Presentate le nuove veline per il prestigioso bancone del tg satirico: Shaila e Mikaela

Come da tradizione, una è mora e una è bionda: alla partenza di Striscia la notizia, fissata per il prossimo 25 settembre, mancano ancora alcuni giorni, ma dopo la conferma di Michelle Hunziker, è tempo di conoscere le nuove veline. Sono la mora Shaila Gatta, 21 anni, e la bionda Mikaela Neaze Silva, 23 anni, le nuove Veline di “Striscia la notizia”. “Tv, Sorrisi e Canzoni” le ha intervistate in anteprima e ha scoperto che Shaila si è trasferita da Napoli a Roma per seguire la sua passione per la danza, Mikaela è anche lei ballerina e ha un passato da giramondo: ha infatti vissuto in Russia, Angola, Italia e Cina.

“Sono nata a Secondigliano, un quartiere di Napoli. La mia passione è sempre stata la danza e a 16 anni mi ha spinto a trasferirmi a Roma dove ho studiato danza moderna” ha raccontato Shaila “Nella capitale ho fatto le mie prime esperienze televisive, come Amici e Ciao Darwin”.

Più itinerante invece la vita della compagna Mikaela: “Sono nata a Mosca perché lì mio papà, che è dell’Angola, e mia mamma, che è afghana, si sono conosciuti mentre studiavano medicina. Sono tornata a vivere in Angola fino a sei anni e poi ci siamo trasferiti a Genova. Qui ho vissuto e studiato danza, poi sono partita per una tournée in Cina”.

Le due ragazze che presto saliranno sul bancone più famoso d’Italia sono già note al pubblico. Entrambe hanno infatti già avuto diverse esperienze televisive.

Shaila è stata una delle allieve della quattordicesima edizione di Amici di Maria De Filippi, mentre Mikaela, padre angolano e mamma afghana, ha fatto parte del corpo di ballo di Zelig Circus e della trasmissione di Sky “Dance dance dance”.

Nicola Massaro

Quando il signor Kafka voleva il posto fisso

 Nell’archivio delle Assicurazioni Generali di Trieste, aperto al pubblico da poco, è stato trovato il curriculum inviato da un certo Franz Kafka da Praga, giovane di belle speranze e molto raccomandato da uno zio di Madrid.

L’impiegato Kafka aveva un posto fisso e ci teneva molto. Il fatto di essere stato raccomandato da suo zio, già membro del gruppo Generali e figlio, a sua volta, del console degli Stati Uniti a Praga, è sua stessa menzione della domanda di assunzione trovata negli archivi triestini. Al formulario disposto dall’ufficio assunzioni della compagnia era pure allegato un protocollo a stampa dalle condizioni rigidissime: disponibilità incondizionata, straordinari  senza compenso, due settimane di vacanza ogni due anni, tre mesi di preavviso prima di poter dare le dimissioni.

Santi in paradiso, stipendi lesinati che non consentirebbero di vivere se non ci fosse l’aiuto della famiglia. Modernità impressionanti quelle dell’Impero Austro-Ungarico di inizio secolo scorso.

Alle Assicurazioni Generali l’avvocato Kafka sarebbe rimasto dall’ottobre 1907 al luglio 1908. All’inizio era felice dell’assunzione, sognava una carriera all’estero, ma restò per lo più confinato, come Gregor Samsa nella sua Stanza. Dalle lettere di quel periodo emerge un quadro di mobbing, umiliazioni in ufficio, persino pensieri di suicidio, sia pure risolti in forma kafkiana, è il caso di dire… «se fossi capace di farlo, allora non avrei più bisogno di uccidermi», andava scrivendo. Già alla seconda settimana aveva iniziato a cercare un altro posto di lavoro, in gran segreto, per non avere una macchia sul curriculum. E anche l’altro sarebbe stato un posto fisso, ottenuto con un’altra raccomandazione eccellente.

L’orrore che Kafka ebbe per il lavoro d’ufficio è storia. Arrivò a farsi volontario per la Prima Guerra Mondiale, arrivando a scrivere che avrebbe preferito esplodere in prima linea in trincea, piuttosto che farsi esplodere il cervello nelle retrovie.

C’è chi ha fatto notare che la sua scrittura geniale deve al suo lavoro più di quanto quel lavoro gli ha sottratto alla scrittura: il primo pensiero del protagonista delle Metamorfosi è come giustificherà la sua assenza dal lavoro e se la sua condizione di insetto gli darà diritto all’assicurazione sanitaria; l’angoscia del protagonista del Castello è che lo hanno assunto ma che non c’è alcun responsabile che gli dica cosa fare.

Quando la tubercolosi lo costrinse ad abbandonarlo, il lavoro gli mancò più di quanto lo avesse infastidito. Non lo licenziarono, né lo bollarono come esubero, gli versarono regolarmente la pensione, da Praga a Berlino. Non veniva decurtato alla fonte, ma da come le banche approfittavano a danni dei clienti dell’iperinflazione tedesca: «i miei soldi preferisco perderli io, piuttosto che nella rimessa da una banca all’altra», scrisse furibondo in una delle sue Lettere a Felice, il più bel poema sulla posta che sia mai stato scritto.

Rossella Marchese

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