Il 24 agosto parte il progetto “Marinella e gli Aquiloni 2020”

Inizierà lunedì 24 agosto presso la sede dell’Associazione “Obiettivo Napoli” onlus, a Napoli in via Cosenz n. 55, l’edizione 2020 del progetto “Marinella e gli Aquiloni”, ispirato dai temi della “giustizia di comunità” che vede impegnati il Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità – Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) per la Campania, Enti Pubblici, Enti Morali, Enti del Terzo Settore, Scuole, Municipalità 2 del Comune di Napoli e la Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2, che insieme collaborano in modo informale come “Rete di Marinella”.

Un progetto che, ispirato da una comune idea di reinserimento in un’ottica riparativa, proponendosi la riqualificazione di luoghi della comunità, intende favorire, con acquisizione di competenze o rafforzamento di quelle possedute da ciascuno, il reinserimento lavorativo e in generale la risocializzazione dei soggetti in esecuzione penale esterna e promuovere l’attivazione di opportunità rieducative e risocializzanti attraverso la realizzazione di concrete pratiche di comunità.

Un’esperienza di grande valore formativo quella che è stata vissuta dagli affidati durante la prima edizione del progetto nel 2019 che quest’anno vedrà il coinvolgimento di 12 persone in esecuzione penale esterna in un percorso di formazione tradizionale e on the job che durerà fino al mese di novembre sia in aula sia in cantieri esterni nella zona Mercato – Pendino grazie all’adesione anche per l’edizione 2020 della Municipalità 2 al progetto.

“Marinella e gli Aquiloni” è un’idea progettuale promossa dall’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna della Campania nell’ambito del progetto formativo “La comunità da fare” proposto dalla scuola superiore di esecuzione penale “Piersanti Mattarella” nel 2018.

L’edizione 2020 si svolgerà con particolare attenzione ai protocolli di sicurezza previsti per la pandemia da Covid-19.

“Siamo una rete informale composta da amministratori del territorio, educatori, insegnanti, assistenti sociali, mediatori culturali e linguistici, psicologi, sacerdoti, associazioni, enti, Istituzioni – evidenziano gli organizzatori -.  Tutti noi abbiamo un comune vivo interesse perché il territorio in cui viviamo o viviamo lavorando sia un ambiente positivo, accogliente, nutriente. Un territorio sul quale ci siamo a lungo confrontati nel corso della precedente edizione, facendo tesoro di quanto già costruito e apportando al ragionamento la sua specifica valenza, la sua prospettiva, il suo sguardo. L’esperienza che abbiamo vissuto nel 2019 ci ha resi consapevoli di essere fortemente radicati ad un territorio che ha trascorsi storici, artistici ed economici di gran rilievo e della valenza della scelta per lo sviluppo delle persone che partecipano al progetto”.

La zona di riferimento delle attività teorico – pratiche è quella di Mercato-Pendino che insiste sul territorio della Municipalità 2, ricca di scambi economici, facilitati dalla rete delle comunicazioni e che gode della presenza del mare e su cui insistono le attenzioni di molteplici Istituzioni (Min.Interno, Economia, Istruzione, Salute, Giustizia), ecc.

Zona dalla grande tradizione storico-culturale, densamente popolata, nel corso del tempo, purtroppo, è andata soggetta a progressivo degrado ambientale e sociale, aggravato dalla situazione generatasi dall’emergenza Covid-19, evidenziato a più voci dai cittadini che, però, non sono riusciti ancora a diventare “attori di cambiamento”.

Il progetto si avvale della Rete di istituzioni, scuole, enti ed associazioni che hanno siglato protocolli di collaborazione o che comunque collaborano all’iniziativa: Associazione Obiettivo Napoli onlus, Associazione Volontariato Carcerario Liberi di Volare onlus, Associazione Cidis onlus, Associazione Gioventù Cattolica “Asso.Gio.Ca”, Associazione “Le Viole di Partenope”, Associazione Donne Architetto – Napoli, Associazione di Promozione Sociale “La Livella”, Associazione Centro Antiviolenza “Teresa Buonocore”, Associazione “NomoƩ Movimento Forense, Associazione Culturale “Napoli è”, Associazione “Psicologi in contatto” onlus, Associazione “Padre Elia Alleva O. Carm.” onlus, Associazione “Figli di Barabba, Fondazione Casa dello Scugnizzo onlus; Associazione “Goccia di Rugiada”, Associazione “Arcipicchia”, Associazione “Voce di Vento, Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) per la Campania, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP) della Campania, Municipalità 2 del Comune di Napoli; Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2, Garante dei detenuti della Regione Campania, Garante dei detenuti del Comune di Napoli, CPIA di Napoli, Istituto Comprensivo Borsellino, Centro Servizi Volontariato (CSV), Suore del Complesso della Chiesa di Sant’Eligio Maggiore.

Un progetto al tempo stesso ambizioso e entusiasmante che mira a “contrastare lo scollegamento degli enti e delle associazioni che operano sul territorio promuovendo la reciproca conoscenza (una mappatura attiva) e l’interazione su comuni interessi (l’ambiente, il lavoro ecc.), che possa favorire una fitta rete di interconnessioni, positive e nutrienti, che possa sviluppare azioni positive a favore dei cittadini integrando i cittadini stessi anche avvalendosi di quelle persone in “area penale” che possono dare un forte senso di riscatto e di risarcimento al loro operato”.

“Una rete informale, la “Rete di Marinella”, che riunisce enti pubblici, enti morali, scuole e organismi del terzo settore che dallo scorso anno vede volare in alto i suoi aquiloni e che deve avere una sua dimensione “fisica” nel territorio, un suo luogo di cittadinanza attiva, un “luogo di comunità” dove il cittadino può essere orientato nella risoluzione delle proprie diverse istanze, ma anche dove può incontrarsi e confrontarsi, un “punto di comunità” – concludono i partecipanti al progetto.

Odisseo e Achille, furbizia o impetuosità?

Nessuno ignorava la vita di Odisseo e la morte di Achille, l’astuzia del primo e la schiettezza del secondo, la riflessività dell’uomo maturo e l’impulsività del giovane. Il loro desiderio di uccidere la morte. L’uno schivandola. L’altro disprezzandola. Ne parliamo con Matteo Nucci.

«Nessuno fra gli antichi Greci ignorava la profonda distanza caratteriale che divideva i due eroi. Nessuno ignorava la vita di Odisseo e la morte di Achille, l’astuzia del primo e la schiettezza del secondo, la riflessività dell’uomo maturo e l’impulsività del giovane. Il loro desiderio di uccidere la morte. L’uno schivandola. L’altro disprezzandola». Achille e Odisseo vanno intesi come paradigmatici di due maniere di affrontare la vita?

Certamente. Gli eroi omerici sono archetipi che superano le epoche in cui vennero immaginati. Odisseo e Achille rappresentavano i due caratteri opposti fra gli Achei mostrando ai greci del tempo come vivere le proprie scelte. Lo mostrano a tutti ancora oggi.

Achille è franco, impulsivo, iracondo; Ulisse oculato, astuto e menzognero. Entrambi deboli, impegnati nella contesa con la loro limitatezza. Eppure sono unanimamente reputati eroi. E’la loro umanità foriera d’eroismo?

Come ho sempre cercato di spiegare, eroe non significa oltreumano ma pienamente umano. L’umanità è fatta di fragilità, emotività, sensibilità. L’eroe realizza questa fragilità senza tirarsi indietro. Del resto, non esistono eroi invincibili ma solo uomini vinti.

Cos’hanno ancora da sussurrarci i poemi omerici nel caso di specie ed il “passato” più in generale?

Gli eroi non sussurrano ma gridano. Sono pieni di ira e di emozioni che tracimano dal petto. Non si tirano indietro. Non evitano di fare i conti con se stessi.

Lei presta spesso attenzione agli eroi. E le donne? Potrebbero anch’elle assurgere al ruolo di eroine, magari guardando a modelli desunti dalla contemporaneità?

Certo. Mi sono occupato di donne. Eroi e eroine sono sullo stesso piano. Si parla più spesso di eroi al maschile perché sono loro a fare la guerra di cui si parla di più. Fra Achille e Odisseo dico fin dall’inizio che si deve guardare a una donna: Elena. Del resto quando parlo di realizzazione dell’umanità parlo di uomini e donne. Non amo le questioni di genere.

Odisseo o Achille? Furbizia o impetuosità? Com’è opportuno agire?

Non esistono regole né certezze. Ognuno sceglie il suo modo. Ognuno ha il suo carattere. L’importante è la chiarezza con se stessi e con gli altri, nonché la consapevolezza. Ossia ciò che sia Achille che Odisseo hanno, come ogni altro essere umano realizzato.

 

Matteo Nucci ha pubblicato saggi su Empedocle e Platone e ha curato una nuova edizione del “Simposio di Platone” (Einaudi, 2009). Collabora con ‘Il Venerdì’, con ‘La Repubblica XL’ e “Il Messaggero’. Suoi racconti sono apparsi sul Caffè illustrato e su Nuovi Argomenti. “Sono comuni le cose degli amici” è il suo primo romanzo, pubblicato da Ponte alle Grazie nel 2009, selezionato nella cinquina dei finalisti al Premio Strega 2010. Inoltre: Il toro non sbaglia mai, Ponte alle Grazie, 2011. Vincitore Premio Letterario Francesco Alziator 2012. Finalista Premio Domenico Rea 2012; Le lacrime degli eroi, Giulio Einaudi Editore, 2013. Premio Letterario Giuseppe Giusti 2014; È giusto obbedire alla notte, Ponte alle Grazie, 2017. Premio Roma. Finalista Premio Procida. Finalista Premio Asti d’Appello; L’abisso di Eros, Ponte alle Grazie, 2018.

 

Giuseppina Capone

Yves Saint Laurent: lo sguardo verso il futuro

“Yves Saint Laurent è giovane, ma ha un immenso talento. Penso sia venuto il momento di rivelarlo alla stampa. Il mio prestigio non ne soffrirà affatto”. Diceva Dior terminata la sua ultima sfilata.

Yves Saint Laurent è stato il successore di Christian Dior. Il 30 gennaio 1958, tre mesi dopo la morte di Dior, Yves ricominciò, a soli ventuno anni, carico di speranze pure avendo timore di non riuscire a mantenere lo splendore e la fama del salone di moda più famoso del secondo, ma riuscì a riscuotere ancora più ammirazione di Dior, non soltanto per la sua linea trapezoidale ma soprattutto per essere riuscito a portare leggerezza giovanile alla opulente raffinatezza della tecnica del taglio del re della moda. Ancora, per essere stato un innovatore dell’immagine femminile, grazie alla sua sensibilità spiccata che gli permetteva di guardare al passato e proiettarsi verso il futuro, creando così abiti innovativi per una donna moderna. La stampa parigina dichiarò entusiasta: “la grande tradizione di Dior continua”. Saint Laurent è tuttora considerato uno degli stilisti più stimati al mondo.

Dior avrebbe voluto portare avanti le tradizioni illustri di epoche passate nell’alta moda, creando abiti molto eleganti e raffinati per  una dama di quell’epoca, che aveva spalle arrotondate, gonna lunga e vita a vespa sostenuta da un leggero bustino. Allo stesso tempo, però, sarebbe stato un abbigliamento poco pratico per la donna moderna che Saint Laurent voleva, perché la sua intenzione era quella di metterla al centro di quegli anni ’60, anarchici e turbolenti. “Abbasso il Rizzo, viva la strada” questo era il suo motto. Così, grazie a lui, le donne si distaccarono dalla classica figura femminile di quegli anni il cui fascino consisteva in un’eleganza imposta.

La vita privata

Nacque il 1° agosto 1936 a Orano (Algeria francese). Amava, sin da piccolo, creare bambole di carta, e, infatti, ben presto, iniziò a disegnare abiti per le sue sorelle e per sua madre. Si trasferì a Parigi all’età di diciotto anni dove i suoi figurini di moda ebbero molto successo nella Chambre Syndicale de la haute couture (camera sindacale dell’alta moda).

L’editore di French Vogue presentò il giovane stilista a Christian Dior e, grazie a lui, il talento di Yves crebbe notevolmente. Dior e Saint Laurent erano accomunati da una certa affinità spirituale e venivano entrambi da famiglie borghesi. Tendevano all’intellettualismo, avevano una profonda conoscenza dell’arte. Entrambi, molto giovani, avevano mostrato un talento straordinario per la moda.

La più grande fobia per Yves Saint Laurent era quella per i volatili. Quando presentava una nuova collezione portava con sé un talismano, una corona del rosario e un piccolo peluche a forma di Bugs Bunny.

Entrambi, i due talentuosi stilisti di moda, erano omosessuali ma Yves fu fortunato in amore  a differenza di Dior. Successivamente Saint Laurent, in numerose interviste, parlava apertamente della sua dipendenza all’alcool e dagli stupefacenti. Fu ricoverato per la prima volta all’ospedale americano di Parigi per una cura per la disintossicazione.

Verso il successo

Pochi giorni dopo il trionfo della sua linea trapezoidale, conobbe Pierre Bergè, un uomo abile negli affari. Da lì a poco aprirono un atelier che superò ampiamente il successo della casa di Dior. Nel gennaio 1962 ci fu l’inaugurazione e la folla lo accolse piangendo per l’emozione.

“Ho coscienza di aver fatto progredire la moda del mio tempo e di aver permesso alle donne di entrare in un universo a loro vietato”. Affermava il creatore di moda.

E pare che, con la creazione della linea trapezoidale, abbia ottenuto ciò che desiderava: una visone della donna emancipata, nuova e libera. Alla pari di Chanel, Saint Laurent ha così creato uno stile unico, diventando il simbolo dell’eleganza raffinata e innovativa: il blazer, lo smoking, il trench, il giubbotto di pelle, il tailleur-pantalone hanno cambiato la visione della donna. Era riuscito ad estendere i confini della moda negli Anni ‘60 introducendo nuovi elementi senza i quali ormai la moda femminile sarebbe stata inconcepibile.

Anche “La sahariana”, capo cult dello stilista francese, è stato uno dei capi considerati il simbolo di innovazione per la donna in quegli anni: giacca di origine militare contraddistinta da comode tasche a soffietto. È stato il capo singolo della collezione ”Safari” presentata da Saint Laurent nel 1968. Una vera e propria rivoluzione nel mondo della moda femminile, ancora oggi considerata una delle realizzazioni che ha fatto la storia della moda.

Il grande creatore Saint Laurent morì a Parigi il 1° giugno del 2008 all’età di settantuno anni.

“Coco Chanel e Christian Dior sono dei giganti. Yves Saint Laurent è un genio!” Diana Vreeland, indimenticabile direttrice di Vogue America, aveva fatto questo pronostico.

Alessandra Federico

Il giallo ed il suo potenziale comunicativo

La polisemia di accezioni a dimostrazione di quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti. Ne parliamo con Oriana Ramunno.

Macchinazioni, intrighi, segreti, misteri, verità sapientemente celate, insabbiamenti, enigmi: sono ingredienti essenziali del thriller. Le sue produzioni in che misura divergono dal genere codificato?

Il giallo e il thriller seguono delle regole precise che il lettore si aspetta di ritrovare nella lettura. È una sorta di patto di fiducia tra quest’ultimo e lo scrittore. Se l’impostazione è codificata, non lo sono i contenuti. Il genere, spesso, non è altro che una scatola per presentare tematiche sociali importanti, poco conosciute o su cui sensibilizzare. Un mezzo potentissimo per raggiungere le persone. In Amori malati, per esempio, affronto il problema del femminicidio e della discriminazione di genere; ne Gli alberi alti, vincitore del premio WMI, ho raccontato il genocidio in Ruanda e in Sassi, vincitore del Giallo in Provincia, la difficile situazione del Sud nel dopoguerra e lo sgombero dei Sassi di Matera, allora considerati la vergogna d’Italia. Anche il romanzo in uscita per Rizzoli a gennaio 2021 tratterà un tema delicato e di cui è importante mantenere la memoria. I romanzi di genere, nonostante si muovano entro binari codificati, hanno un potenziale comunicativo enorme.

La sua scrittura, scorrevole ed incisiva, diretta e frizzante, pare rinviare al linguaggio delle serie TV. Quanto risponde ad una sua precisa volontà la contaminazione dei linguaggi?

Credo che ci siano molti modi di raccontare una storia: con la parola, con le immagini, con i suoni. Le contaminazioni tra le varie arti arricchiscono, sono benefiche, e riguardano non solo lo stile, ma anche i contenuti. Io sono stata influenzata dal cinema d’autore, a cui mi sono appassionata durante il periodo universitario, e dal teatro. Quando scrivo non posso fare a meno di lasciarmi suggestionare anche dalla pittura, dalla fotografia o dalla musica. Sassi, per esempio, nasce dalle evocative fotografie antropologiche di Franco Pinna, che ha immortalato la gente contadina di Lucania; gente forte, dalla pelle ruvida e cotta dal sole dei campi; gente della mia terra. Tornando alla domanda, il linguaggio delle serie televisive mi ha sicuramente influenzato per quanto riguarda l’incisività e il ritmo. Peraltro, alcune serie mi hanno lasciato un segno indelebile, una su tutte Breaking Bad.

I protagonisti delle sue pagine sono genuini, talvolta strampalati, eccentrici ed originali, di certo fortemente caratterizzati; i luoghi riconoscibili e concreti: pensa ad una trasposizione televisiva dei sui scritti?

Perché no? Come dicevo prima, una storia può essere raccontata attraverso diversi linguaggi. Emma Acciaio, l’investigatrice di Amori malati, nasce proprio dalle emozioni che mi ha lasciato un’altra forma d’arte: la fotografia. Sigga Ella ha immortalato e raccontato la storia di sette donne affette da alopecia universale nel suo progetto Baldvin, che in finlandese significa “forza”. Per me è stata come una rivelazione. Cercavo un personaggio che raccontasse e sgretolasse gli stereotipi legati al genere, e chi poteva farlo meglio di una donna calva con un lavoro “da uomo”? La forza di Emma Acciaio è tutta nel suo lottare costantemente contro lo stereotipo che la società ha imposto alle donne, cercando di emergere come individuo e non come aspettativa di qualcun altro. Se un giorno dovesse diventare la protagonista di una serie, non potrei che esserne fiera.

La polisemia di accezioni dimostra quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti. Reputa che modi di dire, proverbi e battute possano costituire l’anticamera di forme di violenza o pacificazione?

I proverbi rimandano a un’antica sapienza, ma laddove i modi di dire diventano uno stereotipo, allora possono trasformarsi nell’anticamera di una violenza psicologica.

Lei applica differenti prospettive ad altrettante corrispettive esperienze che l’uomo con le sue attitudini, peculiarità e tessuti relazionali, che gli sono caratteristici, si trova ad affrontare. Ritiene che la parola possegga la potenza per scarnificare l’uomo nella sua complessità e totalità?

Il thriller e il giallo, per loro natura, si propongono di scandagliare la psiche umana, i lati oscuri della mente e i suoi baratri, ma non riusciranno mai a restituire la vasta complessità dell’essere umano. La parola può provare a spiegare e comprendere solo in parte l’essere complesso che è l’uomo, nel bene e nel male.

 

Oriana Ramunno è originaria di Rionero in Vulture, ma vive a Berlino. Nel 2016 vince il Premio WMI con il racconto Gli alberi alti. Il racconto giallo Teriaca è stato pubblicato in appendice a I Gialli Mondadori dopo aver vinto il concorso GialloLuna NeroNotte. Nel 2017 è finalista al Premio Alberto Tedeschi col romanzo Moloch. Nel 2018 vince il primo premio de Il Giallo in Provincia con il racconto Sassi ed esce con il romanzo L’amore malato nello speciale Mondadori sul femminicidio Amori malati. Nel 2018 si classifica seconda al Premio Il Battello a Vapore con il romanzo I draghi di Aleppo. Per Delos Digital ha pubblicato i racconti Gli dei di AkihabaraLe Ombre di AvernoLa vendetta dell’angeloBriganti si muoreVirus HBaba Jaga, La bambina di cristallo, Sassi. A gennaio 2021 esordirà per Rizzoli con un thriller.

 

Giuseppina Capone

Psicologia della moda: l’abito che indossi racconta di te

La psicologia della moda collega corpo e psiche. Perché nella moda c’è dell’altro nel profondo, qualcosa che va oltre la superficie: il tuo vissuto racconta chi sei attraverso il tuo look.

Il tuo stile esprime la tua personalità, le tue ispirazioni, i tuoi sogni.  L’abito che indossi racconta di te non solo in base alla scelta del modello e del colore, ma anche dal make-up o dagli accessori che indossi. È necessario sentirsi bene nella propria “pelle”, è dunque fondamentale indossare abiti che facciano sentire a proprio agio. Secondo ogni situazione che si vive, si tende a sviluppare una parte diversa di sé: nei differenti ruoli sociali che ricopriamo e nelle relazioni interpersonali. Per questo motivo (inconscio) acquisiamo uno stile differente non solo per ogni occasione, ma un look che riesca a esprimere chiaramente ciò che abbiamo vissuto. L’abbigliamento può davvero essere una valvola di sfogo per tirar fuori tutto ciò che si ha dentro, per nascondere degli aspetti e per comunicarne altri.

“La moda passa, lo stile resta”

 Le parole di Coco Chanel ci insegnano che la moda non è solo nuove tendenze da seguire, ma riuscire a trarre da quest’ultime uno stile individuale.  D’altro canto, acquisire un look personale vuol dire avere una profonda conoscenza di sé, ed è interessante e affascinante scoprirne il significato. Partiamo dalle radici: rapporti sociali e modelli familiari sono esempi che sin da bambini abbiamo avanti ai nostri occhi, possono quindi aiutare a formare la personalità poiché l’indole è influenzata dall’ambiente in cui cresciamo. Andare più a fondo attraverso un’intervista ci aiuterà a capire da cosa può dipendere la scelta di un determinato look.

Lucia, diciannove anni, napoletana, racconta il suo vissuto e il motivo per cui ha scelto un tipo di abbigliamento.

Lucia, quali colori di un abito preferisci indossare?

Amo il nero, rispecchia esattamente il mio animo. I colori chiari, invece, mi ricordano la donna che mi ha reso la vita difficile: mia madre aveva un look tutto suo, tipo stile gitano con foulard colorati e gonne lunghe. Andava sempre di fretta, per quel che mi ricordo di lei. Amo invece i colori scuri, quelli che mi fanno sentire a casa e protetta, quelli lunghi che mi coprono. Quando sono costretta a indossare un capo colorato mi sento a disagio. Odio apparire chi non sono.

Credi che il tuo look sia legato alle tue esperienze di vita?

Sì, ho un carattere forte, a volte anche troppo perché sono rigida, ma sono anche molto paziente. Sono cresciuta in una famiglia un po’ particolare: padre, due fratelli e una madre molto presa dalla sua carriera lavorativa. Sin da bambina vedevo mia madre la domenica a pranzo perché quando tornava in settimana la sera da lavoro io già dormivo. Quando avevo poco più di dodici anni decise di andare fuori Italia con il suo collega. Non l’ho mai più vista. Ed è per questo che il rancore lo manifesto tuttora nel mio look scuro e coprente.

Le persone che frequenti hanno un look diverso dal tuo?
Il look dei miei amici è come il mio. Non mi piace frequentare persone che indossano abiti colorati perché questo disturba il mio modo di essere, anche se non giudico nessuno perché ognuno è libero di avere il look che più gli si addice, a parere mio. Poi la paura di essere giudicati non c’è se mi circondo di persone simili a me.

Credi che un abito possa colmare le mancanze d’affetto?
Penso che colmare mancanze con cose materiali non farà altro che farci sentire più soli, perché l’affetto mancato possiamo trovarlo solo dentro di noi, amandoci di più. Io darò ai miei figli tutto l’affetto che non ho ricevuto e sono sicura che sarò una madre migliore di quanto lo sia stata la mia, se tale si può definire. La mancanza di mia madre cerco di colmarla indossando qualche suo capo, me la fa sentire in qualche modo più vicina. Anche se dovrei eliminare ogni cosa che mi ricorda lei. Per quanto male mi ha fatto, resta pur sempre mia madre.

Le parole di Lucia sono un esempio lampante di quanto il nostro look riesca a dare vita a tutto ciò che abbiamo dentro.

Alessandra Federico

Genitori iperprotettivi: quali effetti si ripercuotono sui figli

Quando un genitore è iperprotettivo, lo è solo fin di bene. Lo scopo dei genitori è quello di far crescere i propri figli in un ambiente ovattato per proteggerli anche dai pericoli inesistenti. Vorrebbero, inoltre, che la vita del proprio figlio fosse perfetta e priva di difficoltà e di ostacoli, senza capire che saranno proprio questi ultimi che lo aiuteranno a far sviluppare le proprie capacità e ad acquisire fiducia in se stesso per poi riuscire a cavarsela da solo.

Tutto questo può facilmente provocare l’effetto opposto: timore di uscire dalla propria zona di comfort anche in età adulta, ansia, depressione, e, naturalmente, il bisogno incessante di avere accanto almeno uno dei due genitori per qualsiasi scelta si debba fare, da quella di un abito, fino alla più intima decisione quale quella di un fidanzato/a o di un percorso universitario. Questo, di conseguenza, può far aumentare la paura di crescere e di diventare autonomi e indipendenti. Ancora, potrebbe acquisire grandi difficoltà a gestire la propria vita e a sviluppare una sana autostima, a risolvere le difficoltà da solo e a scoprire il proprio carattere. Nel peggiore dei casi potrebbe divenire una persona molto fragile e facilmente manipolabile dal prossimo.

I bambini hanno bisogno di esplorare il mondo per capire, sin dalla tenera età, chi vorranno essere e quali sono le cose che piacciono o no, per formare il proprio carattere e per iniziare a capire quale potrebbe essere un giorno il proprio posto nel mondo.

Allo stesso tempo, però, una persona cresciuta in un nucleo familiare molto protettivo, può riscontrare anche effetti positivi: essere prudente, riflessivo, giudizioso. Ancora, essere diffidente, che alle volte può portare anche a un giovamento.

Altre volte, invece, potrebbero sentire il bisogno di circondarsi del numero di persone che l’hanno cresciuta e protetta sin dalla nascita.

È giusto che i genitori aiutino i propri figli a superare le difficoltà, ma è ancora più giusto che insegnino loro come si affrontano, intervenendo solo qualora la questione dovesse diventare insormontabile. Ma è fondamentale lasciare loro la giusta libertà per evitare conseguenze poco desiderate.

“Ho trentacinque anni e fino a cinque  anni fa non mi ritenevo una persona particolarmente autonoma e indipendente, avevo ancora bisogno di mia madre per prendere qualsiasi decisione, anche la più banale. I miei genitori sono da sempre stati eccessivamente protettivi con me”.

Benedetta, trentacinque anni, napoletana, racconta la sua esperienza con i suoi genitori iperprotettivi.

Benedetta, in che modo si comportavano con te i tuoi genitori?

Non potevo fare tutto quello che facevano le mie amiche nemmeno quando avevo già ormai venti anni. Se all’età di cinque anni, ad esempio, cadevo e mi sbucciavo le ginocchia, come tutte le bambine della mia età, loro mi medicavano e non mi facevano giocare più nel cortile di casa nostra, fino a quando le mie ferite non si fossero risanate. “Se cadi di nuovo, devi andare all’ospedale perché le ferite non si chiuderanno più”, mi dicevano.

Quali sono state le conseguenze del loro comportamento per te?

Questo loro modo di fare ha fatto si che io crescessi con paure e angosce, con il timore di non essere in grado di andare mai oltre i miei limiti. Avevo paura anche solo di mettere il piede fuori di casa da sola. Paura della vita, di cosa potesse accadermi quando loro non c’erano. Inoltre, ho avuto difficoltà a relazionarmi con le persone. Avevo addirittura paura di attraversare la strada da sola fino a pochi anni fa, avevo vergogna di chiedere un etto di prosciutto al banco salumeria al supermercato. Avevo paura anche della mia stessa ombra. L’unica conseguenza positiva è stata quella di farmi diventare una persona prudente.

Quando hai iniziato a sentire l’esigenza di distaccarti dai tuoi genitori?

Credo che inconsciamente io abbia sempre sentito questo fiato sul collo dei miei, soprattutto di mio padre – la sua unica figlia femmina dopo tre maschi – che anche loro, chi più e chi meno, hanno sempre avuto un atteggiamento maschilista nei miei confronti. “Tu sei femmina, stanne fuori, sei femmina non puoi venire con noi, sei femmina, non lo puoi fare”. Mi dicevano in continuazione. Ho quindi trascorso gran parte della mia esistenza a occuparmi dei miei fratelli, a lavare la loro biancheria, cucinare, stirare e a fare tutto quello che può fare una donna sottomessa da un uomo. Io ne avevo ben quattro di uomini. All’età di trenta anni ho conosciuto una ragazza mentre facevo la spesa al market. Lei era ben vestita e parlava come se avesse il mondo nelle sue mani, ne rimasi affascinata. Da quel momento è come se dentro di me qualcosa fosse cambiato ed era uscita fuori tutta la mia voglia di ribellarmi e vivere la vita come dicevo io. Mi piaceva parlare con lei, volevo essere come lei. Marta aveva ventotto anni ed era all’ultimo anno di architettura. Conviveva con altre sue amiche in una casa al centro storico di Napoli. Marta mi aiutò a trovare un lavoro come commessa e da lì a poco andai a vivere con lei e con le sue coinquiline.

Oggi com’è la tua vita?

Decisamente entusiasmante. Lavoro tanto ma mi piace perché conosco continuamente persone diverse e questo mi ha aiutato tanto a sbloccarmi anche con i ragazzi. Tanto che, in breve tempo, ho iniziato a frequentare quattro uomini nello stesso periodo. La mia amica non riusciva a darsi una spiegazione del come sia stato possibile che io tanto chiusa in me stessa, tanto timida, avessi radicalmente cambiato vita e frequentato più di un uomo. Da lì a poco, scoprimmo, grazie al consulto di uno psicoterapeuta, che questo fenomeno strano per noi, non aveva altro che una spiegazione semplice: i quattro uomini della mia vita (papà e tre fratelli) avevano avuto un atteggiamento morboso nei miei confronti, tanto che, una volta diventata adulta, ho sentito il bisogno di avere quattro ragazzi. Naturalmente l’ho superato e a oggi ho un solo ragazzo e il rapporto con i miei genitori è totalmente cambiato, anche se inizialmente ho dovuto lottare per farmi accettare così come sono.  Adesso sono felice, anche se spesso mi capita di pensare al passato e rammaricarmi del fatto di non essere andata via di casa molto prima. Allo stesso tempo penso che non sia mai troppo tardi per prendere la vita in mano e farne ciò che si vuole.

Alessandra Federico

Tossicodipendenza: Cocaina, Shaboo e sindrome di astinenza neonatale

 “Poteva dirmelo chiunque che la droga distrugge e che mi stavo rovinando la vita, ma non potevo farne a meno perché era l’unico modo che avevo per sopravvivere, paradossalmente. Io stavo bene solo quando ne assumevo una grande dose, mi sentivo invincibile. La Cocaina e la Shaboo mi davano una carica fortissima per affrontare la vita“

Ogni tipo di droga è nociva per il proprio organismo, ma ce ne sono alcune in grado di far diventare una persona davvero irriconoscibile: la Shaboo.

La Shaboo è una droga sintetica il cui utilizzo costante può portare a gravi conseguenze psichiche: perdita di sonno, perdita di capelli e denti, perdita di appetito, e in alcuni casi potrebbe causare la deformazione del viso, o peggio ancora potrebbe portare alla morte. Mentre gli effetti psichici della cocaina sul sistema nervoso centrale possono variare di gravità a seconda della dose assunta e della frequenza d’uso: euforia, anoressia ed insonnia; disforia, caratterizzato da tristezza, malinconia, apatia, difficoltà di attenzione e di concentrazione; paranoia, allucinazioni; psicosi, comportamento stereotipato, perdita di controllo degli impulsi, disorientamento.

Ma quali sono i motivi per cui una persona arriva ad assumere sostanze mortali?

Le difficoltà della vita sono infinite e a volte possono dimostrarsi insormontabili. Potrebbe sembrare più facile, quindi, affrontare i problemi reali rifugiandosi in altro. Scappare dalla realtà o, semplicemente, fingere di far fronte alle difficoltà in modo inconsapevole attraverso il consumo di sostanze tossiche. Esistono storie di vita davvero incredibili. Vicende, racconti di persone che, quando non lo si vive in prima persona o attraverso l’affetto di un caro, nemmeno si immagina potessero esistere realtà del genere. Un drogato viene considerato folle, squilibrato, da evitare, da abbandonare a se stesso, ma alle volte basterebbe capire che chi arriva a farsi del male al punto di rovinarsi la vita, forse è proprio colui che va compreso e aiutato più di chiunque altro al mondo. D’altronde, basterebbe solo ascoltare la loro storia per potersi immedesimare anche per un attimo nelle loro vite, per andare a fondo senza fermarsi alle apparenze.

Ma perché rovinarsi la vita così, invece di affrontare i problemi?

Questo è il quesito che ogni persona pone quando vede qualcuno assumere queste sostanze. È anche vero che tutti hanno una storia da raccontare, tutti hanno, chi più chi meno, affrontato delle difficoltà durante il percorso della propria vita, ma ciò che si vive e come lo si affronta è una questione prettamente personale, dipesa non solo dal proprio vissuto, dalle proprie esperienze, ma anche dal proprio carattere e dalla propria indole. Fare abuso di queste sostanze può portare ad avere poca lucidità mentale, non solo, si ci può facilmente ritrovare ad avere grandi difficoltà ad interromperne l’assunzione anche quando si è in dolce attesa. La maggior parte dei bambini che nascono da madri tossicodipendenti potrebbero avere la sindrome di astinenza neonatale.

La sindrome di astinenza neonatale è un insieme di sintomi che il neonato avverte dopo la nascita a causa dell’interruzione dell’assunzione di sostanze stupefacenti da parte della madre. Ogni sostanza, attraverso la placenta, passa dal torrente circolatorio materno al feto. I sintomi dell’astinenza da droga da parte del neonato, portano il suo sistema nervoso ad uno stato di ipereccitazione. I sintomi più gravi si manifestano durante l’assunzione di queste sostanze da parte della madre. I bambini nati da madri tossicodipendenti possono avere diverse problematiche:

contrarre infezioni HIV; ritardo di crescita intrauterina; convulsioni; malformazioni congenite; nascita pretermine; difficoltà nell’alimentazione;

alterazioni del sonno; respirazione accelerata; tremori e irritabilità.

Purtroppo, quando il corpo e il cervello sono oramai distrutti e manipolati da queste sostanze tossiche, non si ha la capacità di comprendere che non si sta mettendo a rischio solo la propria vita, ma anche quella degli altri, soprattutto per le donne che sono in dolce attesa poiché rischiano di mettere al mondo una persona infelice, viste le varie problematiche fisiche e psichiche che potrebbe avere il bambino. Inoltre, è chiaro che diventa facile assumere atteggiamenti violenti e aggressivi e perdere il controllo di sé. Non è semplice, per chi lo vive, venir fuori da questo inferno, soprattutto quando si è agli inizi del periodo di interruzione di assunzione di queste sostanze, perché lo stato di astinenza può essere vissuto davvero come un incubo. È difficile risalire dopo che si ha toccato il fondo ma quando si decide di essere aiutati si ha già fatto un passo verso la guarigione.

Claudio, quando hai iniziato ad assumere sostanze stupefacenti?

Quando si è molto giovani, e non solo, soprattutto quando si è da sempre poco seguiti dai propri genitori, si intraprendono facilmente strade sbagliate e pericolose. Avevo quindici anni, un po’ per gioco, un po’ per farmi accettare dai miei coetanei, iniziai a fare uso di cocaina, inizialmente. Fino ad assumere altre sostanze pensanti come la Shaboo. Mi sentivo un drago, ma ben presto smisi di studiare. Quando i miei genitori se ne sono accorti mi hanno portato prima in terapia da uno psicanalista e poi in comunità, dove ci sono restato per ben tre anni. Avevo smesso, avevo ritrovato la voglia di vivere essendo me stesso senza il bisogno di dover assumere alcun tipo di sostanza per affrontare le difficoltà della vita. Una volta tornato a casa, dopo tre lunghi anni trascorsi in comunità, non passò molto tempo prima che tornassi di nuovo a fare uso di cocaina e di Shaboo. La mia situazione familiare diventava sempre meno sopportabile perché i miei litigavano in continuazione, hanno da sempre discusso per quel che ricordi e di conseguenza, a me e ai miei fratelli, ci hanno sempre dato poche attenzioni. Per qualche mese ripresi ad andare a scuola, evitavo le compagnie sbagliate e tutto sembrava andare nel verso giusto. I miei genitori decisero finalmente di separarsi e da li a poco mia madre decise di distruggere ulteriormente il nostro nucleo familiare invitando a vivere con noi il suo nuovo fidanzato. Giorgio è un uomo distinto, una persona per bene e da stimare, ma io mi sentivo ancora una volta, e ancora più di prima, messo da parte nella vita di mia madre. Partiva spesso con lui e mi lasciava solo con mia sorella di undici anni e mio fratello di 9. Uscivo da poco da una situazione difficile e per me reggere ancora quella stabilità da solo, mettermi sulla retta via e restarci, era troppo difficile. Avevo solo diciotto anni e avevo ancora, allora più che mai, bisogno di qualcuno che si prendesse cura di me. Anche di chi mi dicesse ogni giorno cosa dovevo o non dovevo fare, cosa era giusto che io facessi e come avrei potuto continuare a vivere senza drogarmi. Non ce la feci, ancora una volta caddi in tentazione. Mi sentivo solo e abbandonato e allora lasciai i miei fratelli a casa per incontrare le mie vecchie amicizie, quelle con cui facevo uso di cocaina. Ma io ne avevo bisogno. Sentivo la necessità di stare con chi come me aveva bisogno di compagnia, e la droga per noi era l’unico modo per scappare dalla realtà. Passò poco tempo, forse tre o quattro mesi, prima che il compagno di mia madre se ne accorgesse. Lei non se ne sarebbe mai accorta. Mi portarono di nuovo in comunità. Io non avevo bisogno di stare in quello stupido edificio a farmi inculcare nella mente che mi stavo distruggendo la vita, avevo solo bisogno della mia famiglia. Ero troppo e stupidamente orgoglioso per dirlo.

Sei riuscito a smettere quando sei tornato in comunità?

Avevo smesso. Ci ero riuscito. Ma non è passato molto tempo prima che io ne facessi ancora uso. Ancora, una terza volta. Allora mi ci hanno lasciato altri due lunghi anni in quella comunità. Smisi di studiare definitivamente. Sono praticamente cresciuto lì dentro con tante altre persone con il mio stesso problema. Ho conosciuto poi una ragazza che stava facendo il mio stesso percorso, lei aveva iniziato ad assumere la prima dose di anfetamina all’età di 13 anni. Gliel’avevano fatto provare le sue compagne di danza, quelle più grandi, naturalmente. Quelle con la quale si incrociava nello spogliatoio tre volte la settimana – mi raccontava – io e Giada ci siamo conosciuti in quel centro di recupero per tossicodipendenti e ora siamo felicemente sposati. Inizialmente eravamo felici e non sentivamo più il bisogno di assumere stupefacenti, poi abbiamo trascorso un periodo difficile,  non so cosa sia successo ma improvvisamente ci siamo ritrovati ancora una volta schiavi di quella roba. La cocaina ci faceva sentire insuperabili. Ne abbiamo fatto uso per parecchio tempo, poi Giada ha scoperto di aspettare nostro figlio. Il dottore diceva che se Giada non avesse smesso di assumere queste sostanze il bambino avrebbe potuto avere la sindrome di astinenza neonatale una volta venuto al mondo. In quel momento non sapevamo come comportarci anche perché entrambi non avevamo una famiglia accanto, allora ci siamo completamente affidati nelle mani del nostro dottore. Giada era già al quarto mese di gravidanza quando ha finalmente avuto la forza di chiudere con la cocaina ma era ormai troppo tardi. Daniel aveva già assunto troppe volte quella sostanza. Una volta nato nostro figlio, ha dovuto trascorrere diversi mesi in ospedale poiché esiste una cura specifica per questi neonati da intraprendere subito dopo la nascita. Il neonato viene posto in incubatrice, inizialmente, per il controllo della temperatura. Dopodiché, almeno per le prime sei ore di vita vanno controllati i parametri vitali. Poi, naturalmente, l’hanno seguito 24 su 24 in tutto e per tutto, stando attenti alla sua alimentazione. Ma per fortuna, per chi fa uso di sostanze come la cocaina o anfetamine, il bambino non deve essere sottoposto a nessuna terapia farmacologica. I medici hanno poi, prima delle dimissioni di Daniel, sottoposto me e Giada a varie test psicologici per assicurarsi che fossimo finalmente disintossicati e coscienti del fatto che dal quel momento in poi la nostra vita sarebbe cambiata totalmente e che avremmo avuto maggiori responsabilità. Io credo che Daniel sia stato un regalo dal cielo. Avevamo bisogno di dare e avere maggiore affetto, per tutto quello che i nostri genitori ci hanno fatto mancare. Nostro figlio è stato la nostra salvezza. Credo anche che l’amore di un genitore verso il proprio figlio vada oltre ogni cosa, prima di ogni cosa, soprattutto. Almeno questo è quanto sente il mio cuore. Per questo motivo per me il comportamento dei miei genitori è ingiustificabile. Oggi Daniel ha quasi 4 anni e non abbiamo mai smesso di andare in terapia dallo psicologo. Anche sotto consiglio del medico che ha salvato la vita di nostro figlio.

Quanto è stato difficile per te non assumere più alcuna sostanza da quando aspettavate Daniel ?

Inizialmente è stato un incubo. Volevo scappare, volevo la droga. Anche per Giada è stato così, ne avevamo bisogno altrimenti ci saremmo sentiti soffocare. Ogni volta che andavamo a dormire per noi si trasformava in una vera e propria tragedia: sudore, attacchi di panico, convulsioni. Ma l’amore verso Daniel ci ha fatto superare ogni cosa, perché al solo pensiero che avremmo potuto rovinare la vita nostro figlio, mi sentivo stringere la gola e sentivo un dolore al cuore. Ci siamo rovinati abbastanza e ora è il momento di affrontare la vita in un altro modo e poi nostro figlio ci dà la carica giusta. Ho capito che la vita, quando stai per crollare, ti da sempre un’altra opportunità per potercela fare, e, soprattutto, ti fa capire che c’è sempre un motivo per cui valga la pena essere vissuta. Vissuta a pieno, perché è imprevedibile perché quando meno te l’aspetti ci sarà qualcosa che te la rivoluzionerà completamente. Inevitabilmente, ci saranno ancora situazioni difficili da affrontare, ma ho capito che dopo si viene sempre ripagati con qualcosa di bello. Perché dopo la pioggia c’è sempre l’arcobaleno. Anche se alcune ferite me le porterò dietro per tutta la vita, ho capito che bisogna solo abituarsi a conviverci, vedere le cose da un altro punto di vista e prendere magari anche il buono da ciò che accade, cosi da attutire i colpi qualora dovesse accadere qualcosa che fa soffrire. La mia situazione familiare è un po’ cambiata da quando ho avuto Daniel, mia madre è innamorata di suo nipote e questo, forse, potrebbe anche celare ai miei occhi i suoi sbagli. Potrebbe far sbiadire pian piano i brutti ricordi che ho della sua assenza nella mia vita. Una delle cose di cui vado fiero di me è che ho imparato a perdonare. Sento che col tempo le cose andranno sempre meglio. Adesso sono felice, davvero. L’unica cosa che mi fa rende triste, è che nel quartiere in cui vivo sono considerato sempre un tossico. Purtroppo la cattiveria e l’ignoranza riempie la bocca degli stolti. Credo di andar via, di portare la mia famiglia lontano da questo posto in cui quando qualcuno ti vede a terra, fanno un ulteriore gesto per calpestarti definitivamente.

Dove vorresti portare la tua famiglia?

Ci sono delle storie davvero incredibili, che ti tolgono il fiato, che ti fanno rimanere li a pensare per ore e ore che tutto sommato la tua vita non è poi così tanto male se ogni volta riesci a trovare la via d’uscita e ci sono, inoltre, racconti di persone che possono essere grandi insegnamenti di vita, ed è questo che dovrebbero imparare certe persone, ma chi non l’ha vissuto, chi ha vissuto in ambienti sereni, non ha la minima idea di cosa possa passare certa gente e non prova nemmeno a comprendere. Allora io credo che le persone debbano smettere di parlare a vanvera, dovrebbero imparare a giudicare prima la loro vita e soprattutto iniziare ad avere un po’ più di sensibilità e mettersi nei panni degli altri.

Per questo motivo voglio andar via, non so se andremo al Nord Italia o all’estero. Magari in Olanda, o in qualsiasi altro posto dove la mentalità delle persone è aperta, e dove ognuno si fa i cavoli propri e dove ci daranno la possibilità di vivere sereni senza ripensare al passato. Il passato per me sarà solo da insegnamento per condurre una vita completamente diversa e per sapere con determinazione cosa voglio e non voglio, cosa è giusto o meno. Perché non è solo importante trovare chi ti aiuta, ma è ancora più importante – nonché fondamentale – trovare chi non ti giudica e non ti maltratta. Ho anche imparato che quando sei fragile è più facile farsi schiacciare dal prossimo, e che alcune persone sanno essere davvero perfide perché godono dell’infelicità altrui. Un consiglio che mi sento di dare a chi non riesce a smettere di assumere queste sostanze è quella di farsi aiutare, perché da soli non è facile uscirne. Quando chiediamo aiuto abbiamo già fatto un grande passo verso la guarigione. Invece, per chi come me è da poco uscito da questo incubo, il mio consiglio è quello di vivere la vita a pieno senza dare importanza al giudizio altrui. Perché a volte le parole crudeli delle persone, quando si è ancora fragili, possono ancora una volta riuscire a distruggerci. Non bisogna permetterlo, perché la vita potrebbe sempre stupirvi, perché potrebbe essere per voi, come lo è stato per me, una scoperta meravigliosa.

Alessandra Federico

 

Paura dell’abbandono: ossessione e bisogno di affetto

 Volevo che mi amasse perché mio padre non l’ha mai fatto. Ero ossessionata dal pensiero di perderlo e sapevo che il mio comportamento assillante l’avrebbe fatto allontanare, ma non riuscivo a fermarmi”.

Quando un amore ci porta a vivere uno stato di ossessione non possiamo considerarlo tale. Piuttosto, potrebbe trattarsi di mancanza d’affetto che alle volte ci portiamo dentro sin dalla tenera età, un vuoto che, una volta diventati adulti, pretendiamo di colmarlo con l’amore del proprio partner.

È facile confondere il bisogno di riempire un vuoto d’affetto con il vero amore,  quando si è cresciuti senza l’amore di un genitore, soprattutto da bambine da parte di un padre. È fondamentale, quindi, andare con cautela in queste circostanze in modo tale da essere in grado di capire quando si tratta di sentimenti veri che nutriamo nei confronti di chi abbiamo accanto, o se vogliamo la loro presenza nella nostra vita per non sentirci soli e abbandonati.

A volte è necessario fermarsi, guardarsi dentro, porsi delle domande e impegnarsi nel trovare anche delle risposte.

Un’accurata conoscenza di sé stessi potrebbe essere una buona tecnica per riconoscere i propri sentimenti e poter capire cosa si cerca e di cosa si ha bisogno per vivere una vita felice. Sarà amore solo quando realizzi che nessuno potrà mai colmare quella mancanza se non amando te stesso.

L’importanza di amare se stessi

Amare sé stessi è fondamentale per acquisire maggiore sicurezza e di conseguenza conoscere sé stessi a fondo per poter capire di cosa si ha bisogno, cosa si merita e di cosa si può fare a meno.

Amare sé stessi è il primo percorso che ognuno di noi dovrebbe fare, prima di ogni altra cosa. È il mezzo più potente che si ha a disposizione per andare avanti nella vita, per non curarsi del giudizio altrui e per  assumere comportamenti diversi da quelli che solitamente ci hanno portato a sbagliare, si assumono, inoltre, approcci differenti nei confronti del prossimo, di sé e della vita. Dunque, avere una forte sicurezza di sé è di vitale importanza per poter condurre una vita serena. L’insicurezza, invece, ci porta a vivere una stato di ansia, di frustrazione perché quando si nasce e cresce con mancanze d’affetto, si è, di conseguenza, continuamente insoddisfatti ed è proprio questo che porta poi alla frustrazione, alla rabbia, all’angoscia. Quest’ultimi, sono sentimenti negativi che possono col tempo portare alla vera infelicità. Per questo motivo è importante soffermarsi sui propri sentimenti e fare una profonda conoscenza di sé, mettendo in tavola tutte le carte della propria vita ed esaminarle una per una accuratamente. Entrare nel proprio cuore e cercare di percepire ogni suo segnale, cosa proviamo e perché lo proviamo. Prendersi cura di sé e volersi bene permette di trovare la propria identità e le proprie potenzialità. Ripetersi frasi positive continuamente, al fine di sentirla completamente nostra, potrebbe essere uno dei metodi efficaci per acquisire maggiore sicurezza di sé,  perché qualsiasi parola ripetiamo con costanza influenza la nostra mente in continuazione, ed è quindi  importante parlare a sé stessi con frasi che trasmettono apprezzamento di sé, entusiasmo, gioia, incoraggiamento, verso tutto ci che si vuole realizzare: lavoro, una relazione d’amore, relazioni di amicizia e familiari e tanto altro.

 “Aspettavo che la mia vita iniziasse. Vivevo con un buco nell’anima. Attendevo l’arrivo di qualcosa o di qualcuno che avrebbe finalmente colmato quella sensazione di solitudine che mi porto dentro da sempre. Solo col passare degli anni ho capito che posso colmarlo con l’amore verso me stessa, e che devo superare la paura dell’abbandono”.

Lorena, ventiquattro anni, napoletana, racconta la sua esperienza e come ha superato queste paure.

Lorena, quando hai scoperto di avere queste paure?

Mi porto dietro questo problema, se così si può chiamare, sin dai tempi dei miei primi fidanzati, dall’età di quindici anni, quando tutto dovrebbe essere rose e fiori, quando tutto dovrebbe essere una novità, io l’ho sempre vissuta come una cosa già vissuta. Mi spiego: come se dentro di me già sapessi come sarebbero andate le cose, come se in qualche modo io avessi già avuto una rottura, una delusione da parte di un uomo. Ad oggi, riconosco il motivo e sto cercando di superarlo anche se mi rendo conto che faccio molta fatica perché una volta scoperta la causa, ci vuole altro tempo per elaborarla e per far si che rimanga solo un ricordo assopito. Non ho mai avuto fiducia, ho sempre fatto pensieri strani e contorti e alla fine mi sono sempre ritrovata da sola. Commetto sempre lo stesso errore: inizialmente sono serena, ma col tempo inizio a diventare ossessiva e a controllarlo e a fare pensieri negativi per qualsiasi cosa. Può sembrare una cosa banale e forse è una cosa che accomuna molte persone ma per me è davvero una sofferenza.

Sei a conoscenza del motivo per cui hai queste paure?

Durante i miei primi anni di vita, mio padre è stato molto presente: mi portava in giro, sulle giostre, al mare, sulla neve, mi regalava le videocassette dei cartoni animati Disney. Cenerentola l’avrò visto almeno un centinaio di volte insieme lui. Avevo 4 anni quando i miei genitori iniziarono a litigare. Non capivo perché, non capivo nulla di tutto ciò che stava accadendo. Nel corso degli anni vedevo mio padre sempre meno, era meno presente a casa, addirittura mancava a pranzo o a cena. Solo diversi anni dopo e quando ormai ero già grande, hanno avuto il coraggio di dirmi che in realtà erano da tempo separati in casa. Adesso ognuno prosegue per la propria strada, entrambi hanno la propria vita. Ora siamo una famiglia allargata, un po’ come quelle delle fiction italiane. Io e i miei fratelli viviamo con nostra madre, il suo compagno e i suoi figli. Mio padre lo vedo poco, continua a non essere presente. Non so se la causa di tutto ciò sia dovuta solo all’abbandono da parte di mio padre, fatto sta che tutt’ora lo vivo come se mi avesse lasciato. Non sa niente di me eppure sono sua figlia, a stento ci salutiamo e scambiamo due chiacchiere quando quella volta al mese trascorriamo un pomeriggio assieme anche con i miei fratelli. L’unica cosa che mi fa provare meno rabbia nei sui confronti è pensare che anche lui, a sua volta, ha vissuto la mancanza del padre e che quindi non ha saputo svolgere il suo ruolo con me e con i miei fratelli. A suo modo manifesta l’affetto che nutre per noi, con soldi, maggiormente. Ma purtroppo le cose materiali non colmano i vuoti d’affetto. Questi sono i motivi per cui le mie relazioni d’amore vanno sempre a finire male. Forse pretendevo troppo da parte dei miei ragazzi. Volevo che colmassero la mancanza di mio padre.

Qual è stato il motivo per cui il tuo ragazzo si è allontanato da te? Ero molto gelosa. Troppo. Ogni donna per me era una sfida, un ostacolo. È anche divertente se adesso mi soffermo a pensarci perché ogni settimana la mia fissazione ricadeva su una ragazza diversa. Ma so bene che una relazione non funziona così. Con il ragazzo che frequento adesso sto cercando di avere un comportamento diverso e se devo essere sincera le cose stanno andando anche abbastanza bene. Ma è ancora l’inizio. D’altronde, le esperienze ci lasciano sempre un segno, ci danno sempre un insegnamento, anche se, ad essere sincera, ci ho impiegato diversi anni per imparare dai miei errori e non so nemmeno se effettivamente ho imparato davvero. Forse perché quest’ultima delusione da parte del ragazzo precedente mi ha segnato molto. Credo anche che io sia una di quelle persone che non riescono a stare sole, ho paura dell’abbandono e ogni volta che finisce una storia con un ragazzo, poco dopo ne sto già frequentando un altro. Con Vittorio, il ragazzo che frequento adesso, sto cercando di prendere le cose molto alla leggera perche devo capire tante cose di me, innanzitutto. E capire se è lui che voglio o voglio solo essere protetta da un uomo perché mio padre non c’è mai stato.

Come pensi di risolvere questo tuo problema?

Non lo so. So solo che ancora una volta ho fallito. Per me è una sconfitta, per me ho perso. Perché credevo che almeno questa volta sarei riuscita a sconfiggere questa paura, perché in fondo si tratta di questo: la paura di non avere quella persona tutta per sé, è la paura di un abbandono che ti porta ad essere così oppressiva e sinceramente non so nemmeno se si tratti di amore, a questo punto. Adesso credo che io debba pensare a me stessa e a risolvere questo mio problema se non voglio portarmelo dietro per tutta la vita. Anche avendo accanto Vittorio, in modo da poter capire davvero cosa sento. A volte c’è bisogno di una grande scossa per capire certe cose, c’è bisogno di toccare il fondo per risalire ed io credo di essere precipitata abbastanza. È come se io facessi di tutto per mettere alla prova la persona che ho accanto, come se nella mia testa pensassi che lui debba essere torturato per vedere fin quando è capace di restarmi accanto. Ma non è cosi che dovrebbero andare le relazioni d’amore. Sono stanca di soffrire, voglio essere felice. Credo di meritarlo.

Hai mai permesso a qualcuno di aiutarti a farti superare questa tua paura?

A volte ne parlo con amici o amiche ma non è facile farsi comprendere, spesso ti giudicano o ti danno consigli banali giusto per dire qualcosa. Non è facile trovare persone sensibili e soprattutto empatiche. Ecco, empatia è la parola che più amo al mondo. Mettersi nei panni degli altri è la cosa che mi riesce meglio, è la cosa che cerco nelle persone e forse anche per questo motivo faccio fatica ad avere relazioni durature, che si tratti di amicizia o di amore. Credo che le persone empatiche siano coloro che hanno maggiore sensibilità e profondità d’animo. In realtà sono anche andata diversi anni in terapia da un analista. Credevo di aver risolto, ma credo che se la cosa non parta da me poco risolve anche uno psicanalista con 40 anni di esperienza. Ho trascorso anni a parlare di questo mio problema e ogni volta che credevo ne stessi uscendo, tornavo punto e a capo. Anche se a dirla tutta, quest’ultima rottura mi ha insegnato tanto, e mi ha fatto guardare lontano dove il mio sguardo non era mai arrivato prima d’ora: devo amarmi, devo conoscermi e devo sapere cosa mi rende felice, sopra ogni cosa. Ora penso sia arrivato davvero il momento di superare questa paura se voglio essere felice. Ed io ora voglio esserlo. Forse mai come prima sto riuscendo a riempire il mio cuore. Credo anche che tutto questo io l’abbia fatto di proposito, inconsciamente. Avevo paura di vivere un amore così grande.

Alessandra Federico

 

Emily Brontë, una donna più forte di un uomo

Paola Tonussi  si occupa di letteratura inglese e americana dell’Ottocento e Novecento, è membro della Brontë Society e contribuisce a «Brontë Studies», rivista internazionale di studi brontëani. Con lei abbiamo parlato della figura dell’autrice di Cime tempestose.

In Emily Brontë  lei ricostruisce la poetica e la vita dell’autrice di Cime tempestose. Può motivare il suo interesse per l’autrice?

Per prima cosa vorrei dire che Emily Brontë è un’autrice che si ama molto o non si ama, non conosce mezze misure, in ogni caso non lascia – mai – indifferenti. Lei stessa era personalità complessa, estrema, di silenzi vasti e fantasia fervida, “più forte di un uomo, più semplice di un bambino” la definisce bene la sorella Charlotte. Amo quest’autrice proprio e anche per quest’ambivalenza – di scrittura e personale, quindi di riflesso calata nei suoi personaggi -, per la capacità visionaria – che emerge sia dal romanzo sia dalle liriche -, l’amore per la natura e gli animali, l’essenzialità di lingua – e se vogliamo anche di condotta, di vita. E’ un’autrice che non smette di ‘raccontare’ e parlare al nostro cuore: Catherine bambina incarna le nostre paure più buie, il terrore di esser lasciati soli in un mondo ostile, Heathcliff i nostri tormenti e gli incubi. Sopra tutto domina nella mia passione brontëana il pessimismo cosmico di Emily, che lei ‘inscena’ anche nella sua poesia, oltre che nel romanzo: la concezione della natura, la passione e l’affinità profonda verso gli elementi naturali e gli animali, la fedeltà all’amore e “agli antichi affetti”, il riconoscersi e ritrovarsi nell’altro. Dopo aver amato moltissimo Emily narratrice in Wuthering Heights mi sono accostata ad Emily poeta e alla sua vita, che è essa stessa un romanzo.

Emily Brontë innalza la scrittura a “pulsazione, respiro, centro assoluto del vivere”.  La narrazione in poesia e prosa da intendersi come rifugio paradisiaco?

La narrazione in prosa ha legami profondi con i versi e viceversa, questo vorrei ribadirlo: è importante perché Emily Brontë è uno di quegli autori per cui la ‘visione’ – il “dio delle visioni” come lo chiama in una poesia giustamente nota – o l’immaginazione sono regno e condanna insieme. Regno in quanto aspirazione all’assoluto, desiderio di vivere – sempre – entro i confini della fantasia, e infatti Emily non lascerà mai la saga di Gondal creata con Anne. Tuttavia anche condanna: nello scarto tra realtà e proiezione fantastica, tra il mondo della scrittura e quello del quotidiano. E’ una frattura non componibile, soprattutto da un certo punto in poi della sua vita. Dire che Emily si ‘rifugiava’ nella poesia non testimonia tutta la sua grandezza di poeta e giovane donna: in realtà lei sapeva come affrontare il mondo, se ne era ‘costretta’ – ha dimostrato ad esempio di essere una buona amministratrice dell’eredità avuta dalla zia – ma si agitava sempre in lei la convinzione che il “mondo eterno” non avrebbe mai potuto stare su un piano di parità con il suo “mondo interiore” – così li definisce sempre in versi. Quindi la poesia, la scrittura per lei costituivano la sua vera casa: non sempre paradisiaca, come tutte le case, ma l’unica in lei poteva vivere ed essere se stessa e felice.

Può fornire degli elementi circa il contesto familiare e sociale in cui l’autrice ha scritto e vissuto?

Emily cresce alla canonica di Haworth, dove suo padre è curato. La madre Maria muore quando la piccola ha pochi anni ed Emily e i fratelli crescono con il padre Patrick, la zia (nel frattempo trasferitasi da Penzance per allevare i figli della sorella scomparsa) e la domestica Tabby, figura fondamentale per Emily e quasi una seconda madre. I bambini Brontë erano sei, ma le maggiori Maria ed Elizabeth muoiono piccole, per cui Emily cresce con Charlotte, rimasta la maggiore, l’unico fratello Branwell e la minore Anne, a cui lei è molto legata e con cui dà l’avvio alla saga fantastica di Gondal. In quanto al contesto sociale, all’epoca Haworth era un villaggio di poche migliaia di abitanti nello Yorkshire, abitato da allevatori di pecore e bestiame, contadini e tessitori di lana, piccoli commercianti e qualche famiglia importante. A Keighley, la città più vicina, i ragazzi Brontë frequentavano la biblioteca e partecipavano a conferenze e concerti. In casa incontravano per lo più i curati assistenti del padre – Charlotte, infatti, dopo la morte dei fratelli ne sposerà uno.

Emily Brontë pare essere in piena sintonia con gli elementi della natura. Potrebbe essere questa specifica attitudine poetica la chiave per comprendere l’autrice di Cime Tempestose.

Sicuramente questa è una delle chiavi d’interpretazione del romanzo, della poetica di Emily e il motivo per cui nel libro ci sono svariate descrizioni di luoghi e paesaggio di brughiera. Quel paesaggio è la scena principale del romanzo perché l’autrice vi riconosceva molta parte di sé – forza, durezza, crudeltà, dolcezza e compassione. Dalla natura ha inizio il romanzo – una tempesta – e nella natura tutto alla fine si ricompone: quelle brontëane sono pagine che sanno di erica e di vento, hanno il colore delle colline che Emily amava e da cui aveva imparato tutto. Catherine Earnshaw, il personaggio di Catherine è uno dei nuclei poetici del romanzo perché in quel paesaggio, in quelle colline d’erica è il suo baricentro vitale. L’erica, il fiore preferito da Emily dice molto di lei e della sua scrittura: è un fiore piccolo e resistente, che si piega per sopportare vento e bufere d’inverno, che si arrossa d’estate e ricopre le colline di porpora, ha bisogno di poco per vivere ma deve farlo su quella terra, a quelle altezze e sotto quel cielo. Lontano da lì, l’erica – proprio come Emily, come Catherine – non potrebbe sopravvivere: l’incanto si rompe, alla Grange Catherine lontana da Heathcliff lascia la vita e diventa fantasma. E il cerchio si chiude di nuovo: il fantasma dell’esordio è sempre lei, che compare in forma di bambina. Un fantasma è ‘ciò che appare’. E ciò che è sempre apparso e continuerà ad apparire di là dalla vita e dalla morte è la brughiera: i moors amati dall’autrice.

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Frammenti di lettere, poesie, testimonianze guidano direttamente il lettore in questa doviziosa biografia. Interessanti sono i rapporti intrafamiliari. Potrebbe fornircene un’analisi?

I rapporti con i familiari sono fondamentali per Emily, come del resto per tutti i Brontë. Innanzitutto fin da bambina il rapporto con Anne, che è la sua compagna privilegiata d’invenzione per Gondal, e a lei complementare per carattere e indole. Le due sono tanto legate l’una all’altra da sembrare a Ellen Nussey, l’amica di Charlotte, “due statue unite della forza e dell’umiltà”. Da piccola il rapporto era più stretto con la maggiore Charlotte, poi l’affetto di Emily si sposta su Anne, anche se il legame con Charlotte non viene mai meno, anzi: Emily va a Bruxelles, ad esempio, sostanzialmente per far contenta la sorella maggiore così come acconsente a pubblicare i versi sempre per lei. Negli ultimi anni si stringe anche il rapporto con Branwell, a cui Emily offre aiuto e solidarietà mentre la fortuna personale e artistica di lui tramonta in vari tentativi sbagliati e dispersione di talento ed energie. Il rapporto con il padre è d’affetto e rispetto reciproco e forse in famiglia è la zia con cui Emily si sente meno in sintonia. Infine importantissima per lei è Tabby, come dicevo, perché Tabby le racconta le storie locali del villaggio e le leggende delle brughiere, che poi entreranno nel romanzo. In ogni caso per originalità, cultura, sensibilità e genio creativo i Brontë erano una famiglia eccezionale: Patrick Brontë però sapeva che, di tutti i suoi straordinari figli, la stella era Emily.

Giuseppina Capone

 

Paola Tonussi si occupa di letteratura inglese e americana dell’Ottocento e Novecento. È membro della Brontë Society e contribuisce a «Brontë Studies», rivista internazionale di studi brontëani. Premio Vassalini dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti 2013. Per l’ Editrice Antenore ha curato Sognatori, poeti e viaggiatori. Sguardi su Verona e il Lago di Garda.

La moda italiana ai tempi del corona virus:  atelier per produzione di mascherine e shooting via web 

La moda ai tempi del corona virus è stata al centro della crisi globale. Per quanto riguarda gli shooting però, non si è arresa, neanche quando il mondo intero si è fermato, continuava ad essere presente via web. Il mondo della moda è stato costretto, inoltre, a trasformare gli atelier in centri di produzione di mascherine e accessori sanitari.

Il primo servizio  di moda nell’era del lockdown

Il magazine di moda numero 1, Vogue Italia, realizza il suo primo servizio di moda nell’era del lockdown con la sua prima copertina “vuota”. Presenti nel numero, anche la top model Bella Hadid. Le sue foto sono visibili anche sui social. Aderiscono all’iniziativa oltre 40 artisti della community di Vogue Italia in tutto il mondo tra cui modelle, stylist, direttori creativi, make up artists, fotografi. Utilizzando abiti del proprio archivio e facendoli indossare ai membri della propria famiglia, organizzando cosi, shooting, sfilate e dirette live. Un metodo efficace per non perdere la creatività e per essere sempre presenti per tutti coloro che amano il mondo della moda. Per promuovere le nuove collezioni, anche i colossi del fast fashion cavalcano il trend: le modelle di Zara, sotto richiesta del direttore artistico, dopo essere stato costretto a chiudere i negozi in tutta Europa,  hanno indossato i capi della nuova collezione per postare foto sui social.

La crisi per i brand della moda italiana

In Italia, diciassettemila negozi hanno rischiato di non riaprire, compresi i fast fashion e i grandi magazzini. Nel 2020 si prevede un calo di consumi di quindici miliardi e una riduzione dei ricavi del 50 per cento rispetto all’anno scorso. D’altronde è risaputo che un gran numero della produzione europea di moda è fatto in Italia, ma a causa di questa pandemia si è rischiato di perdere pezzi di una filiera di industrie e artigiani.

I grandi brand italiani, così come accaduto per quelli di tutto il mondo, hanno vissuto momenti di grandi angosce, temendo che, a causa di  questa forte crisi, avrebbero potuto perdere la capacità di innovazione e di fare investimenti. Con la fine del lockdown, però, le industrie hanno riaperto il 4 maggio: intere collezioni vendute e quelle future in elaborazione. I capi più venduti sono i pantaloni denim. Jeans “consumati”. Purtroppo, le collezioni invernali sono state accantonate in negozio per dar sfoggio direttamente a quelle della stagione primavera-estate.

La maggior parte degli imprenditori si sono organizzati per sanificare ogni capo dopo ogni prova effettuata dal cliente. Intanto sul digitale il commercio era indietro, ma questa crisi è stata un’opportunità per rafforzare l’acquisto online. Ma chi ha rischiato il crollo, in questa situazione, sono i piccoli negozi che vendono abiti a prezzi bassi. Un vero e proprio stravolgimento anche per la catena H&M che aveva, già dal 4 maggio, annunciato la chiusura di 8 negozi in Italia. Ad oggi, il 90 per cento dei punti vendita della moda è stato riavviato senza problemi.

Come abbiamo potuto notare il mondo della moda non si è mai fermato perché la creatività e l’arte riescono a viaggiare anche restando fermi.

Alessandra Federico

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