Intervista a Valeria Melis: Il grido di Andromaca. Voci di donne contro la guerra

Professoressa Melis, per quale ragione proprio Andromaca diventa vessillo di tutte le donne preda e bottino di guerra?

Io e gli altri curatori del libro, Alberto Camerotto e Katia Barbaresco, abbiamo scelto di porre in primo piano il personaggio di Andromaca, perché, a nostro parere, la sua figura è quella che può rappresentare meglio le atroci sofferenze patite dalle donne quando la guerra abbatte le mura e devasta la città: Andromaca assiste dall’alto della rocca di Ilio alla brutale uccisione del marito, Ettore, e poi subisce la perdita del figlioletto Astianatte, gettato dalle mura di Troia senza alcuna pietà, per la sola “colpa” di essere il successore del padre nella guida e nella difesa del suo popolo. Dopo la caduta della città, Andromaca diventa preda e bottino di guerra di Neottolemo, da cui ha un figlio, Molosso, suscitando l’odio e l’invidia della legittima moglie di lui, Ermione. Inoltre, Andromaca non rappresenta solo la condizione della donna greca antica che patisce le conseguenze della guerra, ma assurge a simbolo assoluto. Nell’Iliade (VI 58-60), Agamennone, rivolgendosi al fratello Menelao, tuona che la distruzione di Troia deve essere totale e che nessun bimbo, nemmeno quello ancora nella pancia della mamma, deve sopravvivere. Un’idea, questa, drammaticamente attuale, che ci rimanda subito all’immagine scattata da Evgeniy Maloletka a Mariupol, in Ucraina: una giovane donna, Iryna Kalinina, viene portata via su una barella dopo il bombardamento dell’ospedale pediatrico nel quale si trovava. Il suo pancione è grondante di sangue. Ancora vi custodisce  Miron (nome che, proprio come quello della madre, significa ‘pace’), nato morto: né madre né figlio hanno avuto scampo. Andromaca, che, nel giro di poco tempo, perde marito, figlio e la propria libertà, ben rappresenta il dolore universale della guerra.

Dagli archetipi epici museali della guerra alla letteratura: quali convergenze?

Appena terminate le restrizioni più severe legate all’epidemia da Sars-CoV-2, non essendo ancora possibile riunirsi nei teatri o nelle scuole, il gruppo di ricerca Aletheia, creato e diretto da Alberto Camerotto (Professore di Lingua e letteratura greca dell’Università Ca’ Foscari Venezia), ha deciso di portare la voce dei Classici nei musei d’Italia. Abbiamo cominciato il 3 marzo 2022 al Museo Archeologico Nazionale di Venezia, in piazza San Marco, con un’azione intitolata La morte negli occhi. Filologi, archeologi, docenti e studenti si sono riuniti tra le statue e le steli del museo per parlare degli archetipi epici della guerra, del pianto e del dolore causati da tante morti cruente. Le parole volavano alate tra le statue dei Galati, effigi del nemico sconfitto, le quali ci ammoniscono rammentandoci un fatto ineludibile: nelle guerre e nei conflitti, anche nelle piccole beghe di ogni giorno, a trionfare è l’odio, la sofferenza, l’invidia: nessuno è davvero vincitore. Poi, abbiamo attraversato l’Italia, andando, novelli clerici vagantes, di museo in museo. A Vicenza, alle Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari e al Museo Naturalistico e Archeologico di Santa Corona, l’8 marzo 2022, è nata l’idea del libro Il grido di Andromaca. Voci di donne contro la guerra (Vittorio Veneto 2022). Quel giorno, a Vicenza, infatti si parlava di Donne e caduta della città. Al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, invece, è avvenuto l’incontro con La madre dell’ucciso, un bronzetto nuragico ritrovato a Urzulei, in provincia di Nuoro, e risalente al X-VII sec. a.C., quindi all’epoca in cui, in Grecia, gli aedi cantavano l’epos omerico. Il bronzetto raffigura una madre che compostamente piange la morte del figlio in guerra: l’uomo che tiene tra le braccia è infatti un guerriero spirato in battaglia. La sorte ha deciso il nostro incontro con quest’opera straordinaria, che abbiamo voluto nella copertina del libro come simbolo della dimensione universale del dolore della guerra.

Idea unica in tutto il teatro comico, si eleva al ruolo di star nientedimeno quella fetta della società attica libera ma debole ed inascoltata, tuttavia partecipe tanto quanto gli uomini dei lutti e dei dolori della guerra. Lisistrata racconta la sua storia: con quale obiettivo?

L’obiettivo, non solo nella finzione, è convincere i cittadini a porre fine alla guerra del Peloponneso, conflitto che ormai da vent’anni sconvolge la vita di Atene e Sparta e di tutto il mondo greco. Nella commedia, infatti, sebbene l’idea di attuare uno sciopero del sesso per indurre gli uomini a stipulare la pace sia dell’ateniese Lisistrata, partecipano all’azione tutte le donne della Grecia, ciascuna con le proprie forze: le giovani con l’arte della seduzione, le vecchie con l’azione e la saggezza, che suggerisce loro di occupare l’acropoli di Atene impedendo l’accesso al tempio di Atena, dove sono depositate le ricchezze che foraggiano il conflitto. Si è parlato molto della possibile “identità” delle protagoniste, che alcuni hanno descritto come lascive etère, dando, a mio parere, spazio eccessivo all’aspetto erotico della trama, senza considerare altri importanti elementi. Come si può evincere dalla commedia, le donne in azione sono astai, cioè cittadine, che, pur non godendo in alcun modo dello status dei cittadini di sesso maschile, costituiscono comunque parte importante e integrante della polis, cui offrono il tributo più alto: i figli, destinati a riempire le fila delle milizie cittadine e, quindi, a sacrificare la loro vita per la sopravvivenza della comunità (Aristoph. Lys. 650-651). Un altro errore prospettico su questa commedia è consistito nello scorgervi un manifesto femminista o, al contrario, maschilista: nulla di più lontano dall’orizzonte greco antico e da quello di Aristofane, che ha voluto, piuttosto, porre in scena una realtà paradossale (le donne al potere, come avviene anche nelle Ecclesiazuse) per dare maggiore potenza al suo messaggio. Non manca, comunque, un intento mimetico utile a carpire il punto di vista femminile sulla guerra.

Le opere greche si confermano quali testi archetipici del pensiero occidentale, contemporanee ad ogni epoca. Quali ragioni ravvede nella specifica proprietà della letteratura greca di porsi sempre in maniera speculare alle fratture epocali?

I poemi omerici sono spesso considerati come una sorta di “atto di nascita” della letteratura e della cultura occidentale. Dentro questi poemi così antichi e apparentemente lontani troviamo un’umanità, che, seppure filtrata dalla leggenda eroica e dalla fantasia, ci è vicina nei pensieri e nelle opere: la guerra, il viaggio, la scoperta di terre “altre”, l’amore, le amicizie, le inimicizie, le scelte giuste e quelle sbagliate, l’onore, la sconfitta e la vittoria, gli sfarzi dei re, la vita  degli artisti, la quotidianità della gente comune e le miserie di chi è tenuto ai margini sono tutte descritte in quei poemi. Poi, viene il resto: la lirica, il teatro, l’oratoria, la biografia, la satira… Si tratta di un bagaglio di esperienze umane che ci consente di meditare su di noi e su come desideriamo essere, come individui e come comunità, attraverso un processo di identificazione e di antitesi: per molti aspetti continuiamo a essere sempre gli stessi e a comportarci nel medesimo modo, ma per molti altri siamo cambiati, a volte in meglio, a volte in peggio. Il cammino degli esseri umani lungo i sentieri della Storia non è sempre lineare: si può anche regredire. La letteratura greca ci aiuta a dialogare con noi stessi e con la nostra Storia, a capire meglio il percorso che abbiamo compiuto e come vogliamo affrontare quello che ancora è innanzi a noi. Detto questo, confesso che non amo affatto pensare alla cultura greca e latina, così come ad altre culture, in termini di “radici”: la cultura occidentale non è frutto della sola cultura greca o romana antica e non è frutto di alcuna singola cultura. Affermare il contrario significa promuovere un falso storico, spesso condito da un sostrato di arrogante elitarismo che nulla ha a che fare con una cultura umanistica che voglia essere di spessore.

«Poi Zeus sposò la lucente Themis, che diede alla luce Horai ed Eunomia, Dike e la fiorente Eirene, colei che dà significato ai travagli degli uomini mortali». Così Esiodo. Nel complesso momento storico che viviamo quale significato assume il termine “Pace”?

Credo il significato dell’utopia, lo stesso, cioè, che il termine ha assunto anche in tanti altri periodi difficili della Storia. A partire dai piccoli conflitti quotidiani, passando per la guerra in Ucraina, fino ad arrivare a tante altre guerre ancora in corso, ma di cui non ci interessiamo più o non ci siamo mai interessati, la Pace resta un ideale da perseguire. Tuttavia, non direi che, al momento, vi sia un reale sforzo collettivo per realizzarla. Per questo è importante mettere in moto le menti e la coscienza collettiva, come faceva Aristofane in commedie come la Pace o la Lisistrata. Inoltre, ritengo che sarebbe buona cosa dare maggiore spazio allo studio e all’illustrazione dei processi e delle trattative di pace e delle loro conseguenze, non solo a scuola o all’università, ma anche nei documentari televisivi, ad esempio. Ne parlavo con una persona ben più autorevole di me in materia, la professoressa Elda Guerra (Università di Bologna), studiosa di storia contemporanea, in occasione della conferenza Non solo vittime. Donne di pace in tempo di guerra: l’antichità e il presente, che si è svolta lo scorso 17 novembre all’Accademia Roveretana degli Agiati: mentre allo studio delle cause e alla enumerazione e descrizione delle azioni di guerra si dà spazio adeguato, ai processi di pace, alle loro condizioni e conseguenze si dedicano meno attenzioni. Bisognerebbe, invece, che la collettività fosse meglio istruita sul tema della pace, dal momento che, come afferma Esiodo, è “colei che dà significato ai travagli degli uomini mortali”.

Simone Weil, ricordando Platone, scrisse: «Per noi la suprema giustizia è l’accettazione della coesistenza insieme a noi di tutti gli esseri e di tutte le cose che di fatto esistono». Anche dei nemici?

È una questione molto complicata questa, perché, a livello filosofico, la risposta alla domanda su quale sia la definizione di ‘giustizia’ e su che cosa sia l’‘essere’ (quello che Parmenide designava come τὸ ἐόν [to eon]) non è mai stata univoca. In ogni caso, l’esistenza di nemici è certamente ineludibile. Il problema è se si è capaci di stabilire e rispettare regole che pongano un limite al conflitto. Le Convenzioni di Ginevra del 1949 e i Protocolli aggiuntivi del 1977 e del 2005, ad esempio, hanno stabilito che, in guerra, i civili non devono essere colpiti. Eppure, non si può certo dire che, nella pratica, la distinzione tra obiettivi civili e obiettivi militari sia tenuta in considerazione. Interessante è, poi, il caso dello sport. Come mostrano anche i poemi omerici, le sfide sportive presentano alcune dinamiche simili alla guerra, ma, a differenza di ciò che avviene in contesto bellico, lo sport non ha tra i suoi obiettivi l’eliminazione dell’avversario: il fine ultimo è conseguire la vittoria attenendosi a regole chiare e condivise. Per questo lo sport è segno di grande civiltà ed è per questo che chi non rispetta le regole, nella vita come nello sport, merita di essere ammonito.

Virginia Woolf così si espresse all’alba del secondo conflitto mondiale: «Nella guerra attuale lottiamo per la libertà, ma la otterremo solo se distruggiamo gli attributi maschili, la violenza, e l’idolatria del potere».

È compito della donna instaurare la pace?

Credo che instaurare la pace sia un compito di tutte le persone, non solo delle donne. Di questo tema si è occupata molto autorevolmente la professoressa Marcella Farioli, nel contributo Sul resistibile pacifismo femminile. Note anti-naturaliste sulla Lisistrata di Aristofane (in A. Camerotto, K. Barbaresco, V. Melis, Il grido di Andromaca, pp. 219-232). La studiosa osserva che “secondo il senso comune (…) le donne sono naturalmente inclini alla pace. Lo sono perché partoriscono figli, danno la vita, accudiscono, allevano” (p. 221) e mostra come la relazione tra donne e pace costituisca un topos non recente, rafforzato non solo dalla cultura cristiana, spesso incline a rimarcare la ‘naturale’ propensione femminile alla cura, ma anche da diverse filosofie femministe essenzialiste e maternaliste e dall’ecofemminismo. L’articolo, poi, prende in esame la Lisistrata di Aristofane. Infatti, questa commedia contribuisce, da un lato, a dimostrare che gli antichi non ritenevano affatto che la donna fosse naturalmente propensa alla pace e, dall’altro, a chiarire che se in molti casi “le donne si sono schierate per la pace è perché, come afferma Lisistrata, esse portano «il peso della guerra più del doppio». Le vittime delle guerre, oggi come ieri, sono soprattutto i lavoratori, i poveri, gli sfruttati, i razzizzati, i gruppi minoritari, tutte categorie che – non per caso – nei secoli sono state analizzate tramite parametri e procedimenti naturalizzanti. Fra essi anche le donne, in particolare quelle povere, che pagano la loro oppressione ancor più in tempo di guerra. Queste categorie in una prima fase dei conflitti spesse volte si accodano al fervore bellicista suscitato dalla propaganda dalle classi dominanti, come forse era accaduto anche alle Ateniesi nel 431 a.C. allo scoppio della guerra del Peloponneso; ma in seguito giunge il momento in cui le donne, soprattutto quelle delle classi popolari, misurano sulla loro pelle che a trarre vantaggi dalla guerra non sono loro” (p. 230). Farioli conclude (e io sono perfettamente d’accordo) che i rifiuti femminili della guerra, più volte manifestatisi nel corso della Storia, derivano eventualmente da questo squilibrio di poteri, non dalla biologia.

Colui che è capace d’esprimersi non ha necessità di appellarsi alla violenza: vige una cesura netta tra linguaggio e violenza?

Non sempre c’è una cesura netta tra linguaggio e violenza: c’è chi ha la capacità di esprimersi e di sostenere le proprie tesi con l’argomentazione o servendosi del linguaggio non verbale, come avviene in certe forme di protesta non violenta, e chi, invece, a prescindere dalle proprie capacità argomentative, decide di usare la violenza fisica; altri ancora si servono della violenza verbale, che può avere conseguenze materiali e psicologiche non meno lievi della violenza fisica. Su questo tema suggerisco di leggere il saggio di Francesca Piazza (Professoressa ordinaria di Filosofia e Teoria dei linguaggi all’Università di Palermo), La parola e la spada. Violenza e linguaggio attraverso l’Iliade (Bologna 2019). Il libro mette in discussione l’idea che esista una cesura netta tra violenza verbale e  fisica mostrando, attraverso l’Iliade di Omero, come entrambe le forme di violenza possano avere pari forza distruttiva. Per chi volesse approfondire ulteriormente, è disponibile su Youtube un webinar, organizzato dal corso in Scienze della Comunicazione dell’Università di Cagliari nell’aprile del 2020, in cui io, Alberto Camerotto, Elisabetta Gola, Emiliano Ilardi, Martina Marras e Gian Pietro Storari discutiamo del libro con l’autrice.

 

Valeria Melis insegna a contratto Introduzione alla cultura classica presso l’Università Ca’ Foscari Venezia e ha insegnato Letteratura greca all’Università di Sassari. I suoi interessi di ricerca vertono sul teatro greco antico e le sue interazioni con il diritto attico, sul linguaggio dei personaggi femminili tragici e comici, sugli archetipi epici della guerra e sulle digital humanities. Si è occupata anche di Tucidide, di Lucrezio e delle teorie aristoteliche sul teatro di Euripide e di Aristofane. Più recente è l’interesse per le Vite parallele di Plutarco e la ricezione di quest’opera nel Cinquecento italiano e delle sue edizioni a stampa in Sardegna. Fa parte di diversi gruppi di ricerca nazionali e internazionali, tra cui il gruppo Classici Contro, ideato dai professori di Ca’ Foscari Alberto Camerotto e Filippomaria Pontani, che dal 2010 porta la voce dei classici antichi nei teatri d’Italia, in particolare al Teatro Olimpico di Vicenza. Tra le sue pubblicazioni vi sono il volume Le amiche di Lisistrata. Lingua, genere, comicità nel tempo (Morlacchi U.-P., 2021, con Rita Fresu) e il manuale Scripta manent. Dieci lezioni sulla scrittura argomentativa (Mimesis, 2021, con Francesca Ervas ed Elisabetta Gola).

Giuseppina Capone

 

 

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