Delinquenza e povertà in Venezuela: “Si sopravvive ogni giorno”

“Ogni giorno ringraziavo il cielo per essere ancora vivo”.

Caracas, Maracay, Valencia: tre su ventidue città in Venezuela sono vere e proprie capitali della delinquenza, dove la criminalità arriva a impossessarsi del 30% della popolazione per ogni città. Dal 2001 al 2016 ci sono stati quasi 300mila omicidi. Nel 2018 è stato il Paese più violento del mondo, con una percentuale di 98 omicidi per 100mila abitanti. Oggi tre milioni di venezuelani vivono all’estero, di cui almeno due milioni sono partiti dopo il 2015. Lo stato sudamericano è devastato da una profonda crisi economica e la popolazione vive una situazione disastrosa, costretta a combattere ogni giorno contro la criminalità per sopravvivere. Senza tener conto della povertà, difficoltà a trovare cibo, mancanza di acqua corrente, di luce e gas. Il Venezuela è uno dei Paesi con le più ingenti riserve petrolifere al mondo e questa risorsa è stata fonte di grande guadagno per l’economia venezuelana fino alla diminuzione del prezzo del petrolio. La povertà in Venezuela costringe la popolazione a derubare anche i vicini di casa per un pezzo di pane, perché lavorare per uno stipendio di cinque euro al mese porta alla disperazione. La crisi sociale ed economica del paese sudamericano spinge la maggior parte delle persone ad emigrare, ma non è facile per chi non riesce a racimolare i soldi necessari per potersi permettere una vita migliore.

 

“Ho vissuto davvero anni d’inferno. Quando mettevo piede fuori casa, non sapevo se sarei ritornato. Una delle poche cose che ricordo con nostalgia è la pioggia. Perché lì la pioggia è calda e quando mancava il riscaldamento in casa, molte persone scendevano in strada muniti di bagnoschiuma e shampoo per farsi la doccia sotto il cielo. Si creava un’atmosfera calda e festosa, soprattutto per i più piccoli”.

 

Nathan ha 25 anni ed è solo uno dei tanti emigrati dal Venezuela. Da due anni vive in Italia con i suoi genitori, con sua sorella e sua figlia di soli sette anni. Nathan racconta la sua storia e di come è sopravvissuto alla silenziosa guerra che ogni giorno era costretto ad affrontare.

Quanto sono frequenti gli atti criminali nel tuo paese?

In Venezuela per ogni dieci metri che percorri, hai già incontrato almeno cinque malviventi che, armati di pistola o fucili, ti chiedono soldi, telefono o qualsiasi cosa tu possieda che per loro possa aver un qualche valore. Arrivano addirittura a rubarti le scarpe così sei costretto a camminare scalzo e se ti rifiuti o se non hai niente da dargli ti bastonano, nel migliore dei casi. Ma quando hanno voglia di sparare, ti tolgono la vita. Per loro è un gioco. Ed è questo che mi fa più rabbia: vedere queste persone aggirarsi per le strade di Maracay con un fucile tra le mani e un sorriso smagliante, perché per loro è divertimento guadagnare uccidendo le persone. Ma ciò che mi faceva più paura era dover proteggere mia nipote. Non è giusto far vivere un animo così delicato in una realtà così crudele: sguardi minacciosi e volti sanguinanti, era davvero una sofferenza per me dover dire a Laia che andava tutto bene, che saremmo arrivati a casa sani e salvi quando la verità era che nemmeno io sapevo se ce l’avremmo fatta. E questo accadeva tutti i giorni. Quasi sempre, quando andavo a lavoro, lasciavo a casa soldi e cellulare. A volte mi veniva in mente di camminare anche scalzo, tanto qualcuno mi avrebbe obbligato a dargli le scarpe. La sera, invece, andavo a bere una birra a casa della ragazza di cui mi ero innamorato: Mary, e ogni sera dovevo prima guardare dalla finestra per assicurarmi che non ci fosse nessun malvivente nei dintorni, poi fare una corsa per entrare nel palazzo dove abitava lei. Tutto questo per la paura di essere derubato o aggredito. E abitava di fronte casa mia. Ora per fortuna anche lei è andata a vivere all’estero con la sua famiglia.

Hai perso persone a te care, vittime della criminalità?

Mio fratello maggiore Marcos ha perso la vita per colpa di quei delinquenti. Aveva 16 anni. Me l’hanno portato via perché ha avuto il coraggio di affrontarli, rifiutando loro di dargli lo stipendio che aveva appena ricevuto. Due colpi dritti alla testa. Questo è tutto quello che ricordo perché avevo solo 9 anni. La figlia della mia vicina di casa è stata presa in ostaggio per sette mesi, chiedendo in cambio soldi, cibo e automobile. La polizia interviene ma solo se ne ha voglia. A volte arriva dopo due o tre giorni. Ho perso anche alcuni amici. Per questo motivo ho deciso di portare mia sorella, mia nipote e i miei genitori lontano da lì. Soprattutto per dare un futuro migliore a Laia, per salvare almeno la sua infanzia.

Hai qualche ricordo particolare della tua infanzia in Venezuela?

Il rosso. Il colore rosso del sangue che ricopriva il volto o l’intero corpo delle vittime era ormai una scena che vedevo quotidianamente. Questo non lo dimentico. È un colore che tuttora mi disturba un po’, non lo nego. Poi ricordo gli spari, soprattutto quelli oltre le sette di sera, perché dopo quell’ora c’è il coprifuoco. Ci rinchiudevamo tutti nelle nostre case e accendevamo la televisione, così per i più piccoli i rumori erano coperti dal volume alto di un film, almeno per un po’. A tarda notte, per fortuna, si sentiva solo qualche macchina passare. Questa è una cosa che ricorderò per sempre. E le urla. Urla e pianti di chi era vittima di quei delinquenti. Perché mio padre lo diceva sempre: ‘arriverà anche il turno nostro se non andiamo via da questo paese infame’. Parlava con mia madre, io lo sentivo, aveva ragione. Aveva ragione perché quei bastardi ci hanno portato via Marcos. Era un incubo, la paura di dover uscire da casa anche solo per andare a scuola non ci faceva dormire la notte. Ho anche dei ricordi piacevoli, anche perché preferisco ricordare i momenti belli anziché quelli brutti. Le giornate calde al mare o la doccia in strada sotto la pioggia. Il ricordo più bello che ho è legato a mio fratello: mio padre ci portava tutte le domeniche a pescare e una sera, al ritorno, lui mi regalò un soldatino di plastica della sua collezione. Lo porto tuttora con me, mi aiuta a sentirlo più vicino.

Che lavoro facevi in Venezuela?

Facevo il magazziniere e guadagnavo l’equivalente di 5 euro al mese. Praticamente quei soldi non erano sufficienti nemmeno per sfamare mia nipote e quindi ero costretto a fare due lavori. Era difficile anche procurarsi del cibo perché nei supermercati andava tutto a ruba. Molte volte non riuscivo ad arrivare in tempo a lavoro perché i treni non funzionavano a causa della mancanza di corrente e gli autobus spesso saltavano le corse. Avevo un motorino che hanno ovviamente cercato più volte di rubare. Mi trovavo sotto casa: ‘dammi le chiavi del tuo motorino’, disse un uomo dalla voce inquietante. ‘Io faccio parte della delinquenza quanto te. Che facciamo, io rubo a te e tu rubi a me?’, gli dissi. Ero costretto a dire così per non vedermi portare via l’unico mezzo che avevo a disposizione per portare soldi a casa.

In quale altro modo procuravi del cibo per te e la per la tua famiglia?

In Venezuela il cibo si procura ogni giorno, perché devi trovare soldi ogni giorno. Io mi inventavo lavori diversi, dal vendere oggetti vecchi che avevo a casa, all’accettare qualsiasi tipo di lavoro che mi proponevano, purché fosse onesto. Ci vogliono almeno 20 euro per fare la spesa lì, perché lo stipendio è basso ma la vita è abbastanza cara. Ad esempio, noi utilizziamo spesso la farina di mais per i cibi che prepariamo, ma arrivava una volta alla settimana per ogni supermercato di ogni provincia e quindi spesso non la riuscivo a trovare o se la trovavo dovevo rispettare una fila di 150 o 200 persone per acquistare un solo pacchetto. Inoltre,  parecchi commercianti, per paura della delinquenza, sono costretti a rimanere all’interno del magazzino e a passare la merce attraverso lo sportello. Un po’ come le farmacie notturne. Ci sono anche negozi come i supermercati dove puoi tranquillamente acquistare merce come in Italia, ma sono pochi.

Come ti trovi adesso in Italia?

Posso dire di essere nato di nuovo. La mia vita in Venezuela fa parte ormai del mio passato e ne farò sicuramente tesoro perché qualsiasi esperienza ci aiuta a crescere e ci insegna delle cose importanti. A volte ci lascia segni positivi, altre volte negativi, ma ad oggi so dire che tutto quello che ho vissuto mi ha fatto capire quanto è importante godersi ogni giorno la vita e apprezzare le piccole cose. In Italia mi trovo molto bene, vivo a Napoli da due anni e i Napoletani sono molto calorosi. Mi trovo bene qui soprattutto perché il mio lavoro mi  permette di vivere e non più di sopravvivere, facendomi togliere anche qualche sfizio come acquistare un paio di scarpe in più senza la paura di doverle dare a qualcuno. Passeggio tranquillamente per le strade della città e posso mangiare quello che voglio a qualsiasi ora del giorno,  senza preoccuparmi di trovare il market vuoto. La cosa che più mi dà gioia è che finalmente la mia famiglia può vivere serena e che mia nipote potrà avere un futuro migliore rispetto a quello che le sarebbe toccato in Venezuela.

Alessandra Federico

Antonina Nocera: Metafisica del sottosuolo

Antonina Nocera vive a Palermo dove svolge la professione di insegnante nella scuola secondaria superiore.

Ha pubblicato una monografia dal titolo Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij (Franco Angeli, 2010), e il saggio Metafisica del sottosuolo – Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij (Divergenze, 2020) oltre a svariati articoli su riviste come Kaiak-A philosophical Journey, Il Maradagàl, Kainos. Un suo racconto si trova nella raccolta L’ultimo sesso al tempo della peste a cura di Filippo Tuena, (NEO edizioni, 2020) .Gestisce il blog letterario Bibliovorax (www.bibliovorax.it) dal 2016 dedicato alle recensioni di narrativa e poesia e interviste di autori contemporanei. Scrive per una rubrica dedicata alla divulgazione dei classici della letteratura russa sulla pagina Cultura Italia-Russia.

“Metafisica del sottosuolo” : titolo fortemente suggestivo ed evocativo. Può spiegare l’accostamento dei termini?

Il titolo è un omaggio a un antropologo e filosofo, forse lo studioso par excellence, del cosiddetto sottosuolo dostoevskiano, René Girard che in un suo saggio analizza le dinamiche psicologiche dei bassifondi delle anime dei personaggi più significativi di Dostoevskij. Solitamente si accosta la metafisica a idee astratte e poco terrene; senza scomodare i greci e Heidegger, metafisica del sottosuolo è un’interrogazione sul senso globale, essenziale del Male, nelle sue mille declinazioni; poi si avvicendano la Verità, il Potere, la Libertà che nel mio saggio si interfacciano con le azioni umane, il delitto, con il libero arbitrio e la coscienza: il sottosuolo dostoevskiano è propriamente il luogo dove il male, in tutte le sue forme plurime, si materializza e incarna nei personaggi: allo stesso tempo il percorso di Rogas (nel Contesto) e il suo dialogare con i vari personaggi del romanzo da Cres a Riches, sembrano essere una sorta di ‘parodia’ del sottosuolo dostoevskiano e delle sue tappe: il male come libero arbitrio rappresentato da Cres, la svolta nichilista rappresentata da Riches e la ribellione interiore di Nocio .

Nella comparazione con Sciascia, va detto, il titolo si completa con il sottotitolo: “Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij” a indicare un preciso percorso teorico.

Lei ha esaminato con accuratezza tre romanzi: Il contesto di Sciascia, I fratelli Karamazov Delitto e castigo di Dostoevskij. Qual è il metodo che ha adoperato ed il fine che ha inteso perseguire?

Sono comparatista e pertanto seguo un metodo che pone due oggetti tra loro apparentemente diversi e lontani e li mette in dialogo; il metodo qui usato richiama a grandi linee il “paradigma indiziario” di Carlo Ginzburg: come un detective il critico, lo studioso si concentra su degli indizi, – anche apparentemente marginali – per poi costruire una visione ampia e strutturata.

Oggetto di indagine pare essere l’uomo al cospetto di interrogativi etici circa il Bene ed il Male, mentre affronta temi quali delitto, punizione e giustizia. Quali sono, a tal proposito, le assonanze e le divergenze che ha ravveduto tra Sciascia e Dostoevskij?

Dostoevskij e Sciascia avevano in comune una grande dote: la capacità di scavare all’interno dell’uomo, questo mistero senza fine sul quale non si può mai pronunciare la parola definitiva. Il Contesto, Delitto e Castigo e I fratelli Karamazov sono tre romanzi, ciascuno con le proprie peculiarità, che indagano nel fondo della psiche, scandagliano le reazioni dell’uomo di fronte a questioni capitali come il delitto, atto supremo di tracotanza e ribellione all’ordine morale e alla legge. In entrambi gli autori il delitto è una “soglia” un passaggio oltre il quale si spalanca un vuoto di senso. La ricerca della verità e del colpevole nel giallo, nel poliziesco è chiaramente un tentativo di ristabilire un ordine razionale, compensativo di cui la giustizia dovrebbe farsi garante. Ma sia Sciascia che Dostoevskij hanno compreso che questo schema lineare è troppo stretto per contenere tutte le contraddizioni della società, del potere e delle ribellioni del sottosuolo umano, tendente al male e all’autoaffermazione. Così il commissario Rogas si trova di fronte a “uno stato detenuto”, una contraddizione insanabile che lo porta a contatto con il vero volto del potere, quello incistato nei gangli della società civile e delle commissioni di giustizia. Rogas, la ragione investigativa, la ricerca della verità, sono un tutt’uno. La sua morte, lungi dal rappresentare il sacrificio espiatorio, è invece una sorta di atto vuoto, senza senso e senza soluzione. Le esequie della verità, appunto. Quando Sciascia, in Appunti sul giallo parla di sostanza ontologica del delitto, sta in fondo ribadendo la formula dostoevskiana del delitto “filosofico” di Raskol’nikov: in questo frangente Dostoevskij e Sciascia parlano lo stesso linguaggio, la differenza è che Raskol’nikov fa i conti con un’altra giustizia, quella interiore e la perfeziona con l’accettazione della redenzione religiosa.

Dostoevskij e Sciascia sono soltanto apparentemente differenti per stile e contenuto. La lettura delle loro pagine, però, rivela un comune trasporto metafisico per le plurime e molteplici patine dell’animo umano. Quale idea emerge dell’Uomo rispetto alla Libertà?

La libertà è una questione originaria in Dostoevskij e ad essa si ricollega il problema del male e della verità, ma anche quella del bene. Senza libertà non vi può essere un bene autentico ma al contempo la libertà assoluta trascende in arbitrio, porta al delitto. Questa antinomia è fondamentale per capire il capitolo della leggenda del Grande Inquisitore, una digressione di straordinaria profondità che anima le pagine del romanzo dei Karamazov. Nel saggio ho ravvisato delle analogie tra un personaggio particolarmente inquietante Riches – il Presidente della Corte Suprema che Sciascia fa dialogare con Rogas- e appunto, il Grande Inquisitore di Dostoevskij. In questo dialogo emergono le questioni cruciali sul potere e la libertà: alle masse viene raccontata la bella favola della giustizia; per Riches questa non mira più alla ricerca della verità ma è una farsa necessaria. Da qui si comprende come la tanto paventata libertà sia molto complessa come orizzonte etico da perseguire. L’uomo non è libero di scegliere, anche se sia Sciascia che Dostoevskij sono promotori dell’uomo autenticamente libero socialmente e spiritualmente.

Il suo saggio è senz’altro caratterizzato da una scrittura agile. A chi si rivolge ed è possibile immergersi nella lettura nonostante non si sia un “addetto ai lavori”?

Il mio saggio inaugura una collana di saggistica breve che è stata pensata appositamente per un pubblico ampio che comprenda specialisti del settore e lettori appassionati. Mi piace l’idea che possa essere letto da uno studente di liceo e universitario, dal critico, dal ricercatore, dall’appassionato di Sciascia e di Dostoevskij. E mi piace che lo legga anche chi non conosce i romanzi che cito e che magari ne approfitta per approcciare queste letture. La cultura apre sempre nuove strade.

Giuseppina Capone

 

 

Massimo Prati: Rivoluzione inglese. Paradigma di modernità

Lei compie un’analisi di una serie di opere di storici britannici, relative alla Rivoluzione Inglese, mai tradotte nel nostro paese. Ce ne offre una sinossi?

Effettivamente, quelle a cui lei fa riferimento, nella maggioranza dei casi sono opere mai tradotte nel nostro paese. In altri casi ancora, siamo di fronte a lavori di ricerca pubblicati in italiano oltre 50 anni fa e che non sono più in commercio da moltissimo tempo; per questo motivo, si tratta di testi poco conosciuti al grande pubblico. Infine, ci sono pubblicazioni relativamente recenti di cui, per ora, non esiste un’edizione italiana. Io ho lavorato sullo studio e sulla lettura integrale di decine di questi libri. Riassumere complessivamente il contenuto di queste ricerche è praticamente impossibile. Per lo studioso o per il ricercatore interessato all’argomento, rimando alla bibliografia del mio libro. Nell’ambito di questa intervista, penso possa utile segnalare tre pubblicazioni, risalenti a periodi anche molto distanti tra loro: 1) “The Levellers and the English Revolution”, di H.N. Brailsford, del 1961. 2) “The Far Left in the English Revolution. 1640 to 1660”, di Brian Manning, uscito nel 1999. 3) “The English Civil War. 1640-1660”, di Blair Worden, pubblicato nel 2009 e, a mia conoscenza, non ancora tradotto in italiano. Henry Noel Brailsford, (25/12/1873-23/3/1958), è stato uno dei più importanti e autorevoli giornalisti britannici di orientamento progressista. Il suo libro sui Livellatori uscì a tre anni dalla sua morte, grazie al lavoro di “editing” svolto da un grande storico inglese: Christopher Hill. Si tratta, a mio parere, della più importante ricerca sull’argomento. Nelle oltre 700 pagine del libro si racchiude l’attività di questo importante movimento politico in tutte le sue sfaccettature: gruppo dirigente, iniziative dei militanti, pubblicistica di partito, contenuti programmatici e molto altro ancora. Rispetto a quello di Brailsford, il libro di Brian Manning, in termini quantitativi è un lavoro di dimensioni minori: la sua ricerca è inferiore alle 140 pagine. Ma, a mio parere, il suo lavoro è comunque prezioso. Brian Manning (21/5/1927-24/4/2004) era uno storico di orientamento marxista, allievo del sopraccitato Christopher Hill. Nel suo libro, il cui titolo potrebbe essere tradotto in “L’Estrema Sinistra e la Rivoluzione Inglese dal 1640 al 1660”, l’autore si concentra sulla storia dei movimenti politici e le lotte sociali più radicali di quel periodo. Basandosi anche sui lavori precedenti di altri ricercatori, lo storico britannico riporta alla memoria le prime lotte operaie di minatori e portuali nella metà del Seicento inglese. Blair Worden è un professore universitario britannico, nonché un eminente storico, specializzato nella storia inglese del periodo di Oliver Cromwell. Il suo pregevole libro, che ho ricordato poc’anzi, tra le altre cose è un testo fondamentale per la dettagliata ricostruzione delle vicende di guerra.

La sua ricerca è basata sul metodo comparativo. Quali sono i termini che raffronta e quali sono le ragioni che l’hanno indotta a donare ai lettori un duplice piano di lettura?

Nel mio libro, parto dal presupposto teorico che la Rivoluzione Inglese abbia anticipato fenomeni e processi sociali manifestatisi più ampiamente, e più compiutamente, in vicende storiche successive. Questo, pur rifuggendo da teorie deterministiche o basate sulla ciclicità della storia, mi ha portato ad operare una serie di comparazioni tra la Rivoluzione Inglese e altri processi rivoluzionari del Settecento, dell’Ottocento e del Novecento. D’altra parte, come in tutti i miei libri, cerco di fornire al lettore un duplice piano di lettura: da un lato un lavoro di ricostruzione dei fatti che permetta, anche a chi non è addentro alla materia, di avere un inquadramento storico facilmente comprensibile; dall’altro, una serie di approfondimenti, di suggestioni e di chiavi di letture utili a chi ha già una serie di competenze sull’argomento.

Un picchetto di minatori del Derbyshire nel 1649, le lotte dei portuali di Newcastle nel 1654 o, ancora, le petizioni organizzate da migliaia di donne di Londra, militanti dei Levellers (Livellatori): eventi dimenticati ma forieri di profondo interesse. Si tratta di eventi esemplificativi di modernità nella maniera in cui si sono svolti?

Come forse si può intuire dalla mia risposta precedente, il mio lavoro di ricerca parte da un’idea piuttosto semplice. La Rivoluzione Inglese, in qualità di primo processo rivoluzionario dell’età moderna, e del nascente sistema capitalista, ha in qualche modo prefigurato scenari sviluppatisi più profondamente in epoche successive. Da questo punto di vista, gli esempi di combattività operaia e di attivismo femminile che lei richiama alla mente, confermano, a mio parere, la validità dell’ipotesi da cui sono partito. Nel libro si possono trovare innumerevoli esempi che vanno in questo senso, sia in termini di Macrostoria e grandi eventi collettivi, sia in termini di comportamenti individuali.

Qual è stata l’eredità lasciata dalla Rivoluzione Inglese? C’è un prima ed un dopo?

Io tendo ad interpretare l’eredità della Rivoluzione Inglese prendendo in esame un ampio periodo che va dal 1640 al 1689. Periodo che comprende quindi la fase delle guerre civili, la Restaurazione e la cosiddetta “Rivoluzione Gloriosa” (la seconda rivoluzione sviluppatasi tra il 1688 e il 1689). Per questo, a mio parere, sarebbe più giusto parlare di singole eredità delle due rivoluzioni, tenendole separate, nella misura del possibile, l’una dall’altra. Entrambe le rivoluzioni, pertanto, presentano tratti di straordinaria modernità e attualità. Ma, a mio parere, la prima rivoluzione (tra il 1642 e il 1658 circa) offre spunti di maggiore interesse per le sue tendenze libertarie, egualitarie, solidaristiche e alternative (perlomeno in alcune sue correnti di pensiero). Anche se, da un punto di vista ideale, la “Glorious Revolution” ha il merito di avere sancito il principio della tolleranza religiosa. È stato detto che il Toleration Act (1689) rispondeva alle esigenze di una società che puntava al business e voleva liberarsi delle vecchie diatribe. Ma credo che si tratti, piuttosto, di un riflesso -sul piano legislativo- di un bisogno profondo: la volontà di vivere in pace dopo circa 150 anni di lotte religiose, roghi, torture, persecuzioni e mutilazioni.
In generale, comunque, direi che la “Glorious Revolution” ha prodotto cambiamenti profondi -economici e istituzionali- che possono essere considerati fondamentali per il funzionamento di una moderna società capitalista e che, in parte, stabiliscono un modello ancora vigente. Mi riferisco, soprattutto, alla dialettica politica che si articola tramite lo schieramento di due o più fronti parlamentari contrapposti, e alla conseguente prassi di funzionare per maggioranze di governo. Ma mi riferisco anche alla gestione finanziaria dello stato e al suo funzionamento tramite la stesura e l’approvazione di bilanci preventivi. E, ancora, a provvedimenti legislativi tesi ad incrementare il commercio estero. Ma, personalmente, sono i tratti utopistico-libertari della prima rivoluzione quelli a cui io guardo con maggiore interesse.
Lei ha conferito alla sua ricerca un taglio divulgativo. Quali difficoltà ravvede nell’avvicinare coloro che non sono specialisti di materia allo studio della Storia?

Questa sua ultima domanda mi offre lo spunto per una precisazione. Io, pur essendo un grande appassionato di storia, non sono uno storico di formazione. I miei studi universitari sono di tipo letterario, con una specializzazione in comunicazione interculturale e corsi post-laurea in linguistica. Proprio in ragione di quanto le ho appena detto, agli inizi della mia carriera di studente, prima di stabilire a quale facoltà iscrivermi, ero stato a lungo indeciso se orientarmi verso gli studi di storia, da me coltivati per molti anni come autodidatta, o verso gli studi di lingue e letterature straniere. Alla fine fu decisivo il fatto che la Facoltà di Lingue dell’Università di Genova proponesse un corso di “Scienze dell’Informazione e della Comunicazione Sociale e Interculturale”. Si trattava di un orientamento di studi dal taglio fortemente interdisciplinare, con un ventaglio molto ampio di insegnamenti delle varie scienze sociali e discipline scientifiche (sociologia, psicologia, storia sociale dell’arte, semiotica, linguistica, ecc.). La specializzazione in queste scienze, e in queste discipline, mi ha dato pertanto la possibilità di misurarmi con numerosi studi sociali che, pur partendo da approcci diversi, hanno comunque un denominatore comune.
Ma la passione per la storia era, ed è, comunque rimasta. L’idea di compiere una ricerca in campo storico aveva quindi risposto alla necessità di ricomporre l’ideale frattura consumatasi all’inizio della mia carriera universitaria, e cioè al momento di scegliere un corso di studi di letteratura anziché uno di storia.
Ma la scelta dell’argomento ed il taglio del lavoro della mia tesi (che, con studi nei 20 anni successivi, è divenuto il libro di cui stiamo parlando in questo momento) erano dipesi in modo specifico da due letture: “Le Cause della Rivoluzione Inglese”, di Lawrence Stone e “The Making of the English Working Class”, di Edward P. Thompson. Nel primo libro lo studioso -pur criticando i risultati fino ad allora ottenuti- non escludeva la possibilità che attingendo dalle scienze sociali si potessero ottenere interessanti e innovative acquisizioni in campo storico: “Con tutti i loro difetti, gli scienziati sociali possono fornire un correttivo al rimestare tra i fatti, di gusto tanto antiquario, in cui gli storici cadono con tanta facilità; possono far osservare problemi d’importanza generale, lontani dalla sterile irrilevanza di tanta ricerca storica; possono porre nuove domande e proporre nuovi modi di considerare quelle vecchie; possono fornire nuove categorie e di conseguenza nuove idee”.
Inutile dire che rimasi immediatamente affascinato dalle prospettive aperte da un simile invito. Si trattava di cimentarsi in una sfida da affrontare con la modestia e la cautela che ogni ricercatore deve avere (e che, in primo luogo, passano per uno studio attento, incrociato, e approfondito delle fonti), ma anche con la positiva ambizione di mettere in campo le competenze acquisite in anni di studio nell’ambito delle scienze sociali. Ecco, le ho fatto questa lunga precisazione perché credo che si possano avvicinare nuovi lettori alla Storia proponendo, nuove idee, nuove categorie e nuove chiavi di lettura.

Massimo Prati si è laureato all’Università di Genova in Comunicazione Interculturale. Ha proseguito gli studi in Linguistica all’Università di Ginevra, nell’ambito del DEA, e in English Literature al St Claire’s College-Oxford. È formatore a Supercomm-Ginevra e insegnante nel College Aiglon. È autore di un racconto della raccolta Sotto il segno del Grifone (2004); de I racconti del Grifo (2017) e de Gli svizzeri, pionieri del football italiano (2019).

Giuseppina Capone

Massimo Birattari e la “Grammatica per cani e porci”

Massimo Birattari, laureato in storia e diplomato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, è redattore, traduttore e consulente editoriale. È autore di una grammatica pratica, Italiano. Corso di sopravvivenza (TEA, 2015), di un “manuale di stile”, È più facile scrivere bene che scrivere male (Ponte alle Grazie, 2011, inserito nel 2017 nella collana del “Corriere della Sera” Biblioteca della lingua italiana), e di Come si fa il tema (Feltrinelli UE, 2019). Ha curato Io scrivo, corso di scrittura in 24 volumi del “Corriere della Sera” (2011, nuova edizione Fabbri-Centauria 2014 col titolo Scrivere). Tra i suoi libri per ragazzi, I rivoltanti romani (con Terry Deary, Salani, 1999); I barbuti barbari (Salani, 2008) e Vite avventurose di santi straordinari (Rizzoli, 2009), entrambi con Chicca Galli; Invece di fare i compiti (Rizzoli, 2018); e per Feltrinelli Kids Benvenuti a Grammaland (2011), La grammatica ti salverà la vita (2012), Scrivere bene è un gioco da ragazzi (2013), Leggere è un’avventura (2014), L’Italia in guerra (2015), Terrore a Grammaland (2018). Per Gribaudo ha realizzato la scatola gioco Le carte della grammatica (2015). Il suo ultimo libro è Grammatica per cani e porci (Ponte alle Grazie, 2020). Ha tenuto circa 400 incontri in scuole, librerie, biblioteche e festival e numerosi corsi di formazione per insegnanti. Il suo blog è http://www.grammaland.it.

Le questioni linguistiche trascinano, smuovono le folle sui social e coinvolgono i media, spesso suscitando sdegni e querelle. Ne consegue che la grammatica riguarda tutti, giustappunto “cani e porci”: come assumere posizioni sensate tra strafalcioni e regole?

Una risposta semplice sarebbe: bisogna evitare gli strafalcioni e conoscere le regole. Però le cose non sono mai così semplici. Un metodo per evitare molti strafalcioni sarebbe andare a controllare l’ortografia e il significato delle parole sul vocabolario; ma se uno è proprio convinto che l’aggettivo di “cervello” è “celebrale” con la L, non sentirà il bisogno di andare a consultare il vocabolario. Quanto alle regole, molte sono pacifiche (basta padroneggiarle), ma in qualche caso non è così immediato stabilire che cosa è una vera regola e che cosa invece è il ricordo, magari deformato, di nozioni che risalgono alle elementari. Nei miei libri, e in particolare in questa “Grammatica per cani e porci”, cerco di mettere pulci nelle orecchie dei lettori che vogliono migliorare la loro padronanza dell’italiano. Voglio metterli in contatto con alcune questioni spinose.

Quali sono i problemi più frequenti da affrontare?

Da almeno 15 anni ho sul computer un file intitolato un po’ pomposamente “Note linguistiche”, che in realtà è una raccolta di strafalcioni e improprietà trovate in internet, nei giornali, in televisione, nei libri. Da questa ricerca sul campo (anche se di solito non sono io ad andare in cerca di strafalcioni, sono gli strafalcioni ad aggredirmi) deriva la rassegna di problemi da cui ho ricavato l’indice di “Grammatica per cani e porci”: banali questioni ortografiche (“beneficenza” scritto con la i o “riscuotere” con la q), grandi classici come le “donne incinta” (come se non esistesse il plurale “incinte”), le improprietà legate all’uso e abuso di termini stranieri (in particolare inglesi), le difficoltà legate al congiuntivo (non solo alla sua scomparsa; anche all’uso fuori luogo), le complicate questioni di genere, in particolare quelle connesse al femminile dei nomi delle professioni, i ricordi distorti di ciò che si è imparato a scuola, e alla fine, in generale, il nostro rapporto con le regole della grammatica e, in fondo, con la nostra lingua.

Controllare gli strumenti linguistici vuol dire essere abili nello scegliere, in ogni circostanza, il registro linguistico più adeguato. Quanto è significativo il contesto comunicativo rispetto alla rigida osservanza delle norme grammaticali da “grammarnazi”?

Alla fine della premessa del mio “Italiano. Corso di sopravvivenza”, una grammatica pratica uscita del 2000, scrivevo: “quando padroneggerete le regole dell’italiano potrete permettervi il lusso di forzarle o addirittura di violarle per piegarle ai vostri scopi espressivi. In fondo, questo libro vuole (anche) darvi la possibilità di maltrattare la grammatica. Dopo avervela insegnata, però”. Il segreto è sempre la consapevolezza linguistica: chi sa maneggiare la lingua può, letteralmente, fare quello che gli pare. Infatti le grammatiche tengono conto dell’uso degli scrittori (le scelte consapevoli di un bravo scrittore fanno testo, diventano “regola”). Ma non solo gli scrittori: tutti noi, se abbiamo letto tanto e bene, se abbiamo imparato a usare la lingua per trasmettere con precisione ed efficacia ciò che vogliamo dire, abbiamo una grande libertà espressiva, che è la libertà di usare una lingua personale. Naturalmente la consapevolezza linguistica ci permetterà di capire quali sono gli ambiti in cui esercitare nel migliore dei modi questa libertà.

Tullio De Mauro ha asserito “La lingua è una cassetta degli attrezzi.” Può commentare siffatta osservazione?

Noi possiamo comunicare in molti modi, ma non c’è dubbio che il metodo più usuale (e di solito anche il più efficace) che abbiamo a disposizione è proprio la lingua. La lingua (parlata o scritta) ci serve per raccontare, per chiedere, per agire, per far valere i nostri diritti, per cambiare le cose che non vanno. Per questo è importante da un lato disporre di molti attrezzi linguistici (conoscere bene le parole, per esempio) e soprattutto tenerli in efficienza (per esempio con la lettura), e dall’altro usarli nel modo migliore: saper scegliere il termine giusto, saper combinare le parole grazie a una sintassi corretta ed efficace, variare i registri in base alla situazione comunicativa.

Nel suo piacevole testo lei mi pare evidenziare un atteggiamento verso l’italiano quasi di pigrizia o timore, che comporta un uso monco e parziale della lingua. Può individuarne le motivazioni?

Come ho detto, il mio libro parte dagli strafalcioni, che sono quasi tutti strafalcioni commessi da professionisti: strafalcioni pubblicati sui giornali, sui libri, in annunci pubblicitari, in rete da persone il cui principale strumento del mestiere è o dovrebbe essere proprio la lingua. Sono strafalcioni molto più gravi di quelli che tutti noi scriviamo quando mandiamo velocemente messaggi dal cellulare: per quelli può valere la scusante della fretta, o la classica frase “non sto a correggere gli errori di battitura, tanto si capisce quello che voglio dire”. È chiaro che un errore può sempre capitare, ma se sono continui, ripetuti e accompagnati da una sintassi traballante e da un lessico impreciso dimostrano una sciatteria e un’incuria che sono l’esatto opposto dell’atteggiamento che un professionista dovrebbe avere nei confronti degli strumenti del mestiere. Accontentarsi di una lingua sciatta significa non credere nelle proprie capacità espressive e ritenere che chi ci legge e ascolta non sia in grado di cogliere la differenza tra un testo ben fatto e uno pasticciato.

Giuseppina Capone

Chiusa una porta… ti sei scordato le chiavi dentro

Enzo Pacilio si è laureato in medicina e chirurgia presso l’Università di Firenze e si è specializzato in medicina legale e delle assicurazioni presso “La Sapienza” di Roma. E’ stato ufficiale medico dell’Aeronautica Militare. Musicista autodidatta, ha composto varie canzoni e suonato in una rock band chiamata Balbo Avenue, in onore della sua appartenenza all’Arma azzurra, con la quale ha inciso un CD. Da sempre interessato a componimenti brevi ed ironici annovera tra le sue letture preferite Topolino, Alan Ford, Ennio Flaiano, Leo Longanesi, Oscar Wilde, Mark Twain. Dal 2014 inizia a pubblicare i suoi aforismi nella sua pagina social riscuotendo apprezzamenti e decide quindi di raccoglierli in un libro che rappresenti il suo percorso creativo.

Ne “Chiusa una porta… ti sei scordato le chiavi dentro” lei compone una sorta di canzoniere fatto d’aforismi, battute comiche, freddure, giochi di parole; ci spiega com’è riuscito a condensare in modo rapido e fulmineo argomenti ricchi di chiaroscuri quali “Amore e sessualità”, “Arte, cultura, scienza”, passando per “Lavoro, economia e finanza”, “Salute e medicina”?

Ho una passione per la sintesi, quasi una necessità, da sempre. Ricordo le mie difficoltà, a scuola, di scrivere un compito in classe che superasse due fogli. Usavo degli stratagemmi; scrivere molto largo e piegare in due il foglio protocollo che in realtà aveva già i bordi. Raccontare in poche parole ciò che vedo lo trovo anche una forma di rispetto per salvaguardare un bene prezioso di chi legge: il tempo.

E’ a favore del riconoscimento della “bibliodiversità” della letteratura contro l’eccessiva predominanza della narrativa? Penso al fatto che se scriviamo la parola “aforisma” il correttore la segna come corretta ma se proviamo a scrivere la parola “aforista”, il correttore ortografico pone un segno rosso. Eppure alcuni nomi celebri come W.H. Auden o Roland Barthes hanno dedicato dei saggi notevoli all’aforisma!

Sono assolutamente favorevole. I componimenti brevi e gli aforismi sono forme di scrittura che hanno la stessa dignità della narrativa. Ritengo che possano bene rappresentare i tempi ed il mondo attuali e che possano raggiungere davvero tutti; un tipo di letteratura democratica. I social ne rappresentano uno straordinario mezzo di diffusione.

Le è capitato d’usare i suoi stessi aforismi?

Interessante domanda. No, per una sorta di pudore che rispecchia il mio modo, piuttosto umile, di confrontarmi con il prossimo. Lo troverei un atto di arroganza.

Dal 2014 lei inizia a pubblicare i suoi aforismi nella sua pagina social riscuotendo apprezzamenti. Qual è il suo rapporto con i lettori, le scrivono, le chiedono pareri ed opinioni?

Rapporto ottimo, costruttivo. A me piace molto “giocare” ed interloquire in modo ironico, ovviamente. Attraverso lo scambio di opinioni ho anche modo di comprendere meglio cosa e come arriva al lettore. Mi viene chiesto spesso quale sia la fonte di ispirazione ; la risposta è che non ce n’è una soltanto. Le situazioni paradossali sono però certamente quelle più ispiratrici.

Il suo scopo è divertire o informare?

Informare divertendo. In realtà il mio scopo è quello di vedere la realtà in maniera diversa, leggera, ma a volte spiazzante; usare la parola in modo non convenzionale significa per me aprire spazi inusuali di pensiero.

Giuseppina Capone

Un progetto per il futuro: Marinella e gli Aquiloni

Sarebbe stato un 2020 denso di iniziative, impegni ed attività in presenza per la Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2 del Comune di Napoli se non fosse subentrata la pandemia da Covid-19.

Nonostante le limitazioni e il distanziamento sociale imposti a la tutela della salute, la Consulta, presieduta dall’arch. Giovanna Farina, è riuscita a mantenere vive alcune delle principali iniziative programmate mettendo in campo azioni in rete che hanno consentito la partecipazione di molte delle Associazioni iscritte alla Consulta e di proseguire il lavoro  e le attività con l’ausilio delle moderne tecnologie. Parliamo con la presidente Farina di una di queste, il progetto “Marinella e gli Aquiloni” edizione 2020, promosso dall’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna di Napoli e proposto dalla Scuola Superiore di esecuzione penale “Piersanti Mattarella” nel 2018 nell’ambito del progetto formativo “La comunità da fare”. L’edizione dell’appena trascorso 2020 ha preso l’avvio il 24 agosto con la collaborazione del Dipartimento Giustizia Minorile e di Comunità – Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna (UIEPE) per la Campania, Enti Pubblici, Enti Morali, Enti del Terzo Settore, Scuole, Municipalità 2 del Comune di Napoli e la Consulta delle Associazioni e delle Organizzazioni di Volontariato della Municipalità 2.

Grazie alla collaborazione della Municipalità 2, il percorso di formazione ha coinvolto 12 persone in esecuzione penale esterna integrando la formazione teorica con quella pratica in cantieri della zona Mercato-Pendino, territorio dalla grande tradizione storico-culturale, ma soggetto a forte degrado ambientale e sociale.

Presidente Farina molte delle Associazioni della Consulta della Municipalità 2 hanno siglato il protocollo tra gli Enti del Terzo settore per la realizzazione del progetto Marinella e gli Aquiloni, una sinergia importante tra Enti pubblici, Enti del Terzo settore, Istituzioni… Anche la Consulta nella sua funzione istituzionale ha sottoscritto il protocollo tra gli Enti pubblici, perché la scelta di partecipare anche in questa veste?

Per rafforzare i legami collaborativi intrapresi con gli Enti che hanno costituito la “Rete Marinella” ed estendere le relazioni e gli scopi costitutivi agli altri Enti che operano sul territorio e all’intera cittadinanza.

Questi propositi sono importanti per legare esperienze e azioni comuni. Fare rete vuol dire scambiare buone pratiche cioè evolvere. Sono convinta che il sistema collaborativo della partecipazione e del coinvolgimento delle associazioni in questo progetto ha sviluppato nuovi comportamenti grazie ai quali è migliorato l’ ascolto, si sono superati ostacoli, ci si è messi in discussione.

La Municipalità 2 ha visto lo sviluppo di questo progetto, nato in via sperimentale lo scorso anno e, nonostante le difficoltà generate dal Covid-19, sviluppatosi con molto impegno ed interesse da parte di tutti i partecipanti. Ritiene l’esperienza esportabile anche in altre Municipalità del Comune di Napoli?

Si. L’impegno positivo e operoso dei borsisti durante l’ intero percorso di formazione e di reinserimento lavorativo ha cancellato perplessità e titubanze e ottenuto risultati visibili.

 

L’auspicio di tutti coloro che hanno collaborato a questo progetto coordinato da Obiettivo Napoli, Ente del Terzo settore che da anni opera nella città di Napoli a favore delle categorie fragili, è che la positiva esperienza possa diventare un appuntamento annuale.

Orsola Grimaldi

 

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