Cherofobia: il bisogno di essere infelici

Se sto sempre male non corro il rischio di rimanere deluso”. Queste sono le parole di chi ha vissuto gran parte della propria vita nella sofferenza. Cherofobico è il termine con cui viene definito colui che ha paura di trascorrere momenti gioiosi perché è abituato a vivere nell’infelicità. Traumi infantili e maltrattamenti possono esserne la causa. Chi ha paura di essere felice non vive necessariamente in uno stato depressivo, non è apparentemente afflitto anzi, conduce una vita piena e movimentata, si circonda di amici e di affetto, ma nel momento in cui gli si presenta la possibilità di essere felice fa di tutto per far si che ciò non accada, senza nemmeno rendersene conto. Il cherofobico crede che nella sua vita non ci possano essere momenti di gioia. Per lui ogni attimo di piacere è susseguito da momenti di tristezza e amarezza.

Ogni volta che mi accadeva qualcosa di bello, facevo di tutto per essere infelice”. Serena, 28 anni, racconta la sua paura di essere felice.

Serena, quando hai preso coscienza di questa tua fobia?

Precisamente non so dire il momento esatto, ma so che fin da bambina ho vissuto con questa malattia, se cosi si può definire. Con i giocattoli, ad esempio, sentivo il bisogno di doverli rompere e di dover piangere perché così mi sentivo meglio. Mi sentivo meglio perché ero triste ed essere triste mi faceva stare bene, paradossalmente. Tra la gente, con gli amici, sentivo il bisogno di dover ricevere offese da loro ed essere sminuita, perché cosi mi sarei sentita a casa. E se qualcuno mi faceva un complimento, io gli rispondevo che non era giusto ciò che diceva di positivo di me, perché mi ritenevo una buona a nulla. Ho sempre cercato di frequentare le persone che mi facevano del male. Se fossi stata una persona in gamba significava per me essere felice, ma credevo sarebbe successo qualcosa che mi avrebbe afflitta e tanto valeva soffrire sempre senza smettere, almeno non correvo il rischio di stare ancora più male. D’altro canto, sono cresciuta nell’infelicità.

Conosci oggi il motivo per cui hai sempre cercato di essere infelice?

Sì, e ci sto continuando a lavorare. Quando ero piccola sono stata maltrattata da chi mi ha messo al mondo: mio padre ha smesso molto presto di volermi bene. In realtà non sono sicura se avesse mai avuto una buona considerazione di me, mi umiliava facendomi sentire una buona a nulla. Quindi posso dire di essere cresciuta con una visione distorta di me: quella di non valere niente e di non essere in grado di poter aspirare ad alcun obiettivo nella mia vita. Ed è per questo motivo che ogni volta che ricevevo un complimento, non mi sentivo a casa. D’altronde si sa che crediamo di essere come siamo cresciuti. Anche quando studiavo, alle scuole medie, mio padre mi ripeteva in continuazione che io ero nata scema. Mi sono improvvisamente sentita come la protagonista del film ‘Matilda sei mitica’, sminuita dal proprio padre ma consapevole di essere una persona molto intelligente. Anche se lui non mi ha trattata così male da sempre. Oggi che ho 28 anni qualcosa in me è cambiato, anche se i traumi restano. Forse sono stata debole, a quel punto avrei potuto ribellarmi e dimostrargli di essere una persona capace di raggiungere ogni obiettivo. Ma ero solo una bambina e anche molto fragile. Mi piace pensare che ci sia un motivo valido per cui tutto questo sia accaduto proprio a me, e che ci sia qualcosa di bello che mi sta aspettando. Mi sento intrappolata, ho voglia di spaccare il mondo, ma è come se io mi stessi frenando da sola. La paura di essere felice non è una cosa da sottovalutare, è un problema di cui fai fatica a prendere consapevolezza e fai fatica a risolverlo perché ci ricadi con più facilità di quanto si possa immaginare. Mi piace anche pensare che il motivo del comportamento brusco di mio padre non sia stato per cattiveria ma forse aveva solo bisogno d’aiuto. Oggi l’unica cosa in cui credo fermamente è che non tutti sono in grado di fare i genitori.

Sai il motivo per cui tuo padre ha iniziato a trattarti in quel modo?

Purtroppo ho perso mia madre quando avevo solo 11 anni e da quel momento in poi la mia vita è diventata un inferno. Mio padre non è stato più molto presente, non c’era quasi mai e la sera spesso tornava a casa ubriaco e trattava molto male me e mia sorella. Ad oggi penso che il motivo per cui beveva ogni giorno tutto quell’alcool era dovuto alla sofferenza che si portava dentro dopo la scomparsa di mia madre. Ero troppo piccola per capirlo, pensavo volesse divertirsi senza noi e che eravamo solo un peso per lui. Credevo che non mi volesse più bene e che a quel punto non me ne avesse mai voluto. Pensavo che la colpa fosse stata mia e che avessi fatto qualcosa che l’avesse fatto allontanare. Ma io avevo solo bisogno di lui.

Ricordi un momento in cui sei stata felice con lui?

Il giorno della mia comunione. Decisi di indossare un abito rosa ornato di fiori gialli. Quel giorno lo ricordo particolarmente per i fiori colorati che addobbavano il giardino in cui si tenne la mia festa. Mia madre e mia sorella indossavano un abito simile al mio: un tubino rosa ornato di fiori gialli. Fu un regalo di mio padre, ‘perché siete le mie tre principesse’, diceva. Non ho mai più vissuto un giorno più bello. Posso definirlo senza dubbio il mio giorno più bello nel mondo.

Adesso che conosci il motivo della tua fobia, credi di poter finalmente raggiungere la felicità?
Ho passato anni a voler soffrire. Ho vissuto piccoli momenti di felicità ma mi spaventavano talmente tanto che ho sempre preferito vivere nell’infelicità, e quindi trasformare tutto in tragedia, o quasi. Tanto niente avrebbe potuto farmi del male, non più di quanto non avessi già sofferto. Ma mi rendo conto solo adesso che se hai paura di essere felice rischi di passare la vita da sola. In realtà la paura di essere felici nasconde la paura di essere delusi, di conseguenza la cherofobia dovrebbe trattarsi del timore di essere infelici. Forse è la paura di vivere uno stato che non conosciamo. Adesso che sono una donna e che ho messo tutte le carte della mia vita in tavola, ho voglia di essere felice. E ho voglia di ridere, soprattutto.

Oggi come vivi il rapporto con i tuoi amici?

Il problema è stato con i ragazzi: ogni volta che mi innamoravo o che qualcuno si innamorava di me, io facevo qualcosa per farlo allontanare. Come se dovessi mettere alla prova qualcosa o qualcuno, o forse proprio me stessa. ‘È mai possibile che questa cosa cosi bella sia captata a me? Dove sta l’inganno?’, mi domandavo. Allora cerco di scoprirlo da sola così magari ci resto meno male, tanto comunque la beffa è dietro l’angolo e potrei solo rimanerci più male se aspettassi che uscisse fuori da sola senza mettermi ad indagare. Perché è così che ho sempre fatto, ho sempre rovinato tutto con la mia mania di scavare a fondo nelle cose, nelle persone, per trovarci del marcio, perché cosi potevo stare tranquilla che niente mi avrebbe mai sorpresa. Oggi ci sto provando a vivere le relazioni serenamente e spero di essere uscita fuori da questa brutta situazione anche se credo dovrò lavorarci ancora per un bel po’. Per quanto riguarda le amicizie, sono cambiata anche con loro e coloro che mi stavano stretti li ho eliminati dalla mia vita. Oggi ho deciso di tenere una cerchia stretta di amici. Quelli che si contano sulle dita di una mano. In fondo quando esci fuori da una brutta situazione ti rendi conto di chi devi avere accanto: di chi non ha fatto altro che ostacolarmi nella vita, oggi posso farne anche a meno. Oggi so chi voglio essere e chi voglio al mio fianco. Quando viviamo un lungo stato di sofferenza, crediamo di poter meritare di vivere la nostra vita avendo solo esperienze negative, credendo che la normalità sia questa e che la vita non possa offrirci di più o che non la meritiamo. Circondarsi di persone positive potrebbe aiutarci ad uscirne fuori. Perché chi ti strappa un sorriso, merita sempre il tuo tempo.

Alessandra Federico

Natale 2020: decorazioni, tendenze e colori dell’anno

Ecco come decorare casa per Natale 2020: luci, stelle filanti, palline colorate, ghirlande, stella cometa, candele rosse e decorazioni artigianali.

Tante sono le idee per le decorazioni natalizie di quest’anno per dare un tocco d’allegria a questo particolare momento storico. Natale 2020 non sarà il Natale di sempre, conviene quindi approfittare per occupare il tempo che si ha disposizione valutando accuratamente quali colori scegliere per addobbare casa, attenendosi alle tendenze del momento, per sognare e vivere un Natale da “vip”. Quali decorazioni natalizie utilizzare se si è amanti delle luci colorate, come quelle che illuminano Time Square di New York ogni anno, o quelle che avvolgono l’albero che fa brillare la città? Ancora, quali colori scegliere per ispirarsi alle luci di artista di Salerno? In ogni caso, se siete a corto di ispirazione, non mancano gli spunti in rete. Anche gli e-commerce possono essere fonte di ispirazione per i vostri acquisti online. Siti come Westwing, Maison du Monde o anche Amazon ed eBay offrono una vasta carrellata delle novità e tendenze del momento. È bene attenersi alle tendenze si ha voglia di trascorrere il Natale più fashion del secolo.

“Il classico non passa mai di moda”  le parole di Coco Chanel non sbagliavano mai. Possiamo confermare che il classico non stanca mai: il rosso accompagna da sempre il nostro periodo natalizio. Possiamo divertirci ad ornare di rosso ogni zona della casa senza il rischio che possa stancare, perché il colore che da sempre è la scenografia del Natale è il rosso, il colore dell’amore. Il colore che evidenzierà le labbra di ogni donna desiderosa di essere alla moda anche la sera di Natale. Per seguire al meglio le tendenze del momento ecco  i  colori del Natale 2020: Bianco ottico, Rosa e rose gold, Green Ritual, British Old School, Colori tropicali.

Come addobbare casa utilizzando colori trend e spendendo pochi soldi

C’è da dire, però, che preparare addobbi per le feste per la propria abitazione è sempre un momento di unione per la famiglia, diverte soprattutto quando si sceglie di realizzare addobbi artigianali, con pittura, fili colorati e glitter alla moda. I colori del momento sono un ottimo addobbo per le famiglie che festeggiano il primo Natale con il nuovo arrivato: colori caldi per decorare lacameretta del tuo bebè. Basta poco per rendere il tuo Natale magico e unico. Scopri l’entusiasmo e la facilità di creare tanti addobbi natalizi artigianali e originali. Come realizzare palline colorate e ghirlande natalizie fatta a mano? Qui troverai le informazioni che desideri per addobbare casa utilizzando materiale poco costoso.

– Acquistare in merceria anelli in polistirolo bombati e  rivestire con diversi materiali: stoffa, pittura o glitter, creando così una figura su cui applicare diversi oggetti come pallina celeste, fucsia, rosa baby, rosa antico o rossa, fiocchi o foglie. Potete utilizzare stoffa come il cotone, il raso, la lana, la passamaneria.

– Passare con un pennello la colla sull’anello e avvolgerlo dolcemente con il materiale scelto.

– Utilizzare colla a caldo per attaccare le palline, distanziandole da loro anche 3 cm.

Potete scegliere di stendere la colla  non solo sul punto in cui va incollata la pallina, ma sull’intero anello, in modo da cospargere glitter fucsia e rendere fashion la vostra ghirlanda.

Alessandra Federico

Château de Chenonceau ospita la nuova collezione Métiers d’Art di Chanel

Château de Chenonceau, conosciuto come Château des Dames, si trova nella valle della Loira in Francia e questa volta fa da sfondo alla nuova collezione Métiers d’Art 2020/2021 di Virginie Viard, direttore artistico di Chanel. D’altro canto l’idea di Coco era quella di creare collezioni che raccontano sempre una storia e che si ispirano al luogo che le ospitano. Château fa parte della storia di Chanel e pare proprio che la rivoluzionaria della moda degli Anni ‘20, poiché ammirava molto le donne del Rinascimento, si sia ispirata proprio a Caterina de Medici per la quale non a caso, quel capolavoro architettonico, era la sua residenza preferita. Non a caso, le due C  che si intrecciano del marchio di Coco Chanel, sono simili alle due C intrecciate di uno dei numerosi monogrammi della regina Caterina de’ Medici, che sono ancora visibili nel castello.

Difatti, la vita di queste due donne sembrava somigliarsi: entrambe appassionate di esoterismo, si circondavano di simboli e condividevano la passione per il colore nero. Coco era orfana ed è cresciuta tra le mura di un convento proprio come Caterina de medici.

Kristen Stewart, unica spettatrice dello show in questi tempi di emergenza sanitaria, è la protagonista della campagna della collezione negli scatti di Juergen Teller.

Per la collezione Métiers d’Art 2020/2021, la texture a scacchi bianchi e neri che appare su minigonne di paillettes, sulla gonna lunga in tweed geometrico con frange patchwork, richiama lo stesso motivo del pavimento su cui le modelle sfilano.  Il tailleur in tweed chiaro coperto da un lungo cappotto di velluto nero ricorda il periodo in cui Caterina de’ Medici, dopo la morte del re di Francia Enrico II, vestiva solo di nero. I famosi arazzi del castello spuntano nei colori caldi della mantella in tweed, mentre i ricami floreali sul risvolto della giacca ricordano i fiori dei due giardini creati da Diane de Poitiers e da Caterina de’ Medici. I leggins, in velluto blu, rosa, bianchi o grigi, ricamati, si indossano sotto le gonne a portafoglio. Da non dimenticare le creazioni degli artigiani che da sempre collaborano con Chanel, come gli stivali di Massaro, il grande cappello Michael, l’abito di pizzo nero realizzato da Lemariè.  A completare la magnifica sfilata di moda le preziose collane catene e perle.

Alessandra Federico

 Depressione post partum: la felicità di un bambino è il riflesso della serenità della madre

“ Mi sentivo come se mi avessero strappato via la mia vita, la mia libertà. Credevo di non poter mai più occuparmi di me, che sarei diventata una di quelle mamme che si trascurano e finiscono per diventare depresse. Da quel momento in poi capii che non ero più solo io, ma un continuo di me di cui avrei dovuto occuparmi per tutta la vita perché quel frugoletto me la stava totalmente stravolgendo  ed io non ero pronta a lasciarglielo fare”

La depressione post partum si presenta quando la mamma non è pronta ad interpretare il ruolo. Questa mancata prontezza nel divenire madre può suscitare in lei sentimenti quasi di odio nei confronti del piccolo: la forte percezione di rifiuto del proprio figlio dettata dalla paura e dalla sensazione che le stia rubando  la vita, non solo. Questo accade anche e soprattutto quando una donna vive di insoddisfazioni personali: traumi del passato e infelicità potrebbero essere una delle cause per cui, inconsciamente, possa provare questo negativo sentimento, credendo, inoltre, che il bambino sia il motivo dei suoi insuccessi o della fine della sua gioventù.

La realizzazione personale è fondamentale per avere una sana quanto giusta visione delle cose e della vita per poter dare, quanto più possibile, la giusta educazione per assicurare un futuro sereno al proprio figlio. Un altro fattore che potrebbe entrare in gioco per chi non è ancora pronto a prendersi cura di qualcun altro e non più solo di sé stesso, è la difficoltà nel  riuscire a distinguere la voglia di avere un figlio dettata dall’idea piacevole di costruire una famiglia ed essere indipendenti, dalla vera vocazione e desiderio di diventare genitori, in questo caso consapevoli del fatto che, la propria vita dal quel momento in poi subirà un notevole cambiamento. Ma per una donna il semplice fatto di essere riuscita a creare un’altra vita dovrebbe essere sufficiente per provare automaticamente amore incondizionato verso il proprio figlio? Si sa, resterà sempre la più grande gioia che una donna possa provare nella vita, ma alle volte, però, può accadere che non appena partorisce il primogenito, potrebbe iniziare a provare un forte desiderio di evadere lontano dal piccolo rischiando, di conseguenza, di lasciargli seri danni permanenti per la sua crescita.  Diciamo che, per viverla al meglio, non  bisogna affrontarla come una condanna, come un qualcosa che ci toglie la libertà, bisogna, al contrario, prendersi più cura di sé stesse, perché il benessere del proprio figlio è il riflesso della serenità e felicità della madre: una mamma serena, che si prende cura del suo aspetto estetico, che coltiva i propri interessi, una donna soddisfatta di sé sarà una madre maggiormente amorevole, perché bisogna avere tanta cura di sé prima ancora di prendersi cura del prossimo, e ancor di più quando si tratta del proprio bambino. Ricordiamoci, inoltre, che  la vita di una donna non finisce quando diventa mamma. Potrebbe iniziare una seconda quanto piacevole esistenza.

“Stavo rischiando di perdere i momenti più belli della mia vita, col tempo ho finalmente capito che per dare amore devo amare me stessa”. Con queste parole, Milena, una giovane madre di 26  anni napoletana racconta la sua esperienza con la depressione post partum.

Milena, durante o dopo il parto hai iniziato a sentire queste sensazioni negative?

Subito dopo aver partorito. Non riuscivo a tenere mio figlio tra le mie braccia. 9 mesi trascorsi nell’ovatta. Coccolata da mio marito, da tutta la mia famiglia e anche dalla sua. Non eravamo più nella pelle quando i ben 3 test di gravidanza dicevano che aspettavo un bambino da 5 settimane. E così da quel momento non abbiamo fatto altro che comprare tutine, culla e tutto ciò che potesse intrattenere la nostra euforia nell’attesa dell’arrivo di Leonardo. Non vedevo l’ora di tenerlo tra le mie braccia. Però poi come si può arrivare a sentire sentimenti di odio nei confronti dei propri figli una volta venuto al mondo? Eppure lo desideravo come poche cose nella mia vita ho potuto mai desiderare così. Ma una volta partorito mi è crollato il mondo addosso.  Non so spiegare come sia stato possibile ma non riuscivo a tenerlo in braccio ne ad allattarlo. I pensieri che formulava la mia mente erano brutti e negativi nei suoi confronti tanto da farmi spaventare  e farmi arrivare ad odiarlo, ma soprattutto ad odiarmi.

Come hai affrontato tutto questo?

Sono andata via di casa per qualche giorno. Nessuno riusciva a trovarmi e lo so che ho fatto l’errore più grande della mia vita perché mio figlio ne subirà le conseguenze ma per me era l’unica cosa da fare in quel momento altrimenti sarei finita per odiarlo davvero. Non riuscivo a guardarmi allo specchio perché quelle brutte frasi che sentivo uscire dalla mia bocca inconsapevolmente, mi stavano lentamente ammazzando.  Io non solo non riuscivo a dare affetto, ma sentivo un sentimento di odio nei confronti di mio figlio, non lo volevo. Avrei voluto tornare indietro per non concepirlo e più la mia testa pensava questo più stavo male, come se qualcuno pensasse al posto mio.  Pensavo che fosse una delle sensazioni più brutte mai provate e che forse, per tanta gioia provata durante la gravidanza era questo il prezzo da pagare? Non mi riconoscevo perché mai nella vita avevo provato tanto rancore verso qualcuno e mai mi sarei aspettata che se mai l’avessi provato, sarebbe stato verso mio figlio, verso la persona che più avrei dovuto amare al mondo.

 Ti sei fatta aiutare da qualcuno?

Dicono gli psicologi che quando inconsciamente si provano questi sentimenti negativi per il primo figlio, è perché forse non si è pronti a dover dedicare la tua vita ad un’altra persona. Diciamo che, almeno per i primi tempi, o, per i primi anni addirittura, ci si annulla quando si mette al mondo un bambino. La tua priorità diventa lui e sacrificare parecchie cose della tua vita diventa d’obbligo. E forse a questo io non ero pronta, mi piaceva l’idea di un bimbo tutto mio, di una famiglia tutta mia e forse sono stata anche troppo precipitosa e un po’ ancora infantile da non capire che avere un bambino tutto mio non sarebbe stato come quando giocavo a mamma e figlia a 8 anni o come quando ti prendi cura del bambino di tua sorella per qualche ora. Avere un figlio proprio significa prima di tutto riuscire a guardare la vita con altri occhi, attraverso i suoi, magari per comprenderlo al meglio.  Essere pronta a cambiare programma al momento per lui, a stravolgere i tuoi piani da un momento all’altro, perché lui è la cosa che più conta al mondo. Mio figlio è arrivato nel momento in cui avevo deciso di iscrivermi all’università ed è forse per questo che lo vedevo come il ladro della mi vita.

Adesso come vivi il rapporto con tuo figlio?

Ho faticato tanto per arrivare dove sono ora: mi sono avvalsa dell’aiuto di una psicanalista e insieme abbiamo trovato la strada giusta da intraprendere e mi ha accompagnata per parecchi mesi, fino a quando non sono stata pronta ad incamminarmi da sola. Ad oggi l’ho superato alla grande tanto che abbiamo ben 3 bambini e con gli altri due parti non ho vissuto questo dramma. Siamo arrivati alla conclusione che allora non ero pronta a tutto ciò che stavo vivendo e che avrei dovuto contemporaneamente realizzare i miei sogni. Con l’aiuto di mia madre e di mia suocera e non lo nego di una babysitter ho avuto l’opportunità di studiare e tra meno di un anno mi laureo. Credo ci voglia solo tanto coraggio e la forza di capire che nella vita una cosa non esclude l’altra perché una madre può anche essere una donna in carriera.

Alessandra Federico

Manuela Diliberto: L’oscura allegrezza

Manuela Diliberto è nata a Palermo e vive a Parigi dove si è occupata di archeologia e storia dell’arte antica fino alla pubblicazione del suo primo romanzo, “L’oscura allegrezza” (La Lepre edizioni, 2017). Lavora attualmente ad un libro di interviste e ritratti fotografici a personaggi che hanno fatto scelte difficili e ad un nuovo romanzo ambientato a Parigi durante gli attentati terroristici del 2015.

I rapporti dell’Europa con l’Islam, il dialogo interreligioso, la questione femminile e l’impatto degli stereotipi di genere sulla società occidentale, sono fra i principali temi della sua inchiesta che è, in primo luogo, esistenziale.

Il suo romanzo ha una costruzione “a specchio”. Quanto diverge dal genere codificato dalla tradizione e qual è la tecnica che ha adottato?

Ma penso che in fin dei conti diverga ben poco. Assieme alla narrazione intimista in prima persona, il cambio narrativo di prospettiva mi pare sia un tratto caratteristico della letteratura degli anni 90-2000. Non so perché mi viene subito in mente George R. R. Martin con A Song of Ice and Fire in cui la storia viene raccontata dai singoli protagonisti in capitoli che portano ognuno il nome di uno di loro. In quel caso, più che di costruzione a specchio si può parlare di costruzione a specchio frantumato. Ma gli esempi sono numerosi e non solo in letteratura: uno per tutti nel cinema è Pulp Fiction, del 1994, che rappresenta il racconto cinematografico scomposto per eccellenza.

Alla fine dell’800 i valori della società borghese hanno cominciato a svuotarsi di significato, di cifre positive, limitandosi ad esprimere i termini della crisi di una società. Nei primi decenni del ‘900 scrittori come Svevo e Pirandello o Kafka e Joyce hanno introdotto il conflitto interiore nel tessuto del romanzo. La lotta ha smesso di essere dell’individuo contro la società e ha cominciato ad essere dell’individuo contro se stesso, dando il via ad una società della crisi. Tutti imbrigliati in questa crisi interiore, molti scrittori della fine del ‘900 hanno frantumato, scomposto, sminuzzato i termini di tale conflitto inserendolo in una compagine di punti di vista individuali. Questo infittirsi dell’introspezione messa alla prova dal confronto con quella altrui e al tempo stesso con lo sguardo inevitabilmente critico del lettore (o dello spettatore), personalmente mi esalta. Dopo aver dato voce ad entrambi perché riportassero ognuno a modo proprio gli stessi fatti, mi ha entusiasmato sapere quali lettori abbiano simpatizzato con Giorgio e quali con Bianca.

A Game of Thrones, il primo tomo di A Song of Ice and Fire, è uscito nel 1996, il periodo in cui ho cominciato a formulare la struttura de L’Oscura allegezza. Nel bene o nel male siamo tutti figli del nostro tempo…

L’oscura allegrezza: quali sono le ragioni insite nella vicenda narrata sottese a tale ossimoro?

L’oscura allegrezza non era il titolo che avevo scelto io. Dovendo sceglierne un altro, in effetti, l’ossimoro mi era parso d’obbligo. E’ una delle mie figure retoriche preferite perché valorizza le infinite sfumature della realtà che se tale, è plurima. Il contrasto dell’ossimoro nel titolo esprime di certo quello legato al momento storico, vera e propria cesura a cavallo fra due epoche, ma soprattutto quello esistenziale del protagonista in conflitto con se stesso e in contrapposizione insanabile e dolorosa con la protagonista. E poi, siamo onesti, può esistere mai un’allegrezza che non sia passata prima attraverso l’oscurità?

I capitoli del testo sono intitolati in lingua latina e lingua francese. Quanto siffatta scelta è ascrivibile alla sua evoluzione esistenziale?

Moltissimo. Direi che la esprime interamente. C’è anche il tedesco fra i titoli. Il mio punto di partenza linguistico è il latino. Ho imparato la grammatica latina prima di quella italiana. Dalla scuola all’università questa lingua ha rappresentato la mia quotidianità per anni ed è stata una specie di chiave di lettura della realtà nei momenti oscuri. Catullo, Seneca e Severino Boezio mi hanno spesso stretto la mano, preservandomi. Il tedesco, l’inglese (che è anche presente nel libro) e il francese, rappresentano momenti della mia vita le cui fasi costituiscono ciò che sono oggi. Ho trascorso la mia giovinezza fra l’Italia e l’Austria, lavorato per poco meno di un anno a Londra e da tredici anni vivo qui in Francia, a Parigi. Che l’evoluzione esistenziale finisca per essere condizionata anche da quella geografica è inevitabile. A volte io stessa, nel definirmi “italiana”, non so neanche più cosa ciò voglia dire. Nel confronto con gli scrittori che vivono in Italia, mi sento a volte persa ed emarginata. Li invidio un po’ perché sono in maniera più definita. Io non sono francese, visto che non scrivo in francese, ma pur scrivendo in italiano non sono più neanche quello, visto che ormai l’Italia la conosco da lontano. Eppure ognuno sceglie in base alle proprie curiosità. Io non sono riuscita mai ad identificarmi interamente con l’Italia. La mia famiglia paterna è di origine danese. Ho sempre sentito sin da piccola un richiamo forte verso altri luoghi più lontani. Esistenzialmente non ho fatto che seguire quel richiamo.

Il libro fotografa l’epoca di transizione prima della prima guerra mondiale, prima della dichiarazione di guerra alla Turchia, prima dei grandi cambiamenti europei. In che misura quella congerie storica è paragonabile ai tempi dei social media?

Secondo me nessun periodo storico è paragonabile a quello che viviamo. Il peso dell’immagine sulla parola scritta, l’impatto dei social sulle nostre abitudini, sul modo di vedere perfino noi stessi che se non esponiamo non esistiamo, non ha assolutamente alcun precedente. Per qualche verso ricorda la corte di Luigi XIV a Versailles, un luogo in cui l’apparenza determinava un individuo e non si viveva che per la messa in mostra. Eppure rimaneva un’abitudine circoscritta ad un’élite. Oggi la maggior parte della gente se non si fa un selfie con il piatto di pasta, ha come la sensazione di non aver mangiato! La cosa positiva è che questa spirale mediatica comincia a generare anticorpi. Conosco sempre più persone che della dittatura dello smartphone non ne possono già più. Chissà, forse un giorno ce ne stancheranno tutti. A cominciare dai bambini.

Attualmente lei lavora ad un progetto letterario sul rapporto della società occidentale con l’Islam. Quali sono i cardini su cui tale proponimento si fonda?

In questo momento lavoro ad un romanzo che si svolge a Parigi che parla molto della solidità dell’amicizia fra donne e anche del rapporto della società francese con quella che è diventata la seconda religione in Francia, l’Islam. Nonostante l’islamizzazione dei movimenti terroristici favoriti e incoraggiati da istanze mosse più dalla politica che dalla religione, con i tragici fatti che ne sono seguiti, la maggior parte dei musulmani di Francia vive da decenni in pace e nel rispetto delle leggi come gli altri, atei, cattolici, protestanti o ebrei che siano. Io stessa faccio parte da ormai tre anni di un gruppo di dialogo interreligioso, un’esperienza unica. I miei vicini di casa sono musulmani, come moltissimi genitori e maestre della scuola dei miei figli. Tutta gente tranquillissima e normale. Vorrei parlare di questo Islam qui. Quello che non interessa ai media.

Giuseppina Capone

 

 

La lanterna nera

Alberto Frappa Raunceroy è laureato in Storia del Diritto Romano alla Cattolica di Milano. È autore de La condanna dei Tre Capitoli (Il Segno, 2007), Il serenissimo borghese, ispirato alla tragica caduta di Venezia così come vissuta dalla famiglia dell’ultimo doge, Lodovico Manin. Il romanzo, pubblicato nel 2012 dall’editore Il Segno e ripubblicato nel 2014 da Solfanelli e nel 2018 da Arkadia Editore, è stato inserito nell’antologia del Premio nazionale “Albero Andronico 2012” di Roma e, nello stesso anno, si è classificato secondo nella sezione Narrativa al Premio Nazionale “Mario Soldati” di Torino. Con Il parruccaio di Maria Antonietta (Arkadia Editore 2016), secondo classificato al Premio Letterario nazionale Palmastoria 2018, l’autore porta il lettore in un terreno intriso di contraddizioni e ricerca della bellezza, grazie alla potente figura dell’enigmatico Salamandre. La lanterna nera è il suo nuovo romanzo.

Cos’è la “lanterna nera” e quali furono i suoi effetti?

La lanterna nera è un adattamento letterario della “lanterna magica”, un dispositivo conosciuto fin dall’antichità che permetteva la proiezione di immagini statiche su pareti o schermi. Nel Rinascimento esso iniziò ad essere perfezionato attraverso l’utilizzo di lenti e specchi. Nel romanzo, la lanterna diviene allegoria e metafora della conoscenza e della scoperta, ma anche proiezione delle nostre paure di inoltrarci in mondi ignoti. E’ questo il motivo per cui Elke, la protagonista del romanzo spaventa e lascia allibiti subendo per questo un processo per stregoneria: ella – giovane e donna – diviene una pietra di scandalo che deve essere eliminata.

Un romanzo storico è un’opera narrativa ambientata nel passato, con un’accurata ricostruzione dell’epoca attraverso atmosfere, costumi, usanze, condizioni sociali e mentalità dei personaggi principali. In questo modo, esso trasmette lo spirito di un periodo storico attraverso dettagli realistici, intrecciando le vicende narrative con eventi realmente accaduti e documentati. Lei narra dell’Europa dei primi anni del 1600 tra Ginevra e Praga. Ebbene, quanto il suo romanzo trasgredisce siffatto tentativo di definizione, abbattendo i confini del genere?

Be’ … diciamo che non c’è una vera e propria “trasgressione” o diversione rispetto ai canoni che lei ha correttamente messo in evidenza. I miei romanzi rientrano agevolmente nella cornice del romanzo storico classico perché intelaiatura, sfondo e “scenografie” dell’epoca sono da me rispettati fino alla maniacalità: pensi che nel “Parruccaio di Maria Antonietta” (mio romanzo del 2016) facevo spostare i personaggi servendomi di documenti con i nomi originari delle vie e delle piazze come riscontravo in una mappa di Parigi del 1750.

Parlerei piuttosto di un adattamento alla sensibilità contemporanea dal momento che utilizzo una più approfondita analisi delle personalità. Quando sir Walter Scott o Manzoni diedero vita al genere non esisteva ancora la psicanalisi o il concetto di “nevrosi” pur essendo lo scavo psicologico dei personaggi notevole. Scrivendo oggi, è necessario tenere conto di tutto questo e unirlo alla trama. Tra i primi a dare vita a questa unione sono stati Marguerite Yourcenar, Maria Bellonci e Robert Graves mentre negli anni a noi più vicini vi sono riusciti perfettamente Tracy Chevalier con La ragazza con l’orecchino di perla e Patrick Suskind con Il Profumo. Detto questo ritengo che nel romanzo storico gli eventi debbano rispettare le fonti e lo stesso vale per i personaggi documentati. Ritengo che anche forzare la cronologia degli eventi implichi uno scardinamento dell’opera da “romanzo storico” a “fantasy”. So che è un sacrificio di studio e documentazione a volte molto duro, ma credo che solo così si preservi lo scenario in cui si ambienta una vicenda. Ecco quello che si può creare dal nulla invece sono i personaggi secondari, quelli non documentati e i dialoghi.

“A cosa erano servite la mia vita, i miei sforzi, a cosa erano servite le sofferenze inumane di Elke se tutto quello che la sua mente aveva prodotto era andato perduto a causa della paura, del terrore umano che un’intelligenza alberghi in un corpo deforme piuttosto che in uno sano o in un corpo femminile piuttosto che maschile?”

Donna e corpo poco attraente: una “piccola strega sapiente” deforme. Quale visione della società intende proiettare rispetto alle ampie questioni di genere oggi dibattute?

Per noi contemporanei non solo non è immaginabile ma nemmeno concepibile l’ordine (sociale, filosofico e religioso) che governava l’Europa fino a qualche decennio fa e troppo spesso dimentichiamo che l’eguaglianza di cui godiamo oggi non è stata concessa da nessuno ma è il frutto di secoli e secoli di sofferenze umane non quantificabili e che oggi rischiano di essere cancellate con un tratto di penna da tecnocrazie anonime che non rispondono a nessuno del loro operato.

Il romanzo involontariamente richiama ad alcuni punti che sono trattati da Margeurite Yourcenar nello straordinario romanzo L’Opera al Nero. Nel libro di Yourcenar, il protagonista, Zenone, è un medico alchimista con pulsioni omosessuali, e il solo fatto di esistere e operare con libertà intellettuale lo espone alla censura e alla condanna dei suoi contemporanei. Ne La lanterna nera la protagonista è una giovane donna che fa ricerca scientifica senza appartenere ad alcuna accademia. Questa libertà sarà la causa di tutti i suoi problemi.

L’innocenza è un tesoro inestimabile che si possiede da bambini, si dilapida da adulti e si rimpiange da vecchi” Le dinamiche interpersonali della narrazione narrano di diffidenza, sospetto, paura. Si può giungere innocenti alla morte, scevri di malizia ed egoismo?

L’innocenza è uno stato di grazia che nell’umanità può serenamente riferirsi solo ad un bambino. Per il resto degli uomini esso può essere vissuto solo come sentimento nostagico, Milton avrebbe detto “Paradise lost”.

Non esiste alcun bene materiale o immateriale in questa vita che possa donare lo stato di gioiosa pace di cui l’innocenza è unica fonte. Certo, esistono uomini che muoiono per ideali belli e alti, che si sacrificano per costruire mondi migliori o attraverso filosofie o ideologie si illudono di riprogrammare l’uomo per riportarlo all’uguaglianza o alla giustizia. Ma mi chiedo: in quale epoca della Storia è esistito tangibilmente uno stato di pace, giustizia e verità assoluta a cui dovremmo fare riferimento? Vorrei io stesso saperlo.

Chi si occupa di storia sa che ogni epoca ha vissuto tragedie inimmaginabili. E le grandi menti di ogni tempo hanno nutrito l’illusione di trovare soluzioni al male senza riuscirci. Oggi non abbiamo più filosofi, strateghi o pensatori ma tecnocrati che ergono a soluzione di ogni male gli algoritmi, la “scienza”e l’informatica: cioè dei circuiti elettronici che si attivano in base a matematica ed elettricità. L’uomo viene letteralmente messo da parte e considerato “obsoleto”. Si può essere sconsiderati? No: mai nessun essere umano è riuscito a riportare l’uomo allo stato di edenica pace riferito, ad esempio, dal libro della Genesi. Meno che mai ci riusciranno i “titani”della nostra epoca che pensano di rubare il fuoco agli dei. In questo gli antichi Greci erano più avanti di noi perchè avevano capito tutto.

In epigrafe si legge una citazione di Blaise Pascal “La natura possiede delle perfezioni per mostrare che essa è l’immagine di Dio, e dei difetti, per mostrare che ne è solo l’immagine”. Può motivare la scelta di tale riferimento?

Blaise Pascal è stata una delle più grandi menti che l’umanità abbia visto vivere e pensare su questa terra. Pur essendo un matematico e avendo dato vita a meccanismi complessissimi come gli antenati dei calcolatori, era un uomo che viveva una perenne pulsione verso l’Assoluto, verso Dio. Non avrei potuto trovare un riferimento più adatto per il mio romanzo dove la piccola protagonista, Elke, vive anch’essa una tensione alla ricerca della verità che la porta a indagare verso i misteri ultimi. Ecco: l’ultimo dei misteri, quello che non troverà mai soluzione ( e tantomeno con la scienza) è Dio. Per esso l’uomo dovrà rassegnarsi ad altri mezzi dopo aver sbattuto la testa contro il muro della storia e della propria superbia.

Giuseppina Capone

Twiggy: la prima modella con la minigonna

Lesley Horby, o meglio conosciuta come Twiggy Lawson, è stata la prima modella ad indossare con impeccabile eleganza la fenomenale creazione di Mary Quant negli Anni ‘60: la minigonna.
Un periodo di rinascita per l’Inghilterra quello seguente alla Seconda Guerra Mondiale, infatti la società stava cambiando e con lei anche la moda grazie soprattutto all’invenzione della minigonna fatta da Mary Quant.

La giovane stilista aprì una boutique dove poteva finalmente vendere le sue meravigliose creazioni, acquisendo una velocità immediata nell’apprendere i gusti dei giovani londinesi e a soddisfare quelli che erano le loro esigenze realizzando, con estrema professionalità, capi pratici e alla moda.

Le giovani donne iniziavano a desiderare gonne corte e comode, in sostituzione ai soliti abiti lunghi dalle gonne dai 40 metri di crinolina, perché la comodità stava diventando la priorità, contrariamente a ciò che si diceva in seguito: la minigonna non nasce per allusioni sessuali. Le giovani donne, ormai,  desideravano indossare collant e body dai colori sgargianti che trasmettessero una sensazione di serenità e soprattutto di agiatezza.
Non solo modella25

L’artefice del cambiamento della moda è stata la regina delle modelle: Twiggy, l’esile ragazza londinese nasce a Neasden il 19 settembre 1949. La prima modella con la minigonna diventa, nel 1966, una vera icona della moda lanciando il nuovo indumento capo nella Swinging London. Il suo soprannome significa “ramoscello”, non potevano dare nomignolo più appropriato per una ragazza esile dalle slanciate gambe,  dal viso lentigginoso e dagli occhi da cerbiatto che di fatti riuscì a conquistare le copertine di facoltose riviste di moda come Vogue, Elle, Seventeen e Interview.

Il suo carattere peperino insieme alla sua voglia di emergere e rivoluzionare il mondo non le diedero solo la possibilità di diventare la prima modella con la minigonna, ma le permisero di realizzare tutti i suoi sogni:  la sua popolarità non si ferma nel campo  della moda, Twiggy diventa attrice di fama interpretando il ruolo di una giovane cantante nel musical “the boy Friend” di Ken Russel nel 1971.  Nel 1980, insieme con Dan Aykroyd e Jhon Belushi la debutta nel film “The blue brothers” di Jhon Landis. Nel 1988 sostiene un importante ruolo in Madame Sousatza con Shirley MacLaine.

“Puoi essere bella a tutte le età, con la routine beauty giusta, il cibo sano e l’esercizio”. Con queste parole Twiggy ci comunica che proseguirà nella sua carriera anche come modella continuando a posare per diverse riviste, è stata appunto recentemente la protagonista dello speciale Valentino su Vogue Italia di ottobre 2019.  Insomma, la determinazione di Twiggy  e la sua costanza nel voler realizzare i suoi sogni è stato ed è un grande esempio da seguire anche per le giovani modelle emergenti di oggi, considerato che, la prima modella con la minigonna degli Anni ‘60, ha realizzato tutto ciò che desiderava.

Alessandra Federico

 

Addio a Diego Armando Maradona leggenda indiscussa del calcio

E’ morto Diego Armando Maradona. Ha subito un arresto cardiocircolatorio nella sua casa di Tigre, in Argentina, dove stava trascorrendo la convalescenza dopo l’intervento chirurgico alla testa di qualche settimana fa. Aveva appena compiuto 60 anni. Inutili i tentativi di rianimazione effettuati dal personale medico che lo assisteva 24 ore su 24. È successo in una data maledetta per i ribelli: erano morti il 25 novembre anche Best e Castro. Il Governo argentino ha ufficializzato l’istituzione di tre giorni di lutto nazionale per commemorare Diego Armando Maradona. Una vera e propria leggenda del calcio mondiale e soprattutto l’argentino più famoso del mondo. Anche la UEFA, per le gare di Champions ed Europa League in programma tra mercoledì e giovedì, ha predisposto il lutto al braccio e un minuto di silenzio su tutti i campi in memoria di Maradona. Anche in Serie A, ci sarà un minuto di silenzio per ricordare l’argentino nel prossimo weekend di campionato. E proprio il campo del Napoli, il San Paolo, può essere intitolato a Maradona come annunciato dal Sindaco De Magistris. L’esame autoptico è stato eseguito tra le 19.30 e le 22 di mercoledì, pochissime ore dopo la morte, nell’ospedale di San Fernando, ed è stato stabilito che l’insufficienza cardiaca ha provocato “un edema polmonare acuto”. La notizia è stata riferita dai quotidiani argentini il “Clarin” e “La Nacion”. Sei medici hanno preso parte e tra questi c’era anche un perito nominato dalla famiglia. Per avere il risultato definitivo bisognerà attendere l’esito degli esami tossicologici, che servono per far capire se Maradona aveva assunto farmaci, sostanze stupefacenti o alcol. Mentre il procuratore generale di San Isidro John Broyard aveva detto ufficialmente che gli esami preliminari avevano escluso “ogni segno di attività criminale e di violenza”. I familiari di Diego hanno chiesto ai medici che hanno effettuato l’autopsia in ospedale di non portare con sé i rispettivi telefoni cellulari, perché temevano fossero scattate delle foto inappropriate. Maradona dopo l’autopsia è stato trasportato nella Casa Rosada dove è stata già allestita la camera ardente. L’Argentina lo onora come si fa solo con i capi di stato.

Nicola Massaro

Rudy Salvagnini: Dizionario dei film horror

 

Rudy Salvagnini è uno sceneggiatore di fumetti. Ha scritto centinaia di storie per TopolinoIl GiornalinoIl Messaggero dei RagazziLancioStory e molte altre testate. In campo letterario, sono suoi il romanzo di fantascienza Il vortice dei ricordi (Alcheringa, 2017) e la raccolta di racconti horror Nel buio (Weird Book, 2020). Critico cinematografico, collabora a Segnocinema e a MYmovies. Ha scritto Hal Ashby (Il Castoro Cinema, 1992), Il cinema di Bob Dylan (Le Mani, 2009) e Il cinema dell’eccesso vol. 1 e 2 (Crac, 2015 e 2016). Ha scritto anche e soprattutto il Dizionario dei film horror (Corte del Fontego, 2007 e 2011), di cui è appena uscita la terza edizione (Bloodbuster, 2020). Ne parliamo con l’autore.

Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto. Da dove spunta il suo interesse per l’horror?

Quando mi interrogo sulla questione, credo di percepire che ciò che mi ha da subito attirato verso questo genere è l’aspirazione al soprannaturale, che non è un elemento essenziale dell’horror, ma è molto frequente in esso. In un piccolo e modesto film spagnolo, Errementari, a un certo punto un pavido e insicuro sacerdote si trova di fronte a una micidiale creatura demoniaca e, in modo solo apparentemente incongruo, la ringrazia perché con la sua presenza gli ha finalmente dato la certezza che la sua vita non era stata sprecata: se il diavolo esiste, c’è il soprannaturale e anche quello in cui lui, il sacerdote, ha sempre cercato di credere. Quindi, se esiste il Male, è probabile che esista anche il Bene e questo è già qualcosa e l’horror, magari inconsciamente, ce lo rappresenta facendoci nel contempo riflettere sul mistero dell’esistenza. In questo senso è tipica anche la figura dei fantasmi – riflessi di noi stessi, solo più consapevoli – allegoria di qualcosa diverso da noi, ma vicino a noi. Oltre a ciò, che rappresenta il fascino del fantastico, c’è la grande attrattiva che, per me, l’horror ha quale genere metaforico per eccellenza, con la sua capacità di scandagliare la nostra società con una severità e una schiettezza altrove difficili da trovare. L’orrore fa parte della natura umana, l’abisso che ci guarda e che noi guardiamo, la morte che incombe, piacevolezze insomma su cui l’horror ci fa meditare e che a volte invece esorcizza trivializzandole. Alla fine, questo desiderio di spaventare e spaventarsi è sì come un viaggio nel tunnel dell’orrore di un luna park, ma è anche un viaggio dentro noi stessi. E questo mi ha sempre interessato.

L’horror è uno dei generi più fecondi e persistenti della storia del cinema. Qual è il suo linguaggio e come riesce a rispecchiare sempre la contemporaneità?

La forza dell’horror è quella di interpretare sentimenti e paure comuni a tutta l’umanità, sotto ogni latitudine: sa parlare un linguaggio universale compreso dovunque. In ogni parte del mondo c’è una tradizione horror: messicana, spagnola, persino brasiliana. Ci si è accorti solo negli ultimi vent’anni che esiste quella asiatica, ma esiste da un pezzo: capolavori come Jigoku ci ricordano che in Giappone gli horror ci sono da molto. Hong Kong, Indonesia, Filippine, ognuno con i suoi mostri e i suoi vampiri, quelli saltellanti di Hong Kong e i Pontianak, teste volanti con brandelli di intestini, in Malesia. Non esiste un altro genere che si sa coniugare così perfettamente con il comune sentire di ciascun popolo, proprio perché fa riferimento a un folclore radicato e persistente. L’horror non è mai particolarmente di moda perché sostanzialmente lo è sempre.

La storia del cinema dell’orrore di Teo Mora, alcuni volumi di Solfanelli,  Monster Show di David J. Skal; Danilo Arona su Craven, Fabrizio Liberti su Carpenter, Daniela Catelli su Friedkin o Gianni Canova su Cronenberg. Per quale ragione, a suo giudizio, la produzione di critica cinematografica del genere horror in Italia non è nemmeno in lontananza equiparabile a quella rinvenibile in altri paesi?

Oltre a quelli citati ci sono molti altri testi sul cinema dell’orrore in italiano – ne hanno scritti Fabio Zanello, Roberto Curti, Gordiano Lupi, Antonio Tentori, Mario Gerosa, Albiero e Cacciatore, per citare solo alcuni nomi tra i tanti – ma è vero che la produzione, in particolare, anglo-americana è decisamente superiore a livello quantitativo. Se ci pensiamo bene però è anche decisamente superiore la produzione di film horror e le due cose sono molto collegate. Negli USA, gli horror hanno una tradizione produttiva solidissima, continuativa ed enorme in quantità per cui esiste un pubblico maggiore anche per la pubblicistica. Da cosa, insomma, nasce cosa.

Quale criterio ha adottato per operare le sue scelte tassonomiche?

Siamo in un campo, quello della critica cinematografica e della conseguente suddivisione del cinema in generi, che solo in parte può dirsi scientifico, per cui le regole di classificazione si sono per forza di cose basate su criteri insieme oggettivi e personali. Ho cercato di darne conto in qualche misura nella Guida alla consultazione contenuta nel Dizionario, ma la questione è di certo complessa e impregnata di soggettività.

Cos’è mutato nei dieci anni intercorsi dall’ultima versione ad oggi?

Come sempre, il cinema horror ha mostrato vitalità invidiabile, rigenerandosi e reinventandosi. Tra le tendenze principali c’è stata senza dubbio quella del found footage – film apparentemente realizzati con filmati “veri” – che ha prodotto una notevole quantità di film spesso premiati dal successo. Ma, esattamente all’opposto, c’è stata la grande crescita dei film prodotti dalla Blumhouse, raffinate rivisitazioni dei capisaldi dell’horror con poco di nuovo, ma molto stile. E ci sono naturalmente state le singole perle provenienti da ogni parte del mondo come il coreano Train to Busan, il giapponese Zombie contro zombie o l’australiano Babadook. Insomma, la consueta vitalità di un genere che non muore mai, come i mostri che spesso lo popolano.

Giuseppina Capone

Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta

 Stefania Prandi, il femminicidio può essere attribuito al caso o è un fenomeno con radici culturali e sociali profonde, tenendo presente che, secondo il rapporto Eures, in Italia viene assassinata una donna ogni sessanta ore?

Come ha dichiarato l’Assemblea generale delle Nazioni unite nel 1993, «La violenza contro le donne è la manifestazione di una disparità storica nei rapporti di forza tra uomo e donna, che ha portato al dominio dell’uomo sulle donne e alla discriminazione contro di loro, e ha impedito un vero progresso nella condizione delle donne». Il femminicidio si inserisce in questa subalternità. In Italia viene assassinata, in media, una donna ogni sessanta ore e mentre il numero degli omicidi diminuisce, quello dei femminicidi, in proporzione, aumenta e rappresenta quasi il 40% del totale. Scrive il magistrato Fabio Roia in “Crimini contro le donne. Politiche, leggi, buone pratiche”: «Il fenomeno della violenza contro le donne è un atteggiamento diffuso, oscuro, antico, tollerato». Ci sono diverse statistiche a disposizione. Nei paesi dell’Unione europea una donna su tre ha subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita, e una su venti è stata stuprata. I dati sono in linea con l’Italia, stando ai rapporti annuali dell’Istat. Da noi, inoltre, manca una percezione reale del problema: appena un terzo di chi subisce violenza ritiene di essere vittima di reato.

Si reputa che la intimate partner violence si riveli una strategia per “fare il genere”, e per “fare le maschilità”. La polisemia di accezioni (genere linguistico, biologico e sociale) che la lingua sviluppa dimostra quanto la dimensione linguistica emani riecheggiamenti nella maniera in cui si avverte la realtà, si erige l’identità e si calcificano i preconcetti. Reputa che modi di dire, proverbi e battute possano costituire l’anticamera di forme di violenza?

Come scrive giustamente la ricercatrice e studiosa Chiara Cretella nell’introduzione al mio libro, “i processi di nominazione creano il reale”. Certe espressioni o modi di dire sono parte integrante della violenza, sono espressioni della cultura della violenza maschile contro le donne e della violenza di genere che ancora definisce la nostra società.

Chi paga le conseguenze del femminicidio ed in quali forme?

Quando una donna muore per mano di un uomo, non viene distrutta soltanto una vita, si colpiscono intere famiglie. A pagare le conseguenze dei femminicidi – che pesano per generazioni, duecento anni o più – sono madri, padri, sorelle, fratelli, figli . A loro restano i giorni del dopo, i ricordi immobili appesi ai muri, trattenuti dalle cornici, impressi nei vestiti impolverati, le spese legali, i ricorsi, le maldicenze nei tribunali («se l’è cercata», «era una poco di buono»), le giustificazioni: «stavano litigando», «lui era fuori di sé per la gelosia», «era pazzo d’amore», «non accettava di essere lasciato».

I media offrono plurimi e molteplici voci di famiglie che rifiutano di ripiegarsi nella sofferenza ed avviano battaglie giornaliere. Qual è il loro fine?
Sempre più familiari (nella maggioranza dei casi madri), intraprendono battaglie quotidiane, piccole o grandi, a seconda dei casi. C’è chi scrive libri, organizza incontri nelle scuole, lancia petizioni, raccoglie fondi per iniziative di sensibilizzazione e fa attivismo online. Lo scopo è dimostrare che quanto si sono trovati a vivere non è dovuto né alla sfortuna né alla colpa di chi è stata uccisa, ma ha radici culturali ben precise.

Le norme religiose, a cui sono poi seguite le leggi civili, hanno acuito le disparità e le differenze tra maschi e femmine. Qual è ad oggi lo status delle discriminazioni di genere, soventemente preludio a forme di violenza?
Tutti gli indicatori internazionali e nazionali ci dicono che le discriminazioni di genere sono ancora presenti e hanno un peso enorme sulle vite individuali e sulla società.

Stefania Prandi, giornalista, scrittrice e fotografa, ha realizzato reportage e inchieste in Italia, Europa, Africa e Sudamerica. Si occupa di questioni di genere, lavoro, diritti umani, ambiente e cultura. Tra le sue collaborazioni: Il Sole 24 Ore, National Geographic, Azione, Radiotelevisione svizzera, El País, Al Jazeera, Correctiv, BuzzFeed. Nel 2018 ha pubblicato con la casa editrice Settenove Oro rosso. Fragole, pomodori, molestie e sfruttamento nel Mediterraneo. Con l’inchiesta legata al libro ha vinto numerosi riconoscimenti internazionali e premi come Henri Nannen Preis, Otto Brenner Preis, Georg Von Holtzbrinck Preis, Volkart Stiftung Grant, The Pollination Project Grant. A ottobre 2020 ha ricevuto la menzione speciale alla XXIma edizione del Premio di scrittura femminile “Il Paese delle Donne et Donna e Poesia”. Nel 2020 (settembre), sempre con Settenove, ha pubblicato il libro Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta col quale, lo scorso ottobre, ha vinto il premio letterario Essere Donna.

Giuseppina Capone

1 54 55 56 57 58 89
seers cmp badge