Il corpo, il rito, il mito

Bruno Barba è ricercatore di Antropologia del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Genova. Studia il meticciato culturale soprattutto in Brasile; l’altra sua area di ricerca è lo sport nei diversi significati antropologici. Tra le sue pubblicazioni: Un antropologo nel pallone (Meltemi 2007), Dio Negro, mondo meticcio (Seid 2013); Rio de Janeiro (Odoya 2015); Calciologia. Per un’antropologia del football (Mimesis 2016); Meticcio (Effequ 2018); 1958. L’altra volta che non andammo ai mondiali (Rogas 2018).

Con lui abbiamo parlato de “Il corpo, il rito, il mito. Un’antropologia dello sport”.

Il corpo potrebbe, oggidì, essere reputato un «fatto sociale totale» atto a decodificare dinamiche culturali di carattere più generale?
Certamente sì. Il corpo parla, grida, rende esplicite provenienze, caratteristiche, cambiamenti, ideologie. Stili di vita e di concezioni dell’arte e dell’estetica. Insomma dire che il corpo è natura non soltanto è riduttivo: è semplicemente errato, fuorviante.
Nel suo testo si legge “L’Antropologia studia linguaggi, miti, rituali, divinità, dinamiche identitarie”. Ebbene, quali sono le ragioni per cui tale Scienza sociale ha accantonato lo sport?
Vi sono varie ragioni, a seconda dei tempi e dei luoghi. In molte parti del mondo ha fatto breccia un’idea molto precisa e cioè, che lo sport rappresentasse qualcosa di strumentale al potere, l’oppio dei popoli, una droga per persone semplici, non in grado di discernere e che andassero semplicemente gratificate dal panem et circenses. Le scienze sociali poi, e in particolare l’Antropologia, si sono occupate per decenni di politica, struttura sociale e familiare, arte: un’attività così legata al corpo e al ludus non godeva insomma di uno status tale da raggiungere la dignità per essere studiata.
Nel 1931 Raymond Firth pubblica sulla rivista “Oceania” l’articolo “A dart match in Tikopia”. In quali direzioni si è evoluta l’Antropologia dello Sport?
In una direzione direi al passo con i tempi: si cercano i significati “densi”, le connessioni con la politica, l’economia, la religione, le dinamiche identitarie. Oggi chi potrebbe negare che su temi quali la decolonizzazione, il razzismo, la globalizzazione, il meticciato culturale, le rivendicazioni identitarie, fenomeni così caratterizzanti l’era moderna, le dinamiche dello sport non interferiscano?
Clifford Geertz elabora il concetto di “densità”. Quale definizione e spiegazione può fornire circa quello che è uno degli elementi su cui si fonda lo studio antropologico dello sport?
Dire che una partita di calcio è “semplicemente” una partita, che un match di boxe come quello del 1974 a Kinshasa tra Muhammad Alì e George Foreman nient’altro che un incontro di pugilato, e che il Super bowl è la finalissima del campionato di baseball e poco più significherebbe non aver colto il messaggio dell’antropologo americano. Geertz ci ha parlato del combattimento di galli a Bali, dimostrando, di fatto, come funzionasse quella società: noi abbiamo la chance di comprendere tantissimo della geopolitica, delle migrazioni e di tanti altri fenomeni della modernità, delle rivendicazioni identitarie, come dell’impegno a favore della comunità LGBT+ prestando attenzione a quello che avviene prima durante e dopo un incontro di qualunque sport. Basta avere la consapevolezza, appunto, della densità di questi avvenimenti, che sono solo apparentemente sportivi.
Considerati i frequenti fatti di cronaca, anche bui, quale connubio ritiene possa essere stabilito tra sport e civiltà?
Quando accadono dei fatti negativi all’interno del mondo dello sport, consciamente o meno tutti noi partecipiamo di pulsioni contraddittorie. Da un lato, è forte la tentazione di cavarsela chiamando in causa la metafora dello “specchio della società”: una comunità malata, razzista, violenta, corrotta non può che produrre uno sport di tal fatta. Dall’altro lato si ricorre spesso all’idea – utopica e comunque esageratamente ottimistica – che lo sport debba essere un’isola felice, un ambiente autoreferenziale, avulso da contatti pericolosi e popolato insomma da esseri speciali, super partes, nel quale la legge è uguale per tutti e viene premiato sempre il più meritevole. Naturalmente le due idee si intersecano, spesso vengono strumentalizzate o cavalcate in mala fede; certamente lo sport dovrebbe darci esempi fulgidi – lo ha fatto e lo continua a fare -; ma se è vero che è soprattutto un “fatto sociale totale” come può rimanere impermeabile rispetto alla cultura nella quale è immerso?

Giuseppina Capone

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