempo anche “contro Adorno”. Da un lato, dunque, si tratta di accostarsi ad Adorno (così come al pensiero di qualsiasi altro pensatore o altra pensatrice, come dicevo) in modo critico, cioè senza fargli sconti, senza lasciarsi condizionare dalla sua indiscutibile autorità in campo filosofico e musicale, e senza privarsi della libertà di mettere in luce ambiguità o problematicità presenti nella sua prospettiva interpretativa, là dove queste ultime emergano; dall’altro lato, però, si tratta di riconoscere al contempo il carattere raro e talvolta unico delle sue analisi dei fenomeni culturali (compresi quelli musicali e, fra questi ultimi, inclusi anche quelli popular). Sotto questo punto di vista, da un lato ritengo legittima in linea di principio qualsiasi obiezione e disamina critica rivolta al pensiero di Adorno, anche sul terreno della sua polemica corrosiva nei confronti della popular culture, purché supportata da valide ragioni e argomentazioni; dall’altro lato, ritengo al contempo che sia un grave errore far sfociare le obiezioni alla critica adorniana della cultura di massa in versioni stereotipate o persino caricaturali del pensiero di Adorno, come purtroppo è capitato spesso e forse continua ancora oggi ad accadere. Fra questi due poli, sintetizzati col ricorso ai semplici termini “con” e “contro”, si è sviluppato negli ultimi anni il mio confronto con la riflessione adorniana, ovvero in uno spazio definito da un atteggiamento di adesione ragionata e condizionata (e dunque mai aprioristica o incondizionata) e di critica articolata e argomentata (e dunque mai banalmente distruttiva e fine a se stessa, ma auspicabilmente costruttiva). Quanto alla questione del potenziale politico insito nella dimensione estetica, compresa l’esperienza estetica spesso “distratta” e immersa nella quotidianità della popular culture, credo la questione sia enorme e di grandissimo interesse anche per l’influenza e l’impatto che la cultura di massa può avere sulle nostre idee, valutazioni e scelte a tanti livelli, non escluso quello etico e politico. A tal proposito, in riferimento ai pensatori francofortesi direi che ciò che possiamo imparare di davvero importante dalle riflessioni di Adorno e anche di Marcuse è come spesso la cosiddetta questione dell’“impegno”, in campo artistico (compreso il caso di una canzone pop-rock), sia più una questione di sperimentazione sul piano della struttura e della forma che una questione di trasmissione immediata di un contenuto o messaggio “politicizzato”. Una prospettiva di questo tipo, infatti, dischiude orizzonti molto interessanti ai fini di un’interpretazione non banalizzante o immediata, ma viceversa mediata e attenta a sfumature e dettagli spesso meno percettibili ma comunque presenti nelle opere d’arte o nelle performance: la lettura delle esecuzioni femminili di brani della tradizione blues che è stata offerta dalla celebre teorica femminista Angela Davis (che, da giovane, fu allieva diretta di Marcuse) rappresenta in tal senso un valido esempio di uno sviluppo ulteriore della succitata prospettiva interpretativa, come ho potuto apprendere recentemente dalla tesi di una mia studentessa, Ines Zampaglione (giacché, sì, a volte sono i/le docenti a imparare dai lavori dei propri studenti e delle proprie studentesse!). In riferimento ad altri autori o autrici che hanno elaborato la questione del rapporto fra dimensione estetica e potenziale politico sulla base di altre categorie di riferimento e all’interno di altre tradizioni filosofiche, direi che, nel caso di arti particolarmente legate alla dimensione performativa, un grande ruolo sia svolto anche dalla componente somatica, cioè dall’uso del corpo del/della performer (compreso il/la musicista rock) allo scopo di veicolare certi significati a livello sia formale che contenutistico; a tal riguardo, la riflessione recente di un filosofo pragmatista come Richard Shusterman può offrire stimoli estremamente interessanti e originali.
Musica e moda possono rivelarsi armi subdole e infide, in grado di sollecitare i più imprevedibili esotismi e razzismi?
Così, su due piedi, e in modo molto spontaneo, mi verrebbe da rispondere a questa domanda che la musica o la moda (così come, in generale, anche l’arte, la filosofia, la politica, lo sport e forse ogni altra cosa) sono un po’ come l’amore, cioè qualcosa che, a seconda delle circostanze, del contesto, delle persone coinvolte, del momento particolare della tua vita ecc., può rappresentare sia una salvezza, sia viceversa una rovina. Come canta Sting con i Police, “love can mend your life” ma, al contempo, “love can break your heart”; come canta Chris Cornell con i Temple of the Dog e i Soundgarden, “love heals all wounds with time” ma, al contempo, a volte “love’s like suicide”. Come si domanda il protagonista di Love, il controverso film di Gaspar Noé del 2015: “Love is strange. How can something so wonderful bring such great pain?”. Ecco, al di là del paragone con l’amore (che, come dicevo, mi è venuto in mente in modo spontaneo e che, essendo piuttosto sensibile a questo tema, ho voluto concedermi di citare), direi che, mutatis mutandis, oscillazioni di tipo analogo possono verificarsi più o meno in ogni esperienza umana. Nessuna pratica umana ne è esente a priori, nessuna è garantita in linea di principio dal capovolgersi nel suo opposto, cioè dal rovesciarsi in ciò che, a prima vista, non tenderemmo ad associare a essa. Ciò (o chi) ha la funzione di educare, a volte può rivelarsi diseducativo; ciò (o chi) ha il ruolo di sgomberare il campo dai pregiudizi, a volte può rivelarsi prigioniero e portavoce di altri stereotipi e preconcetti; ciò (o chi) può apparire in prima battuta come dotato di una funzione progressiva, a volte può rivelare in seconda battuta tratti regressivi; ciò (o chi) suscita in noi l’aspettativa di aprire nuovi orizzonti che favoriscano dialogo e comprensione reciproca, può impercettibilmente ma fatalmente (e a volte inconsapevolmente) scivolare verso nuove forme di chiusura e discriminazione, compreso, nei casi più gravi, il razzismo da lei citato (o il sessismo, aggiungerei). Mi torna in mente, a tal proposito, un passaggio tratto da Prismi, là dove Adorno avverte che non basta semplicemente “diffamare la barbarie e confidare nella salute della civiltà”, ma piuttosto, in modo meno ingenuo e più disincantato, si deve cogliere “l’elemento di barbarie che pervade la stessa civiltà”, cioè bisogna osare sfidare “l’idea di civiltà non meno che la realtà della barbarie”. Ora, proprio perché il significato e la funzione di un’opera, di un’esperienza, di un evento, di un fenomeno storico-culturale o anche semplicemente di una parola o un’azione non sono garantiti una volta per tutte, ma possono talvolta paradossalmente capovolgersi nel proprio opposto (in virtù del contesto, delle situazioni contingenti o anche, per dirla con Gadamer, di una certa “storia degli effetti”), rimane valido il lucido avvertimento contenuto in un brano magnifico dei C.S.I. di Giovanni Lindo Ferretti: “Occorre essere attenti per essere padroni di se stessi / Occorre essere attenti”. Tutto ciò, però, stando attenti al contempo a non essere troppo attenti (!), ovvero prestando sempre attenzione al fatto che lucidità, serietà e padronanza di sé non soffochino la propria spontaneità, e al fatto che il disincanto (che così bene e così giustamente si sposa alla lucidità e all’attenzione) non privi del tutto di una componente di incanto e anche di ingenuità la nostra esperienza con il mondo e la nostra interazione con le altre persone. Comunque, al di là di queste mie osservazioni di carattere un po’ generale, quanto ai punti specifici e particolari toccati dalla sua domanda (che citano moda, musica e razzismo), vorrei solo aggiungere due cose. Primo, che in tempi recenti anche la filosofia della moda (al pari dell’estetica della popular music, del design, del cinema e di molte altre pratiche non contemplate dall’estetica tradizionale nel senso ristretto di “filosofia delle belle arti” e della cosiddetta “grande arte”) ha avuto un significativo riconoscimento e sviluppo, come testimoniato dai lavori di autori come Nickolas Pappas, Lars Svendsen e altri: per chi fosse interessato/a, mi permetto di rimandare in tal senso al libro Philosophical Perspectives on Fashion che curai anni fa con Giovanni Matteucci per l’editore Bloomsbury. Secondo, che proprio Adorno è stato accusato talvolta di razzismo per via dei suoi giudizi estremamente critici sul jazz, in parte dovuti alla sua scarsa comprensione del senso dell’improvvisazione musicale e alla sua conoscenza solo parziale della cultura musicale afro-americana; tuttavia, se, come dicevo, è senz’altro lecito e anzi opportuno studiare Adorno (come ogni autore e autrice) in modo critico, nel caso di un’obiezione del genere ci si trova di fronte a un fraintendimento grossolano e anche pericoloso, di cui peraltro si accorse già negli anni Cinquanta lo stesso Adorno, il quale infatti nel breve testo Replica a una critica a “Moda senza tempo” (incluso nella raccolta Variazioni sul jazz. Critica della musica come merce, edita nel 2018) scrisse: “proteggere i neri proprio dalla mia arroganza bianca – quella di uno che è stato cacciato da Hitler – è grottesco. Piuttosto, per quel che permettono le mie deboli forze vorrei difendere i neri dall’umiliazione di cui sono vittima quando si abusa della loro capacità espressiva trasformandola nella prestazione di un clown eccentrico. Che tra i fan [del jazz] vi siano sinceri contestatori, bramosi di libertà, lo so: il mio saggio menziona il fatto che ‘l’eccessivo, il non-sottomesso nel jazz […] viene ancora sentito insieme a esso’. […] Ma credo che il loro anelito, forse a causa dell’ignobile privilegio culturale in campo musicale che domina nel mondo, sia sviato verso una falsa primordialità e pilotato autoritariamente”.
Professore, qual è oggidì la funzione della cultura?
La sua domanda è quanto mai ampia e ambiziosa, e dunque non è facile fornire una risposta univoca e sintetica. Ciò, in primo luogo, per via del semplice ma evidente fatto che il concetto stesso di “cultura”, al pari di altri concetti di pari ampiezza, complessità e profondità (come, ad esempio, “arte”, “storia”, “scienza”, “filosofia”, “gusto”, “giudizio”, per non parlare poi di “essere”, “divenire”, “spirito”, “verità”, ecc.), non ha un’unica definizione ma, al contrario, può essere (e, di fatto, è stato) definito in modi diversi, a seconda dei presupposti teorici di partenza, degli scopi finali della riflessione e di molto altro ancora. Come scrive Dick Hebdige in apertura a un libro importante e influente come Sottocultura: “la cultura […] è un concetto notoriamente ambiguo. Rifratta in secoli d’uso, la parola ha acquisito una serie di significati assai differenti e spesso contrastanti fra loro”. Detto ciò, comunque, e tenendo conto del senso e del contesto specifico del discorso sviluppato in questo colloquio (ovvero, un contesto di teoria critica e incentrato sul rapporto fra vero e non-vero, intesi adornianamente come rappresentativi, rispettivamente, di un rapporto critico-negativo o, viceversa, acritico-affermativo verso il reale), le risponderei che, come si legge in Dialettica dell’illuminismo, “la cultura è una merce paradossale”, nel senso che, da un lato, perlomeno a partire dalla tarda modernità e la successiva estetica del pop (con la celebre definizione dell’arte come “prostituzione” da parte di Baudelaire e, un secolo dopo, la non meno celebre e provocatoria aspirazione di Warhol a trasformare definitivamente l’arte in un business), essa non può fare a meno di constatare l’avvento della mercificazione anche al proprio interno, ma dall’altro lato, e al contempo, la vera cultura non può neanche fare a meno di interrogarsi criticamente su stessa e tentare di mettere anche solo parzialmente in discussione lo stato di cose presente o, con una terminologia più francofortese, l’esistente. Nel caso specifico di quel particolare prodotto culturale che è un’opera d’arte, in Teoria estetica Adorno spiega che l’opera d’arte, sottoposta oggi alla mercificazione e al feticismo, è tenuta a fare i conti con tali processi, incorporarli in sé e trascenderli immanentemente per configurarsi alla fine come una cosa che sa spogliarsi della propria cosalità, come una sorta di merce che è capace di trascendere se stessa. Scrive Adorno: “nell’apparenza estetica l’opera d’arte prende posizione nei confronti della realtà, che essa nega diventando una realtà sui generis. L’arte fa obiezione alla realtà con la propria obiettivazione. […] Nel pieno dell’utilità dominante l’arte [è] l’altro, ciò che è esente dal meccanismo del processo di produzione e riproduzione della società, ciò che non è sottoposto al principio di realtà”. Una tale dinamica, eminentemente dialettica e in qualche modo anche paradossale, viene talvolta esemplificata da Adorno col riferimento al “gesto del barone di Münchhausen, che si solleva dallo stagno afferrandosi per il codino” (Minima moralia, §46). Oltre a ciò, tornando alla questione più generale del significato della cultura oggi, mi piace concludere la mia risposta alla sua domanda con un rimando all’idea di una perdurante e ancora valida (nonostante tutto) funzione critica della cultura, cioè di una capacità e, in un certo senso, una necessità, da parte della cultura, di favorire l’elaborazione e lo sviluppo di un atteggiamento critico (e, per questo motivo, attivo, anziché rassegnato, sottomesso e passivo) verso il reale. In un recente contributo filosofico-politico sulla pandemia (in uscita a inizio 2022 in un volume da me curato dal titolo Estetica, tecnica, politica: immagini critiche del contemporaneo), la mia collega Valentina Antoniol ha richiamato l’attenzione sulla definizione foucaultiana della filosofia come “superficie d’emergenza di un’attualità” di cui proporre “un’ontologia”, dunque come un’ontologia dell’attualità che è anche “un’ontologia critica di noi stessi”. Pur non essendo possibile, ovviamente, sovrapporre sic et simpliciter la prospettiva critica di Foucault a quella di Adorno, una definizione di questo tipo della filosofia (e, in senso più ampio, del sapere e della cultura come “strumenti” per prendere posizione nei confronti della realtà) si può incrociare e abbinare bene, a mio avviso, alla concezione adorniana della filosofia come “ontologia della condizione falsa”: come si legge in Dialettica negativa, “un’ontologia della cultura dovrebbe includere ciò in cui la cultura in genere ha fallito”. Penso che si tratti, in entrambi i casi, di indicazioni estremamente stimolanti e ancora proficue ai fini di un confronto aperto con il senso e la funzione della conoscenza e della cultura oggi, e non escludo che uno dei progetti futuri a livello di studio e di pubblicazione possa riguardare proprio il confronto fra due autori come Foucault e Adorno su ragione, storia, libertà e cultura.
Stefano Marino è Professore Associato di Estetica presso l’Università di Bologna. Le sue ricerche vertono principalmente sull’ermeneutica filosofica, la teoria critica, il neopragmatismo, la filosofia della musica e l’estetica della moda. È autore delle monografie Verità e non-verità del popular. Saggio su Adorno, dimensione estetica e critica della società (2021), La filosofia dei Radiohead (con E. Guzzi, 2021), Le verità del non-vero. Tre studi su Adorno, teoria critica ed estetica (2019), Aesthetics, Metaphysics, Language: Essays on Heidegger and Gadamer (2015), Aufklärung in einer Krisenzeit: Ästhetik, Ethik und Metaphysik bei Theodor W. Adorno (2015), La filosofia di Frank Zappa (2014), Gadamer and the Limits of the Modern Techno-scientific Civilization (2011). Ha tradotto i libri di Th. W. Adorno, Variazioni sul jazz (2018), di C. Korsmeyer, Il senso del gusto. Cibo e filosofia (2015) e di H.-G. Gadamer, Ermeneutica, etica, filosofia della storia (2014) e Che cos’è la verità (2012). Ha pubblicato come co-curatore i volumi: The “Aging” of Adorno’s Aesthetic Theory (2021), Pearl Jam and Philosophy (2021), Aesthetics and Affectivity (2021), Romanticism and Popular Music (2021), Kant’s “Critique of Aesthetic Judgment” in the 20th Century (2020), The Culture, Fashion, and Society Notebook 2020 (2020), “Be Cool!” Aesthetic Imperatives and Social Practices (2020), Deconstruction (2020), Adorno and Popular Music (2019), Populismo, femminismo, popular culture (2019), Filosofia del jazz e prassi di libertà (2018), Philosophical Perspectives on Fashion (2016), Theodor W. Adorno: Truth and dialectical experience (2016), Nietzsche nella Rivoluzione Conservatrice (2015), Filosofia e Popular Music (2013), Da quando siamo un colloquio. Percorsi ermeneutici nell’eredità nietzschiana (2011), Domandare con Gadamer (2011) e I sentieri di Zarathustra (2009). È inoltre batterista rock-jazz e autore di due raccolte di poesie, Frammenti di agonia umananimale (2015) e Fratture multiple alle ossa e al cuore (2019).
Giuseppina Capone

Paris Fashion Week 2022

Per gli appassionati dell’Alta moda è arrivato il momento più atteso dell’anno: l’Haute couture torna ad illuminare le passerelle della capitale francese per presentare le nuove collezioni moda primavera-estate 2022 dal ventiquattro al ventisette gennaio.

Ad aprire la settimana della moda parigina sarà Schiaparelli; intanto, per dare l’opportunità a tutti gli ospiti di assistere all’evento (gli spettatori saranno divisi per gruppi a causa delle restrizioni per il covid19) la collezione Dior sfilerà ben due volte il giorno ventiquattro gennaio alle 14.30 e alle 17.00. Anche la nuova collezione primavera estate 2022 Chanel la vedremo due volte il venticinque gennaio alle 10.00 e alle 12.00. Ancora, si attende con ansia la nuova collezione primavera estate di Valentino il giorno ventisei gennaio alle ore 10.00. Anche Louis Vuitton volerà a Parigi per presentare la sua nuova collezione all’interno della quale mostrerà l’ultimo lavoro di Virgil Abloh (Direttore artistico di Vuitton venuto a mancare lo scorso ventotto novembre).

L’attenzione da parte degli spettatori, probabilmente, sarà dedicata esclusivamente a Gurum Gvasalia nuovo direttore artistico di Vetements  (marchio francese di calzature fondato da Demna Gvasalia nel 2014). Ma non sarà l’unica New Entry durante la Paris Fashion Week; la vincitrice del premio Andam 2021 è una nuova stilista emergente britannica Bianca Saunders, che presenterà per la prima volta la sua nuova collezione primavera estate 2022 durante lo show parigino. Tanti saranno i giovani stilisti che parteciperanno a questa Fashion week come Airei e Winnie dagli Usa, Namesake da Taiwan, Songzio da Singapore Youths in Balaclava, Lukhanyo Mdingi, dal Sudafrica, Vuarnet e Passaro dalla Francia, dal Messico Liberal Youth Ministry e, infine, Solid Homme dalla Corea che in realtà ha già partecipato alla Milano fashion week la stagione scorsa. Non potevano di certo mancare le due nuove griffe francesi  Bluemarble (fondato dallo stilista Anthony Alvarez ) ed EgonLab (disegnata dal duo Florentin Gl è marec e Ké vin Nompeix).

A presentare la collezione prêt-à-porter femminile primavera estate 2022 saranno Paco Rabanne e Alaïa. Ancora una volta, la circostanza creata a causa del virus Covid19, porterà allo show ulteriori severe restrizioni ma non abbastanza da fermare uno degli eventi più importanti dell’anno nel mondo del fashion.

Calendario Paris Fashion Week

24 gennaio

Schiaparelli

Ulyana Sergeenko

Iris Van Herpen

Georges Hobeika

Christian Dior

Azzaro Couture

Christian Dior

Maison Rabih Kayrouz

Giambattista Valli

25 gennaio

Chanel

Alexis Mabille

Stéphane Rolland

Julien Fournié

Alexandre Vauthier

RVDK Ronald Van Der Kemp

Giorgio Armani Privé

26 gennaio

Franck Sorbier

Zuhair Murad

Valentino

Jean Paul Gaultier

Viktor&Rolf

Elie Saab

Rahul Mishra

Charles de Vilmorin

27 gennaio

Aelis

Yuima Nakazato

Julie de Libran

Christophe Josse

Fendi Couture

Imane Ayissi

Alessandra Federico

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