Omofobia e il coraggio di chi lotta: intervista a chi combatte ogni giorno per i suoi diritti

Quando si ha a che fare con le emozioni e con l’amore, nulla è sbagliato. L’omosessualità non è una malattia. È ora che le persone, tutte le persone, inizino a sentirsi libere di amare ed essere amate. A volte, però, incontrano nel corso della loro vita chi le fa sentire diverse, trovando difficoltà nell’accettarsi e nel dichiararsi apertamente gay. La vera battaglia inizia nel momento in cui decidono di raccontarlo ai propri genitori, con la speranza di essere accettati perché è lì che cercheranno rifugio. Infine, oltre le mura di casa, dove la loro vita diventa davvero difficile, dove sono costretti a lottare contro chi ancora crede che nell’amore ci siano regole da seguire, e dove c’è ancora la concezione che, se sei gay, sei diverso.

Seguire la massa

Parole razziste, provocazioni, veri e propri atti di bullismo sono costretti a subire da chi ancora vive con questi pregiudizi. Le parole delle persone omofobe sono una coltellata nel cuore di chi ama le persone dello stesso sesso. Ma cos’è che ci fa avere più paura a manifestare chi siamo davvero? Questa società ci impone di essere chi realmente non siamo, ci fa crescere con l’angoscia di non riuscire a essere come gli altri e di rimanere soli. Questo porta la maggior parte delle persone a vivere e comportarsi fingendo di essere chi non si è realmente, indossando una maschera per compiacere il prossimo. La paura di essere criticati o ancora peggio derisi, fa si che le persone, soprattutto nell’età adolescenziale, arrivino ad adeguarsi alla massa per essere stimati. Tale comportamento porta gravi conseguenze: difficoltà a relazionarsi, continua mancanza di fiducia in se stessi e nel prossimo, a volte aggressività o peggio ancora suicidio. Ma chi ha deciso che solo l’eterosessualità è naturale?

“Sono gay e non è stato facile per me farmi accettare. Ho attraversato un periodo difficile nella mia vita: oggi, però, grazie alla mia famiglia, riesco ad affrontare ogni pregiudizio”.

Queste sono le parole di Mauro, napoletano di 45 anni che racconta la sua storia e come ha lottato per sopportare la meschinità di chi ancora non accetta questa realtà.

Mauro, quanti anni avevi quando ti sei dichiarato?

Avevo 19 anni, precedentemente avevo avuto una sola fidanzata. Era molto bella: bionda con gli occhi verdi. Stavamo bene insieme ma nel momento in cui trascorrevo troppo tempo con lei, iniziavo a diventare insofferente. Credo di essere stato con lei solo per mascherare la mia vera natura, perché l’ho sempre saputo di provare attrazione verso il mio stesso sesso, ma avevo difficoltà ad accettarmi e ad accettare il fatto di essere ‘diverso’, perché è così che ti fanno sentire in questo mondo pieno di malignità e pregiudizi. Facevo dunque fatica a essere me stesso, a volte anche con chi poteva capirmi e starmi accanto. Temevo il loro giudizio, bastava uno sguardo per farmi iniziare ad avere paranoie e credere che mi stessero prendendo in giro. Avevo otto anni quando m’innamorai del mio compagno di banco, Massimiliano, ma questo l’ho sempre tenuto per me.

Qual è stata la prima persona con la quale ti sei sentito libero di parlare?

La prima persona con la quale mi sono apertamente dichiarato gay è stata proprio la mia prima e unica fidanzata, Giorgia. La sua reazione fece commuovere anche me. “Ti voglio bene, sono felice per te”, mi disse tra le lacrime. Mi ha sempre capito e per questo motivo ho sempre voluto che rimanessimo amici. La seconda persona a cui avrei voluto dirlo era mia madre, ma l’avevo persa da circa un anno. Mi accontentai di parlare alla sua foto. Io sapevo che lei c’era, mi bastava alzare lo sguardo e guardare le stelle per sentirla accanto. Era la stella che brillava di più. Decisi di confidare a mio padre questo mio piccolo segreto, gli parlai apertamente, senza peli sulla lingua. Sapevo mi avrebbe capito, così non passò molto tempo e ne parlai alle mie tre sorelle e i miei due fratelli. Il rapporto con la mia famiglia è da sempre stato speciale per me, ho sempre trovato conforto, il mio rifugio. Fuori di casa, però, la mia vita non era facile: subivo atti di bullismo, critiche e parole razziste.

Come hai affrontato queste situazioni?

La maggior parte delle volte li aggredivo per difendermi, ma si finiva sempre per scatenare una rissa. Tornavo a casa con un occhio gonfio o un labbro sanguinante almeno due volte a settimana. La mia famiglia mi ha aiutato, mi è stata vicino, mi ha fatto capire che non è importante ciò che pensano queste persone perché non è fondamentale avere il rispetto di gente come loro nella mia vita. Iniziai ad acquisire un altro metodo: l’indifferenza. Sorridevo quando mi prendevano in giro. Purtroppo in Italia c’è ancora troppa ignoranza e per evitare di soffrire ancora, decisi di andare a vivere a Londra per diversi anni. Adesso vivo in Italia da almeno dieci anni.

Adesso che sei tornato in Italia, vivi le stesse esperienze o le cose ti sembrano essere cambiate? Posso dire che sicuramente le cose oggi sono cambiate perché le persone hanno la mentalità più aperta ed è un po’ più difficile che io possa avere a che fare con un omofobo, anche se non ti nascondo che proprio ultimamente ho avuto un’esperienza poco piacevole con un mio collega che ha utilizzato parole offensive sul mio conto riguardo al mio orientamento sessuale. Posso dire che rispetto agli anni ’90, oggi riesco a rapportarmi quasi con tutti in Italia, anche se tornerei volentieri a Londra, dove sei libero da ogni pregiudizio.

E cosa ci dici sull’amore?

Sono stato fidanzato diverse volte, ora vivo una relazione a distanza con Andrea, napoletano come me, che vive a Bologna dove lavora come cuoco in una cucina di un ristorante. Stiamo insieme da circa due anni, ma non posso negare che la lontananza è dura per cui presto prenderemo la decisione di avvicinarci. Prima di stare con lui ho avuto altre storie d’amore ma spesso mi ritrovavo ad avere a che fare anche con uomini sposati con donne, quelli che hanno paura di dichiararsi omosessuali, quelli che temono il giudizio altrui, perché in questo mondo non è facile essere se stessi. Insomma, il mio di mondo non è semplice da vivere, ci sono tanti ostacoli da superare, lotte continue per avere gli stessi diritti degli etero e situazioni particolari da affrontare quasi tutti i giorni. Per quanto l’omosessualità possa essere stata accettata, viviamo ancora in un paese dove, per essere accettati, dobbiamo essere tutti uguali.

Secondo te quindi l’emancipazione è un’ipocrisia?

Non del tutto. Di certo non posso dire che dagli anni ’70 ad oggi sia tutto uguale o che sia tutta una finzione quella di accettare i cambiamenti. Ma posso dire che si respira ancora tanta ignoranza nella folla di questo Paese. La maggior parte degli uomini, oggi, sono ancora maschilisti, c’è ancora il cosiddetto ‘padre padrone’, quelli che tendono a manovrare la donna, tanto per dirne una. Inoltre, penso anche che la maggior parte delle persone fingano di accettare ‘quelli come me’.

Questa cosa come ti fa sentire?

È un qualcosa che ho imparato ad accettare nel corso degli anni e con l’esperienza, ci ho fatto l’abitudine. Ci sono persone poco sensibili e quelle le incontrerai sempre, quindi ho deciso di affrontare questa situazione con serenità, essendo sempre me stesso anche se non accettato da tutti. O meglio, non essendo accettato sul serio.

Che consiglio ti sentiresti di dare a chi ancora non si è dichiarato?

Penso che ognuno abbia i propri tempi, ma la cosa fondamentale è che non bisogna avere paura del giudizio altrui. Quindi se non ci si sente di farlo per il solo terrore di essere presi in giro, non è un buon motivo. Non c’è cosa più bella di essere se stessi. Se i diritti ottenuti dalle donne negli anni ’70 rappresentano un esempio di emancipazione della società, l’accettazione dei gay sarebbe un ulteriore passo avanti. Necessario per capire che nel mondo siamo tutti uguali.

Alessandra Federico

 

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