Marco Urraro. “Vucchella. Salvatore Di Giacomo”

Salvatore Di Giacomo afferma, conversando con Benedetto Croce che “Il napoletano è l’alfiere della vita eterna, secondo i dettami dell’immortalità della fede, attraverso secoli d’indipendenza geografica di questa città nella storia”.

Può fornire un’interpretazione di siffatta considerazione?

Napoli non è la capitale del mondo, ma è una città che da alcune migliaia di anni vede un fatto raro e unico ovvero che il napoletano è la dimora umana di uno Spirito del luogo che immagina sempre la bellezza di tale spirito con una fede inimitabile; tale fede spesso, confusa con la ben nota teatralità partenopea è in verità un’autonomia razionale rispetto alle altre popolazioni sempre però irraggiungibile: alfiere, fede, geografia, storia… sono solo parole chiave da me usate nella frase per tentare di ridestare, specie nel moderno napoletano, anzi per aprire una porta nella sua sensibilità offuscata nella sua visione del bello da anni di grandi problemi, elevati a sistema, come la criminalità organizzata che crede di essere romantica e la mancanza di senso civico.

Qual è la chiave per cucire la Napoli “alta” a quella “bassa” secondo la prospettiva romantica di Di Giacomo e la congerie post-unitaria?

Purtroppo devo dare una triste notizia ovvero che la speranza di cucire o meglio far parlare con un linguaggio comune, ecco il riferimento alla Vucchella, la Napoli alta con la Napoli bassa non si è mai attuata, né con l’opera monumentale di Di Giacomo né con il puro appello sentimentale del risanamento post unitario, questo perché oggi queste due considerazioni non esistono più. Chissà a volte mi chiedo se Di Giacomo, e con lui gli uomini e le donne della sua levatura in termini di sensibilità della loro epoca, avrebbe mai immaginato cosa oggi è diventata questa metropoli: una incognita convivenza tra cittadini onesti e disonesti nel complesso dal futuro incerto, una città nella quale la minaccia della violenza la fa da padrona e che penso un giorno si esprimerà in una sola volta prima di finire; ma io parlo naturalmente di quanto succederà nei prossimi decenni.

Elisa, donna amatissima da Di Giacomo, asserisce che “Imparare la storia non basta, bisogna anche esserla nel filo nascosto del discorso della sua molteplicità”. Cosa intende rispetto al dipanarsi degli eventi vicini e distanti? Penso alla prima guerra mondiale ed all’avvento del Fascismo intravisto da Matilde Serao.

Lei ha detto bene “donna amatissima da Di Giacomo” precisiamolo, e che difatti parla spesso nel romanzo all’apparente fredda logica del poeta con uno spirito di verità tuttavia abbastanza comune in una donna che ami il suo uomo. La frase che lei mi ricorda in realtà si riferisce al fatto che l’intelligenza che dimora nei nostri corpi ha sempre un’origine sostanzialmente divina; non voglio entrare nel difficile, ma come uomo di fede, al pari di come lo fosse sicuramente Di Giacomo, penso nello specifico che la coscienza di un cittadino come quello napoletano soffra due volte nel contemplare la sua città nella sua bellezza al tempo stesso del suo tremendo degrado urbano, e anche questa pur sempre è la magia di questo cittadino e di questa città nella quale puoi dire infine di aver incontrato Dio dietro ogni vicolo, via o piazza… tanto per parafrasare il grande Petronio Arbitro che spesso visitava Neapolis.

Lei giustamente invece ha intravisto nella frase detta attraverso Elisa eventi di massa come la prima guerra mondiale e il fascismo nei quali difatti la volontà individuale è stata seppur schiacciata, e vedi nel romanzo le scene del cinematografo con Di Giacomo: nel caso della Grande Guerra però vista come completamento dell’unificazione nazionale a costo di sacrificio di sangue, mentre il fascismo visto come tentativo inutile da parte di una élite di potere di creare un potere economico con il popolo italiano, poi fallito. Eventi difatti affrontati nel romanzo vuoi con la moderna impotenza individuale del poeta vuoi con la sua esasperazione sociale che come la situazione attuale decadente dell’Italia può essere sintetizzata attraverso una frase che vale la pena di citare e che io calo nel romanzo mediante la figura di Di Giacomo, ovvero “il male che è stato fatto, ma vanamente, è destinato a durare poco. La vita rassegna le sue dimissioni, la storia è stanca, la coscienza si dimena nel fuoco della sua perdizione. Esiste un tempo che nessuno può decidere, un tempo imprendibile.”. Ai posteri l’ardua sentenza.

La rimembranza del passato ed i suoi simboli floreali. In che misura si può discorrere di nostalgia?

Al tempo della preparazione editoriale di Vucchella avevo trovato un vecchio articolo di Benedetto Croce presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, più un elogio funebre quello scritto da Croce poco dopo la morte del suo amico: ebbene il filosofo non esitava a definire appunto il Di Giacomo, il poeta della nostalgia. La rosa, il garofano nel mio romanzo non sono altro che pure metafore, tuttavia tra i più semplici simboli arcaici e subliminali conosciuti dall’uomo, la rosa specialmente rappresenta lo sbocciare della maturità di un individuo… Che dire a questo punto di Vucchella, tengo a precisare: è un romanzo che sulle prime può sembrare scritto con una certa distaccata ironia, in realtà è profondo di una intensa drammaticità. Si apre con la similitudine di una rosa che sfiorisce, simbolo dell’esistenza umana, ma anche della sua incessante, sofferta e stimolata creatività da parte di ognuno di noi. Quando nasciamo e cresciamo la rosa che è in ciascuno si innalza e si sviluppa, ma prima o poi, soprattutto nel momento più indifeso della sua bellezza espressa e fiorita la rosa appassisce, quasi tra le mani, sotto il meccanico incedere di una sofferenza, o di una cattiveria, resta difatti qualche petalo e lo stelo ricco di spine… è da questo inaspettato presentarsi della sofferenza che noi poi dedicheremo tutta la vita per far rifiorire la rosa: nasciamo come una rosa e dobbiamo rifiorire e mantenerci come quella identica rosa secondo uno sforzo continuo e costante… intanto lo stelo spinoso è adesso l’invisibile e nascosta croce che ognuno abbraccia e porta con se, la corolla bella e profumata è l’ergersi di quella nuova consapevolezza che porta l’essere umano a vedere verticalmente dall’alto la vita nella sua rinnovata maturità, nella sua universale coscienza. Ecco dunque cos’è la nostalgia, il cercare di rinnovare un evento passato o peggio finito in cui abbiamo mostrato uno spiccato senso di maturità e abbiamo vissuto così un momento di bellezza ineguagliabile da figli di Dio.

Dionisiaco ed apollineo come codici comunicativi fusi nella produzione di Di Giacomo?

Questa è una domanda molto bella che coglie l’anima di tutta la produzione digiacomiana, non voglio sempre entrare in concetti difficili, ma sicuramente l’opera del nostro poeta si basa tutta su un concetto di bellezza, spesso musicata, propria della tragedia greca antica e che poi ritroviamo in Nietzsche. Da qui un concetto a me caro inteso come il super uomo. In questa che è pur sempre una biografia romanzata si evince lo sforzo dell’uomo apollineo, forte del suo ordine delle forme, essere messo in difficoltà dallo spirito dionisiaco il quale senza rispettare le forme è pura esaltazione, un’esaltazione che è lampante nell’opera poetica di Salvatore Di Giacomo e che mostra ogni singolo aspetto di quella povertà napoletana che tanto aveva attratto il poeta spesso nei fatti della cronaca nera e aveva rappresentato nelle sue seppur trascurate novelle dalla critica. Il tentativo di giustificare da parte di Di Giacomo la pur sempre connivente bellezza dei napoletani fu il tormentone del poeta; egli stesso nel romanzo è rappresentato come un uomo che rifugge il panorama partenopeo, se ne nasconde, se ne sente in colpa, dicendo di averlo rubato nella forma di un garofano, fino alla fobia per una prospettiva della città che fa di lui un gran sacerdote se non addirittura il Dio incompreso del suo giardino e delle sue creature che ora si dimenano dionisiache nelle sue novelle, ora nelle sue poesie in un desiderio apollineo.

Spero più che di essere stato chiaro di essere stato capace di rendere interessante la lettura del mio romanzo che già alcune persone hanno definito intanto pieno di romanticismo, una definizione che mi fa sorridere, ma vera per colui che tanto nella pur sempre invenzione narrante quanto nella vita di tutti i giorni vorrebbe che Napoli e i napoletani ritrovassero la perduta sensibilità che porta felicemente tutti insieme a fermare il tempo e a contemplare lo spazio in una bellezza eterna di cose e persone. I napoletani, al pari di come già pensasse Di Giacomo, hanno avuto sempre questa abilità e sono sicuro che un giorno se ne approprieranno nuovamente sotto i migliori auspici di chi saprà loro parlare nei termini dell’eredità sostanziale lasciataci da Salvatore Di Giacomo.

Giuseppina Capone

Raffaele Mantegazza: Caro bullo ti scrivo

Professore, quanto differisce il bullismo dalla comune violenza o dall’atavica sopraffazione del forte sul più debole?

Il bullismo è certo una delle forme di questa violenza, forse il suo aspetto più perturbante perché riguarda persone di giovane età. Il bullismo è uno dei dispositivi attraverso i quali la violenza si perpetua, si tramanda di generazione in generazione; interrompere la spirale del bullismo significa mettere in discussione il carattere apparentemente eterno della violenza proporre un nuovo modo di relazionarsi tra persone proprio a partire dai giovani.

La sua lettera è accorta nel non confondere vittima e carnefice altresì nel non cristallizzare ambedue nei loro ruoli. E’ questa una delle chiavi per spingere alla riflessione, avvalorando cambiamento, autocritica e redenzione?

Credo che proprio la cristallizzazione dei ruoli sia uno degli elementi fondamentali da affrontare in chiave pedagogica; il carnefice si ritaglia un ruolo sociale, pensando probabilmente che quella sia l’unica possibilità di autoaffermazione: anche la vittima viene relegata al suo ruolo che è di duplice sofferenza, da un lato fisica e psichica per l’atto subito, dall’altro per il gorgo nel quale si entra pensando che non sia possibile altro ruolo che quello di vittima. Sbloccare la situazione significa redimere il colpevole e offrire alla vittima la possibilità di una nuova serenità.

Il body shaming può essere ascritto al bullismo verbale e quali caratteristiche assume, ove mai rientri nel fenomeno di specie?

Si tratta certamente di una forma raffinata di bullismo che, come il bullismo fisico, prende di mira il corpo; in età puberale e adolescenziale ovviamente il corpo diventa fondamentale, la modellizzazione del proprio corpo su modelli imposti dalla moda o dal sistema mediatico spesso si associa al body shaming creando una vera e propria vergogna di sé, un non apprezzamento del proprio corpo che può arrivare in casi estremi, fino all’auto annientamento, all’autolesionismo. Ovviamente anche in questo caso occorre distinguere tra vittima e carnefice, ma occorre anche ricordare che chi attacca il corpo dell’altro dimostra una fragilità nei rapporti con il suo proprio corpo, dimostra di non star bene con se stesso, sentimento che viene negato attraverso lo star male dell’altro.

Alle parole, sovente, segue il cyberstalking. C’è chi pubblica foto, chi inserisce un commento fra gli innumerevoli possibili che avanzano nella sceneggiatura degli stereotipi sessisti, esorta altri a vessare, vilipendere, schernire, intimorire. Il bullo ha la piena consapevolezza dei suoi atti o la confonde con una ragazzata?

Credo che la mancanza di consapevolezza sia tipica del cyberbullismo; nonostante il ripetersi di iniziative meritorie e di progetti formativi sembra che la rete abbia un ruolo di fascinazione che rischia di rendere insufficienti gli interventi fatti a scuola dagli esperti. Occorre un discorso più complesso sulla rete che parte mio parere dall’eliminazione dell’anonimato. Finché in rete si potrà restare anonimi sarà molto difficile che al fascino del lato impunito e non imputabile si possa sostituire un uso consapevole di questi mezzi.

Quali sono le responsabilità di coloro che ricoprono un ruolo educativo?

Sono ovviamente fondamentali soprattutto nel proporre esempi di relazioni serene, di conflitti mediati in modo non violento; l’eliminazione della violenza nei rapporti tra adulti o tra adulti e ragazzi è il primo passo perché la critica e la condanna del bullismo sono semplicemente degli atti di ipocrisia adulta.

Raffaele Mantegazza insegna pedagogia interculturale all’Università di Milano-Bicocca. Ha scritto tra l’altro Di mondo in mondo. Tracce educative nella Commedia di Dante (Roma 2014), Diventare testimoni. Riflessioni e strategie per la Giornata della memoria a scuola (Parma 2014), Nessuna notte è infinita. Riflessioni e strategie per educare dopo Auschwitz (Milano 2014).

Giuseppina Capone

seers cmp badge